BOSTON

Third Stage

1986 - MCA Records

A CURA DI
VALERIO TORCHIO
30/06/2019
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Se la sta prendendo comoda. Si sta godendo i milioni di More than a feeling. Ha già finito le idee. Questi, probabilmente, i pensieri più diffusi fra i fans della navicella più famosa della storia del rock radiofonico durante il lungo silenzio che separa il secondo lavoro dei Boston, Don't look back, dal suo successore. Difficile criticarne lo smarrimento, ad essere sinceri: sei anni intercorrono fra i due lavori, sei anni in cui poche sono le notizie affidabili in circolazione, e a cavallo dei quali, quasi ad aumentare la confusione, appare un disco firmato in solitaria dal chitarrista Barry Goudreau, guarda caso per la stessa etichetta della band madre e pericolosamente vicino alle sonorità che avevano fatto la fortuna di Tom Scholz e soci, anche in virtù della partecipazione di Brad Delp su due terzi della scaletta e di Sib Hashian dietro le pelli. Cosa stava accadendo, dunque, nel quartier generale dei bostoniani? Ancora una volta, il volto peggiore del music business si era rivelato, attirato, come sempre, dall'odore dei soldi. A seguito dello strepitoso successo conseguito dall'esordio omonimo, la CBS Records forza la mano e i tempi a Scholz, spingendolo a pubblicare a stretto giro il successivo Don't look back; la mente dei Boston, dal canto suo, brama di riprendere il pieno controllo sulla sua creatura artistica, motivo per cui, a conclusione della tournée promozionale, si dedica a ristrutturare i suoi studi di registrazione e licenzia il promotore Paul Ahern, con cui i rapporti professionali sono ormai ai minimi termini. Ahern, in risposta, trascina Scholz in tribunale, sulla base di precedenti accordi che gli avrebbero riconosciuto parte degli introiti della band. A questo punto il processo di scrittura dei brani, pur già avviato, rallenta ulteriormente, ed il chitarrista suggerisce ai restanti membri del gruppo di dedicarsi liberamente ad altri progetti: ecco spiegata la genesi del lavoro di Barry Goudreau ed il coinvolgimento di Delp ed Hashian. Ai piani alti della CBS non pare vero di poter sfruttare un simile tappabuchi di qualità, mentre la band madre è ferma ai box, e presenta il disco omonimo di Goudreau, del 1980, come ideale consolazione per i fans orfani dei Boston, complice anche la presenza, come ingegnere del suono, di Paul Grupp, a cui era noto il modus operandi di Scholz e compagni in studio e che porta, di fatto, l'album ad essere un vero e proprio surrogato sonoro della multiplatinata navicella bostoniana. Gli appassionati di musica, tuttavia, devono conoscere meglio di certi discografici il detto secondo il quale alla copia si preferisce sempre l'originale, e così il pur gradevole lavoro di Barry Goudreau non sfonda in classifica come atteso, né come album né col singolo da esso estratto. Vista la mala parata, la CBS raffredda la promozione al disco di Goudreau, ma Scholz, che già poco tollera l'atteggiamento impaziente dell'etichetta, vede pubblicato un disco che la nota pubblicitaria associa esplicitamente al suono dei Boston, benché lui stesso non vi abbia suonato sopra nemmeno una nota, e pretende di bloccare l'operazione. I modesti risultati dell'album in questione spingono le due parti in causa a deporre le armi, ma i dirigenti dell'etichetta se la legano al dito e, quando, due anni dopo, è ormai evidente che il prossimo lavoro a firma Boston sforerà qualsiasi tempo di consegna, portano Scholz in tribunale per la modica cifra di venti milioni di dollari causa mancato rispetto del contratto. Il chitarrista, nel frattempo dedicatosi anche alla ristrutturazione dei propri studi di registrazione, gli Hideaway Studios, ed allo sviluppo della Scholz Research & Development, azienda di prodotti tecnologici per musicisti il cui più noto risultato sarà l'amplificatore portatile Rockman, controbatte citando a sua volta la CBS. La causa si trascina, tanto che a Scholz è persino impedito di pubblicare alcunché sotto il nome Boston per alcuni anni; il colosso multinazionale, in più, trattiene le percentuali dovutegli, nella speranza di spingerlo ad un accordo sfavorevole. Non appena, però, gli avvocati di Scholz sbloccano l'impasse, il chitarrista coglie l'occasione e si accasa presso la MCA Records, non senza aver perso per strada prima Barry Goudreau, poi Sib Hashian e Fran Sheehan, che pure avevano partecipato alle prime fasi creative del nuovo disco. Il processo compositivo vede finalmente un termine nel 1986: Scholz si occupa di buona parte degli strumenti, compresa la batteria, ma quel ruolo è, in realtà, riservato a Jim Masdea, una vecchia conoscenza dello stesso chitarrista, che aveva fatto parte dei Boston durante il lungo periodo di gavetta nei locali e di registrazione di demo tape. Oltre agli inconvenienti legali, diversi incidenti ostacolano la realizzazione definitiva del disco, tra cui spiccano frequenti allagamenti dei locali dello studio, cali di tensione elettrica e difficoltà legate ad aspetti tecnici della registrazione, come nastri che si inceppano e provocano lo smarrimento di intere canzoni. Possibile, dunque, che in questo lavoro si possa respirare la stessa aria frizzante ed energica che aveva allargato i polmoni ed i cuori dei fans all'epoca del clamoroso debutto omonimo e dell'altrettanto valido secondo passo Don't look back? Mettiamo alla prova la perseveranza di un perfezionista come Tom Scholz, e sentiamo con le nostre orecchie se la scelta di svolgere tutto il percorso creativo in completa autonomia, scrivendo e producendo l'intero disco quasi in solitaria, se si eccettua la presenza dell'insostituibile Brad Delp, abbia pagato o meno.

Amanda

Apertura decisamente soft per l'album, in virtù di questa power ballad "Amanda" (Amanda), inevitabilmente dedicata ad una figura femminile dal nome che parla da sé (in latino, Amanda significa, infatti, "colei che deve essere amata") e, incidentalmente, anche primo brano composto per questo terzo disco a firma Boston. L'attacco, come da manuale di questo genere di composizioni, è affidato alla chitarra acustica a 12 corde di Scholz ed all'ugola suadente di Brad Delp, che racconta di come, finalmente, il protagonista delle liriche abbia deciso di rivelare i propri sentimenti alla donna amata, nella migliore tradizione del genere: "Babe, tomorrow's so far away / There's something I just have to say / I don't think I can hide what I'm feelin' inside / Another day, knowin' I love you / And I, I'm getting too close again / I don't want to see it end / If I tell you tonight will you turn out the light / And walk away knowing I love you?" ("Piccola, domani è così lontano / C'è qualcosa che devo proprio dirti / Non penso di poter nascondere ciò che provo dentro di me / Un altro giorno, sapendo che ti amo / Ed io, io mi sto di nuovo avvicinando troppo / Se te lo rivelassi stanotte, spegnerai le luci / E te ne andrai sapendo che ti amo?"). Sempre ottimamente orchestrato il crescendo, con l'ingresso delle percussioni prima e poi della caratteristica distorsione chitarristica che tanta parte ha nella realizzazione dell'amalgama sonoro della band, fino all'ingresso nel ritornello, in cui le armonizzazioni vocali di Delp rappresentano il vero e proprio picco emotivo del brano, intrecciandosi a loro volta con le tessiture operate dalla sei corde di Tom Scholz. Com'è ovvio, è il nome della donna a fare da fulcro lirico, e ad esso sono rivolte le aspirazioni e le promesse della voce protagonista: "I'm going to take you by surprise and make you realize / Amanda / I'm going to tell you right away, I can't wait another day / Amanda / I'm going to say it like a man and make you understand / Amanda / I love you" ("Voglio prenderti di sorpresa e fartene rendere conto / Amanda / Voglio dirti apertamente che non posso attendere un altro giorno / Amanda / Voglio dirtelo da uomo e farti capire / Amanda / Che ti amo"). Qualche fugace tocco sulle pelli introduce una seconda strofa, che sfocia a sua volta, dopo un breve canto solistico della sei corde, in un secondo ritornello. A quest'ultimo segue un passaggio inedito, in cui Brad Delp fa ricorso alle sue ottave più squillanti, accompagnato da un tappeto di chitarre sia elettriche sia acustiche. La successiva serie di accordi modulata, arricchita da frasi armonizzate di sicuro impatto, ricopre allo stesso tempo il ruolo di viatico per il finale, affidato ad un'ultima ripresa della strofa che, col suo spegnersi placidamente, chiude l'intero brano. Classico istantaneo, si suole definire composizioni di tal genere; e difficile risulta trovare etichetta più azzeccata di questa per Amanda, che sfoggia tutte le qualità che si cercano in un pezzo rock diretto al grande pubblico: cantabilità immediata, grandi armonie vocali, una struttura semplice ma non dozzinale, il tutto compreso in una durata compatta, che non lascia spazio ad alcunché di superfluo. Non a caso, nel suo compito di singolo apripista di Third stage, la traccia in questione ottiene risultati stellari, piazzandosi al primo posto della classifica di Billboard per due settimane consecutive e raggiungendo la posizione regina anche della Mainstream Rock Chart, massimo traguardo per mai toccato da Scholz e compagni in termini di popolarità certificata, e tutto questo senza essere accompagnata, pur in un momento storico in cui può sembrare quanto meno un azzardo, da un videoclip ufficiale che si collochi in rotazione continua sull'onnipresente Mtv. Che dire, forse, quando è ottima, basta la musica?

We're ready

A dispetto di un inizio di nuovo piuttosto soffuso, "We're ready(Siamo pronti) rappresenta la doverosa sferzata di energia, dopo l'avvio a tinte pastello dell'album. Vero, la chitarra quasi pulita che, puntellata da una bella tessitura bassistica, segna l'inizio del brano e l'ingresso in punta i piedi della voce, affiancata da coretti zuccherosi, potrebbero ingannare l'ascoltatore, ma l'irruzione della distorsione chiarisce subito l'intento della band, cioè di far battere un po' di piedi a ritmo e cantare nel più tipico dei singalong le folle che riempiono i loro spettacoli, in particolare quando Brad Delp lascia il freno a mano e scaglia in aria qualche acuto dei suoi. Il passaggio fra la strofa, più rilassata, il ponte, in cui si affaccia prepotente la chitarra elettrica, ed il successivo ritornello è infatti incalzante, senza soluzione di continuità, e costituisce indubbiamente la peculiarità principale di questa seconda traccia. L'alternanza fra sezioni più pacate e momenti più rockeggianti è, inoltre, resa meno drastica da alcuni azzeccati inserti solistici, che variano e colorano ulteriormente l'arrangiamento. Dopo un ultimo ritornello, la chiusura (durante la quale la chitarra acustica mostra un suono che ricorda, a tratti, analoghi momenti dei prog rockers canadesi Rush) si presenta pressoché simmetrica all'attacco e semplicemente marcata da un classicissimo rallentamento conclusivo. Brano cento-per-cento rock melodico, stringato e diretto, ma arrangiato con la consueta accortezza da Scholz: il riff principale, vibrante e gioioso allo stesso tempo, sembra concepito per essere riproposto dal vivo, come pure il ritornello, semplice quanto memorabile. Non meno tradizionali le liriche, anche stavolta incentrate su un rapporto fra uomo e donna, in cui il protagonista maschile invita la sua metà a persistere, poiché il meglio è davanti a loro: "I'm ready for more / The feelin' now that I'm beside you / We'll open the door / Do anything that we decide to / And I know that there's something that's just out of sight / And I feel like I'm finally seeing the light / Holdin' on girl I know it's right / I know it's right / We're ready!" ("Sono pronto per qualcosa di più / La sensazione, ora, di esserti accanto / Apriremo la porta / Faremo tutto ciò che decideremo di fare / E so che c'è qualcosa che è proprio nascosto / E sento come se stessi finalmente vedendo la luce / Resistendo, piccola, so che è giusto / So che è giusto / Siamo pronti!"). A guardare un poco più a fondo, in realtà, emergono tracce di una lettura meno scontata, che potrebbe alludere anche alla ripartenza della band stessa, dopo anni di stop forzato nei pantani dell'industria discografica: altri passaggi della seconda strofa, come "We can go so much further than we've come today" ("Possiamo arrivare ben più lontano di dove siamo giunti oggi") sembrerebbero proprio diretti a spronare il gruppo ad una ripartenza a pieni motori, per lasciarsi alle spalle i dissapori e le traversie del quinquennio appena passato. E una canzone come questa, col suo impatto entusiastico e traboccante di positività, non può che costituire il miglior carburante per la nuova traversata della navicella bostoniana.

The Launch

Inserto esclusivamente strumentale di durata contenuta (meno di tre minuti), "The launch(Il Decollo) è una composizione decisamente meno tradizionale per Scholz e compagni. Come detto, nessuna linea vocale: spazio, dunque, agli strumenti, che danno vita ad una progressione cadenzata, dal piglio epicheggiante, basata su lunghi accordi di chitarra e da semplici quanto imponenti arrangiamenti di tastiera, il tutto scandito da un lavoro di batteria ancor più essenziale del solito. Pur trattandosi di un brano unitario, la scaletta lo presenta suddiviso in tre parti, rispettivamente intitolate Countdown ("Conto alla rovescia") e corrispondente all'introduzione operata dai synth in solitaria, Ignition ("Accensione"), in cui si affaccia possente la distorsione, ed infine Third stage separation ("Separazione del terzo stadio"), caratterizzata dal sovrapporsi di organo e chitarra elettrica, alla quale si devono anche alcuni brevi canti solistici. Come il titolo lascia capire, il riferimento è tanto alla ben nota immagine del gruppo quanto alla traccia successiva, cui questo intermezzo strumentale fa, in buona sostanza, da introduzione, permeando l'ascoltatore di una sensazione di attesa e, insieme, di grandiosità. Non resta che proseguire, dunque, e svelare a quale nuovo momento questo brano abbia funto da sipario.

Cool the Engines

Fra le pochissime tracce di Third stage dovute a più di un autore rientra proprio questa "Cool the Engines" (Raffredda i Motori), fra i cui crediti, oltre all'onnipresente Scholz e al fido compare Delp, spicca il nome dell'ex bassista Fran Sheehan. Che sia la presenza di più mani, a livello compositivo, a renderla uno dei brani più frizzanti e riusciti di tutto il disco? Arduo da dire; anziché speculare, allora lasciamoci trascinare dal gioioso e vitale riff d'apertura, con la sua tonalità maggiore e le sue sincopi appena accennate, perfettamente incastrate sul tappeto ritmico e sovrastate da linee vocali che volano davvero in alto, in perfetto stile hard rock. A fine strofa, poi, una scala discendente sulla sei corde si allaccia senza soluzione di continuità al ritornello, basato su un fraseggio bluesy pentatonico chiuso da due accordi in levare, sul quale la voce di Delp prima armonizza due brevi frasi, che riprendono il titolo del brano, poi si lancia in un passaggio più serrato, dal sapore dichiaratamente rock blues. Una scala cromatica ascendente permette di riagganciare la strofa, seguita da un secondo ritornello; al suo termine, un tocco di varietà è fornito da un secco stacco, cui subentra un nuovo, robusto riff, accompagnato dagli acuti della voce solista e da cori di sottofondo, prima che le chitarre si prendano la scena, con un altro fraseggio discendente, ancora più serrato del precedente, ripreso ed irrobustito, inoltre, anche dal quattro corde. Il crescendo strumentale sfocia poi in un nuovo ritornello, in cui, però, a catalizzare l'attenzione non è la linea vocale, bensì un breve inserto solistico, condito anche dall'uso del pedale wah-wah, fino a che la tempesta elettrica non si placa e può riemergere il suono pulito della sei corde, assieme all'ugola di Delp. Solo un momento, in realtà, visto che la distorsione riaffiora ben presto, ad innervare il riff di chitarra che, ripetuto a ciclo continuo, conduce al finale in dissolvenza del brano stesso. Una galoppata entusiasmante, questa Cool the engines, che alza indubbiamente il tasso rock nel propellente della navicella bostoniana, con la sei corde di Scholz ed il gusto interpretativo superiore di Delp a dettar legge. Scoppiettante e ritmato, dunque, l'arrangiamento musicale, ma accompagnato da un testo che invita, come si capisce dal titolo, a prendere la vita con calma, a rallentare i ritmi, perché gli obiettivi che si bramano possono essere raggiunti anche senza correre sempre e per forza a cento all'ora, stando a quanto recita il ritornello: "Cool the engines / Red line's gettin' near / Cool the engines / Better take it out of gear / I'm no fool / Gonna keep it cool / Take it day by day / Cool the engines / We won't know where we might go / 'Til we make it all the way" ("Raffredda i motori / La linea rossa si sta avvicinando / Raffredda i motori / Meglio metterli a riposo / Non sono stupido / Voglio prenderla con calma / Affrontare le cose giorno per giorno / Raffredda i motori / Non sappiamo dove potremo giungere / Finché non arriviamo fino in fondo"). Non ci vuole molto a leggere, dietro la metafora che fa da titolo al brano, un'allusione, neppure tanto velata, alle difficoltà vissute dai Boston nel rapporto con la loro prima etichetta discografica, la CBS, soprattutto per le pressioni esercitate dai dirigenti affinché la band sfornasse dischi a brevissima distanza l'uno dall'altro, così da cavalcare il più possibile l'onda del successo scatenata dall'omonimo album d'esordio. Ritmi di lavoro inaccettabili per un perfezionista come Tom Scholz, e che hanno finito per condurre le due controparti addirittura in tribunale. D'altra parte, se tutti questi scogli hanno contribuito, in qualche maniera, a modellare un brano di questa caratura, a noi ascoltatori non resta che augurare cento di questi litigi ai nostri rockers a stelle e strisce, ed alzare il volume a undici.

My Destination

A chiudere con una carezza la prima metà del disco è questa "My destination" (La mia Destinazione), che, per la verità, non è un vero e proprio brano autonomo, bensì una rielaborazione della strofa di Amanda, ovvero la traccia d'apertura dell'intero Third stage. Linea melodica pressoché immutata e progressione armonica, invece, lievemente modificata in corrispondenza degli accordi conclusivi, mentre la principale differenza risiede nella presenza, in qualità di strumento principale, dell'organo elettrico Wurlitzer al posto della chitarra acustica; il soffice tappeto sonoro che si crea è perfetto per mettere in risalto la voce di Brad Delp, ancorché circoscritta alle sue sfumature più delicate. L'inerzia del brano è ravvivata da un inserto solistico di Scholz, a cui Delp risponde, per così dire, sfoggiando il registro più acuto, in un crescendo dal retrogusto vagamente à-la Queen che si spegne, poi, sulle medesime sonorità iniziali, in un classico sviluppo circolare. Analogo alla canzone che dà l'inizio al disco è anche il tono sentimentale delle liriche, dedicate alla persona che costituisce, appunto, la destinazione del viaggio compiuto dalla voce narrante: "When I'm losing my way, the things that you say / Take me there / My destination / My destination / Is by your side / Right by your side" ("Quando sto perdendo la strada, le cose che dici / Mi portano lì / La mia destinazione / La mia destinazione / È al tuo fianco / Proprio al tuo fianco"). Poco più di un breve congedo dal "lato A", dunque, ma sempre nel segno della gradevolezza melodica che è il marchio di fabbrica compositivo di Scholz e compagni.

A New World

Unica traccia a non vedere contributi compositivi da parte del leader Scholz, "A new World" (Un nuovo Mondo) inaugura la seconda metà dell'album con i suoi pochi secondi esclusivamente strumentali. Si tratta, infatti, di una concisa quanto roboante introduzione alla facciata "B", per dirla con gli amanti del caro vecchio vinile, accreditata solamente a Jim Masdea, il neoentrato (o, per meglio dire, rientrato) titolare della batteria nella band del Massachusetts. Possenti accordi di chitarra compongono una progressione in crescendo, scandita da pochi ma ben piazzati colpi sulle pelli e un canto solistico glorioso; l'ingresso dell'organo, infine, tace il resto della strumentazione e, al tempo stesso, conclude questa breve parentesi musicale, la cui sola e semplice funzione è quella di ridestare l'attenzione dell'ascoltatore, per poi lasciar strada alle restanti tracce della seconda parte del disco.

To be a Man

Quasi a contraddire i toni stentorei dell'introduzione, "To be a Man(Essere un Uomo) si presenta tenue e malinconica fin dalle prime note, affidate, inoltre, non alla sei corde distorta ma al tocco delicato delle tastiere (peraltro sempre competenza di Tom Scholz) e al timbro vellutato di Brad Delp, nel completo silenzio della sezione ritmica. A movimentare, momentaneamente, l'atmosfera è prima un canto di chitarra armonizzata su una progressione modulata, poi un paio di rocciosi accordi distorti. Solo un fuoco di paglia, in realtà, dato che la strofa seguente ritorna sulle stesse tinte dell'apertura; ritorna, in coda, il medesimo canto elettrico, questa volta sovrastato anche dalla linea vocale, a chiarirne la funzione di ritornello nell'economia della composizione. La sei corde si riprende la scena, nei secondi successivi, per un breve excursus solistico, decisamente melodico, prima che il ritornello si riproponga in maniera ancora più marcata, soprattutto grazie ad alcuni slanci dell'ugola di Delp verso le ottave più alte, che contrassegnano in modo indelebile il punto di massima espressività nel climax del brano. Per contrasto, il finale raddolcisce i toni in virtù del ricorso, ancora una volta, a più quieti accordi sui tasti bianchi e neri, raccordandosi, in sostanza, con l'attacco stesso dalla canzone, salvo per la più gioiosa e rilassata tonalità maggiore. Del tutto intonato alla tinta emotiva dominante anche il comparto lirico, che si caratterizza per un taglio introspettivo persino sorprendente, specialmente in un ambito, come quello della musica dura, spesso preda di atteggiamento da maschio alfa in perenne caccia di donne facili, oppure di profluvi sdolcinati a base di formulette trite e ritrite: "We can be blind, but a man tries to see / It takes tenderness / For a man to be what he can be / And what does it mean / If you're weak or strong? / A gentle feelin' / Can make it right or make it wrong / What does it take to be a man?" ("Possiamo essere ciechi, ma un uomo cerca di vedere / Ad un uomo serve sensibilità / Per essere ciò che può essere / E cosa significa / Essere debole o forte? / Un sentimento gentile / Può sistemare o rovinare tutto / Cosa ci vuole per essere un uomo?"). Una smentita, occasionale forse, ma indiscutibile, di certi luoghi comuni che, più di una volta, hanno ammorbato i prodotti dei parolieri in ambito hard rock, Boston compresi, e che rende ancora più pregevole l'esecuzione toccante di un cantante di razza come Brad Delp. Un'altra traccia di qualità, dunque, anche sullo scivoloso terreno della ballad, le cui insidie, ovvero ripetitività e scontatezza, sono superate grazie ad un arrangiamento accorto, ricco ma non invadente, e calibrato col bilancino nella successione di momenti più intimistici e slanci impetuosi. Niente di nuovo? Forse sì, ma anche l'artigianato, quando di pregevole fattura, merita i dovuti riconoscimenti.

I Think I Like It

A riequilibrare il dosaggio rock nella miscela di Third stage interviene questa "I Think I Like It" (Penso che mi Piaccia), traccia che rappresenta, per diverse ragioni, un motivo d'interesse nell'economia dell'album. Da un lato, non di un vero e proprio inedito si tratta, bensì di una rilettura operata da Scholz della composizione di un compagno di scorribande negli anni della gavetta nei club, Jon DeBrigard, accreditato qui con il nome d'arte di John English, e risalente, quindi, almeno nella sua forma iniziale, ai primi anni Settanta; dall'altro, il pezzo in questione segna l'esordio in formazione dell'ex bassista (ma impegnato, in questo caso, alla sei corde) della Sammy Hagar Band Gary Pihl, conosciuto durante il tour promozionale di Don't look back, che vide come ospite , per diverse date, proprio il gruppo del rosso cantante, , da qualche anno fuoriuscito dai Montrose ed alle prese con il suo percorso da solista. Non può stupire, pertanto, la carica elettrica del brano, sorretto da un riff profumato di blues in più momenti, che arricchisce una progressione armonica classicissima, e letteralmente preda delle scorribande effettuate dalle sei corde di Scholz e di Pihl fin dai primissimi secondi. La strofa, in ottavi scanditi su accordi stoppati, è coronata da una linea vocale insolitamente docile, quasi che persino il cantato, nonostante il rinforzo delle immancabili armonizzazioni, finisca per essere inibito, per così dire, dalla natura eminentemente chitarristica del pezzo. Anche nel susseguente ritornello, nel quale la strofa stessa risolve senza soluzione di continuità attraverso un breve ponte, Delp preferisce un approccio scevro dagli acuti a cui siamo abituati, mettendosi, piuttosto, al servizio dell'arrangiamento complessivo, dominato da un robusto riff con tanto di legato in bella mostra, a ribadirne la chiara filiazione rock'n'roll, e accompagnato dal passo cadenzato della sezione ritmica, così da renderlo un autentico coro da stadio. E se le parole che fanno da titolo al brano, nella loro semplicità, calzano perfettamente al ruolo di catalizzatore per le voci dei fans durante un concerto, meno scontato, per certi aspetti, è il contenuto delle liriche, i cui riferimenti, benché non espliciti, sembrerebbero essere le vicende che hanno segnato il passato recente del gruppo. Ecco la strofa: "Oh, look at the world we make / What have we begun? / People livin' for what they take / All for number one / Changes makin' me see the light / I finally see the light / I finally see wrong from right / Now that it's all said and done" ("Oh, guarda al mondo che creiamo / A che cosa abbiamo dato inizio? / La gente che vive per ciò che riesce a raggiungere / Tutto per il numero uno / I cambiamenti mi stanno facendo vedere la luce / Vedo la luce, finalmente / Distinguo finalmente giusto e sbagliato / Ora che tutto è stato detto e fatto"); e l'insistenza sui cambiamenti che spingono a prendere coscienza sulla realtà si ritrova anche nelle parole del ritornello: "Oh, I think I like it / I think I like what I'm feelin' / Even though it's such a surprise / But you know / Oh, I think I really like it / I think I like what I feel / And changes really open your eyes" ("Oh, penso che mi piaccia / Penso che mi piaccia ciò che sento / Anche se è proprio una sorpresa / Oh, penso che mi piaccia davvero / Penso che mi piaccia ciò che sento / E i cambiamenti ti aprono davvero gli occhi"). Come a dire che, nonostante le spiacevoli vicissitudini professionali e le difficoltà pratiche incontrate dalla band nel corso degli anni successivi all'uscita del proprio secondo disco, qualcosa di positivo si può comunque trovare, ed è la capacità, da quanto lasciano intendere le allusioni del testo, di non sacrificare tutto quanto, nella vita, per il conseguimento di chissà quali traguardi, prima che l'esistenza si svuoti di senso e si trasformi in una perenne caccia ad obiettivi troppo sfuggenti o grandi da potersi agguantare con facilità. E così si spiega il piglio gioioso ed energico dell'intera traccia, che raggiunge certo uno dei suoi picchi in corrispondenza, subito in coda al secondo ritornello, di un vivace scambio di cortesie chitarristiche fra Scholz ed il nuovo compagno di scorribande Gary Pihl, che ha luogo sulla stessa progressione del ritornello: senza dubbio uno dei passaggi solistici più riusciti dell'intero Third stage, ricco di quell'energia positiva di chi ha ritrovato la voglia di divertirsi con il proprio strumento. C'è ancora spazio, una volta rientrata la scoppiettante esibizione delle sei corde, per un'ultima strofa, lievemente allungata rispetto alle precedenti, con cui il brano stesso si congeda, su un arpeggio acustico che sfuma dolcemente e ridona quiete dopo il profluvio elettrico esibito fin qui. Un chiaro punto di forza per ogni esibizione dal vivo, I think I like it punta fortissimo, come detto, sull'impatto delle asce di Tom Scholz e del nuovo acquisto Pihl, grazie ad una struttura snella e facilmente assimilabile, e lascia invece un po' nelle retrovie l'ugola di Brad Delp, solitamente vero e proprio ariete sonoro della navicella della East Coast;e in effetti, qui e là, si sente quasi la mancanza dei suoi slanci vocali, benché, nel complesso, ci si trovi sicuramente di fronte ad una composizione del tutto godibile, specie per il suo spirito scanzonato e vitale. A volte, anche un perfezionista come Tom Scholz può permettersi di lasciarsi prendere la mano dall'energia, in particolare quando il risultato è comunque di ottimo livello.

Can'tcha Say (You Believe In Me) / Still in Love

Il coro che inaugura "Can'tcha Say (You believe in me) / Still in Love(Non puoi Dire che non mi Credi) / Ancora Innamorato, penultima traccia di questo Third stage, farà tornare alle orecchie una certa eco Settantiana, anzi, persino antecedente: una pennellata degna di un Woodstock, che immette subito l'ascoltatore in quel clima spensierato e partecipe, in cui le parti vocali multiple valgono quasi come un'incarnazione sonora di quel senso di felicità condivisa e libera, forse ingenuamente, di ogni preoccupazione, poi spazzata via dalle inquietanti ombre della politica internazionale. Una scelta voluta, considerato che lo stesso Scholz parla di armonie vocali vintage, per questo brano; del resto, alquanto tradizionale risulta anche la tematica lirica, che presenta alcuni fra i temi più ortodossi della canzone d'amore in chiave di rock, primo fra tutti, appunto, l'incomprensione fra lui e lei ed il desiderio di superarla: "Everyday I think of you / You're on my mind / Some things in the past / Are better left behind / Every night I dream of you / The images as clear as day" ("Ogni giorni ti penso / Sei nei miei pensieri / Alcune cose del passato / È meglio lasciarsele alle spalle / Ogni notte ti sogno / L'immagine è chiara come la luce del giorno"). Ad una tematica tanto romantica, non poteva che addirsi il suono del piano, che, infatti, accompagna la voce di Brad Delp nella prima strofa, in attesa che prima il basso e poi la sei corde subentrino per lanciare il ritornello, con la sua radiosa melodia in chiave maggiore e la chitarra a colmare gli spazi lasciati liberi dalle voci, armonizzate e non, che cantano l'immancabile richiesta di fiducia dell'innamorato: "Can'tcha say you believe in me? / Can'tcha say you believe in me? / You know that where there's a will there's a way / Can'tcha say you believe in me? / Can't you see what it means to me? / Don't leave me alone tonight / 'Cause I still love you" ("Non puoi dire che mi credi? / Non puoi dire che mi credi? / Sai che volere è potere / Non puoi dire che mi credi? / Non vedi cosa significhi per me? / Non lasciarmi solo stanotte / Perché ti amo ancora"). Del tutto lineare la transizione alla seconda strofa, in cui il pianoforte è accompagnato anche dal resto della sezione ritmica e dalla chitarra pulita, ed al successivo ritornello, al termine del quale si innesta, invece, una sezione diversa per tono ed atmosfera. Nel silenzio degli strumenti si staglia prima un arpeggio di chitarra pulita, poi il basso ed alcuni tocchi di sei corde elettrificata, ed infine la voce di Delp, evocativo e bluesy come mai altrove su questo lavoro; ancora una volta tocca all'ascia riprendere il filo del discorso, incardinando, con una opportuna modulazione e un attento crescendo, questa divagazione alla progressione armonica del ritornello, che ora fa da palco per una veloce e melodica incursione solistica di Scholz. C'è ancora spazio per un vero e proprio ritornello, che porta direttamente alla chiusura del brano, in cui, svaniti gli strumenti, restano solo le chitarre ad imitare, con il proprio suono, strumenti a corda classici. Ancora una volta una struttura circolare, ma variata da un suggestivo inserto atmosferico che, in realtà, sarebbe dovuto essere un abbozzo di una canzone a sé stante, ma che la band rielabora ed inserisce in un canovaccio precedente, più volte ripreso e ritoccato; ecco spiegato anche il doppio titolo del brano in questione, che spicca per questa anomalia compositiva rispetto ad altre tracce. Non che questo sia un difetto, anzi, il pezzo (ultimo dei tre singoli di Third stage a ricever pubblicazione, nell'aprile del 1987) ne guadagna in personalità, contrapponendo il gioioso e cantabile ritornello alla più malinconica tensione dell'inserto centrale. In fondo, si tratta di una canzone incentrata su di un combattuto rapporto d'amore: è cos'è questo sentimento, se non un continuo contrasto di slanci vitali e momenti di ripiegamento, esaltazione e ripensamento, luce e penombra?

Hollyann

Ultima, ma certamente non per importanza, "Hollyann(Hollyann) è un'elaborata ballad hard rock, la cui gestazione occupa uno spazio notevole, circa sei anni, nella già complessa attività di composizione che interessa il terzo disco targato Boston. E, in effetti, pur senza eccessivi sperimentalismi, che poco avrebbero a che vedere con il suono della band, al tempo stesso ruvido il giusto e denso di accattivante melodia per tutte le orecchie, la traccia conclusiva di Third stage mostra diversi elementi peculiari, che variano il canovaccio consueto per questo genere di composizione. Certo, l'avvio, affidato ad un arpeggio su chitarra acustica ed ai toni più pacati della voce, potrebbe far pensare diversamente, come anche la scelta lirica, dedicata al racconto della passione che scocca fra una coppia durante un concerto. Anche qui, si direbbe una reminiscenza tardo Sessantiana, di quel periodo in cui, a torto o a ragione, tutto sembrava possibile e la cui gioventù respirava un'aria quasi inattesa di libertà, specie a livello di comportamenti individuali, e di sfrenata creatività, culminata nell'epopea dei grandi festival all'aperto, come Woodstock, Monterey oppure l'isola di Wight: "In my mind / I can see reminders of a past decade / So far behind / Like the shadows linger at the close of day / And we could see / We were timeless dreamers of another day / And we were free / In a dawning age we had so much to say" ("Nella mia mente / Posso vedere memorie di una decade passata / Così distanti / Come le ombre si attardano al termine della giornata / E noi potevamo vedere / Che eravamo sognatori senza tempo di un altro momento / Ed eravamo liberi / All'alba di un'epoca avevamo così tanto da dire"). Nello svanire dei ricordi, rimane, tuttavia, incancellabile la figura della ragazza conosciuta in quei magici momenti, la cui rievocazione avviene, più che correttamente, su un tappeto sonoro che si ispira, sia nelle cadenze della linea vocale, sia nella ritmica di basso, sia, infine, nella tonalità scelta, proprio a quella stagione insostituibile per la musica rock e pop in generale: "Oooh, the nights you came to me/ A bluejean lady so eager to be free / And the wind in your long hair blowin' as we stood for the band" ("Oh, le notti in cui sei venuta da me / Una ragazza in blue jeans così desiderosa di essere libera / E il vento che soffiava fra i tuoi lunghi capelli mentre eravamo lì in piedi per la band"). Un breve canto di chitarra elettrica fa da collegamento per il ritornello, dove ritroviamo il Brad Delp che tutti conosciamo, specialmente per la capacità di ricorrere, apparentemente senza sforzo, ad ottave altissime, mentre decanta le speranze e le convinzioni dei giovani protagonisti delle liriche: "Hollyann / We made the dark into light / We saw the wrong from the right / We were for life / And we would never concede it" ("Hollyann / Abbiamo fatto diventare luce il buio / Abbiamo distinto il giusto dall'errore / Eravamo per la vita / E non l'avremmo mai lasciata andare"). Un ultimo acuto di Delp, affiancato da un trillo della chitarra elettrica, lascia poi spazio ad una seconda strofa e ad un nuovo ponte di impronta Sessantiana, sul quale un pregevole tappeto di basso elettrico sorregge veloci fraseggi di organo elettrico, prima del rientro della voce e di un successivo ritornello, qui anticipato da un inciso melodico di Scholz. Proprio il prolungarsi del ritornello medesimo conduce alla chiusura del brano, nonché dell'intero Third stage. Sipario di qualità, dunque, grazie ad una composizione in cui la gradevolezza melodica va di pari passo con una struttura non scontata, ricca, come si è detto, di rimandi al periodo del cosiddetto flower power e degli immensi raduni musicali, oltre che a quel contesto, probabilmente mai più ripresentatosi, di libertà nei costumi come nelle scelte artistiche, tanto per gli appassionati quanto per gli stessi creatori di musica. Rievocare quei momenti, per Scholz e compagni, non poteva che tradursi nelle tinte gioiose ma sottilmente malinconiche di questa ballata, degna conclusione di un album in cui lo spirito ruggente dei primi voli della navicella è a mano a mano stemperato da una maturità e da una coscienza di sé stessi nuove e ancora da scoprire appieno.

Conclusioni

Tom Scholz presenta il terzo, e tormentatissimo, disco e le sue canzoni come la narrazione di varie esperienze, ognuna parte di un viaggio attraverso il terzo stadio della vita, ovvero l'età adulta. Visto sotto questa luce, effettivamente Third stage rappresenta un'evoluzione per la formazione del Massachussetts: meno irruenza elettrica e più spazio, complessivamente, al lavorio sugli arrangiamenti d'insieme, in cui le chitarre distorte, che pure non mancano, non sono però l'obbligatorio asse portante dei brani, spesso, invece, imperniati sulle quelle acustiche, oppure al servizio della voce, sempre impeccabile, peraltro, di Brad Delp (tanto da ricevere espliciti ringraziamenti, per la sua esecuzione, dallo stesso Scholz nelle note di commento), sia in solitaria sia nelle ricche armonizzazioni che punteggiano la scaletta del disco. L'interminabile revisione a cui il chitarrista e leader del gruppo ha sottoposto l'intera registrazione, nell'esplicito e ribadito intento di produrre un lavoro totalmente analogico, dona, in realtà, una resa sonora notevole, e stupisce, pertanto, il ricorso, in diversi momenti, alla batteria elettronica, le cui secche percussioni cozzano con il corposo impasto complessivo. L'aver, per così dire, spalmato il processo compositivo su di un arco di tempo tanto esteso, poi, non può che convogliare alcuni aspetti contradditori nel risultato finale, ad esempio a livello lirico, nel quale convivono testi scanzonati e, in certi casi, piuttosto scontati e banalotti con altri che mostrano la volontà di staccarsi dai clichés più triti dell'ambito rock e di tentare riflessioni di stampo più personale e profondo, pur senza trasformare il gruppo in un cenacolo di sociologi. Le tracce, inoltre, la cui composizione risale più addietro nel tempo, vale a dire ai primissimi anni Ottanta, presentano, com'è logico, maggiori affinità con i due lavori precedenti, mentre le più recenti, non a caso concentrate prevalentemente nel lato B dell'album, rivelano un approccio compositivo più meditato ed elaborato. Non mancano soluzioni inconsuete, dovute alla continua ricerca operata da Scholz, anche sotto l'aspetto meramente tecnico, come, ad esempio, le sei corde elettriche tramutate in strumenti a corda classici in A new world e Can'tcha say (You believe in me), ottenute grazie all'impiego dell'amplificatore Rockman, di sua invenzione, o la sovrapposizione di diverse tracce di chitarra, acustica e distorta, o ancora armonizzazioni a valanga, come quelle di Cool the engines o I think I like it, tutti passaggi fra i meglio riusciti del disco. Meno indovinata, invece, almeno nell'ottica del risultato finale, la presenza di qualche brano che sa un po' di riempitivo, come My destination in chiusura della prima metà della scaletta o le strumentali The launch e A new world, non certo imprescindibili nell'economia dell'album. In definitiva, Third stage resta un ottimo disco di rock melodico a stelle e strisce, che ha tutto ciò che serve per piacere agli appassionati del genere: ritornelli cantabili, linee vocali curatissime e di facile assimilazione, chitarre che sanno colpire duro quando serve ma anche farsi delicate e cullare l'ascoltatore nei propri momenti di spensieratezza. D'altro canto, non lo si può porre alla medesima, e vertiginosa, altezza dei due predecessori, e specialmente dell'esordio omonimo, mancandogli, soprattutto, quella spontaneità e irruenza che, peraltro, era pressoché impossibile attendersi da un album registrato in un tempo tanto ampio e fra mille difficoltà, tecniche (Scholz non manca di ricordare, nelle note allegate al disco, di alluvioni e cali di tensione elettrica che hanno colpito gli studi di registrazione, oltre a svariate complicazioni pratiche persino nella conservazione dei nastri) e gestionali, con i litigi legali con ex manager, ex membri ed ex etichetta a distrarre energie e giorni alla composizione ed incisione della musica. Già, la sola che conti veramente, a chiusura di un periodo tanto tribolato per i Boston, e che, ancora una volta, dà un senso alle fatiche di un artista ed alle attese di un fan. Ed anche in questa occasione la navicella non ha deluso quanti volevano vederla di nuovo sfilare nei cieli del rock: forse non più alta come in passato, ma sempre in grado di farci alzare i nasi, e le orecchie, al cielo.

1) Amanda
2) We're ready
3) The Launch
4) Cool the Engines
5) My Destination
6) A New World
7) To be a Man
8) I Think I Like It
9) Can'tcha Say (You Believe In Me) / Still in Love
10) Hollyann
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