Blue Murder

Blue Murder

1989 - Geffen Records

A CURA DI
JULES NASSETTI
25/02/2020
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Ogni interpretazione in questo racconto è fittizia, la scrittura è frutto della linea editoriale di Rock & Metal In My Blood.


Mi chiamo John James Sykes, sono nato a Reading nel Berkshire il 29 luglio del 1959 e sono un chitarrista, nonché compositore. Molti di voi che mi staranno leggendo si ricorderanno di me per alcune hit rock che hanno segnato gli anni '80 come Is This Love e soprattutto Still Of The Night. Molti altri invece non si ricorderanno nemmeno più di chi sono, ed il tempo non è stato galantuomo con me. Oramai ho sessant'anni, e come molti musicisti spesso ripenso al passato: ai successi, ma anche ai fallimenti. Bè cari lettori, ora vi racconterò una storia. Una storia fatta di speranze deluse, aspettative disattese, talento smisurato che si è visto tarpare ingenerosamente le ali e soprattutto una storia di musica. Prima di arrivare al cuore della storia, occorre fare qualche passo indietro. Sono cresciuto con la passione per la chitarra e la musica rock, esercitandomi scrupolosamente più ore al giorno sugli album dei grandi guitar heroes degli anni '70: Jimmy Page, Ritchie Blackmore, Uli Jon Roth, Michael Schenker e soprattutto i miei preferiti, Gary Moore e Eddie Van Halen. Il mio primo gruppo si chiamava Streetfighter e mi servì a fare gavetta, oltre che ad affinare le mie abilità sulla chitarra. Presto arrivò la prima di una serie di grandi occasioni che mi avrebbero cambiato la vita. Nel 1980 entrai a far parte dei Tygers Of Pan Tang, uno dei gruppi più promettenti dell'allora nascente New Wave Of British Heavy Metal. Non poteva esserci svolta migliore per me, e il mio primo concerto con la band fu proprio al Reading Festival davanti a 60.000 persone, insieme a complessi già affermati come i Whitesnake di David Coverdale. La mia permanenza nei Tygers fu di breve durata, perché dopo aver inciso il mio primo singolo da solista (Please Don't Leave Me) insieme ad uno dei miei idoli, il grande Phil Lynott, arrivò ben presto un'altra occasione promettente. Prima affrontai senza successo l'audizione come chitarrista del leggendario Ronnie James Dio che aveva abbandonato di recente i Black Sabbath e stava mettendo insieme i musicisti per un progetto solista, i DIO. Rimase impressionato dal mio talento, ma finì col preferirmi un altro giovane ed esuberante chitarrista che come me avrebbe fatto parecchia strada in futuro: Vivian Campbell. Poi proprio Phil Lynott in persona mi chiese se ero interessato a fare un'audizione per il posto di secondo chitarrista nei suoi Thin Lizzy. Non ci potevo credere. L'occasione di entrare a far parte di una delle band che più avevano influenzato la mia crescita musicale e la possibilità di condividere il palco con delle leggende viventi come Phil, Scott Gorham e Brian Downey erano assolutamente imperdibili. Sostenni con successo l'audizione, e in poco tempo mi trovai in studio di registrazione con i miei idoli a lavorare assieme al produttore Chris Tsangarides su quello che sarebbe stato l'ultimo album dei Thin Lizzy Thunder And Lightning. Io ero emozionato e motivato, ma ignoravo che Scott e soprattutto Phil stessero attraversando un periodo molto buio. Entrambi erano entrati da qualche nel tunnel buio della dipendenza da eroina. In un certo senso il mio arrivo servì a portare una ventata di freschezza e nuovo vigore in seno alla band. Scott rimase folgorato dalla mia energia e dalle mie capacità sullo strumento, tanto da svegliarsi dal torpore della dipendenza con la ferma intenzione di stare al passo con il giovane leone che avrebbe presto calcato i palchi con lui. Purtroppo, buona parte delle canzoni era già stata scritta, e con l'eccezione di diversi miei assoli di chitarra nei quali cercavo di combinare al meglio l'esuberanza di Van Halen con l'intensità e il feeling di Gary Moore, il mio contributo all'album rischiava di essere assai limitato. Un bel giorno però in studio stavo strimpellando sulla mia fedele Les Paul Custom del '78 una semplice progressione di power chords in Fa diesis minore e ciò catturò l'attenzione di Phil. Così nacque l'ultima canzone dell'album, frutto dell'unica collaborazione compositiva di me e Phil, e guarda caso quella che sarebbe rimasta impressa nelle menti degli ascoltatori, al punto da essere ripresa anni dopo da diverse band famose come Sodom e Megadeth: Cold Sweat. Il tour fu incredibile, e l'affluenza fu davvero enorme. I fan e la critica musicale stentavano a credere che quella fosse una band giunta al capolinea in procinto di concludere il suo ultimo tour. Fu un'esperienza indimenticabile per me suonare i classici con cui ero cresciuto, condividendo il palco con gli stessi musicisti che li avevano creati. Io e Phil continuammo a lavorare insieme anche dopo il definitivo scioglimento dei Thin Lizzy. Poi un bel giorno, si presentò un'altra occasione che avrebbe cambiato la mia vita. Ricevetti una telefonata dal manager dei Whitesnake, Ossie Hoppe, che mi propose di unirmi alla band come chitarrista per l'imminente tour del loro nuovo album Slide It In. Inizialmente rifiutai per rispetto e lealtà artistica nei confronti di Phil, ma il manager continuò a contattarmi ancora e ancora offrendomi sempre di più fino al punto che non potevo più rifiutare. Quando nei parlai con Phil per ottenere la sua benedizione la sua risposta fu da vero gentleman: «John, non ti tarperei mai le ali. Ti auguro il meglio». Così mi ritrovai ad essere il nuovo chitarrista dei Whitesnake, poco tempo dopo l'uscita del loro album Slide It In. Le canzoni erano assolutamente magnifiche, ma l'album venne accolto tiepidamente dalla critica che attaccò le liriche cariche di doppi sensi a sfondo sessuale tipiche di David e soprattutto il mix estremamente "piatto" dell'LP. Su richiesta della Geffen Records, l'album venne remixato per il mercato americano sotto la guida del produttore Keith Olsen. In quell'occasione mi fu chiesto di aggiungere alcune sovraincisioni di chitarra ritmica per dare alle canzoni una carica più aggressiva. Dopodiché fu la volta del tour. Era il 1984 e mi sembrava di vivere un sogno?dopo l'esperienza con i Thin Lizzy ora ero in tour con una band che si avvicinava ad essere un supergruppo: David Coverdale alla voce, Neil Murray al basso, Cozy Powell alla batteria, Jon Lord alle tastiere e il sottoscritto alla chitarra solista. C'era anche il chitarrista Mel Galley, che però dopo un incidente che danneggiò in maniera irreparabile il suo braccio destro dovette abbandonare la band. Jon Lord seguì poco dopo, per unirsi ai colleghi Deep Purple ormai vicini alla tanto attesa reunion. Il tour accrebbe in maniera esponenziale la popolarità della band e dell'album, concludendosi con il botto al colossale Rock In Rio del 1985 dove suonammo davanti ad una folla oceanica e durante Crying In The Rain, come ero ormai abituato dall'inizio del tour, mi esibii in un lungo assolo di chitarra che rimase uno dei momenti più memorabili di quel festival. A quel punto io e David avevamo stretto una profonda amicizia e la nostra affinità musicale venne notata dalla Geffen Records che iniziò a premere perché iniziassimo a comporre e scrivere il prossimo album dei Whitesnake. Nell'estate del 1985, io, David, Cozy e Neil Murray, iniziammo a lavorare nel Sud della Francia a quello che sarebbe stato l'album di maggior successo della nostra carriera, anche se non lo sapevamo ancora. Verso settembre ci spostammo ai Little Mountain Studios di Vancouver per cominciare le registrazioni sotto la guida del produttore Mike Stone e degli ingegneri Bob Rock e Mike Fraser. A Mike Stone subentrò in seguito Keith Olsen. Io registrai tutte le mie parti di chitarra e alcuni cori, Neil Murray tutte le tracce di basso e il leggendario Aynsley Dunbar (ex-Journey) si occupò della batteria. I session-men Don Airey e Bill Cuomo avrebbero inoltre aggiunto parti di tastiera in diverse canzoni. Fu in quel periodo che le cose iniziarono a prendere una brutta piega: David fu colto da alcuni problemi alla voce che lo obbligarono a prendersi una pausa dalle registrazioni, o così mi parve di capire. La cosa ci ritardò di parecchio, e anche dopo essersi ripreso, sembrava che David avesse sempre una scusa pronta per non terminare le sue parti vocali. Dava la colpa al clima, allo studio che non era appropriato, o addirittura ai microfoni. A me sembrava semplicemente nervoso. A registrazioni pressoché concluse, ciascun membro della band apprese a fatto compiuto di essere stato licenziato senza preavviso. Io fui tra gli ultimi a scoprirlo, e la cosa peggiore fu che appresi la notizia non tanto da David stesso, bensì dal responsabile A&R della Geffen, John Kalodner. Furioso, mi fiondai nello studio dove David stava registrando le sue parti vocali, deciso ad affrontarlo a muso duro. Appena mi vide, scappò via, saltò nella sua auto e fu la fine della nostra collaborazione. In seguitò lui mise insieme una nuova formazione per promuovere Whitesnake (chiamato 1987 per il mercato europeo) in tour. Oltre a Rudy Sarzo e Tommy Aldridge, già famosi per aver accompagnato Ozzy Osbourne dal vivo nel suo periodo d'oro con Randy Rhoads, a David ci vollero due chitarristi per sostituirmi: niente di meno che Vivian Campbell e Adrian Vandenberg. Oltre al danno di non poter suonare le canzoni che avevo composto, anche la beffa di saperle eseguite da due chitarristi più che competenti, ma che non sarebbero mai stati capaci di renderle al meglio quanto me. Tuttavia non passò molto tempo dal mio "licenziamento", prima che si presentasse un'occasione di rivincita in grande stile. La Geffen Records mi propose un contratto da solista per registrare e pubblicare un album con una mia band. Inizialmente la mia scelta cadde su Cozy Powell alla batteria e Ray Gillen alla voce, un tenore pieno di talento ed esuberanza che aveva sostituito Glenn Hughes nei Black Sabbath come cantante pochi anni prima. Tuttavia John Kalodner non lo riteneva adeguato, e la permanenza di Ray fu breve. Dopo fu il turno di Tony Martin, che era in forze nei Black Sabbath come cantante, ugualmente molto promettente, ma che dopo poco tempo ritornò nella band di Tony Iommi seguito da Cozy Powell. Finalmente riuscii a trovare i compagni di band perfetti in Tony Franklin, un fuoriclasse del basso fretless che si era già fatto le ossa con artisti del calibro di Roy Harper e i The Firm di Jimmy Page e nel veterano dei tamburi Carmine Appice dal curriculum più che invidiabile. A loro si sarebbe aggiunto il tastierista Nik Green. Era nato il mio progetto, che si sarebbe chiamato Blue Murder: un power trio di fuoriclasse del rock che avrebbe fatto faville con canzoni memorabili e capacità strumentali sopra alla media dei singoli componenti. Dopo aver ascoltato i demo dell'album con Gillen alla voce, John Kalodner insistette perché mi occupassi io di cantare le canzoni che avevo composto. Dopo un'iniziale reticenza, registrai tutte le tracce vocali ed i cori. Iniziarono così agli stessi Little Mountain Studios di Vancouver che avevano ospitato la lavorazione di Whitesnake, le registrazioni del debutto dei Blue Murder, prodotte da Bob Rock e dell'ingegnere Mike Fraser. La gestazione dell'album fu lunga e travagliata, perché nello stesso periodo Bob stava lavorando ad altri progetti, come New Jersey dei Bon Jovi, e ciò rallentò non poco le sessioni. Finalmente, dopo tre anni di lungaggini, sessioni rimandate ed ostacoli vari, il 25 aprile del 1989 uscì sotto la Geffen Records il debutto omonimo dei Blue Murder. È giunto il momento di fare un tuffo nei ricordi e di tornare ad ascoltare le nove tracce di un album che aveva il potenziale per essere il mio più grande successo, ma che si sarebbe rivelato anche uno dei miei più grandi fallimenti.

Riot

Dopo la mia intollerabile cacciata dai Whitesnake, il desiderio di rivalsa nei confronti era davvero tanto. Serviva una canzone d'apertura che cogliesse di sorpresa l'ascoltatore come una Still Of The Night o una Crying In The Rain. Con una canzone del calibro di "Riot" (Rivolta) posso dire con orgoglio: scommessa vinta. Un tappeto di tastiere oniriche sovraincise emerge in fade-in creando un senso di attesa, mentre l'inimitabile Tony Franklin serpeggia con destrezza tra le note sostenute con i suoi fraseggi di basso fretless liquidi e cangianti. Poi una rullata esplosiva di batteria accompagnata da uno dei miei eroici pick slide sulla Les Paul aprono le danze. Un riff circolare basato su un semplice accordo di Re minore settima, immediato e di impatto sicuro che viene marchiato a fuoco nella testa dell'ascoltatore. A quel punto do fiato alle mie corde vocali, deciso a dimostrare che non ho granché da invidiare a David Coverdale sul piano canoro: «There's been a riot, down on Main Street tonight?They just went crazy, they'll set this whold damn town alight». Una delle più grandi lezioni che ho appreso dal mio amico, il compianto Phil Lynott è che le migliori canzoni sono quelle che raccontano una storia. Un consiglio che ho cercato di seguire alla lettera. Sopra il riff portante sostenuto da un solido beat di batteria e da un efficace groove di basso racconto di una rivolta urbana, di clamore ed indignazione che salgono alle stelle e di un ragazzo che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, finendo per essere accusato di un crimine che non aveva commesso. Inseguito dai mastini della giustizia, non gli rimane che una scelga?ed è il momento dello stacco centrale. La mia chitarra elettrica si fa quasi violoncello tessendo un ostinato in plettrata alternata doppia nello stile dell'ormai leggendaria parte centrale di Still Of The Night. Di nuovo un senso di attesa mentre gli strumenti lasciano respirare e sostenere l'ultima nota?Ragazzo inseguito dalla legge, meglio se fuggi a gambe levate senza voltarti indietro: «You better run, run, run, run for you life!» Rullo di batteria e mi lancio in uno struggente assolo in Re minore, con il mio vibrato più sentito e pregno di emozione, mentre l'intensità del fraseggio cresce, cresce fino al culmine. Stacco finale vigoroso in pieno stile hard rock ottantiano, ribelle come il ragazzo in fuga dalla legge che rifiuta di pagare pegno per un crimine che non ha mai commesso: «No way did I commit this crime, No way am I about to die, No way can I forgive myself, For the things I've never done, There's no way you're gonna make me pay, No way I'm coming back today, No way you're gonna bring me back alive». Ennesimo ritorno sul riff portante, come l'ultimo addio del fuggiasco alle riottose strade della metropoli prima del mio assolo finale drammatico e carico di feeling, che cresce di intensità mentre le note evaporano in dissolvenza?

Sex Child

Dopo un'apertura così drammatica, non poteva essere più naturale avere come seguito una canzone più frivola e diretta come "Sex Child" (Figlia del sesso). Un ritorno alle origini più pure dell'hard rock. Un riff in Mi minore che trasuda rock 'n' roll elettrico e sfrontato con sopra un testo imperniato su una delle tematiche principali del genere, osannata e bistrattata da una moltitudine di persone. Il sesso, l'erotismo, la donna fonte di piacere e di tribolazioni, l'edonismo ottantiano nella sua espressione più prepotente condita di double entendre di cui Coverdale sarebbe stato quasi invidioso: «Sex child Gonna slip 'n' slide gonna come inside girl [?] Baby your loving is driving me insane My heart and soul belong to you like I'm like a prisoner in your cage». Il rock è istinto, parte dalle budella e scatena gli istinti più primordiali. I Led Zeppelin di Whole Lotta Love portati al loro parossismo musicale e lirico. Gli invidiosi potrebbero quasi insinuare che la mia voce imperniata sulle note alte e su gridolini provocanti faccia il verso alla leggendaria ugola di Robert Plant. Ai posteri l'ardua sentenza, del resto i Whitesnake erano stati tacciati di plagio neanche due anni prima con Still Of The Night, i Kingdom Come additati come cloni della band di Page e Plant. Ma che cos'è l'hard rock se non l'eterno ritorno a certi canoni? Che cos'è se non un saccheggio tra band formate a distanza di dieci anni di stilemi senza tempo? A te la risposta, lettore e ascoltatore?ma ti sfido a non provare brividi durante il lungo stacco centrale, molto simile al capolavoro dei Led Zeppelin già citato. La mia voce che si fa supplichevole su uno sfondo di tastiere oniriche e un enigmatico arpeggio di chitarra, dipingendo come in un sogno un amante che implora la sua donna di soddisfare la sua passione rovente. L'atmosfera diventa quasi elettrica prima di decollare su un brusco stacco dichiaratamente zeppeliniano (i più maligni detrattori penseranno sempre alla leggendaria Whole Lotta Love) e un assolo scatenato come una tigre che balza fuori dalla sua gabbia. Il mio assolo di chitarra è selvaggio e sfodero tutto il mio arsenale da guitar hero, deciso a lasciare nella polvere tutti i miei concorrenti contemporanei: tapping, armonici urlati, scale pentatoniche suonate con pura attitudine, fraseggi più aggressivi debitori del mio grande idolo Gary Moore, non manca nulla per far saltare dalla sedia anche il consumatore di rock più indolente e farlo ballare come un indemoniato per la propria camera imbracciando una scopa in guisa di chitarra fittizia. Si torna ancora una volta alla trascinante strofa ed infine al ritornello in crescendo ripetuto in maniera insistente per stamparsi in testa definitivamente. Caro ascoltatore e lettore, se sei riuscito a rimanere impassibile durante questi bollenti sei minuti allora dovresti farti qualche domanda?

Valley Of The Kings

Dopo la scarica di adrenalina del brano precedente, è il momento di sbalordirvi con un po' di sana epicità. Questa è "Valley Of The Kings" (Valle dei Re), a tutti gli effetti la mia Kashmir. Si entra subito nel vivo, con un ritmo quasi tribale scandito dai colpi secchi sui tom di Carmine Appice e dal basso fretless di Tony Franklin che segue serpeggiante gli accenti della batteria. Le tastiere, con poche esotiche pennellate, dipingono uno scenario sognante di una terra lontana, dove i venti caldi soffiano sulle dune di sabbia disegnando arabeschi dorati nel cielo senza nubi. Una terra dove migliaia di uomini lavorano senza sosta per costruire la Valle dei Re, un monumento alla magnificenza e all'arroganza del Faraone. Con un magniloquente slide, la mia Les Paul accordata in drop D fa la sua entrata trionfale e si impone con un riff semplice e ripetitivo in Re minore, che omaggia il capolavoro del Dirigibile nonché l'altrettanto iconica Stargazer dei Rainbow, sia nella musica che nel testo: «In a distant place in time a pharaoh wandered, In his mind he could see a kingdom, With this king they could not reason, Enslaved in the wish and the dream of a man who's planned their destiny There is no way out, there can be no doubt, All he wants is his dream fulfilled and until the day when the kingdom's built there is no way out, there can be no doubt». Un uomo accecato dal potere, ossessionato dal suo sogno e deciso ad assoggettare tutta la forza lavoro del suo regno per vederlo realizzato, anche a costo di rendere migliaia di vite schiave della propria regale volontà. Arriva il ritornello, e mentre la mia voce sale sempre di più nelle note alte, la chitarra procede con accordi sempre più aperti verso il culmine del pathos: «The blood will flow, a thousand souls plead for mercy A thousand times over / You'll hear it on the wind, these sinners never sinned». Alla fine del ritornello le tastiere segnano accenti brevi e maestosi sui quali deflagrano potenti rullate di batteria. Schioccano le fruste, schiene sudate ed ustionate dal sole di mezzogiorno sanguinano, e migliaia di voci echeggiano a vuoto nel vento, ma il Faraone non le ode. Tanti peccatori, che non hanno mai peccato, che cadono per esaudire il capriccio di un sovrano divino. Un po' come le band sotto contratto con una major che suonano ai quattro angoli del mondo per poi entrare in studio a registrare nuova musica che possa vendere migliaia, forse milioni di copie, per riempire di contanti le tasche degli executives seduti comodamente negli uffici in qualche grattacielo. Lascio a te, caro lettore ed ascoltatore, il lusso di decidere se questo parallelo sia stato voluto oppure no. Un'altra strofa, seguita dal ritornello ed è il momento dello stacco centrale. Le tastiere si fanno ostinate e ripetono un fraseggio melodico che pare una litania, mentre la mia chitarra si insinua in questo quadro con note dapprima lente e struggenti sostenute da un ampio vibrato, mentre il fraseggio cresce via via di intensità con bending tirati e drammatici fino all'apice assoluto: una vertiginosa sequenza discendente in tremolo picking che si dissolve nell'ultima strofa come una folata di sabbia nel vento del deserto. L'opera è compiuta, il Faraone potrà riposare nella sua lussuosa tomba con tutte le sue ricchezze terrene che lo accompagneranno nell'Oltretomba, ma quanti sono morti per realizzare il suo desiderio? Quest'opera è degli uomini che le hanno sacrificato carne e sangue, non degli dei: «It was built with flesh and blood, it wasn't built by any God». Il ritornello si fa insistente e poi la canzone va verso la sua inevitabile conclusione su una melodia vocale armonizzata, seguita da un lungo e burrascoso assolo di chitarra che si dissolve nel vento?

Jelly Roll

È buffo come la mia canzone preferita di questo album sia paradossalmente quella che ho composto nel minor tempo possibile rispetto alle altre. Ebbene sì, mentre un brano come Sex Child con i suoi arrangiamenti ambiziosi impiegò diverse settimane per essere completati, "Jelly Roll" (letteralmente involtino di marmellata, ma che nel gergo tipico starebbe ad indicare in maniera abbastanza furbetta l'organo femminile) la composi in poco meno di un giorno. Devo ringraziare il mio compare di band e bassista di allora, Tony Franklin, che grazie alla sua esperienza in studio ed in tour con i The Firm di Jimmy Page mi mostrò il potenziale musicale delle accordature aperte. Stavolta è la chitarra acustica a dominare la canzone, con un riff sensuale e spensierato sostenuto da un essenziale ritmo di batteria elettronica, e si torna a parlare di donne: «She said come lay with me darling, She said take my love from me, She said I'll be yours forever If you just believe in me». Una donna dal magnetismo irresistibile, alla quale non si può dire di no. Una presenza che si fa chiodo fisso nella mente del suo amante, al punto che questi non riesce a pensare ad altro: «I don't need no doctor ? I don't need no priest, All I need is my baby girl to bring it on home to me, I just need her loving each and every day, Only she can set me free and take these old blues away». seconda strofa e alla chitarra acustica si uniscono basso e batteria in un ritmo essenziale ma diretto e pieno di attitudine. Nonostante tutte le promesse fatte, la donna maliziosa ha abbandonato il proprio amante, che ora si trova solo e con il cuore a pezzi: «She done foolin' with my head, She take possession of my heart, Now I'm standing all alone here, 'N' my world just fell apart».

Il ritornello ricompare e alza il livello di pathos con un arrangiamento musicale più denso, tra le note di basso che scivolano sinuose tra la batteria e lo strumming insistente della chitarra acustica: «Scream to the heavens, my God make me strong, No one can hear me my love she has gone, What can I say, What can I do, Baby I tell you my love still belongs to you». Nonostante il suo cuore infranto, lui non si vuole rassegnare alla rottura. Non vuole credere che la donna alla quale era così devoto lo abbia lasciato solo sotto la pioggia battente. La ferita è ancora fresca e dolorosa, ma non vuole sentire ragioni?il suo cuore appartiene ancora a lei. Il ritornello giunge al culmine, ed il mood spensierato e senza fronzoli della canzone cambia completamente. Un solenne fill sui tom introduce la conclusione del brano, e sopra un tappeto di arpeggi malinconici la chitarra elettrica si fa strada con note lente sostenute da un vibrato ampio e pieno di feeling, come i lamenti di un'anima solitaria che vaga per le strade della metropoli, il viso rigato di lacrime mentre pensa al proprio amore perduto, e le note del basso fretless si fanno singhiozzanti: «Love can break your heart, Only love can break your heart, I gave you all I had to give, No words could say how much I miss you». Un motivo ripetuto varie volte in uno schema di "chiamata e risposta" con la mia chitarra elettrica, che si lancia in una serie di brevi e struggenti fraseggi dal sapore blues seguendo gli insegnamenti del mio eroe Gary Moore. La voce continua a ripetere «Solo l'amore può spezzarti il cuore» come un mantra, e la Les Paul le fa eco con lamentosi bending e vibrati carichi di tristezza, che vanno in calando come un sospiro?

Blue Murder

Boom! Neanche un attimo per riprendere fiato, che l'introduzione di "Blue Murder" (letteralmente Omicidio blu, ma il termine fa parte di un'espressione corrente della lingua inglese, screaming blue murder, che significa urlare a squarciagola di rabbia o di paura) ti colpisce come uno sparo a bruciapelo: una potentissima rullata di batteria apre le ostilità seguita da un ritmo quasi shuffle che si alterna ad essa. La mia Les Paul esordisce quindi con un riff in drop D in stile "chiamata e risposta" e seguendo lo stile del mio maestro Phil Lynott la mia voce inizia a raccontare un'altra storia: «Give me money now reach for the sky, You better believe when I say I'm gonna bleed you dry, A few dollars more will keep you alive, Get down on the floor if you'd like to survive». Stavolta nessuna ingiustizia o amore finito, si parla di un bandito spietato che depreda chiunque gli capiti a tiro. O la borsa o la vita, dammi tutti i soldi che hai oppure finirai accasciato in un vicolo sanguinante come un agnellino appena sgozzato. Nessun rimorso, nessuna remora: una vita criminale senza ripensamenti. Il ritornello è trascinante, la chitarra si fa sincopata, sostenuta dagli accenti epici delle tastiere in sottofondo, e un rapido fill di armonici appare e scompare come il fugace scintillio della lama di un coltello in una strada buia: «They're screaming blue murder, I'm scheming to survive, Blood money they want me, Loud hailers screaming dead or alive». Si è spinto troppo in là, le vittime e i tutori dell'ordine urlano a squarciagola come forsennati e gli altoparlanti menzionano già con la loro voce strozzata una taglia sulla sua testa: morto o vivo. Il bandito sanguina, ha perso un braccio e se la sta vedendo alquanto brutta mentre il riff portante echeggia incalzante sorretto dal groove di batteria. Oramai non è più una questione di soldi, ma si tratta solo di scappare senza lasciarci la pelle perché i mastini della legge sono alle sue costole, e sparano per uccidere. Si passa nuovamente al ritornello che si chiude su un sibilante armonico urlato di chitarra che pare imitare la sirena delle forze dell'ordine all'inseguimento del ricercato. Poi un tagliente slide del plettro sulle corde e il mio assolo di chitarra decolla con un lungo e sostenuto bending obliquo come la brusca sterzata delle gomme sull'asfalto. Non si tratta di mostrare quanto io sia veloce o tecnico, perché un grande chitarrista non suona in questo modo. I veri eroi della chitarra sanno che per essere bello e memorabile, un assolo dev'essere come una storia racchiusa dentro ad una storia più grande, ossia la canzone stessa. Così faccio, e dall'incipit mi muovo tra fraseggi blues rock, fluidi in legato e armonici stridenti aumentando via via la tensione fino al climax assoluto: una sequenza ascendente rapidissima, frenetica come l'inseguimento tra gli agenti della polizia e il famigerato criminale. Nessun momento di tregua, si torna su un ritornello di durata doppia che mantiene la tensione ai massimi livelli terminando sull'ennesimo armonico squillante e scosso da abbondante vibrato. Il delinquente scappa, buttando giù porte e sfondando finestre con il suo malloppo ben stretto. I proiettili volano sopra la sua testa portando con loro una promessa di morte o di arresto assicurato. Un altro scambio di strofa e ritornello, e la canzone volge al termine sui riff indiavolati della chitarra ed i furiosi colpi di batteria. Ce l'avrà fatta il bandito a scappare? Sarà riuscito a sfuggire con i suoi contanti alle grinfie della legge? La risposta la lascio a te, caro ascoltatore e lettore?

Out Of Love

È arrivato il momento dell'obbligatoria ballad dell'album, "Out Of Love" (Senza Più Amore). Ebbene sì, nessuna rock band degli anni '80 poteva sfuggire a questo stereotipo, quindi neanche i miei Blue Murder. Tuttavia io ero reduce da un album composto per i Whitesnake che conteneva forse la più famosa ed emblematica delle ballate rock del decennio: Is This Love. Per questo motivo, realizzarne una per il mio gruppo non si rivelò poi così difficile. Questa canzone ad un orecchio attento può rivelarsi un incrocio riuscito proprio tra Is This Love e Looking For Love, sottovalutata gemma uscita soltanto nell'edizione europea di Whitesnake e in un EP pubblicato unicamente per il mercato giapponese. Un arpeggio sognante apre la canzone su un sottofondo di tastiere, poi la chitarra elettrica accenna poche note lente e sospiranti. Si parla di nuovo di amore perduto, di un cuore solitario che contempla una fotografia sbiadita, reminiscenza di giorni felici ormai lontani che hanno lasciato il posto ad ore grigie e piovose all'insegna del rimpianto e della tristezza: «I'm standing here looking at your photograph, I can't believe I'm all alone and you're not coming back, On and on we rode the storm, I sometimes wish I'd never been born, alone here crying out for love». Niente più fretta né irruenza hard rock, in questa canzone io ed il resto della band prendiamo tutto il tempo che ci serve per disegnare un'atmosfera plumbea e carica di romanticismo sbiadito. Il ritornello si fa straziante, con la mia voce sulle note alte che rammenta il passato luminoso di un amore giunto al tramonto, momenti indimenticabili che poco a poco svaniranno come lacrime nella pioggia battente: «All the nights when you held me tight, Life was good and love seemed right, And now I'm here I can't believe you're gone, You used to say love would never die, But you were wrong and I've just died inside, I'm outta love again ? I'm outta love again». Una promessa di amore eterno che non è stata mantenuta, un colpo dritto al cuore che lascia una ferita aperta e bruciante. La Les Paul ulula alla luna con pochi bending pieni di trasporto che ricadono su note sostenute da un vibrato dolce e cadenzato, come grida di dolore che echeggiano a vuoto nella notte. Perché mi hai abbandonato, perché è finita? L'assolo centrale in Mi minore è sommesso ma non passa inosservato, tra un armonioso arpeggio seguito da bending drammatici degni di Gary Moore e da un finale ascendente più sostenuto ma senza mettere troppa carne al fuoco. Seguendo la struttura che avevo già impiegato in Looking For Love si fa rotta di nuovo verso la strofa, non più calma e rassegnata bensì forte e carica di frustrazione. Lui non vuole rassegnarsi al suo destino, e si chiede ad alta voce che cosa farà ora tutto solo senza più una donna al proprio fianco a condividere attimi di gioia e di emozione: «The love we shared will never ever die inside my heart, I swear I never dreamed that we would ever drift apart, Taken in my tears subside I'm feeling lost, Can I survive without you, I'm outta love again». Un ultimo ritornello si fa sentire in pompa magna, con tastiere solenni e molteplici armonie vocali a ribadire l'epilogo miserabile che segue la fine di un amore: la solitudine e la nostalgia di ciò che è stato, e non sarà mai più. La chitarra accompagna la canzone verso la sua inevitabile conclusione con un ultimo struggente assolo in crescendo, dapprima lieve come una lacrima che scivola sulla guancia e poi via via sempre più burrascoso?

Billy

Non dimenticherò mai l'influenza che ha avuto su di me il mio mentore. Sto parlando del compianto Phil Lynott, ovviamente. Quale modo migliore di omaggiarlo, se non con una canzone sul mio primo album come leader di una band? Questa è "Billy"? (Billy) e nella miglior tradizione di Phil e dei suoi Thin Lizzy si narra una storia: le peripezie di un personaggio nel quale l'ascoltatore si possa identificare. È notte fonda, una figura corre quatta quatta per le strade di Frisco appena illuminate dai lampioni, decisa a non farsi notare da anima viva. Un'immagine resa alla perfezione da una chitarra elettrica in sordina che suona diadi manipolate con un pedale di volume e dalle tastiere che alternano un Mi sostenuto ad eterei arpeggi di Si minore settima. Il basso è in primo piano, e Tony Franklin sfodera un groove semplice ma di impatto immediato, di quelli che si stampano in testa al primo ascolto. Un ragazzo che sta scappando impaurito da un'accusa ingiusta di un omicidio che non ha commesso «It was the midnight hour when the boy broke out of Frisco, Running scared he's moving from the heat, The electric chair was the sentence there but they didn't take the time or care to see that it wasn't Billy». Il primo ritornello punta tutto sulle dinamiche, mantenendo un'atmosfera discreta. La mia chitarra accenna un motivo in Mi minore, la tonalità principale del brano, eseguito in doppia pennata (una delle mie peculiarità stilistiche più facili da identificare, già sfruttata nell'iconico stacco centrale di Still Of The Night) in modo da farlo sembrare un fraseggio suonato da un violoncello elettrico avvolto dalle tastiere. "Sono convinti che io sia il nemico numero uno del momento - pensa tra sé e sé il giovane - ma non hanno la più pallida idea di cosa sia successo." Un improvviso slide di plettro come il rombo di un'automobile segna un repentino cambio di mood della canzone, e la seconda strofa è completamente diversa dalla prima: due rapidi power chords seguiti da una fluida sequenza in doppia plettrata dalla scala pentatonica di Mi minore. Un riff avvincente che trascina l'ascoltatore nel vivo dell'azione: Billy è in fuga a bordo di un'auto, con le sirene della polizia alle costole, deciso a raggiungere l'amata per caricarla a bordo del mezzo e salvarsi la pelle, lontano da tutto ciò. Dopo un altro ritornello si passa alla sezione centrale, lasciando un breve momento di tregua all'ascoltatore. La quiete prima della tempesta: Billy e la sua ragazza sono pronti a fuggire diretti alla frontiera; una volta lì potranno iniziare una nuova vita, al riparo dalle accuse infamanti e false della legge: «I'll tell you girl if we make it to the borderline, We will be free just you and me, I swear I will make you mine till the end of our time». Una serie di armonici a cascata squarciano l'aria come una sgommata furibonda sull'asfalto e l'inseguimento ha inizio, musicato da un assolo di chitarra che sprizza scintille ovunque, a metà tra il melodico e lo shredding più scatenato, senza però mai scadere nella velocità fine a sé stessa. La canzone modula da Mi minore a Sol minore, tonalità favorita da Blackmore per classici del rock come Smoke On The Water e Burn, ed è proprio da essi che traggo ispirazione per una parte ritmica indiavolata a base di quarte intervallate da un Sol al basso. Ritorno alla strofa e alla tonalità iniziale, verso un drammatico epilogo dell'avventura: «Now Billy's got a gun and he's heading for the border, Moving fast they're almost in the clear, Police are waiting with an ambush, saying There ain't nothing passing here, not even Billy, They're gunning Billy down in the middle of the street. Fill him full of lead and his girl begins to scream no no no». Il brano modula nuovamente in Sol minore per tornare alla burrascosa sezione centrale con la chitarra solista in grande spolvero per suggellare la triste fine del nostro Billy, inseguito dalla legge e crivellato di colpi sotto gli occhi increduli della sua donna prima di riuscire a raggiungere la frontiera?

Ptolemy

Si odono echi lontani di un motivetto arabeggiante, tastiere cupe e sfuggenti, e un bisbiglio di voci in quello che sembra un mercato dell'Estremo Oriente. Il plettro indugia graffiante sulle corde come la lama di un pugnale nell'ombra di un vicolo malfamato che stride su una parete. L'incipit di "Ptolemy" (Tolomeo) esordisce con il sapore oscuro ed esotico di una melodia in ottave ricavata dalla scala frigia maggiore di Fa diesis. Rullo di tamburi di Carmine Appice e dopo un paio di ripetizioni che terminano su un'epica sequenza di tastiere, l'ennesima sciabolata di plettro sulle corde introduce la strofa. La mia passione per i Led Zeppelin torna a farsi sentire in maniera palese, con un riff in Fa diesis minore a metà tra Immigrant Song e la parte finale del riff iconico della mia Still Of The Night: costruito in maniera su un movimento di ottave accentuato da armonici urlati e una coda melodica che rimanda al modo Eolio. Si narra di una terra molto lontana, dove si vive pericolosamente e un uomo è alla ricerca di ricchezze ai limiti del deserto, in tombe chiuse da millenni. Si vaga per le sabbie durante la notte, non c'è anima viva. Dietro ad ogni vicolo potrebbe nascondersi qualche tagliagole deciso a rubare tutti i tuoi averi prima di lasciarti a morire in silenzio con la gola tagliata: «Looking to the desert in a cool moonlight, Nobody watching, there is no one out tonight, Standing in the shadow there's a real mean guy, I don't know if I'll make it and I don't know if I'm gonna die tonight». La canzone prosegue nel suo ritornello, sempre in Fa diesis minore naturale, avvincente e magnetico: «Take a caravan to the limit of the city, Smoke the hookah pipes where the people have no pity, Ptolemy». Un'altra strofa, stavolta di durata dimezzata seguita a sua volta dal ritornello e poi ecco che esordisce il break centrale, dal sapore inequivocabilmente kashmiriano, con un arrangiamento degno della colonna sonora di qualche film d'avventura hollywoodiano: un'orchestra di chitarre elettriche, tastiere minacciose e colpi di batteria ai limiti del tribale. Una vampata di armonici legati emerge dalle sabbie come un cobra reale, e annuncia quello che è probabilmente il mio assolo di chitarra più complesso in tutto l'album. Memore della lezione di grandi maestri della chitarra come Ritchie Blackmore ed Uli Jon Roth che avevano già fatto la storia con i loro fraseggi da incantatori di serpenti in Gates Of Babylon e The Sails Of Charon, comincio con una melodia in modo Frigio maggiore che rievoca le dune dell'Oriente, il cielo notturno costellato di stelle e le carovane che vagano in quel mare di sabbia cariche di ricchezze e spezie raffinate. Poi via via le note si fanno sempre più inquietanti e veloci come una vorticosa tempesta di sabbia prima di concludersi su un bending all'unisono talmente dissonante da far sobbalzare gli ascoltatori più distratti. L'avventuriero alla ricerca di ricchezze in qualche sperduta tomba è rimasto vittima della sua stessa avidità e dei cattivi consigli di un sacerdote; il sepolcro si chiude per sempre sopra di lui, promessa di una lenta agonia sotto terra mentre la sua torcia si agita flebilmente nel buio negli ultimi attimi prima di spegnersi: «I wish I'd never listened to that old high priest, He told me of the riches they buried beneath». La canzone si avvia in fade out verso la sua conclusione con l'incedere cupo della sezione centrale, ed i venti d'Oriente soffiano in lontananza?

?Black-Hearted Woman

Siamo arrivati alla fine, ed è ormai giunto il momento, caro lettore e ascoltatore, di salutarci. Quale modo migliore di farlo se non con un brano di chiusura che ti mandi definitivamente al tappeto? Questa è "Black-Hearted Woman" (Donna dal cuore nero). Si parte immediatamente in quarta con uno slide di plettro sulle corde e uno sfrenato riff in Fa diesis minore condito da diadi di terza e quarta in chiusura che fa un po' il verso alla Children Of The Night che avevo composto tre anni prima con i Whitesnake. Tuttavia, rispetto ad essa, la canzone in esame schiaccia il piede sull'acceleratore e sfodera un'energia di gran lunga superiore, sostenuta da un solido ritmo di batteria di Carmine Appice che picchia sulle pelli come un fabbro. Una canzone implacabile come la femme fatale al centro del testo: una donna ammaliante e crudele, che attira uomini incauti nella propria tela per poi soggiogarli e renderli schiavi del suo fascino. Irresistibile è il suo richiamo, e come uno sciocco l'uomo cade preda dei suoi sguardi: «When she walked in the room I was drawn, Like a fool almost hypnotised, You made my heart beat, baby, like never before, Underneath her disguise I saw trouble and lies, But I walked right in, She said tonight I'm gonna make you push it, and that's the score». Arriviamo al ritornello e la chitarra continua ad incedere con trasporto, macinando riff frenetici da cuore in gola. Lui sa che la donna-serpente dal cuore tenebroso ormai lo ha stretto nelle sue spire, sa di essere spacciato ma anche che non c'è via di fuga: «But she took me, she shook me now I'm under her spell and there's no getting over the black-hearted woman». Lui pensava di poter condurre i giochi, ma si sta rendendo conto troppo tardi che sarà lei a dominarlo. Non c'è via di scampo, la trappola era tesa e ci è caduto dentro come un ingenuo; ora sarà schiavo del piacere di una femmina diabolica che vuole solo soddisfare la propria vorace passione. Un altro ritornello e poi arriva lo stacco decisivo della canzone: alcuni decisi accenti di power chords e mi lancio in un' epica sequenza di tapping seguito da un lacerante stridio sulle corde con il plettro. Il ponte centrale si fa cupo e minaccioso, il riff portante condito di cromatismi crea tensione e senso di attesa mentre mi sbizzarrisco in fraseggi distorti con abbondante uso della leva. Sarà una notte di passione, di piacere e di dolore, ma ad uscirne trionfante sarà la tentatrice dal cuore di tenebra: «She's a filthy girl ? dressed in black, Walk them heels up and down your back, Chain you up, pure desire, Gonna set your soul on fire». Il mio assolo di chitarra è come una colata di argento fuso, e si impone con aggressività e prepotenza sul resto degli strumenti mentre sfodero tutta la mia perizia tecnica. Niente più finezza, ci vuole un finale esplosivo: armonici legati, sequenze in plettrata alternata eseguite a velocità stratosferica e qualche fraseggio in stile rock 'n' roll sotto steroidi prima di tornare senza preavviso al riff portante che colpisce a tradimento con la forza di un uragano. La prima strofa viene ripetuta nuovamente prima di passare all'ultimo ritornello e alla conclusione in un tripudio di voci sovrapposte, cori e un riff di chitarra che termina su una sequenza cromatica di tre accordi.

Conclusioni

Nove tracce, poco più di cinquanta minuti di musica tra hard rock, echi zeppeliniani ed arrangiamenti ambiziosi grazie alla guida sapiente di Bob Rock. Una band dall'elevato potenziale, tutti dei fuoriclasse del proprio strumento e un contratto discografico sotto una delle etichette più in vista del periodo: la Geffen Records. La formula per un trionfo sicuro e una meritata rivincita nei confronti di David Coverdale, che stava campando sul successo di canzoni composte in gran parte da me, era pressoché assicurato. Gli avrei dimostrato che licenziarmi in malo modo, assoldando due chitarristi validi ma non certo alla mia altezza, per suonare dal vivo le canzoni che io avevo composto era stato un grosso errore. Girammo due video musicali rispettivamente per Jelly Roll e Valley Of The Kings, perché nell'era di MTV nessuno poteva sognarsi di sfondare con una nuova uscita senza un paio di clip da potenziale rotazione quotidiana sugli schermi televisivi. Iniziò un tour mondiale che passò anche dal Giappone, e dal vivo i brani acquisirono una veste nuova. Non ci ponevamo alcun limite, concedendoci il lusso di allungarli dal vivo, intervallandoli con avventurose jam e assoli mozzafiato come facevano i Led Zeppelin e i Deep Purple all'apice della loro forma negli anni '70 ma con un tasso tecnico smaccatamente ottantiano. Furono mesi grandiosi, e i miei compagni di band si divertivano quanto me. Di certo l'estetica con la quale la mia band venne promossa farebbe alzare più di un sopracciglio anche oggi, e mentirei se dicessi che non rimasi un poco perplesso dalle idee di John Kalodner. Sul retro dell'album e nelle foto promozionali ci vestirono come dei pirati. Una scelta curiosa e poco comprensibile, dato che in nessuna delle tracce dell'LP si parlava di bucanieri che solcavano le acque dei sette mari. Al netto delle perplessità menzionate, eravamo tutti e quattro pronti a conquistare la scena rock del periodo. Eppure, a dispetto delle premesse, qualcosa andò storto. L'album aveva iniziato a vendere parecchio, ma la situazione era di gran lunga diversa da quella di tre anni prima. Se la Geffen Records nel 1986 era un'etichetta promettente, ma non ancora il colosso che avrebbe lanciato diversi gruppi verso la fama, nel 1989 il discorso era assai diverso. Al momento dell'uscita del mio album, la Geffen era ormai una forza imprescindibile del mercato discografico. Il problema però non furono le uscite di altre etichette, bensì quelle della mia stessa scuderia. Lo stesso anno, il mio debutto con i Blue Murder si trovò a competere con una serie di uscite non da poco, tutte targate Geffen Records, del calibro di Pump degli Aerosmith (7 milioni di copie vendute secondo la RIAA), The Great Radio Controversy dei Tesla (2 milioni di copie vendute secondo la RIAA), The End Of Innocence di Don Henley (6 milioni di copie vendute secondo la RIAA) e Heart Of Stone di Cher (3 milioni di copie vendute secondo la RIAA, contenente tra l'altro la hit If I Can Turn Back Time) oltre alle uscite degli anni precedenti che continuavano a vendere copie (impossibile non pensare al debutto da record dei Guns 'N Roses, Appetite For Destruction). Oltre a tutti questi album, qualche mese dopo il mio debutto con i Blue Murder uscì Slip Of The Tongue dei Whitesnake (più di un milione di copie vendute), capitanati dal mio rivale Coverdale. Della formazione che aveva fatto il tutto esaurito ai quattro angoli del globo erano rimasti i fidati Rudy Sarzo al basso e Tommy Aldridge alla batteria, nonché Adrian Vandenberg alla chitarra, mentre l'altro chitarrista Vivian Campbell se n'era andato per divergenze con David, e qualche anno dopo avrebbe fatto fortuna come turnista e poi membro stabile in un altro colosso del rock: i Def Leppard. Nonostante Adrian Vandenberg avesse composto tutta la musica dell'album, dovette rinunciare a registrare le sue parti a causa di problemi di salute. A sostituirlo in studio venne chiamato l'istrionico Steve Vai, già famoso per i suoi trascorsi negli Alcatrazz e nella band solista di David Lee Roth e famigerato per la sua breve apparizione nel film Crossroads del 1986 (uscito in Italia con il titolo di Mississippi Adventure) dove interpretava il chitarrista del Diavolo che sfidava a duello il Ralph Macchio di Karate Kid. David non conosceva il passato di Vai nelle band già citate, ma rimase parecchio colpito dalla sua breve parte in quella pellicola, abbastanza da decidere di chiamarlo per salvare le registrazioni dell'album. Il risultato fu assai criticato da alcuni fan, perché dopo il mio stile blues rock muscolare e pieno di feeling, l'album metteva in primo piano le acrobatiche divagazioni strumentali di Steve Vai, certo impressionanti, ma quasi fuori posto in una band che aveva sempre fatto delle proprie radici blues il proprio marchio di fabbrica. Fu un successo, ma neanche lontanamente paragonabile a quello di Whitesnake, e sotto sotto David masticò amaro. Proprio lui, pare, minacciò la Geffen di bloccare l'uscita del suo album se questa non avesse interrotto o quantomeno ridimensionato la promozione del mio debutto con i Blue Murder. Che sia stata invidia, oppure paura che finalmente gli facessi ombra e lo battessi sul suo stesso campo dimostrandogli che era stato lui e non io a rimetterci dalla mia cacciata poco dopo le registrazioni di Whitesnake? Non lo saprò mai, ma quello che è certo fu il risultato: la Geffen di botto smise di promuovere adeguatamente il mio album, e alla fine del tour nonostante avessimo avviato la stesura e le registrazioni di un secondo capitolo discografico, sia Tony Franklin che Carmine Appice se ne andarono. Avremmo potuto essere i Cream degli anni '80, un power trio sbalorditivo e capace di sfruttare gli stilemi dell'hard rock che tanto andava in quel periodo, ma senza disdegnare un approccio coraggioso negli arrangiamenti, nella lunghezza dei brani e nelle buone abitudini delle band storiche che infiammavano i palchi neanche dieci anni prima. Le premesse di un trionfo quasi certo che col senno di poi si rivelò un clamoroso fiasco, e mi diede la prova di come il music business possa ingannarti con la promessa di un successo facile per poi scaricarti alla prima occasione in favore di qualcun altro nella propria scuderia. Da lì in poi le cose non sarebbero più state le stesse per me, non avrei mai più raggiunto le vette toccate con Whitesnake e questo debutto, di cui pochi si ricordano purtroppo. Fu una dura lezione per me, e da essa ho imparato che a certi livelli il talento artistico non conta quanto dovrebbe, e cede sempre il posto alle logiche di mercato, ai facili guadagni e all'opportunismo in giacca e cravatta. Tuttavia, non ho rimpianti, e mentre ripercorro con la mente quel periodo, penso ai concerti negli stadi, a Carmine che picchiava come un ossesso sulla batteria senza sbagliare un colpo, Tony che serpeggiava con i suoi fluidi fraseggi sul basso fretless ed io, Les Paul Custom nera a tracolla e capelli biondi al vento, a cantare e suonare come se non ci fosse un domani. Penso a questo album, alla possibilità che ancora qualcuno non lo conosca, e tra me e me sorrido. Immagino un appassionato di rock che entra in un negozio di musica e rovistando tra i CD ed i vinili scorge sullo scaffale di un negozio una copertina essenziale ritraente un mare di colore blu scuro appena illuminato dalla luce della luna, con sopra scritto Blue Murder. Incuriosito, lo prende in mano e dopo un attimo di indecisione, decide di dargli una possibilità. Tornato a casa lo inserisce nello stereo o sul giradischi ed assapora il piacere dell'ignoto, di una gemma sottovalutata dell'hard rock. Chiunque tu sia, ovunque tu sia, caro lettore ed ascoltatore, spero apprezzerai il mio album e mi auguro che ti faccia viaggiare con la mente e col cuore, o anche solo dimenticare per meno di un'ora i tuoi problemi quotidiani. La musica è magia, e queste nove tracce sono state il frutto di grandi sforzi, speranze e tanta passione. Uno dei miei più grandi successi artistici, ma anche il mio più grande fallimento?buon ascolto.

1) Riot
2) Sex Child
3) Valley Of The Kings
4) Jelly Roll
5) Blue Murder
6) Out Of Love
7) Billy
8) Ptolemy
9) ?Black-Hearted Woman