Blue Cash
When She Will Come
2017 - Music Force / Toks Records
ANDREA ORTU
07/06/2018
Introduzione Recensione
"Per il vil danaro siamo disposti a tutto, si sa, per amore e passione ancor più", recita la presentazione dei Blue Cash, band udinese di non facile collocazione in termini di sonorità, assai attiva nel nordest dello Stivale e già da alcuni anni presente sul territorio con spettacoli, concerti e manifestazioni d'ogni genere. In effetti, "moneta blu" (blue cash) è un altro modo per definire l'American Express, storicamente la carta di credito per antonomasia. Non so se il riferimento al "vil denaro" sia insito proprio in questo doppio senso, ma sul riferimento all'amore e alla passione, beh... non ho dubbi: Johnny Cash. Proprio lui, il Man in Black americano. Johnny Cash e il suo rapporto col blues, Johnny Cash e la sua chitarra "hot and blue"... il suo blue train , i suoi blue eyes; e ancora, Johnny Cash e i suoi blue Christmas, e tutto il resto. Soprattutto, Johnny Cash e la sua influenza musicale. Non c'è dubbio alcuno, infatti, che la leggenda del country-folk americano abbia esteso il suo abbraccio ad un panorama tanto vasto da superare i concetti stessi di spazio e di tempo, sopravvivendo imperterrita all'azione di quest'ultimo. "Il mio impero di polvere", cantava lui reinterpretando i Nine Inch Nails, ma nel 2018 la sua eredità è ancora qui, amata e imitata da generazioni di cui potrebbe essere il nonno. Nonostante tutto, però, a prescindere dall'amore così chiaramente sbandierato dalla band per lo scomparso Uomo in nero, i Blue Cash non sono solo Johnny Cash, ma raccolgono influenze culturalmente e cronologicamente diverse in un calderone tutto loro, proponendo infine un prodotto a suo modo originale. Punk, Jazz, blues vecchia maniera, funk, rock 'n' roll, pop, giurerei qualche fascinazione trip hop: I Blue Cash riuniscono tutto questo in un album completamente acustico, insieme colorito e mortuario, serio senza prendersi terribilmente sul serio, irriverente e autoironico: When She Will Come. "Ricordati che devi morire", diceva il prete a Troisi su "Non ci resta che piangere", con quel suo classico memento mori così radicato nella cultura italiana e cristiana; e nonostante i "men in black" e i testi in inglese, i Blue Cash sono senza alcun ombra di dubbio un gruppo italiano, e italiana è la loro base formativa; Colei che verrà, quando sarà il momento, è infatti la Morte, esemplificata nella copertina dal gusto vagamente "kandinskyano". Copertina che, tra l'altro, svela già buona parte dello spirito dell'opera, il suo guardare in faccia la morte, l'inconscio e le sue paure, quell'osservare da vicino il significato profondo di un italianissimo memento mori e rispondergli, in un mezzo sorriso a stento celato, con un altrettanto italianissimo "sì, sì, mo me lo segno". L'Italia che mi piace, anche quando parla inglese. "When She Will Come" segue il debutto, omonimo, dei Blue Cash, e ne rappresenta la concretizzazione d'intenti, la maturità di un sound che il gruppo ha adottato fin dall'inizio, ricercando tuttavia un'inedita, cinica durezza. La line-up della band è formata da: Andrea Faidutti, chitarra e voce, classe 1984 e chitarrista dall'età di tredici, attivo sui palchi fin da giovanissimo e laureato in scienze antropologiche in quel di Bologna, città peraltro caratterizzata da una scena piuttosto vivace. Con la Induo Band partecipa a numerosi festival e, nel 2013, al Time in Jazz organizzato da Paolo Fresu (uno che definire solo "musicista" è quasi riduttivo). In seguito si unisce ai Vertical Invaders di U.T. Gandhi e al progetto di Claudio Cojaniz e i suoi Diavoli Rossi. Non sazio, nonostante il livello già alto, impara a suonare il sitar dal maestro Saleem Kahn, in Pakistan. È il più giovane della band; Alan Malusà Magno, anch'egli chitarra e voce. È un autodidatta, e inizia la sua avventura nell'arte come attore diplomandosi all'Accademia D'Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, lavorando con varie compagnie teatrali e in diverse nazioni europee. Nello stesso periodo, alla recitazione alterna la musica e fa parte dei Kosovni Odpadki, con i quali vince il Mantova Music Festival. Con loro ha la possibilità di esibirsi in Europa e in sud America, perfezionando il suo bagaglio e appassionandosi al jazz, che approfondisce sotto la guida di Gaetano Valli e Glauco Venier. Messa in pausa l'attività di attore, studia e si diploma al conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste; Marzio Tomada, bassista dall'età di sedici anni. Studia basso e contrabasso al conservatorio di Udine sotto la guida di Glauco Vanier, Franco Feruglio, Andrea Lombardini e Michele Corcella, ed è impegnato con diverse band dalle più disparate sonorità, collaborando nel frattempo con una quantità d'artisti locali e non; Alessandro Mansutti, batterista, a sostituire il drummer Andrea Fontana. Rispetto a Fontana, che può vantare collaborazioni con Elisa e Tiziano Ferro, Mansutti possiede un background maggiormente orientato al rock e al funk, e si sente. Inoltre, ha inciso un album con il trio jazz Juri Dal Dan, collaborato con diversi nomi del settore, e vinto il primo concorso internazionale di jazz al conservatorio S. Cecilia di Roma; a completare la line-up, infine, Dunya Bernardon, misteriosamente indicata come la voce di "Lei".
Questa dunque la formazione che ha dato vita a When She Will Come, opera di una band nata quasi per caso e che, a un anno dalla sua pubblicazione, merita d'essere riscoperta e analizzata canzone per canzone.
Intro: Death & the Devil
Come suggerisce il titolo, l'album si apre con una intro di pochi secondi: Death & the Devil (Morte e il Diavolo). Non è una canzone, ma un dialogo telefonico che mette in scena l'immaginaria conversazione tra due ideali archetipi narrativi: la Morte, intorno alla cui imperscrutabile ombra ruotano le vicende umane narrate nei brani, e il Diavolo, figura retorica cara al blues e al rock 'n' roll, alla leggenda di Paganini come a quella Robert Johnson, ed essenziale alla narrazione di un intero universo musicale. Dalla conversazione è come se uscissero fuori, tutte in una volta, le tracce e le vicende di "When She Will Come", e infine, a completare la presentazione, dalla voce in qualche modo seducente della Morte, il nome della band: Blue Cash.
The End
L'album inizia dalla "Fine", ovvero The End. Degna di una grande festa non lontano dal Mississippi, la canzone è dominata da una ritmica sorda e volutamente grezza, come improvvisata ad una festa di paese, sulla quale aleggia un'armonica dal respiro ora ampio, ora malinconico, ora comico fino al parossismo, a definire le sensazioni dell'intero brano. I bassi conferiscono all'insieme uno spessore insolito, per il genere, mentre dinamismo e divertimento sono garantiti da un lavoro di chitarra che ricerca spesso il rapido arpeggio, la svirgolata che dà la sveglia, rimarcata da un vero e proprio "crescendo" dell'armonica. Su tutto, le vocals calde e dai toni così classici da essere manieristi, appoggiano sull'insieme una calma voce narrante, come quella di un cantastorie. Il testo, anch'esso incentrato su archetipi collaudati e in linea col classicismo della band, parla sostanzialmente della paura d'amare davvero, di legarsi seriamente ad un'altra persona. Il protagonista è un uomo che quasi non può fare a meno di avere donne che gli ronzino attorno, perfetto stereotipo del musicista rubacuori, ma di esse si stanca prima ancora di sera, perché lui è "quel genere di ragazzo solitario": sì, insomma, quello da una notte e via. Se da una parte il cantante, coadiuvato da baritoni interventi corali, sembra voler rimarcare una sorta di auto-inflitta solitudine, un'inguaribile e un po' sciatta immaturità, dall'altra, tuttavia, mette in scena uno spirito libero la cui personalità - viva e in perenne movimento - è in simbiosi perfetta e ideale con la natura stessa della musica. Senza voler essere un pezzo impegnativo, The End, esemplificazione della fine che si abbatte su ogni rapporto, riesce a far convivere in musica e in parole sfumature diverse e contrastanti dell'animo umano.
Junkie Man
I Blue Cash non rallentano affatto il ritmo, anzi, semmai lo rendono anche più concitato. Junkie Man (Drogato) è infatti un ballo forsennato, una traccia quasi "caciarona" con un drumming rockeggiante su scampanellii country, il contrabasso che sconfina creativamente su soluzioni hard rock ed una voce meno stereotipata e più ariosa. Il testo è talmente ruvido che pare scritto in prosa, espediente che dà al brano il tono narrativo caratteristico di tanta musica figlia della strada, caratterizzata dal racconto come mezzo d'incontro. Ciò che sorprende - positivamente - è la capacità di tradurre quest'attitudine poetica in musica, riuscendo a dare alla strumentale lo stesso piglio narrativo delle parole, e così, come il racconto si fa via via più esasperato e parossistico, anche la canzone cresce in un'inesorabile catarsi di suoni, esecuzioni sempre più sopra le righe, perfino in un inatteso e quasi antitetico assolo, riuscendo a trasformare un brano acustico in una sorta di hard rock primitivo e radicale. Tra le righe, il cantante delinea un episodio dai tratti surreali e simbolici: la giornata apparentemente normale di un uomo che smarrisce le sue chiavi, rubate da un "drogato". L'impressione, tuttavia, è che l'uomo e il drogato siano parte della stessa persona, e le chiavi rappresentino una forma di autodeterminazione. Il finale, infatti, suggerisce che il nostro peggiore nemico siamo unicamente noi stessi. Un tema antico quanto il mondo trattato con inaspettata quanto originale semplicità, in un brano che sa crescere all'orecchio dell'ascoltatore come una sorta d'orgasmo messo in musica.
Do It for Nothing
Il ritmo infine rallenta con Do It for Nothing (Farlo per Niente), ma solo per definirsi su di un andatura cadenzata e marcatamente swing. La suggestione vagamente "guardinga" e sorniona caratteristica del sound è delineata in larga parte dal contrabasso di Tomada, ma una sinergia tra voci e chitarre inizia immediatamente e ridefinire l'iniziale andazzo del brano, trasformandolo in una sorta di sferzante cantilena dalla ritmica sostenuta, quasi incalzante. Una volta definita quest'andatura, la canzone fila liscia così fino alla fine, senza i guizzi che avevano caratterizzato le precedenti tracce, forse a rimarcare la pulizia formale di un'armonia pressoché perfetta. Anche stavolta il piglio poetico è assai narrativo, particolare che ormai l'ascoltatore inizia ad associare ai Blue Cash e alla loro filosofia, delineando così un altro importante elemento caratterizzante della band. Il protagonista di "Do It For Nothing" è un musicista (il corno, horn, si riferisce probabilmente a uno strumento a fiato) che ha rinunciato ai suoi sogni per fare il lavavetri, un lavoro precario ma considerato socialmente serio, sotto l'influsso della fidanzata e di suo padre. A dire il vero, il sogno, più che accantonato è come "in pausa", in stand by, ma il musicista-lavavetri sa che il suo è un atteggiamento ipocrita, e che in realtà aspetta alla stazione un treno che se n'è andato, e che il suo, di treno, è da tutt'altra parte... certamente ben lontano da quei maledetti vetri e dalle parole del padre di lei, che a noi non è dato conoscere, ma che rimbombano nella sua mente. Un quadro umano che molti musicisti, specialmente in Italia, conoscono ahimè fin troppo bene.
Stay With Me
Stay With Me (Resta con Me), quinta traccia intro compresa, mostra evidenti influenze beatlesiane, quelle genuinamente a metà tra pop e psichedelia. Il batterista, il buon Alessandro Mansutti, contrappone all'apparente leggerezza del brano una ritmica piena e massiccia, a tratti cavalcante, ricca di fills. È proprio tale ruvida contrapposizione la base di questa traccia così sopra le righe, caratterizzata da una varietà di momenti assai diversi tra loro e carichi di spunti - manieristi, certo, ma decontestualizzati e reinterpretati in maniera davvero peculiare. La qualità, insomma, è piuttosto alta per un brano tutto sommato disimpegnato. Per buona parte della sua durata, "Stay With Me" si tiene nei canoni di una morbida cantilena dalle chitarre country, nonostante la ritmica marcata, fino a sfociare improvvisamente su sonorità dal sapore orientale, caratteristico di tanta scuola anni '60 specializzata in reinterpretazione & decontestualizzazione. La riproposizione ossessiva della strofa principale (ovvero il titolo della canzone), accompagna il tutto ad un finale d'inaspettata catarsi, psichedelico e quasi maligno, nella sua elettrica ed echeggiante ipnosi, fino ad una conclusione ruvidamente evidenziata dal batterista. Il protagonista del brano è un musicista come tanti che, in Italia, non riesce a fare una lira con la sua passione. Apparentemente convinto di essere un individuo irrilevante, o quantomeno dotato di una certa sfiducia nel prossimo, egli è tuttavia rinfrancato dalla relazione con una donna per la quale farebbe di tutto. È per lei che trova un lavoro umile e noioso con cui arrivare a fine mese, di lei gli sfizi che cerca in ogni modo di soddisfare, ed è a lei che si riferisce quando, disperatamente, canta "resta con me", ancora e ancora, come a cercare di trattenerla nella sua vita. Possiamo quindi tranquillamente affermare che, da un punto di vista poetico, "Stay With Me" è il seguito ideale di "Do It For Nothing", e di quell'umorismo pessimista e sornione che ha finora definito buona parte dello spirito dell'opera. Notevole e intrigante la scelta di spezzare il brano in momenti e sonorità perfino antitetiche tra loro.
King of Nothing
King of Nothing (Re di Nulla) è una ballad soave e malinconica, aperta da arpeggi di chitarra ben orchestrati e da una ritmica estremamente leggera e cadenzata, quasi invisibile. Tuttavia, è proprio il contrabasso a dare peso all'emozionalità del brano, mentre le vocals definiscono lentamente e inesorabilmente l'intero corpo della canzone, lenta e carezzevole fino a una catarsi dal sapore pop, preludio ad una conclusione che vede esplodere - seppur moderatamente - la batteria di Mansutti fino ad un prevedibile finale sfumato. Liricamente le cose si fanno più interessanti, e rischiose: abbiamo ora un testo meno auto-ironico, seppure ancora pessimista e vagamente sornione. Il protagonista è stavolta un uomo che fa i conti con se stesso, con i suoi dubbi, le sue paure, col senso profondo del suo personale cammino. Interessante l'idea di descrivere l'intima lacerazione di un individuo attraverso una sorta di dialogo interiore, espresso prima da una singola voce, quella dell'uomo e dei suoi sentimenti, riscatto compreso, e poi con la medesima voce affiancata però da un coro stridulo e malevolo, ad interpretare la vocetta interiore del nostro protagonista, pessimista e cattiva consigliera. Interessante anche l'intenzione di dotare il dialogo di allegorie fiabesche, espresse attraverso versi di stampo vagamente shakespeariano (e indicativi di una notevole padronanza della lingua inglese), anche se, nel mettere in pratica certe velleità, la canzone scopre il fianco a inevitabili semplicismi e ingenuità, quando la sola idea del dialogo interiore, secco e ammantato di affascinanti contraddizioni, nonché la leggiadra malinconia che traspare dalle note, bastavano a rendere "King of Nothing" lo spartiacque ideale dell'intero disco.
Message to a Friend
Data all'ascoltatore la sua ballad, la band ritorna su frenetiche sonorità swing venate d'intuizioni fusion, in una canzone ricca d'inventiva e divertimento: Message to a Friend (Messaggio a un Amico). È Tomada ad aprire le danze, con ammiccante eleganza, ben presto seguito da un botta e risposta tra i cantanti ed ariose soluzioni corali, rimarcate da una batteria in qualche modo insieme morbida e dinamica, ideale a certe sonorità. Sprazzi d'elettricità rompono la consuetudine, regalando ad un insieme già divertente e "ballereccio" veri e propri ruggiti di vitalità. Davvero appagante il finale, cui siamo accompagnati da un elettrizzante crescendo di suoni e d'intuizioni, caratterizzato da un assolo di chitarra definitivamente elettrico, dal gusto a metà tra rock e fusion. Liricamente torniamo in buona parte ai canoni che definivano l'inizio dell'album, ma conservando l'interessante forma-dialogo della precedente canzone; anzi, per essere precisi, in parte abbiamo un accenno di dialogo, ed in parte una vera e propria narrazione, come se le strofe si dividano in pensieri di lui, pensieri di lei, e infine azione vera e propria. Il soggetto alla base è la presa di coscienza, più o meno velleitaria, da parte del protagonista nei confronti della sua relazione e di se stesso, consapevole di aver portato la sua donna al limite di sopportazione. È poi quest'ultima a rispondere, seriamente intenzionata a chiudere col fumo e... con lui. Insomma, a dare una svolta alla sua vita. Ipocritamente, il nostro prima inveisce con delusione, poi cerca di convincerla a rimanere: ha una nuova hit in mano, tempo tre settimane e sarà una star. Il finale è una scena da cabaret che vede lui stordito e infine cornuto, solo ad un pub ad assimilare l'implicito e allegorico messaggio di quella brutta serata: niente drink, per stasera!
The Gift
L'atmosfera giocosa prosegue su The Gift (Il Dono), pur su influenze musicali differenti che affondano radici nell'americana e nel western, naturalmente secondo la peculiare ricetta dei Blue Cash. Si corre su di un connubio tra vocalità rimata e percussioni, un approccio decisamente stradaiolo in cui ogni altra sonorità o sfumatura suona, inizialmente, quasi come un'aggiunta troppo barocca, un pelo troppo "borghese". Nonostante ciò - ed è questo, il bello - ciascun elemento cresce a modo suo ad ogni istante che passa, arricchendo gradualmente un quadro che pare inizialmente scarno e robusto ma che, pian piano, si trasforma in una cavalcata dai mille colori, sebbene decisamente più ordinata rispetto a quanto ascoltato su "Message to a Friend". Il finale in chiave country-western chiude degnamente il quadro con un tocco di stile. Il testo ritorna sul ragazzo protagonista del brano precedente e di molti altri, ancora alle prese con la discontinuità di una compagna che ormai è pura allegoria, esemplificata in un lamento antiteticamente blues e antiteticamente contrapposto alla generale allegria della musica. Contrapposizione, in realtà, che ha perfettamente senso, perché come afferma il cantante, "viviamo in un carosello che ci fa il dono di girare, e girare". È come se la disavventura del ragazzo, le sue pene in amore, quelle sulla musica e sul suo brutto lavoro, siano in fin dei conti poca cosa dinanzi allo spettacolo della vita tutt'intorno, turbinante e gioiosa... o della morte, anche. Il finale è di speranza: speranza di un futuro insieme alla compagna, che però, nel suo allegorico significante, assume il sapore di un intimo soliloquio.
Jenny Doin' the Rock
Jenny Doin' the Rock (Jenny fa il Rock) ha il sapore del divertissement, e proprio in virtù di ciò, come spesso accade, è un pezzo bello carico di genuino divertimento e trovate sopra le righe, soprattutto corali. Una batteria ancor più bombastica del solito, il cui andamento quasi selvaggio è tenuto insieme dal sound ordinato del contrabasso, è la base su cui corrono intriganti intrecci chitarristici e vocali, dinamici e ricchi di sfumature, mescolati a trovate creative e amore per la tradizione. È come se il pezzo precedente ci avesse introdotti a una festa di paese che ora è al suo culmine, e tutti ballassero disordinati e ubriachi intorno ai musicisti. Il finale è follia pura che esce dai canoni di un pezzo già di suo sopra le righe, immergendosi per alcuni turbinanti secondi nei più improbabili recessi di un jazz che fu sperimentale, e che oggi è esercizio derivativo; esercizio che, comunque, i Blue Cash eseguono con amore e soprattutto istinto, rendendolo genuino. Ovviamente il brano ha ben poco a che fare con il rock e molto con il folk, ma è lo spirito che fa la differenza, soprattutto poeticamente. Il testo della canzone infatti è molto lungo, ma non dice quasi niente. E non è un difetto, sia chiaro. Si parla ovviamente di Jenny, uno spirito libero che viaggia alla sbaraglio più totale con l'intento di diventare una star, una ragazza i cui suoi sogni sono destinati a naufragare in una vita d'indigenza e situazioni surreali. Il resto sono lunghe strofe dal valore immaginifico, vaghe e ridondanti allegorie, in un minestrone di archetipi e cliché il cui intento non è tanto avere un senso particolarmente ricercato, ma quello di trasformare le parole in pura musicalità, e la voce in strumento sopraffino, nel più vero spirito di ciò che fu il rock e prima di esso il blues. Lo straziato parossismo di quest'ultimo, decostruito e dissacrato dalla leggerezza del primo. Sta tutto qui, in questo bel pezzo che dal vivo deve fare la sua porca figura.
When She Will Come
Si è detto che quest'album ruota attorno al concetto di morte: un'affermazione che a questo punto lascerà interdetti. Ma Come? Ritmiche vitali, chitarre e voci quasi sempre scanzonate, testi tutto sommato leggeri. Quindi? Quindi, è proprio quest'apparente leggerezza che lega l'opera alla Morte, proprio la sua vitalità. Niente pompose e sepolcrali allegorie: celebrazioni e sepolcri sono cose che fanno i vivi. La morte è nella vita, in tutte le sue piccole disavventure e negli amori, nelle separazioni, nelle speranze e nelle delusioni, inevitabile traguardo di piccole vite come tante altre. Tutto questo è definitivamente messo nero su bianco sul pezzo che chiude - solo idealmente - l'opera dei Blue Cash: la title track, When She Will Come (Quando Lei Verrà). Lei, ovviamente, è la morte. In un certo senso, la canzone di Jenny era una sorta di metafora e preludio al tempo stesso, anticipo di questo finale che raccoglie a sé tutte le storie precedenti; o quantomeno, la loro essenza. Quale che sia stata la nostra strada, i nostri sogni o le nostre illusioni, infatti, Lei è lì ad aspettarci, e non c'è ruolo sociale che conti, perché per lei, ladro o santo non fa differenza. L'amore è una dolce trappola, e non serve correre o redimersi di fronte alla morte, ma abbandonarsi a questa consapevolezza è in qualche modo estasiante. Il brano muove su delicate ritmiche di spazzola e arpeggi sognanti, su bassi che incedono a suon di marcetta. Una voce più calda del solito, stavolta priva dei consueti interventi corali, intesse una cantilena dai tratti fiabeschi e vagamente malinconici, pur nelle sfumature di cocente vitalità che delineano l'insieme. Il brano accelera e decelera costantemente, in linea con gli umori del suo testo, sfociando in un finale del tutto inaspettato: distorsioni psichedeliche, accompagnate da un sitar, formano armonie orientali e nordafricane, in quello che pare un omaggio alle derive sessantiane del pop e del rock. Sembrano le sperimentazioni su cui indugiavano i Beatles o più in là i Led Zeppelin (e tanti altri, allora), o le ultime cose di Robert Plant... dunque non posso non apprezzare! La conclusione ritorna sugli arpeggi sognanti e la voce melliflua, ma l'insieme è più intenso e corposo, come a voler sottolineare il pathos su cui sfuma la coda di "When She Will Come".
Outro: The Devil & Death
Outro: The Devil & Death (Il Diavolo e Morte) chiude concettualmente l'intera opera, tornando a quella conversazione telefonica tra la Morte e il Maligno. Stavolta è la Morte a chiamare il Diavolo, che chiede, dopo tutto questo parlare: li salveremo? E lui: "fammi un po' capire bene... stiamo ancora parlando dei Blue Cash?".
Maledetti Cash
Titolo in italiano, l'unico di tutto l'album, per l'ultima traccia di When She Will Come: Maledetti Cash. Si usa a volte esclamare "maledetti soldi!", ma in questo caso l'autoironico titolo ha tutt'altro significato. L'opera, in realtà, era idealmente conclusa con la sua title track, più che esaustiva sia sotto il profilo poetico che stilistico, in un insieme perfettamente incorniciato fra intro e outro; tuttavia, questa sorta di traccia bonus è esattamente ciò di cui ancora si sentiva la mancanza: una strumentale folle e sopra le righe, carica di effetti e distorsioni, eccellente proprio perché disimpegnata sul piano concettuale. Tutto il gioco pesa sulla sinergia tra chitarre e sezione ritmica, impreziosita da un tripudio infernale dalle più disparate sonorità. Distorsioni chitarristiche corrono su di una batteria bombastica, decisamente settantiana e decisamente hard rock, mentre fischi dissonanti lacerano l'aria e il basso incede in un groove bello cattivo, insolitamente rimarcato da sofisticherie quasi invisibili eppure fondamentali, senza per questo far perdere all'insieme la sua grezza e lucida energia. Neanche tre minuti di geniale sfogo creativo. Per quelli che sono i miei gusti, questa potrebbe essere la traccia migliore del disco, ma in realtà per i Blue Cash non è altro che un divertito e divertente uscire un po' dai consueti canoni, andando così a chiudere definitivamente un album davvero completo.
Conclusioni
A un anno di distanza dalla sua nascita, possiamo dire con lucidità e sicurezza che When She Will Come è un album solido e divertente, un campionario di buona musica e di performance non solo piuttosto professionali, ma anche onestamente sentite. Quello che banalmente colpisce chi, come me, ha sempre avuto a che fare con l'universo hard rock, è l'estrazione artistica della band: quasi tutti provenienti da maestri d'eccezione e studi al conservatorio, elemento che offre all'opera una solidità d'intenti e di stili non comune, ma che potrebbe per così dire... irrigidire il risultato in un manierismo tutto sommato asettico. Invece, l'attitudine stradaiola e scapigliata dei Blue Cash offre all'album la ruvidezza di cui ha bisogno, nonché la necessaria inclinazione poetica, offrendo all'ascoltatore un prodotto insieme raffinato ma fresco, mai retorico o pedante, spesso e volentieri perfino potente nei suoi guizzi più estremi. In questo, le diversissime esperienze dei singoli membri del gruppo devono aver giocato un ruolo fondamentale. Il nome di Johnny Cash riecheggia non tanto fra le note, quanto soprattutto nello spirito, ma il bagaglio culturale e stilistico è ampio e vasto, non solo americano e non solo classico, cosa che fa dello stile dei nostri qualcosa di peculiare e a tratti spiazzante, per non usare una parola quasi impossibile al giorno d'oggi: originale. Chiaro, l'elenco dei singoli influssi delinea comunque un'opera fortemente derivativa, sia stilisticamente che culturalmente, per non dire poeticamente, ma l'insieme di questi stili mette in scena qualcosa che porta il nome dei Blue Cash e di nessun altro... e non è cosa da poco. Un altro aspetto che colpisce, pur se inquadrabile in stilemi collaudati e classicisti, è proprio quello inerente i testi: la band costruisce una poetica dotata di un suo peculiare background immaginifico e filosofico, di suoi personaggi e di sue situazioni, tutte diverse ma in qualche modo tutte sulla stessa frequenza d'onda, squisitamente derivativa d'una scuola che fu a sua volta debitrice di canti primitivi e straziati, sonorità dal sapore nero che facevano della forma puro contenuto. Ma in questo puzzle d'intrecci culturali e stilistici, tutti di matrice rigorosamente anglo-americana, s'inserisce qualcosa di sottilmente italiano, una delicatezza e soprattutto un cinico disincanto che c'appartiene, assolutamente sconosciuto tanto alla rigida positività dell'american way, quanto al magniloquente intimismo dei cantori d'oltreoceano. È quest'approccio ibrido, voluto o incidentale che sia, ad avermi affascinato, perché è tutt'altro che fisiologico che una band italiana ponga il suo background su di un bagaglio fondamentalmente americano, andando ancora una volta un gradino oltre il mero manierismo. Nonostante tutto, però, cinismo e disincanto non ci impediscono di fare il tifo per i protagonisti dei brani, di far nostri i loro sogni e di crederci quanto loro, nonostante le difficoltà e le miserie; una vitalità che cela l'altra faccia della medaglia, la Morte, leitmotiv dell'opera che i Blue Cash affrontano senza vergogna né paura, perché la Mietitrice, demonizzata nella nostra cultura quasi fosse un danno collaterale, è ciò che permette ad avventure e disavventure di chiamarsi Vita, e gioia, e riscatto. Un risultato poetico, nella sua semplicità compositiva, figlio del bagaglio di ogni singolo musicista coinvolto, e proprio per questo genuino e convincente. A fare da sfondo a questo mondo e alle sue storie, un patrimonio che passa per Elvis e i Beatles, tra vecchio blues e punk, accarezzando l'intimismo di Neil Young e l'art rock del Duca Bianco, arrivando all'alternative rock e al grunge per tornare - inevitabilmente - a Johnny Cash e le sue visioni. Che sia per motivazioni pratiche o artistiche, o per un insieme delle due cose, quest'ampio background si esprime in soluzioni completamente acustiche, rinforzate tuttavia da frequenti exploit elettronici e rumorosi, carichi d'influenze ancora più stratificate e sfuggenti. Sono proprio questi momenti sopra le righe a rendere "When She Will Come" qualcosa di più, che non un buon disco di bravi musicisti, e credo sarà interessante vedere come i Blue Cash tratteranno tale propensione in futuro, se mettendola da parte o se, come spero, codificandola definitivamente all'interno del sound del gruppo, col non facile presupposto di mantenere un sostanziale equilibrio. E sempre a tal proposito, penso sarebbe interessante ascoltare un repertorio come il loro in italiano, possibilità non semplice da concretizzare ma ricchissima di possibilità, e soprattutto di possibili spunti inediti. Insomma, When She Will Come è un album assai godibile e scanzonato ma capace, a tratti, di uscire dai confini del semplice intrattenimento per offrire piccoli accenni di pura genialità, caratterizzato da una poetica efficace e personale e da interpretazioni talentuose... ma non è il disco di una band già arrivata. Né tantomeno di artisti all'apice delle loro possibilità. Ed è un bene, sia chiaro, perché la qualità più grande di quest'album è di alzare l'asticella della curiosità e di farci porre una domanda fondamentale: cosa verrà fuori dai Blue Cash, in futuro?
2) The End
3) Junkie Man
4) Do It for Nothing
5) Stay With Me
6) King of Nothing
7) Message to a Friend
8) The Gift
9) Jenny Doin' the Rock
10) When She Will Come
11) Outro: The Devil & Death
12) Maledetti Cash