BLIND GUARDIAN

Beyond the Red Mirror

2015 - Nuclear Blast

A CURA DI
CRISTIANO MORGIA
24/11/2018
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Passano gli anni ma i Blind Guardian restano sempre sulla cresta dell'onda e riescono sempre a far parlare di loro. Questo nonostante nel loro percorso evolutivo qualche fan di lunga data abbia deciso di abbandonarli, deluso dai troppi cambiamenti e dalla non indifferente stratificazione sonora di cui abbiamo ampliamente parlato anche nelle altre recensioni. I cambiamenti però non hanno impedito ai Bardi di Krefeld di restare una band di punta del panorama Metal, e non solo dell'ambiente Power, visto che da un certo punto risulta difficile e riduttivo confinare i tedeschi solo in quel genere. In ogni caso, è anche vero che da "A Twist In The Myth" (2006) abbiamo assistito ad un parziale alleggerimento sonoro e ad un parziale ritorno alle origini che è poi continuato, forse anche in maniera più evidente, con "At The Edge Of Time" (2010). Dico parziale perché nei due album non mancano episodi più complessi, più sperimentali o addirittura dall'evidente piglio sinfonico - come accade per le tracce d'apertura e chiusura dell'album del 2010. Come sarà, quindi, questo "Beyond The Red Mirror"? Inutile dire che prima di ogni uscita legata ai Bardi c'è sempre tanta curiosità a cui seguono vari dibattiti e speculazioni su come suonerà l'album: sarà un album maggiormente sinfonico? Sarà un album vecchio stile? Sarà un album sperimentale? Con Hansi e soci non si sa mai cosa aspettarsi, e questa non può che essere una cosa positiva, in quanto è anche così che una band si mantiene attiva, anche nella memoria degli ascoltatori. In ogni caso, diciamo subito che siamo davanti ad un concept album che affonda le sue radici in "Imaginations From The Other Side" (1995). Perché così lontano? Perché in quell'album c'erano due canzoni collegate tra loro che già offrivano una sorta di mini concept e quindi Hansi ha deciso di dare loro un continuo con un album intero. Sto parlando di "Bright Eyes" e "And Story Ends". Le canzoni parlavano di un bambino solitario che viveva in un ambiente privo d'amore e condito anzi da un rapporto conflittuale con i genitori. Una situazione insopportabile che faceva sperare al bambino di scappare lontano e gettarsi dentro allo specchio, il quale sembra proprio chiamarlo a sé per trasportarlo in un mondo ignoto. Ebbene quello stesso bambino ora è cresciuto, sono passati ben 20 anni da "Imaginations", ma la storia è tutt'altro che finita. Molti pensavano che, viste le premesse, l'album sarebbe stato un vero e proprio ritorno alle origini e al sound degli anni '90. Niente di più sbagliato. Chiunque sia partito con queste aspettative ha sicuramente subito una delusione, anche abbastanza cocente direi, visto che il lavoro è quanto di più pomposo e articolato mai fatto dai Blind Guardian, forse anche più del tanto discusso "A Night At The Opera" (2002). Quindi il ritorno alle origini è rimandato a tempo indeterminato. In realtà, per non avere aspettative sbagliate, bastava non pensare al capolavoro del 1995 e soprattutto prestare ascolto alle dichiarazioni della band, che parlavano addirittura di due orchestre (Budapest e Praga) e di tre cori (Boston, Budapest e Praga). Un chiaro indizio! Va però detto che avrebbe sbagliato anche chi si aspettava un album totalmente sinfonico, visto che, come sempre, non mancano tracce più snelle e più Power Metal in senso lato, anzi, a dirla tutta l'album è davvero vario e pieno di sfumature diverse, non c'è una canzone uguale all'altra e ogni pezzo ha le sue particolarità, anche per seguire il filo del concept. Filo del concept che in realtà risulta davvero difficile da seguire, sia perché la trama è abbastanza complicata, sia perché i testi di Hansi risultano molto criptici e purtroppo confusionari, e quindi non aiutano molto nella comprensione di ciò che sta avvenendo. Neanche il racchiudere la tracklist in delle sezioni più piccole è molto d'aiuto. Cercherò comunque di darvi delle linee guida generali, anche perché dopo più di tre anni neanche io sono riuscito a capire tutto. Come dicevamo, il bambino, che si chiama Arthur (Il Prescelto), ora è cresciuto e si trova nuovamente davanti alla scelta  di vent'anni prima, ovvero se saltare nello specchio o no. Ci sono vari problemi però, dall'altra parte dello spazio c'è Camlann (la Terra Promessa), che è un mondo governato da un dittatore malvagio chiamato Mordred (Il Caduto), che ha bandito ogni sorta di culto o religione e con essi addirittura le divinità (che lì erano forse rappresentate dai Nove). Faccio notare che Hansi usa molti elementi che fanno direttamente o indirettamente parte della nostra cultura, quali appunto nomi come Arthur e Mordred, il crepuscolo degli dèi, il Graal, Cesare e così via, quasi a creare un complesso affresco mitico in cui ogni elemento e/o nome corrisponde a determinate caratteristiche che noi (soprattutto europei) già conosciamo. Nonostante questo, però, il concept resta lo stesso oscuro in molte parti, e anzi, le nostre conoscenze pregresse sembrano quasi accompagnate da ulteriori sforzi che cercano di far combaciare quelle con il concept. In ogni caso, vedremo meglio il resto della storia con lo scorrere delle canzoni, quindi invece di tuffarci nello Specchio Rosso, tuffiamoci nel track-by-track.

The Ninth Wave

Imponenti cori sacrali al sapor di "Carmina Burana" aprono "The Ninth Wave" (La Nona Onda), con la quale ci troviamo subito davanti a uno dei due pezzi più lunghi dell'album. L'atmosfera è davvero bella, in quanto i cori sono solitari e solenni, accompagnati soltanto da lente percussioni e da degli archi che appaiono in sottofondo, ma si fa ancora più bella mano a mano che i toni si innalzano e anche delle voci femminili si uniscono al coro, rendendolo ancora più affascinante. Gli archi, che all'inizio erano timidi in sottofondo, ora si fanno sentire di più, rendendo il tutto più maestoso e trionfante. Improvvisamente, però, la maestosità si stempera e sono i cori stessi a finire in sottofondo con un tappeto vocale disteso ed avvolgente sul quale si adagiano le percussioni particolari di Ehmke e suoni elettronici che potrebbero lasciare un po' perplessi. Ormai siamo entrati nel vivo, e lo capiamo quando intervengono i riff cadenzati, la voce di Hansi con le sue sovraincisioni vocali. L'atmosfera  ora è cupa e misteriosa, i suoni elettronici poi le danno un vago tocco fantascientifico, e in un attimo ci ritroviamo in un altro mondo che non conosciamo ed esploriamo a tastoni, proprio come il brano procede quasi cauto e sinistro, sorretto dai riff densi e gravi del duo Olbrich/Siepen. Già fin qui abbiamo visto molte cose abbastanza atipiche per la band, dai cori iniziali ai suoni elettronici, ma anche il suono delle chitarre, che è più denso e meno tagliente del solito. C'è però un'altra cosa che salta subito all'orecchio: la produzione. Se eccettuiamo la bella sensazione e pulizia data proprio dai cori iniziali, il resto del brano sembra spento, come se i suoni fossero ovattati e non riuscissero ad emergere bene, e le chitarre e la batteria ne risentono molto. In ogni caso, l'incedere guardingo lascia subito il posto ad un ritornello che, anch'esso, è abbastanza strano per la band, in quanto è molto solare, acuto e pomposo, quasi "happy" con le sue linee vocali positive e ariose; molto lontano quindi dall'essere epico o battagliero, ma comunque abbastanza gradevole. Dopodiché, però, la canzone torna ad avere quel retrogusto misterioso, ed è ancora più marcato se leggiamo i versi: "Burn them all, bring the damned/ There's a price to pay/ Burn them all, bring the damned/ Do as I command/ Our praise and triumph will grow/ We'll defy the Nine/ Delete the dying old Crow". Il brano infatti fa parte della prima sezione del concept, intitolata "I. The Cleansing Of The Promised Land", e ci narra dell'ascesa del Caduto e della cacciata dei Nove, guidati dal Corvo. La voce di Hansi infatti è bassa e roca, quasi minacciosa, ma i cori con cui dialoga sono invece puliti e acuti e contrastano con la sua prestazione. L'incedere del brano però sembra meno fluido rispetto a quanto i Bardi ci hanno abituato, sembra più macchinoso e stanco, ma è la canzone stessa a non essere scoppiettante e variegata come altri brani, spesso conditi da cori che al primo ascolto si stampano in testa. Ciò si evince soprattutto dalle chitarre, forse mai state così statiche. Tuttavia, il ritornello riesce a rendersi punto focale e a fare da punto fermo, inoltre, piano piano, riesce ad entrare nella nostra testa e ad essere orecchiabile. Una lieve accelerazione arriva poco dopo la metà del pezzo, e possiamo anche apprezzare un classico assolo di Olbrich  su doppia traccia, che è sempre riconoscibilissimo. Peccato per la produzione spompata che non ci fa godere appieno dell'accelerazione. Comunque, nella Terra Promessa molte cose stanno succedendo, degli eventi epocali che la cambieranno per sempre: il Caduto Mordred infatti sta salendo al potere ed è pronto a cancellare ogni culto e religione dal suo mondo, credendo così di liberare la sua gente da ogni speranza, vera o fasulla che sia, per renderli liberi. Per fare questo però deve cacciare i Nove, che sono delle entità viste proprio come divinità e che quindi saranno le prime ad essere cacciate; 6 di queste fuggiranno, mentre 3 si dissolveranno nell'aria. Il brano ha il pregio di alternare momenti speranzosi - come quelli del ritornello - a momenti più cupi che nascondono sentimenti minacciosi e negativi - quasi tutte le strofe. Sembra quasi di vedere il popolo acclamare il nuovo venuto e le sue promesse mentre lo stesso non vede l'ora di acquisire tutto il potere e far fuori i concorrenti: "There is no real salvation/ We will wipe them out/ And nothing remains here/ As we don't need salvation". Inoltre si potrebbe quasi azzardare l'ipotesi che Hansi impersona Mordred mentre i cori i Nove, il che renderebbe il tutto ancora più teatrale. Ciò che è certo è che la Nona Onda (ovvero la fine di un ciclo, un cambiamento epocale) sta per arrivare, ed i cori posti in chiusura sembrano proprio sigillare questa sensazione, a metà tra il maestoso ed il sommesso.

Twilight of the Gods

Al termine dell'opener potremmo sentirci confusi e spaesati, ma "Twilight of the Gods" (Il Crepuscolo degli Dei) è un pezzo decisamente più diretto ed anche più corto: in effetti è il primo dei soli due pezzi che non superano i 5 minuti. Già dal riff iniziale e dalla cavalcata che ne segue capiamo che siamo davanti ad un brano abbastanza tradizionale, con chitarre e batteria sugli scudi. Non appena Hansi comincia a cantare però, non disdegnando note più acute, la velocità diminuisce e il tempo si fa più ritmato, dandoci la possibilità di ascoltare meglio i fraseggi delle chitarre ritmiche e di rilassare un po' la mente dopo i 9 minuti e mezzo da poco trascorsi; questo anche perché la struttura del brano è abbastanza classica e lineare, senza troppi stravolgimenti e senza troppi cambi di tempo. Il ritornello stranamente arriva all'improvviso, quasi inaspettatamente a dir la verità, dandoci la sensazione che un bridge prima di esso avrebbe reso il passaggio meno brusco. Tuttavia si fa subito notare per la sua orecchiabilità ed accessibilità, grazie ai cori ariosi e distesi che stilisticamente non sono molto diversi da quelli della traccia precedente. Siamo ancora in mezzo agli avvenimenti che porteranno Mordred sul trono, e riusciamo ad udire un altro nome chiave, ovvero quello di Discordia, che forse è un altro nome per Camlann. Un nome che non lascia presagire un futuro roseo. Come vi avevo accennato, il Caduto vuole mettere in atto una campagna per bandire ogni tipo di culto e divinità, da qui quindi il titolo, che è un chiaro rimando all'opera di Wagner. In realtà tutto il concept è pieno di riferimenti alla cultura occidentale, come si sarà anche capito leggendo il nome proprio del Caduto. In ogni caso, il ritornello sembra proprio descrivere la cacciata dei Nove: "Witness the twilight of the gods/ Will they ever return/ A storm will take us/ And then wipe us out/ There's no retreat". Le strofe successive si fanno leggermente più aggressive ma restano sempre melodiche e ritmate, piuttosto ricche di linee vocali (spesso anche corali) catchy e funzionanti, come per simboleggiare l'atmosfera nervosa e preoccupata che si respira nella terra oltre lo specchio, soprattutto ora che ci sono questi cambiamenti epocali in atto, mista però ad una certa curiosità per ciò che verrà. Mordred, inoltre, non sta di certo a guardare, e anzi, invita tutti a lasciarsi andare alla novità e al cambiamento, con una certa abilità politica: "Now get up/ Lay down your ancient faith/ We're the chosen ones/ Come feel the change". Vero metà pezzo parte anche l'assolo, che come ci si poteva aspettare sa molto di vecchio stile, con tanto di distorsioni wah wah, molto care ad Olbrich, come sa benissimo chi conosce il suo stile. Dopodiché il brano si rimette sui binari iniziali e vi resta fino alla fine, senza proporre nulla di nuovo ma riproponendo anzi il ritornello, che a questo punto abbiamo già imparato a riconoscere. Non è un caso infatti che questa traccia sia stata usata proprio come singolo di lancio, visto che è una delle più semplici da seguire e anche da ricordare.

Prophecies

Un inizio soffuso dà il via alla terza traccia e al primo pezzo della seconda mini sezione dell'album. La traccia si intitola "Prophecies" (Profezie), la sezione "II. The Awakening". La voce di Hansi va di pari passo con gli accordi leggeri, facendoci subito pensare ad una ballata o qualcosa di simile, ma già dalla seconda strofa intervengono la batteria e i riff a rendere il tutto più roccioso e possente, abbellito anche da dei cori davvero ben fatti. Da questo momento le ritmiche si assestano su quelle tipiche di un mid-tempo, ma non di uno qualsiasi, bensì di un tipico mid-tempo dei Bardi, sulla scia di una "Otherland" (2006) magari; quindi sì dettato da tempi cadenzati, ma anche impreziosito dalla sempre guizzante chitarra di Olbrich - che danza intorno a quella ritmica di Siepen - e le ottime backing vocals, le quali hanno un retrogusto glorioso in un'atmosfera abbastanza cupa e misteriosa. Ci muoviamo tra due mondi, tra quello del protagonista (Arthur) e Camlann, ma del primo ancora non sappiamo niente. Non viene descritto e neanche citato, ma leggendo le liriche capiamo come, secondo una profezia, un re debba arrivare e magari sistemare il caos creato da Mordred. Il ritornello è senza alcun dubbio uno dei migliori di tutto l'album e sicuramente il primo vero punto alto dell'album: la batteria non accelera, resta salda e ben piazzata, ma forse si rende ancor più rocciosa, mentre Olbrich compie le sue tipiche evoluzioni fluide intorno ad una struttura solida e Hansi si rende protagonista con linee vocali ariose davvero belle e memorabili, abbellite ancor più dai cori, senza i quali non sarebbe di certo la stessa cosa. Queste riprendono un po' l'umore generale del brano e anche dell'album qui, essendo trionfanti e speranzose ma in un modo sommesso. I Nove sono ancora vivi, non tutti purtroppo, ma si preparano per il ritorno e per spianare la strada al Prescelto: "Now, as we speak/ There's a way/ There's a door/ Come find us/ And join us/ Come see it and feel it". È chiaro che qui le liriche si riferiscano proprio ad Arthur, è lui che deve attraversare la porta (lo specchio) e andare a trovare chi lo chiama. A questo punto, con una gradevolissima accelerazione, possiamo quasi vedere il suo volto che appare curioso ma incerto dall'altra parte dello specchio, i Nove forse sono andati addirittura a trovarlo e lo invitano a seguirli, comprendendo però lo spaesamento che un invito del genere può procurare. Anzi, qui forse c'è anche la voce di Arthur, che comincia quindi ad entrare nel vivo (e nello specchio): "Doors in and out/ You shall be falling/ Your mind's still trapped in twilight/ Now, catch a glimpse/ Shall I get through". Il ritornello celebra questo momento e conferma ancora una volta la sua bellezza. Dopodiché Ehmke abbandona per un momento le ritmiche cadenzate per fornire un tappeto più veloce sul quale André può adagiarsi con la sua 6-corde ed il suo puntualissimo assolo. Avvicinandoci agli ultimissimi minuti potremmo pensare che il pezzo si chiuderà come quello precedente, ovvero con un classico finale privo di troppe sorprese, ma in realtà la band ci regala una delle code più belle della loro carriera, in cui i cori prendono il sopravvento su ogni altra cosa! Sovrastano la batteria, la chitarra e anche Hansi stesso, che ne viene risucchiato e sembra sparire tra le pieghe della marcia corale che chiude questo sicuro giovane classico.

At the Edge of Time

"At the Edge of Time" (Ai Confini del Tempo) prosegue il discorso iniziato con questa seconda sezione dell'album. Attenzione però, il titolo non è un rimando all'album precedente, bensì al testo di "And the Story Ends", contenuta come tutti sappiamo in "Imaginations?" e brano da cui parte l'intero concept. Nonostante questo, però, la canzone è quanto di più lontano ci possa essere dallo stile dell'album del 95, essendo invece una delle canzoni più pompose e di difficile assimilazione dell'album. L'inizio ci offre subito un indizio, visto che non sentiamo né chitarre né batteria, ma degli evanescenti suoni orchestrali a cui solo dopo in seguito si uniscono gli strumenti della band e la calma e bassa voce di Hansi. Il cantante ora impersona proprio Arthur, del quale possiamo finalmente udire i pensieri e i dubbi relativi a ciò che gli è apparso nello specchio, e l'atmosfera del brano, cupa e guardinga, sembra proprio riflettere quest'ansia. Non capita tutti i giorni di parlare con delle entità che escono da uno specchio e ti chiedono di andare nel loro mondo per salvarlo, ma è anche vero che ad Arthur una cosa del genere è già capitata 20 anni prima, ma all'epoca non colpì il balzo. Ora invece i tempi potrebbero essere maturi! A questo punto i cori vengono in aiuto di Hansi e tutti gli strumenti innalzano i toni, rendendo il tutto più positivo e meno dubbioso, anzi, sicuramente più deciso e con tanta voglia di fare, come si legge anche dalle liriche: "Who'll grant me wings to fly?/ And will I have another try? 'Cause I would not miss my moment again/ Yes, I would not miss my moment my friend". Arthur sembra proprio essere pronto stavolta, non ripeterà lo stesso errore. Piano piano la canzone acquista una certa ritmicità per niente scontata, ma l'elemento che si fa sempre più presente è l'orchestra, la quale accompagna delle linee vocali tutt'altro che semplici da seguire, anzi, durante i primissimi ascolti il rischio di perdersi è alto. Fortunatamente c'è sempre un ritornello a fare da collante. Anche in questo caso siamo davanti ad un refrain molto pulito e dalle tinte solari che risulta parecchio pomposo e quasi da musical, anche grazie al tappeto sinfonico che lo avvolge. Arthur è quindi più che mai pronto a seguire i Nove, e nel frattempo ci parla anche di altri aspetti del concept che però risultano molto sibillini e di difficile comprensione, così come risulta difficile da seguire l'andamento del pezzo, che sembra gonfiarsi e sgonfiarsi come le fiamme di un fuoco guidate da un vento incerto. Per lo meno durante i primi ascolti, perché ad un ascolto più approfondito tutto acquista un senso, ma è chiaro che la band abbia raggiunto un nuovo livello di scrittura e composizione, anche più articolato e Progressive rispetto a quello di "A Night at the Opera"; il che può piacere o meno, ma è un dettaglio non da poco che va notato e potrebbe dirci qualcosa sul futuro dei Bardi. Per esempio, anche l'assolo di Olbrich suona molto diverso dal suo tipico stile, in quanto è molto più calmo e rilassato e scevro dalle repentine accelerazioni che ci potremmo aspettare, ma potrebbe tranquillamente essere una scelta stilistica dettata dallo stile generale del pezzo, che infatti si mantiene sempre su tempi cadenzati e quasi da marcia trionfale fino alla fine. È proprio nel finale che l'andamento si fa ancora più maestoso e pomposo, con i cori che accompagnano l'orchestra e la volontà del prescelto di lanciarsi nello specchio per far cadere il tiranno e permettere il ritorno dei Nove: "I don't look back/ There's more in me/ My hour shall come/ The old gods are calling/ Then straight ahead/ A door appears/ The tyrant must go down/ That's when the ancient gods return/ They will return".

Ashes of Eternity

A questo punto una nuova sezione, intitolata "III. Disturbance in the Here and Now" si apre, e lo fa con il brano "Ashes of Eternity" (Ceneri d'Eternità). Le chitarre iniziali sono ruggenti al punto giusto e spazzano via in un attimo le roboanti sinfonie della traccia precedente, la batteria però non si abbandona subito alla cavalcata ma detta ritmiche non troppo complicate ma neanche scontate. Quel che è certo è che la canzone sembra riportarci verso lidi più tradizionali, per lo meno stilisticamente, perché in realtà questa è una di quelle che ho fatto più fatica a memorizzare, anche perché il testo è davvero criptico e non offre molte aperture. In ogni caso, la canzone è davvero più tradizionale rispetto alla precedente, infatti sono i riff a farla da padrone, riff che, insieme a dei cori molto alla Queen, accompagnano Hansi e le sue linee vocali non sempre catchy. Quand'è così, di solito, i Bardi piazzano comunque un ritornello importante per tenere tutto concentrato e saldo, anche quelle strofe che magari sembrano volare via e staccarsi dal contesto, ma qui il refrain stesso fatica un po' ad entrare in testa, sia per un Hansi non molto convinto, sia per dei cori che suonano molto solari, acuti e puliti, sia per delle linee vocali che, come detto prima, non risultano molto orecchiabili ad un primo ascolto, anzi, richiedono quasi uno sforzo per essere memorizzate. In tutto ciò Hansi piazza dei riferimenti alla cultura occidentale come "Caesar", "the ides of March" e "the holy grail", che non fanno che rendere il testo ancora più complicato da seguire, visto che non è molto il chiaro perché si parli di Cesare o del Santo Graal. Sono forse soltanto delle allegorie? Difficile dirlo. Fatto sta che, poco dopo il ritornello e poco dopo aver citato Cesare, c'è uno dei momenti più belli del brano, un momento in cui la batteria e i riff rallentano il tiro e si fanno più tenui, e qui sì che le linee vocali sono piacevoli e scorrevoli, molto ariose e quasi sognanti. Peccato che il momento non si ripeterà, ma magari è anche questo il bello: "Then from the ashes of eternity/ A new spirit will rise/ A new order shall take over". Va però detto che risentire per bene le chitarre, al di là dei problemi di produzione, è una cosa che ci fa piacere, e piano piano riusciamo ad apprezzare la traccia nonostante la sua complessità. L'assolo in effetti ci fa nuovamente apprezzare un André Olbrich più scatenato ed alle prese con scale veloci. Un altro bel momento c'è quando, non molto lontani dal finale, i cori, le linee vocali e l'incedere del pezzo si fanno più decisi e robusti, come per sottolineare il fatto che Camlann è sempre in una situazione difficile e bisogna fare qualcosa per migliorarla e bisogna farlo in fretta. Il ritornello però riporta una certa serenità e spazza via i fumi del caos, trasportandoci verso gli ultimissimi momenti del pezzo, dove le percussioni sono molto vitali, frizzanti e hanno un che di etnico, e i cori sono ancora una volta al fianco di Hansi sempre in falsetto e quindi su tonalità alte e pulite. Se dovessi indicare una canzone in cui manca la fluidità e l'alternarsi dei vari momenti non sempre funziona al meglio, penso che indicherei proprio questa. Non un brutto pezzo, ma forse un po' caotico, anche se all'apparenza sembra un brano vecchio stile.

The Holy Grail

A questo punto abbiamo uno dei punti più alti del disco, un brano che è vecchio stile fino in fondo. Sto parlando di "The Holy Grail" (Il Santo Graal), che riprende la sezione appena conclusa. Dico riprende perché nell'edizione limitata del CD tra le due c'è una bonus track, che però è a tutti gli effetti parte integrante del concept. I riff serrati e le ritmiche medio-veloci ci fanno subito capire che anche questo brano sarà più asciutto ed arrembante, e ne abbiamo la conferma non appena la canzone accelera ancora di più e le linee vocali di Hansi si fanno più rabbiose, coadiuvate da backing vocals semplici e battagliere che entrano ed escono dalle partiture. I versi si susseguono e le strofe si alternano portando ognuna una piccola diversità: da quella in cui i cori sono più decisi a quella in cui sono più ariosi. Proprio come i Bardi ci hanno abituato insomma, ma a differenza della canzone precedente qui tutto sembra scorrere benissimo ed è facile da seguire, anche perché il ritornello funziona alla grande! I tempi rallentano e permettono ad Hansi di suonare imperioso ed imponente, così come i cori suonano trionfali ed epici, tanto da farci venire voglia di alzare il pugno al cielo e cantare, anche al primissimo ascolto magari. Come se non bastasse si sentono anche delle campane in sottofondo, che rendono il tutto ancora più enfatico e addirittura sacrale. Insomma, un ritornello che emoziona dal primo istante e ricorda molto da vicino i Blind Guardian degli anni '90: "There on the battlefield she sings/ Praise, hallelujah/ The Holy Grail's on its way now". Ancora una volta troviamo il Graal, ma ancora una volta non si riesce a capire quale sia il suo ruolo all'interno della storia, ed è un peccato, perché arrivati praticamente a metà album si ha l'impressione che il concept ci scivoli via dalle mani, non spiegandoci bene chi sia il protagonista del brano. È Arthur che deve recuperare il Graal? Oppure uno dei Nove? I vaghi riferimenti biblici poi complicano ancora di più la situazione. Quel che però è tutt'altro che complicato è l'incedere della canzone, sempre roccioso e veloce, una vera e propria cavalcata potente ed epica che travolge tutto e tutto, soprattutto quando intervengono anche i cori e le linee vocali si incastonano tra di loro così fluidamente; senza dimenticarci delle chitarre, che purtroppo non si sentono sempre perfettamente ma fanno il loro lavoro: Siepen con riff inarrestabili, Olbrich con le sue melodie che serpeggiano intorno alla chitarra del collega. C'è poco da fare però, la vera punta di diamante di tutta la traccia è il ritornello, a cui segue sempre un assolo dello stesso Olbrich. Quello situato poco dopo la metà del brano poi è davvero ben fatto e anch'esso strizza l'occhio alle sonorità più classiche della band, suonando quindi dannatamente riuscito. Siamo quindi ora nei minuti finali, e sembra non esserci più niente di nuovo, ma Hansi e soci sanno sempre come inserire un qualche elemento, anche piccolo, che cambia le carte in tavola e sorprende, come la strofa prima dell'ultimo ritornello. Il suo testo ci parla di fiume Stige, di Ade, di Sheol (il regno dei morti nell'Antico Testamento), ma la musica non suona negativa o mortale, anzi, all'inizio è tutto molto melodico, ma improvvisamente tutto scorre repentinamente e con grande potenza, dando risalto ai soliti cori arrembanti ed energici, i quali sembrano inserire un riferimento all'opener: "Wake the witch, who'll be the brave one?/ Don't say what he's like/ Full of voices comes the ninth wave/ Don't say what it's like/ Beyond the door". La canzone, in assoluto una delle migliori dell'album, si chiude con le stesse ritmiche che l'avevano aperta, lasciandoci dentro una gran bella soddisfazione.

The Throne

Se già i primi secondi della traccia precedente ci avevano fatto capire quale sarebbe stato il duro e potente prosieguo della canzone, qui gli stessi affiancati dai fiati e dall'orchestra ci fanno capire che forse siamo davanti ad un altro lungo brano pomposo e maestoso. Sono infatti proprio sinfonie imponenti e cinematografiche ad aprire i quasi 8 minuti di "The Throne" (Il Trono), facente parte della sezione "VI. The Descending of the Nine" (è la sesta perché la quarta appartiene la bonus track). A differenza della canzone di prima, dove non era chiaro né il contesto né il luogo dello svolgimento, qui è chiaro che siamo tornati a Camlann, ed è chiaro che il nuovo regno instaurato da Mordred sta sollevando dissensi e ribellioni, come testimonia l'eloquente prima strofa, dove si parla anche di un Re venturo che dovrà ristabilire l'ordine: "Get him off the throne/ Moreover he's not in control no longer/ The King will come, it's over/ The game goes on". Sicuramente si tratta di Arthur, che a quanto pare è ancora nel suo mondo, ancora indeciso se saltare definitivamente nello specchio o no. Fatto sta che le genti della Terra Promessa, al contrario, sono sicure che il salto avverrà, tant'è che l'incedere del brano è molto rilassato e positivo. I tempi sono abbastanza lenti, e Hansi canta senza sforzarsi troppo, narrando cautamente di quest'attesa; le orchestrazioni ed i cori sembrano quasi essere spariti, ma ecco che a tratti ritornano come lingue di fuoco che sferzano velocissimamente e poi tornano indietro tra le braci, in attesa di colpire ancora. Il pre-chorus però li riporta direttamente in auge e vediamo il fuoco anche avanza inesorabilmente verso di noi, ne sentiamo il calore, fino a quando, con il ritornello, le rosse fiamme si innalzano davanti a noi con tutta la loro potenza e maestosità! Le linee vocali, non a caso giocano molto sulla ripetizione della parola "fire", e questo potrebbe aver influenzato la mia immaginazione, ma è indubbio che la pomposità del refrain si presta bene alle immagini prima evocate. Le linee vocali dei cori e di Hansi suonano molto teatrali, e gli archi suonano sinuosamente tra gli altri strumenti, quasi ammorbidendo l'effetto fiammeggiante. A questo punto l'incendio è divampato del tutto e le orchestrazioni ed i cori non si limitano più a colpire soltanto in alcuni momenti, ora sono completamente parte del brano, anzi, senza di loro tutta la struttura sembrerebbe vuota. A farla da padrone però è sempre Hansi e la sua prestazione vocale precisa e senza sbavature, ma anche parecchio teatrale grazie alle solite linee vocali affascinanti ed avvincenti che, ribadisco, esplodono mostrando il loro meglio durante il ritornello, che suona più maestoso ogni volta che viene ripetuto. In tutto questo c'è sempre spazio anche per un bell'assolo melodico di Olbrich, il quale basa la sua prestazione su delle scale molto piacevoli che si mantengono sul melodico e disteso e non sfociano quasi mai verso le alte velocità. In ogni caso, c'è da dire che gli assoli sono uno dei pochi momenti in cui le chitarre riescono ad emergere in questo brano, anche perché dalla metà in poi sembrano quasi scomparire ed essere inglobate dalle orchestrazioni, che si fanno sempre più prorompenti man mano ci avviciniamo al finale. Ci si potrebbe immaginare che i tumulti contro Mordred stiano avendo successo e che i Nove siano sulla via del ritorno, ma ancora una volta il testo non è chiarissimo e siamo noi ascoltatori/lettori a dover tappare dei buchi con la nostra immaginazione. Per esempio, gli ultimi versi recitano: "Take a look at yourself/ There is nothing to fear no more/ There is nothing to fear no more". A chi si riferiscono? Al Caduto? Al Prescelto? Forse, e dico forse, proprio a quest'ultimo, il quale viene invitato una nuova volta a saltare nello specchio, soprattutto ora che Mordred non è all'apice.

Sacred Mind

Entriamo più nell'ultima parte dell'album con le ultime due sezioni. La prima è "VII. The Fallen and the Chosen One", introdotta da "Sacred Mind" (Mente Sacra). L'inizio è silenzioso e soffuso, contrastante quindi con la pomposità della traccia precedente, ma i suoni elettronici disturbano la quiete e ci lasciano con una sensazione sinistra dentro. Sensazione che però svanisce piano piano insieme agli stessi suoni elettronici per lasciar posto agli strumenti che conosciamo bene, i quali suonano note lente, rocciose e rilassate al contempo che fanno pensare ad una ballata. In effetti anche la prestazione vocale di Hansi ce lo lascia pensare, così come i cori in sottofondo che lo accompagnano in quel modo etereo, drammatico e delicato che rende questo momento introduttivo uno dei più belli e riusciti di tutto l'album. L'enfasi crescente trova poi sfogo nell'indurimento dei riff e nello sporcarsi della voce di Hansi, tutti elementi che anticipano la cavalcata che si appresta a travolgerci. Non ai livelli di "The Holy Grail" sicuramente, ma sicuramente siamo alle prese con un pezzo più asciutto ed essenziale che ricorda lo stile classico della band. Tuttavia, il ritornello non li ricorda così tanto, e non solo per le orchestrazioni che si possono sentire in sottofondo, ma anche per il suo incedere ancora una volta molto pulito e ottimista, quasi "happy" che è molto lontano dalle sonorità epiche per cui la band è più famosa e decisamente molto vicino alle altre soluzioni viste con lo scorrere dell'album. Dai suoi versi emerge una specie di elogio all'antica città di Xanadu, descritta anche da Coleridge nella sua poesia "Kubla Khan", e alla sua famosa cupola del piacere: "Sacred mind/ We build a new pleasure-dome here/ Xanadu/ My Xanadu/ My Xanadu". Purtroppo non è chiaro il perché della sua presenza qui, così come non sono chiari molti altri riferimenti inseriti qua e là dalla band. Altri si trovano poco dopo la metà del brano e riguardano Medusa, che è un personaggio lontanissimo, non solo geograficamente, dalla città del Khan, quindi anche qui non si riesce a capire molto e comincia a diventare difficile anche "tappare i buchi". Un elemento che forse si riesce a capire è che Arthur è più volte invitato ad entrare nello specchio, forse per incontrarsi con Mordred, e questo spiegherebbe anche il titolo della sezione. I testi così criptici però rendono difficile l'immedesimarsi con i personaggi ed è anche complicato associare delle sensazioni derivanti dalla musica ad altre derivanti dalla storia, che in verità sono anche poche visto il problema sottolineato. In ogni caso, musicalmente il brano procede sempre veloce e senza preziosismi, diventando quello in cui molto probabilmente le chitarre si sentono meglio e hanno anche più spazio, ad eccezione del ritornello che è l'unico momento in cui le orchestrazioni rientrano in gioco. C'è da dire, comunque, che nonostante la sua strana positività, il refrain riesce lo stesso ad entrare in testa in qualche modo, pure se, devo ammettere, l'avrei preferito un po' più forzuto e battagliero, ma così avrebbe perso quella sfumatura da musical che percorre quasi tutto l'album. Sembra quasi di trovarsi all'interno della cupola del piacere, rilassati e contenti, gioiosi e senza pensieri per la testa. Il finale però spazza via ogni velleità teatrale e si lancia in una breve quanto potente cavalcata a suon di riff taglienti che chiude la canzone con grande energia e con grande forza.

Miracle Machine

"Miracle Machine" (Macchina del Miracolo) è una delicata ballata parecchio atipica per i Blind Guardian. I Nostri infatti ci hanno abituato a ballate dal sapore medievale, ma qui invece siamo alle prese con un pezzo che ricorda moltissimo i Queen. Hansi comincia immediatamente a cantare affiancato dal pianoforte, e in un attimo dobbiamo dimenticarci dei taglienti riff posti alla fine della traccia precedente; il cambiamento è repentino, ma il contrasto che si crea è spiazzante in modo positivo, anche perché ci permette di apprezzare un'ulteriore sfumatura dell'album. Non ci sono solo Hansi ed il pianoforte però, già, perché dopo non molto dei leggeri cori appaiono quasi dal nulla per aiutare il cantante, e gli archi fanno lo stesso senza suonare troppo invadenti. La stessa voce di Hansi risuona come un'eco grazie alle sovraincisioni, ma anche con questi elementi il brano risulta lo stesso aggraziato e leggiadro, come la luce di una candela che potrebbe spegnersi con un minimo spostamento d'aria. Il ritornello però suona molto più positivo, barocco e saltellante grazie ad una lieve accelerazione di pianoforte ed archi e a delle linee vocali corali piuttosto frizzanti, anche nella loro pacatezza. Un ritornello che suona squisitamente "Queen"! Non è certo un mistero che ad Hansi e soci piaccia la band inglese, ma qui l'omaggio musicale è davvero evidente. Nelle liriche ritorna anche il Graal, descritto come un oggetto utile per aprire un sigillo. Che sia importante per aprire del tutto lo specchio e saltarci dentro? Difficile dirlo, anche perché poi resta da capire che cosa sia questa macchina del miracolo che è tenuta nascosta (da non si sa chi): "We must believe in something/ That I would call a miracle/ The grail will break the final seal/ We must believe in something/ A miracle, a miracle machine/ We just hide it secretly". Mi sono sempre immaginato un gruppo di persone incappucciate intorno a questo fantomatico marchingegno, mentre lo osservano girare ed emanare luce. Dopodiché l'atmosfera ritorna ad essere delicatissima e anche leggermente malinconica, facendoci pensare che forse il brano potrebbe, in alcuni punti, parlare di Mordred e delle sue sensazioni riguardo il suo regno in tumulto. Se così fosse non faticheremmo ad immaginarcelo seduto sul suo trono, mentre pensa solitario al da farsi, mentre pensa che un nemico sta per arrivare per combatterlo, accompagnato da ciò che resta dei Nove. Nove che, sorprendentemente, forse hanno avuto un ruolo nella sua incoronazione, prima di essere cacciati ovviamente. Mordred infatti vuole un mondo privo di divinità in cui sia la ragione l'unica guida: "They don't belong here/ Though they claim they're right/ Let it grow/ Turn off the light/ Let reason grow". Come la prima volta, anche ora il ritornello è anticipato da un pre-chorus che comincia ad innalzare i toni e a spianare quindi la strada al più enfatico refrain stesso, che si ripete così per la seconda ed ultima volta. Due volte possono sembrare poche, ma la traccia è la più corta dell'album (con i suoi 3 minuti circa) e risulta piacevole ed evocativa anche grazie alla sua brevità, che ben si sposa con la sua essenzialità, pure perché la traccia finale è tutt'altro che essenziale.

Grand Parade

Suoni da fanfara danno il via all'ultima traccia dell'album, se non contiamo la bonus track dell'edizione col vinile, che porta un titolo decisamente eloquente e che lascia subito presagire che binari ci troveremo a percorrere. Il titolo infatti è "Grand Parade" (Grande Parata), che a sua volta fa parte della sezione "VIII. Beyond the Red Mirror". Dicevamo dei suoni da fanfara, il bello è che l'orchestra non è da sola ma accompagnata dalla chitarra di Olbrich e le sue melodie e anche dalle ritmiche medio-veloci di Ehmke. Tutta questa grandeur viene però smorzata dall'entrata in scena di Hansi, visto che la fanfara si interrompe e il cantante si ritrova a cantare quasi sussurrando su partiture molto calme e leggiadre, come per continuare il discorso della canzone precedente, ma in realtà l'orchestra e le backing vocals restano sempre molto attive, lasciando dunque intatta la sezione orchestrale. Sembra come se Arthur parlasse dal suo mondo e sentisse i suoni maestosi provenienti dall'altra parte dello specchio. Suoni maestosi che si fanno sempre più presenti ed imponenti con il procedere della strofa, tra archi sognanti e cori avvolgenti che non fanno altro che ampliare la teatralità del pezzo. Improvvisamente, però, la teatralità si stempera di nuovo, a favore di una strofa più discorsiva in cui però gli archi suonano sempre splendidamente e pieni di vitalità, sprizzanti energia e colori caldi ed accesi. Qui siamo testimoni di uno degli ultimissimi momenti di dubbio di Arthur, che trova anche l'appoggio dei cori, forse impersonanti gli abitanti di Camlann: "It's not real, no reason to be here/ No more fear and no more regrets/ Don't look back and free your mind/ Stay where you are till the sealing is over". Proprio qui si inserisce il ritornello, che non può non confermare tutte le sensazioni provate fin qui, e quindi è un concentrato di teatralità e pomposità! Ci immaginiamo tutti i personaggi della storia su un palco, tutti a cantare a gran voce alcune delle linee vocali meglio riuscite di tutto l'album, sicuramente le più teatrali e da musical. La parata ormai è iniziata e ne facciamo parte. I minuti passano e i versi si intrecciano tra loro mentre l'orchestra fa intrecciare i suoi elementi a sua volta, creando così un flusso che nella sua imponenza riesce comunque a risultare agile e multiforme, grazie anche all'abilità compositiva dei Bardi, arrivati ormai ad un certo grado di maestria che gli deve essere riconosciuto. Ad un certo punto della traccia, comunque, capiamo che forse la parata non è in onore del prescelto, bensì della sua nemesi Mordred. Sembra quasi che sia una festa in onore della sua dominazione, e quindi quello che ci eravamo immaginati cambia. Ora vediamo tutti i sostenitori del Caduto mentre lo inneggiano e celebrano il nuovo mondo senza dèi: "No more gods, no more lies/ No more gods, no war/ We'll be free here, we are one/ Our will is strong". Un'altra cosa bella, e che è tipica della band nonostante gli anni passati, è il fatto che la chitarra solista di Olbrich sia sempre molto presente e non si nasconda troppo dietro alle orchestrazioni, mettendo anzi l'accento e la firma alla fine di ogni ritornello. Passata da un po' la metà del lungo brano, la band propone anche qualche variazione, come quando le ritmiche accelerano e si fanno lievemente più aggressive, pur mantenendo inalterato lo spirito teatrale e barocco che è saldo nelle mani dell'orchestra. È bello però vedere che il brano riesca a mutare abbastanza improvvisamente ma senza che i mutamenti risultino troppo netti o fuori posto, anzi, come dicevo prima tutto scorre perfettamente, e anche questi momenti più veloci fluiscono nel tutto, come noi ormai siamo all'interno della parata e non possiamo più uscirne. Va aggiunto poi che il refrain fa sempre la sua parte importantissima che è quella di mantenere un punto focale importante e saldo verso cui tutte le pieghe di una canzone così pomposa possano dirigersi. Il gran finale è un climax ascendente ricco di ariose parti corali e di sinfonie imponenti che chiudono magnificamente questo brano che, curiosamente ma non casualmente, ha la stessa identica durata di quello d'apertura, ovvero 9 minuti e 28 secondi.

Conclusioni

Dunque, è molto probabile che alla fine del primo ascolto di questo mastodontico lavoro si resti spaesati, pieni di informazioni in testa, pieni di elementi che non sono riusciti a fare presa appieno. Con altri ascolti la situazione migliora, ma ne servono comunque molti prima di poter apprezzare e distinguere le innumerevoli sfumature e sfaccettature, molti più ascolti dei soliti 2/3. Io stesso ho impiegato molto tempo prima di poter dire di aver assimilato bene tutto. Per molti questa è l'ennesima riprova che ormai i Bardi di una volta non ci sono più e che quelli nuovi sono troppo complicati e pesanti da digerire, troppo articolati ed esagerati e troppo fuori dai canoni. In verità, questa è la riprova che i Bardi non saranno più quelli di una volta, ma sanno ancora scrivere canzoni di altissimo livello, più complicate e meno dirette di quelle dei soliti anni '90, decisamente più pompose e variegate, ma è anche questo il bello, visto che questo continuo trovare soluzioni nuove senza riciclarsi è proprio ciò che tiene in vita i Nostri e li tiene ancora sulla cresta dell'onda. Non si può certo negare che siano la band Power che si sia mantenuta meglio nel corso degli anni, nonostante ormai inserirli in quel genere è alquanto riduttivo. Detto questo, le canzoni sono costruite in modo da svelarsi ascolto dopo ascolto, permettendo all'ascoltatore di trovare ogni volta una sfumatura diversa, un suono nuovo a cui prima non si era fatto caso o delle linee vocali che improvvisamente risaltano di più e diventano bellissime. Aggiungo, in effetti, che questo è un album ricco di momenti. Mi spiego meglio, quasi ogni brano ha in sé un momento, magari anche breve, che però risulta davvero bello e riesce a sostenere da solo tutta l'efficienza del brano stesso, anche quando questo magari non è proprio bellissimo. A questo proposito mi vengono in mente vari momenti di grandissimo valore che ascolto sempre con piacere e che attendo ogni volta con una certa ansia, consapevole che stanno per arrivare mano a mano che i secondi scorrono: l'inizio corale dell'opener, il finale di "Prophecies", il momento sognante di "Ashes of Eternity" oppure l'inizio di "Sacred Mind". Momenti che solo una band ancora in forma può portare in vita. La grande varietà e ricchezza dell'album è quindi sicuramente un punto di forza, ma, nello stesso tempo, è anche una zavorra che a volte lo rende pesante ed ampolloso; soprattutto se guardiamo già la durata dei pezzi, con due brani che superano i 9 minuti, uno che sfiora gli 8 e quasi tutti gli altri che, eccetto due, si aggirano in media intorno ai 5/6 minuti. Uno sguardo del genere potrebbe essere molto esplicativo, poi possiamo aggiungere l'uso dell'orchestra che non si ferma alle tracce d'apertura e chiusura (come succedeva nell'album precedente) ma è un valido abbellimento non a caso anche in altri pezzi lunghi. L'orchestra di per sé non rappresenta un elemento di difficoltà nell'approccio, ma qui è al servizio di brani dalla struttura mutevole e mai semplice da seguire al primo ascolto, che è comunque tipico della band negli ultimi tempi. Insomma, come già avevo accennato nell'introduzione, non è certo un album ricco di pezzi veloci, tirati e diretti, i pezzi vecchio stile per capirci. Quindi se ci si approccia a quest'album con certe aspettative si resterà delusi, perché questo è un album ricco e basta, anche perché non mancano i brani più asciutti e tradizionali, che fanno sempre felici tutti quanti. Ribadisco, però, che l'ascolto non è facile e alle lunghe potrebbe stancare, visto inoltre che un paio di episodi non memorabili sono presenti, anche se devo dire che la qualità generale è piuttosto omogenea. Va poi detto che il concept era composto anche da altri due brani ("Distant Memories" e "Doom") che però sono finiti soltanto nelle varie edizioni limitate dell'album, ed è un peccato perché sono tra i migliori di tutto il lavoro! Il primo è una ballata riuscitissima ed atipica per la band, il secondo è un brano roccioso ed epico che risale ai tempi di "Nightfall". Discutibile come scelta, ma è chiaro che la Nuclear Blast abbia voluto giocare di marketing, rendendo più appetibili le succitate edizioni limitate o vinile. Va però detto che l'aggiunta di altri due pezzi sopra i 5 minuti avrebbe reso la scaletta ancora più lunga e l'album ancora più corposo, ma essendo un concept avrebbe comunque avuto senso, tanto più perché l'album riesce a scorrere abbastanza fluidamente nonostante la sua oggettiva opulenza. In ogni caso, un vero punto dolente è la produzione, il che è una novità in casa Blind Guardian. Una novità che ha lasciato tutti interdetti, visto che è la prima volta che le chitarre tendono a sparire sovrastate dall'orchestra o addirittura a suonare evanescenti e con poco mordente, stessa cosa per la batteria, la quale non è quasi mai limpida e potente, anzi, spesso suona addirittura fiacca. Difetti che emergono già dalla prima traccia e che in qualche modo influenzano anche tutto il resto dell'album, che sarebbe sicuramente risultato ancora più riuscito con una produzione migliore.

1) The Ninth Wave
2) Twilight of the Gods
3) Prophecies
4) At the Edge of Time
5) Ashes of Eternity
6) The Holy Grail
7) The Throne
8) Sacred Mind
9) Miracle Machine
10) Grand Parade
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