BLIND GUARDIAN
At The Edge Of Time
2010 - Nuclear Blast
CRISTIANO MORGIA
03/09/2018
Introduzione recensione
Il nono album dei Blind Guardian, questo "At The Edge Of Time", fu il primo della band di cui aspettai l'uscita e che poi comprai anche, quindi è una tappa importante nella mia crescita musicale. Passati gli ormai canonici quattro anni che separano ogni loro uscita dai tempi di "Nightfal in Middle-Earth" (1998), ecco che sugli scaffali appare nuovamente il nome dei Bardi di Krefeld. Quattro anni prima era toccato a "A Twist In The Myth" (2006), un album buonissimo, non apprezzato da tutti, che però aveva riportato la band verso lidi apparentemente più diretti e canonici, abbandonando quindi la pomposità e le stratificazioni sonore di "A Night At The Opera" (2002). "At The Edge Of Time" sembra proseguire quindi su questa scia, almeno "a prima vista", perché in realtà ad un ascolto più attento è palese che i quattro tedeschi non hanno abbandonato del tutto le pulsioni sinfoniche e le complessità dell'album del 2002. D'altronde chi conosce bene la band sa che la loro carriera è stata una continua progressione ed evoluzione che ha portato alla scrittura di album sempre diversi tra loro, seguendo una scia evolutiva quasi naturale. Ora però, dopo l'uscita dell'album del 2006, sembra che la band abbia deciso di fermarsi e di non cambiare troppo le carte in tavola. Detto così sembra che Hansi e co. abbiano deciso di ripetersi e di adagiarsi su quanto raccolto fino ad un certo punto, magari tornando alle origini per fare contenti tutti. In realtà non è proprio così. È infatti più che comprensibile che ad un punto della sua carriera una band decida di rallentare la corsa all'evoluzione e decida magari di prendere quanto di meglio fatto negli anni addietro, in termini di sound e stile, ed utilizzarlo per forgiare un nuovo prodotto che però è tutto tranne che un mero riassunto. "At The Edge Of Time", un po' come il suo predecessore quindi, si pone proprio qui: a metà strada tra un ritorno alle origini ed un guardare comunque avanti, a metà strada tra un sound più diretto ed uno più complesso. Quel che è certo è che siamo sempre davanti ad un lavoro che porta la firma dei Blind Guardian, una firma che è ben visibile e non c'è bisogno di fare sforzi per vederla, tanto i quattro tedeschi sono ormai padroni della loro Arte. Basta sentire un coro o un riff per capire che anche questo è un album dei Bardi, pure in quelle canzoni che potrebbero sembrare meno "tradizionali". Va comunque detto che qui non troveremo brani sperimentali ed atipici come per esempio lo era "Fly" dell'album precedente, anzi, come già fatto intuire, troveremo brani che spesso e volentieri, anche con un po' di mestiere, strizzano l'occhio alle sonorità degli anni '90. Tuttavia, questo non vuol dire che mancheranno canzoni più lunghe ed articolate in cui la voglia di scrivere delle vere e proprie storie trasposte in musica trova il suo sbocco. Anzi, se è vero che le pulsioni sinfoniche sono state sempre molto presenti da un certo punto della carriera della band in poi, è anche vero che non c'è mai stata una vera orchestra ad accompagnare Hansi e soci; discorso che vale anche per "A Night?", da sempre definito come il loro lavoro più "sinfonico". Qui invece, molto probabilmente anche grazie all'appoggio di un colosso come la Nuclear Blast, la band può avvalersi del prezioso aiuto di una vera e propria orchestra, quella di Praga per la precisione, senza ricorrere a tastiere e suoni campionati. Tanto per sottolineare il fatto che i Bardi, anche quando sembrano volersi fermare, hanno sempre una forte voglia di inserire novità e sorprese, che siano grandi o piccole. Dicevamo della Nuclear Blast, continua quindi il sodalizio iniziato proprio con "A Twist?", e continua di conseguenza anche quello con il produttore Charlie Bauerfeind, il quale assicura una produzione molto buona che non suona "plasticosa" e pompata come spesso capita con i lavori licenziati dalla prestigiosa casa discografica. Questo è un grande punto a favore, in quanto permette alla band di esprimersi mantenendo la sua impronta. Anche perché, tanto per fare un esempio, l'unione delle voci di Hansi, Marcus e André dà luogo a quel suono corale particolare che è rimasto pressoché immutato dalla fine degli anni '80 a oggi, sarebbe quindi un peccato alterarlo. Gettiamoci ora nel track-by-track, e vi preannuncio che le tematiche Fantasy, lievemente accantonante dei due album precedenti, tornano a farla da padrone.
Sacred Worlds
Ad aprire le danze ci pensa la canzone più lunga dell'album, ovvero Sacred Worlds (Mondi Sacri) con i suoi quasi 10 minuti. La canzone non è proprio un inedito, in quanto fu composta per il videogioco Sacred 2: Fallen Angel nel 2008; un videogioco di stampo Fantasy ovviamente! Nel gioco, se si vincono tutte le missioni, si può assistere ad un concerto della band "locale", i cui membri guarda caso somigliano molto ai Blind Guardian e suonano un brano intitolato "Sacred". Sul web è facilmente reperibile il video della performance. In ogni caso, la versione finita su quest'album è lievemente differente da quella finita nel videogame, non troppo però, l'unica differenza sta nell'intro e nell'outro, che sono squisitamente orchestrali. Vi avevo accennato di un utilizzo di una vera e propria orchestra, e qui ne abbiamo subito un assaggio. Già dai primissimi secondo veniamo avvolti da limpidi suoni di violini e cori maestosi che suonano, non a caso, reali come mai prima d'ora. L'atmosfera è piuttosto distesa e rilassata, ma presto si fa più tenebrosa e nervosa, come se dietro al sipario si nascondesse qualcosa pronto ad uscire allo scoperto. E lo fa. Le chitarre si presentano all'appello accompagnando gli archi che a loro volta si fanno sempre più presenti e scattanti. Improvvisamente però le chitarre prendono il sopravvento e sovrastano tutto con riff pesanti, cadenzati e monolitici che vengono accompagnati da ritmiche ora più cadenzate ora più veloci. Tutto ad un tratto il caos si placa e dai fumi emerge la quieta voce di Hansi, che con il suo solito incedere calmo e pacato ci racconta di un mondo sull'orlo di una guerra, dilaniato da conflitti e fazioni che non vedono l'ora di scontrarsi. L'orchestra è sempre lì, comunque, ad accompagnare il tutto, ed emerge del tutto quando il ritornello spinge via la calma delle prime strofe. Ora tutto è più drammatico ed epico, più concitato. La batteria di Ehmke è più marziale e le sinfonie meno ariose, ma è nelle linee vocali che troviamo il vero appiglio. Grazie alla loro enfasi capiamo subito di trovarci davanti al primo grande pezzo dell'album: "War/ It's now or never/ We shall stand together/ One by one/ This world is sacred". C'è una sorta di drammatica consapevolezza in queste liriche, una consapevolezza che spinge i personaggi della storia a farsi guerra, nonostante forse non lo vogliano davvero. Dopodiché la canzone prendere il via del tutto, ritornano i monolitici riff iniziali e le sinfonie sembrano farsi più bombastiche, ma con i Blind Guardian si sa che non c'è molto tempo per abituarsi ad una struttura, ed ecco che in men che non si dica l'atmosfera e le ritmiche cambiano ancora e ancora, passando agilmente da momenti più pacati e rilassati a momenti in cui l'andamento generale è più teatrale e contornato dagli immancabili cori. Il ritornello ancora il tutto e si rende un punto focale molto importante per l'economia del pezzo, ed è reso interessante anche dal fatto che non sempre porta le stesse liriche, inoltre è quasi sempre seguito da un assolo, più o meno breve, di André Olbrich, il quale riesce così a diversificare le apparizioni del refrain e a fare da collante tra le diverse parti del variegato brano. Il brano continua imperterrito, alternando le tantissime strofe con altrettanti cambi a livello musicale. Spesso questi cambi sono quasi impercettibili, magari cambia qualcosa nell'intonazione di Hansi o nei riff, ma è chiaro che la canzone sembra scorrere senza volersi ripetere troppo, volendo quasi simboleggiare il disordine causato da un'imminente guerra. Al centro di questa guerra c'è il possesso dell'Energia-T, un'energia, posseduta dagli Alti Elfi, in grado di governare il mondo. Il possesso di quest'energia però causò invidie e paure che ora stanno per sfociare in una guerra civile in cui clero e nobiltà si sfidano per il possesso di tale energia: "The source of my power/ T-energy/ I'm in control". La cupidigia può essere così dannosa da portare ad una sanguinosa guerra civile? Soprattutto se si vuole possedere una cosa così preziosa e potente. Più ci avviciniamo al finale più le sinfonie si fanno pompose ed avvolgenti, più aumentano le sovrapposizioni vocali (senza sfociare nel barocco) e più il tutto sembra permearsi di un'atmosfera teatrale e narrativa che è tipica della band, sempre saltando da parti molto calme a parti più rocciose. Va però detto che il risultato finale non è di una canzone difficile da seguire o troppo frammentata, anzi, la presenza di un ritornello forte e di alcuni temi che si ripetono è fondamentale per avere una traccia che funziona benissimo e riesce ad entrare in testa anche dopo pochi ascolti. Anche nell'arioso e rilassato outro, per esempio, totale appannaggio dell'orchestra, possiamo sentire dei legni che intonano una delle melodie presenti ad inizio brano, creando così un legame non indifferente tra inizio e fine, importante per un brano che si avvicina ai 10 minuti di durata ed è addirittura posto in apertura. È dai tempi di "Imaginations From The Other Side" (1995) che il brano più lungo dell'album non aveva il ruolo di opener.
Tenelorn (Into The Void)
Con Tanelorn (Into The Void) (Tanelorn, Nel vuoto) i Bardi tornano ad occuparsi del Campione Eterno e degli scritti di Michael Moorcock, intitolando il brano alla cosiddetta Città Eterna. Tanelorn è anche la protagonista di un'altra canzone dei Nostri, quella "The Quest For Tanelorn" presente nel capolavoro "Somewhere Far Beyond" (1992), ed è anche uno dei luoghi più famosi tra tutte le opere dello scrittore succitato: una città che, come il Campione Eterno, esiste in ogni dimensione; una città che in molti cercano sperando di trovare riposo dai conflitti tra Caos e Legge. Ma torniamo al brano, il tagliente riff iniziale parla chiaro e lascia presagire una canzone aggressiva, veloce e probabilmente anche old style, con un certo gusto per la cupezza. Il presagio si tramuta presto in realtà grazie al riconoscibilissimo lavoro di Olbrich e ai serratissimi riff del collega Siepen, per non parlare di un Hansi piuttosto cupo, aggressivo, quasi indemoniato? che si concede anche qualche nota molto acuta. Sembra quasi di essere tornati agli anni '90! Tutta l'atmosfera che si respira è turbinosa e grigia, il Campione Eterno (forse proprio Elric di Melniboné) è in cammino per cercare Tanelorn, ma la ricerca è tutt'altro che semplice, considerando che dentro di lui sembra esserci irrequietezza. Il caos però si stempera di molto non appena la musica si calma e la tempesta lascia spazio ad una schiarita che lascia passare un po' di luce fioca? è solo un attimo fugace però, perché poi la canzone riparte con una strofa più aggressiva che mai in cui la band riesce ad esprimere un odio cosmico senza precedenti. Questo però ci trasporta verso il ritornello, che è molto arioso e drammatico, semplice nel suo incedere e sostenuto da ritmiche più lente e meno irruente. Un momento in cui possiamo quasi toccare la disperazione del Campione, ormai stanco e desideroso di arrivare alla famosa città: "Cry for Tanelorn/ Still I fear their voices/ Cry for Tanelorn/ No more fear, no voices/ Cry for Tanelorn". Tuttavia non c'è tempo di fermarsi troppo e disperarsi, e infatti la canzone riparte in fretta e senza freni, ancora tra riff serrati e ritmiche irruente. Ormai siamo dentro ad un vortice che ci trascina sempre più in basso, sempre più vicini al vuoto, mentre il povero Elric riflette con rabbia sul fatto che è lontano dal suo trono, albino e debole? Il ritornello fa così la sua comparsa da dietro la tempesta, aprendo nuovamente una finestra sul tormentato animo del melniboneano. A seguire un gran bell'assolo del solito Olbrich, il quale strizza molto l'occhio a certe sue soluzioni più datate, proponendo quindi un assolo molto melodico che però riesce anche ad essere veloce ed eccitante. Comunque, come apprendiamo dopo qualche strofa, Elric ha un fedele alleato: la sua spada. Stormbringer è il suo nome, ed è una spada figlia del Caos, sempre assetata di sangue e di anime: "It's your blood I desire/ The last soul I require/ Right after all the damage will be done". Una spada sensazionale senza dubbio, peccato che prosciuga anche le già esigue forze del Campione? Sembra che ci sia un problema dietro ogni angolo, sembra che l'intero Multiverso voglia far soffrire Elric, ed è per questo che l'albino cerca riparo al di fuori di tutto, come canta ancora nel refrain, ma nel poderoso finale, ricco di riff taglienti che cadono come grandine, possiamo sentirlo salutare la sua spada, l'unica che tutto sommato ancora lo tiene in vita.
Road Of No Release
Dopo una canzone vecchio stile troviamo Road Of No Release (Strada Senza Uscita), che invece vede la band alle prese con un brano multiforme e dalle numerose sfumature e sfaccettature, più tipico del corso intrapreso nel nuovo millennio. Il tema è un'altra volta Fantasy, ma stavolta è "The Innkeeper's Song" (1993) di Peter S. Beagle ad essere preso come fonte di ispirazione. Nel romanzo ci sono vari personaggi e vari punti di vista, e la cosa bella è che anche qui si può trovare una struttura simile, ed è davvero interessante vedere come ciò è trasposto in musica: ogni strofa rappresenta un personaggio diverso infatti, dalla ragazza morta alla volpe, dalla ragazza resuscitata all'amante. L'inizio contrasta molto con la traccia precedente, proponendo un pianoforte soffuso e delicato che comincia a far alzare il sipario, la batteria gli si affianca dopo poco scandendo ritmiche marziali su cui gli accordi di chitarra delle due asce possono adagiarsi, ancora con delicatezza e calma. I vocalizzi e le sovraincisioni di Hansi però rompono la quiete e ci circondano improvvisamente, gettandoci immediatamente all'interno della vicenda. Da qui inizia il viaggio, un viaggio complesso in cui, come già detto, le strofe si alternano alternando anche il punto di vista, ma non è finita qui; come ogni strofa rappresenta un personaggio diverso, ogni strofa propone anche o un ritmo o un'atmosfera differente, rendendo il tutto più variegato e decisamente non scontato. Quasi difficile da seguire. Passiamo così da momenti cadenzati a momenti più ritmati, o da momenti in cui c'è ancora il pianoforte a momenti in cui i riff sono più rocciosi. Così però sembra che la canzone scorra via illogicamente e caoticamente, in realtà c'è sempre il ritornello a fare da punto focale e a tenere le fila di tutto. Non a caso il ritornello è il momento in cui tutti i personaggi della storia si trovano a cantare, e non a caso il ritornello è corale (come vuole lo stile Blind Guardian d'altronde): "Here on this road of no release/ Pale reign of misery/ That even time cannot erase/ On through my sorrows/ Life will go on". Ad Hansi non piacciono molto le storie tutte rose e fiori - o almeno questo è quello che emerge dai suoi testi - e infatti anche questo brano è impregnato di un'atmosfera grigia e malinconica, non solo a causa dei testi, le linee vocali e l'andamento generale del pezzo ci lasciano proprio con questa sensazione, melodie di Olbrich comprese. Dopo il ritornello i personaggi ricominciano a parlare distintamente, e nello stesso tempo possiamo ancora apprezzare i cambiamenti musicali che questo comporta, a volte addirittura all'interno dello stesso intervento, come quello della ragazza resuscitata. Con lei la canzone si fa più aggressiva e nervosa, ma è con il necromante che questa piega prende il sopravvento, anche se per poco: "I will find you/ Slipping away/ I'll bind you/ Still I conquer the world/ Take him away". Il disteso e arioso ritornello però scaccia via questo turbinio oscuro, anche se lo fa con un umore decisamente malinconico. L'assolo si pone proprio su questa scia, impreziosito da riff taglienti e decisi e da una bella accelerata verso le sue ultime note. Non c'è tempo per adagiarsi però, visto che fino alla fine la band continua ad alternare strofe e personaggi diversi, tenuti insieme soltanto dal solito refrain, il quale rende possibile la memorizzazione di una canzone che altrimenti suonerebbe altamente dispersiva; così invece è tutta un'altra storia, poiché si possono apprezzare tutti i repentini cambiamenti sapendo che comunque c'è un momento che almeno è saldo e facile da ricordare. In ogni caso, questa è davvero una prova interessante e ben riuscita da parte della band, la quale porta all'ennesima potenza la voglia di diversificare il brano dall'interno, pur senza le roboanti stratificazioni sonore che erano presenti sino a qualche anno prima.
Ride Into Obsession
Ora invece tocca alla fulminea Ride Into Obsession (Corsa Nell'Ossessione), in cui la band torna a premere sull'acceleratore e su soluzioni più dirette e meno intricate, per la gioia di molti. Il titolo è molto eloquente e sembra descrivere proprio la canzone, visto che in un battibaleno ci ritroviamo inghiottiti da riff serrati e ritmiche molto veloci, senza contare le parti corali che, anche essendo di facile lettura e non troppo barocche, ci avvolgono, ci catturano e ci scuotono. Vi avevo anticipato che in quest'album le tematiche Fantasy sarebbero tornate ad essere quelle principali, ed infatti anche qui le troviamo. Hansi qui ci porta nel mondo de "La Ruota Del Tempo" di Robert Jordan, un'opera a dir poco monumentale con volumi usciti tra il 1990 e il 2013; risulta quindi molto difficile capire bene di cosa, in particolare, tratta il brano, soprattutto per chi non conosce questo ciclo. Comunque pare che qui ci si focalizzi sul Drago Rinato e su Ba'alzamon. Il bello di questa traccia è che sembra non fermarsi mai, sempre veloce e arrembante! Neanche il ritornello riesce a far rallentare la corsa, magari proponendo un piccolo rallentamento? no, la corsa continua imperterrita anche con il refrain, che viene impreziosito da parti corali davvero accattivanti che rendono il tutto ancora più frizzante e potente. Non c'è tempo per fermarsi, proprio come la Ruota del Tempo continua a girare: "Let ages come and go/ The wheel turn now/ The wheel will turn/ Another ride into obsession/ I am reborn/ The wheel will turn now/ And I am driven to obsession". André coglie subito l'occasione per inserire un breve assolo distorto alla fine del ritornello, e dopo di esso possiamo assistere ad un inaspettato rallentamento in cui possiamo sentire anche il suono di un flauto traverso. Stavolta i riff sembrano rallentare lievemente il tiro, facendosi più ritmate, ma la batteria resta sempre molto vivace in sottofondo, pronta per un'eventuale ripartenza a tutta velocità. Ripartenza che infatti arriva e ci investe nuovamente, ma un'ulteriore spintone ci arriva dal ritrovato ritornello, che a questo punto della canzone cominciamo ad apprezzare ancora di più, lasciandoci trasportare dalla sua energia, abbandonandoci ad esso senza opporre resistenza. Poco dopo la metà del brano André sforna un gran bell'assolo che è perfettamente in linea con lo spirito del brano, essendo infatti molto veloce e arricchito anche da delle sovraincisioni; non solo velocità però, visto che a tratti ci sono pure sfumature più lente. Sfumature non casuali, dato che dopo le ultime note dell'assolo la band decide di inserire un altro brevissimo e roccioso rallentamento che serve giusto per riprendere il fiato e ripartire verso le alte velocità che ci buttano direttamente tra le braccia infuocate del refrain, il quale si ripete qui per l'ultima lasciandoci però con la voglia di ascoltarlo ancora. Il finale anche è degno di nota, non è molto diverso da quanto ascoltato finora in realtà, si sente chiaramente che è un passaggio verso la fine, tuttavia quell'"You will never be alone" cantato con forza dai cori resta impresso quasi quanto un ritornello. E così si chiude la traccia più corta e fulminea dell'album, una di quelle che più strizzano l'occhio al passato della band.
Curse My Name
La prima ballata dell'album è Curse My Name (Maledici Il Mio Nome), che è, come ci si aspetterebbe un bel tributo a sonorità antiche e popolari che strizzano l'occhio ad una certa atmosfera rinascimentale. Questa atmosfera è ancor più giustificata se si pensa che la traccia prende ispirazione da "The Tenure of Kings and Magistrates" (1649) di John Milton, che comunque è di molto posteriore al periodo del Rinascimento, ma poco male. Sognanti accordi acustici cominciano a portarci tra le strade di una Londra in subbuglio e in preda ad una rivoluzione che ne avrebbe cambiato la storia, ma noi vediamo e sentiamo tutto in modo distaccato, con gli occhi e le orecchie degli studiosi. Il libro di Milton uscì poco dopo l'esecuzione di Carlo I e, non a caso, parlava proprio del diritto da parte del popolo di uccidere un governante in caso di colpevolezza o di inadempienza. Hansi infatti esordisce molto eloquentemente: "The tenure of kings and their magistrates/ By good men it must be deposed/ The convenant made can be voided at once/ Disanoint him, take his crown". Mano a mano che la canzone procede altri strumenti fanno capolino da dietro la voce del Tedesco e dalle chitarre; sentiamo infatti delle leggere percussioni e addirittura un flauto, mentre gli accordi chitarristici sembrano farsi più vivaci e accesi. Vediamo quasi il popolo armarsi, mettersi d'accordo e prepararsi per arrivare alla dimora del re. Il ritornello sembra essere il punto in cui la vivacità trova il suo sfogo, grazie alle lucenti e sinuose sonorità e melodie simil-irlandesi che lo rendono davvero accattivante e di sicura riuscita, tant'è che bastano pochissimi ascolti per ritrovarsi a fischiettarle. Qui però è proprio il re a parlare, quasi sfidando le masse e forse Milton stesso. Ora però continua anche l'arricchimento sonoro, e oltre agli altri strumenti anche un violino fa la sua comparsa. Gli strumenti che già erano presenti, invece, innalzano i toni e sembrano farsi più incalzanti (percussioni in primis). Le masse appaiono da ogni angolo, arrabbiate e pronte a farsi giustizia da sole? Come gli strumenti si aggiungano all'insieme, così le persone si uniscono al corteo vendicativo. Il momento più baldanzoso però non dura molto e anzi, lascia posto ad una strofa più quieta e vagamente triste in cui tutto l'insieme strumentale succitato si spegne e lascia il posto ad un Hansi più riflessivo: il re è stato catturato ed il tribunale sta per cominciare e svelerà la verità. La sezione che segue è squisitamente strumentale e vede le marziali ma delicate percussioni di Ehmke accompagnate da violini e flauto, ma in un modo più disteso e calmo, come per sottolineare il momento drammatico. A tutto ciò si aggiungono dei cori mascolini che creano un bel contrasto e ci riportano verso le masse arrabbiate: "Remove his crown/ and bring him down/ Now we shall mourn no longer/ Our prayers they've been heard" I cori poi si intrecciano ad altri cori, i toni ed il volume degli strumenti si fanno sempre più alti e presto un climax ci travolge e ci trasporta con esso verso il re, proprio come un fiume di persone travolgerebbe un malcapitato sulla sua via. Sicuramente uno dei momenti migliori di tutto l'album. Ora che però il re è stato catturato la folla può calmarsi un po' e Hansi ricomincia a cantare sostenuto da un comparto musicale più rilassato e discorsivo che stavolta ci trasporta verso il piacevolissimo ritornello. Dopodiché però la musica cambia nuovamente forma e colore: la prova che i Blind Guardian devono arricchire di dettagli anche una canzone che a prima vista sembrerebbe una semplice ballata. Non siamo davanti a grandi cambiamenti, si tratta solo di dettagli, ma sono piccole cose che fanno la differenza. Inoltre, adesso possiamo anche sentire una batteria vera e propria e, da molto lontano, anche la 6-corde di Olbrich. Non è finita qui però, perché dato che assistiamo ad un continuo arricchimento nella nuova ripetizione del refrain emergono anche cori più corposi e decisi e, se si ascolta con attenzione, addirittura si possono sentire i passi e i salti di un gruppo di persone intente a ballare uno di quei tipici balli irlandesi. Negli ultimi istanti del pezzo, poi, dal calderone emergono anche le voci della folla, intente ancora a reclamare giustizia: "We won't take it anymore/ Our voice it shall be heard". Con i suoi quasi 6 minuti è sicuramente la ballata acustica più lunga mai composta dalla band, e sicuramente la più ricca e variegata, senza nulla togliere ai grandi classici ovviamente, con i quali a mio avviso non teme comunque troppi confronti.
Valkyries
Dall'Inghilterra passiamo ora alla mitologia nordica con Valkyries (Valchirie), altro brano che supera abbondantemente i 6 minuti. Inizialmente siamo accolti da una leggera pioggia che sentiamo cadere fuori, mentre noi siamo dentro al sicuro e al caldo, intenti a fare un brindisi ai caduti, i quali sono già sulla via per il Valhalla. Così canta Hansi nella prima strofa acustica, facendo pensare ad un'altra ballata o qualcosa di simile. Le chitarre del duo Olbrich-Siepen però ci tolgono questa sensazione e fanno il loro ingresso sulla scena con dei riff corposi ma avvolgenti che non risultano troppo pesanti o taglienti, anzi, si sposano bene con l'atmosfera plumbea vista durante i primi secondi. La possente batteria di Ehmke poi diventa in pochissimo tempo la colonna vertebrale del tutto e ci trasporta verso un mid-tempo dall'aria tragica. Nello stesso tempo l'azione si sposta su un campo di battaglia, dove un guerriero giace in mezzo al suo sangue misto alla pioggia e contempla il suo imminente destino: "Here I lie bleeding/ Odin, I await thee". I versi procedono seguendo il ritmo cadenzato del pezzo, e il cantato di Hansi è pulito e particolarmente riflessivo, adatto alla situazione. Improvvisamente però da dietro le nuvole si scorgono dei raggi di luce e il grigio del campo di battaglia viene striato da fasci di luce. Così, nello stesso modo, il ritornello emerge da dietro le ritmiche lente e rilassate con la sua gloria corale; non che il tempo qui sia molto diverso, ma l'andamento generale è certamente più deciso orgoglioso. In questo preciso istante, quindi, le valchirie appaiono a fianco dei guerrieri morenti e si apprestano a guidare i caduti verso casa, verso il Valhalla. Da questo punto la marcia della traccia sembra farsi più rocciosa, anche se il susseguirsi delle strofe risulta un po' più monotono e statico del solito, pur riuscendo a trovare un breve punto d'interesse in un momento più aggressivo e tagliente in cui spuntano anche delle tastiere. Momento che nonostante la sua brevità riesce comunque a rendersi riconoscibile. Il guerriero è ancora steso a terra, ma ora le valchirie sono là e lo porteranno dove Odino è ad attenderli, la luce è lì, basta seguirla. In effetti la luce riappare ancora sotto forma di refrain, che ancora una volta riesce, anche senza essere uno degli episodi migliori dell'album, ad innalzare i toni della canzone e a cambiare decisamente l'atmosfera. La luce ora sembra invadere tutto il campo di battaglia e creare un ponte tra cielo e terra; Olbrich la segue con un assolo dal retrogusto delicato e malinconico che ci fa immaginare l'aggraziato volo delle figlie di Odino. Dopodiché la canzone riprende normalmente, ma la batteria sembra essersi fatta più vivace e presente, abbandonando un po' la fermezza delle primissime strofe, come se fosse più battagliera. In effetti le liriche anche sembrano esserlo: il guerriero si guarda indietro e si domanda come ha fatto a finire dov'è ora? Ed ecco che rivede gli eserciti schierati ed il fragore delle armi? Ma tutto questo avrà presto fine e sarà soltanto un ricordo, perché la battaglia è ormai perduta ed è tempo di aprire un nuovo capitolo, uno che dopotutto non è neanche così male, come ribadisce l'allungato ritornello finale: "When the battle is lost/ And the slain ones are chosen/ Valkyries will guide us home". Il momento di gloria sembra attenuarsi e torniamo a sentire la pioggia? la batteria di Ehmke sparisce, così come i riff quadrati. Restano solo la calma e malinconica voce di Hansi, una distante melodia di Olbrich e delle tastiere in sottofondo. Il guerriero è sempre più lontano dal suolo e la valchiria si rivolge proprio a lui dicendogli che il Valhalla lo attende.
Control The Divine
Ora invece, passiamo dalla mitologia nordica a uno dei poemi più importanti e famosi della cultura occidentale, ovvero il "Paradiso Perduto" di John Milton, con la traccia intitolata Control The Divine (Controlla il Divino). L'inizio è tutto affidato alle melodie soliste di Olbrich, le quali si dipanano verso l'alto come incandescenti lingue di fuoco pronte a sferzare e bruciare ogni anima. Le ritmiche sono tenute salde dalla precisa batteria di Ehmke, che ci accompagna verso quello che sembra essere un roccioso mid-tempo in cui Satana in persona si presenta e si para davanti a noi dopo esser già stato cacciato dal Paradiso: "For what I was/ I'm doomed to be/ The tempter and the secret foe/ Cause I am hell and hell is me/ Pure hate will grow". La canzone prosegue così, sempre con il Diavolo intento ad illustrarci il suo malefico piano, e nel frattempo sembra illustrarlo anche agli altri angeli, in una sorta di analessi che ci porta indietro ai fatti che hanno portato alla cacciata. Il piano ovviamente è quello di ribellarsi e di liberarsi da quello che, secondo l'ideatore, sarebbe un giogo insopportabile. Ribellarsi per trovare la libertà. Dopo due brevi versi pacati e quasi silenziosi il ritornello riporta la canzone ad essere più rocciosa ed enfatica, grazie anche ai soliti cori in sottofondo e a delle linee vocali abbastanza orecchiabili. Va però detto che non siamo comunque davanti al miglior refrain dell'album, certamente non è brutto, ma a tratti risulta un po' scontato. In ogni caso, la canzone ritorna su ritmi cadenzati, anche se la batteria non si limita a scandire il solito mid-tempo, ma risulta abbastanza varia e vivace, forse di più rispetto all'inizio, come se le emozioni di Satana cominciassero ad essere contrastanti e in conflitto tra loro: la ribellione avrà luogo, egli ne sarà il capo, ma il prezzo è pesante da pagare? Alla fine la libertà sarà da ricercare sotto terra. Tuttavia la voglia scappare e crearsi un regno tutto per sé è tanta: "They consider us slaves/ They steal our pride/ Don't trust them blindly". Possiamo quasi vederlo in mezzo agli altri angeli mentre inveisce contro il nemico e infuoca d'odio gli animi. Il ritornello, nonostante non sia così brillante, riesce però nel compito di enfatizzare la scena, anche grazie alla sua semplicità. L'assolo di Olbrich è su doppia traccia e ricorda molto da vicino le soluzioni lievemente più articolare e più recenti apprezzate nell'album precedente, anche se forse sarebbe dovuto durare un po' di più per poter funzionare al meglio. La 6-corde di Olbrich, come una vera e propria punizione divina spassionata, accompagna Satana e gli altri angeli caduti giù, sempre più giù, là dove la luce di Dio non arriva, ma il ribelle per eccellenza non si dà per vinto e calma i suoi alleati sconfitti avvertendoli che questa è pur sempre libertà? Ogni cosa seguirà il suo corso, quindi bisogna preservare tutto l'odio ed il rancore, magari in eterno, ma bisogna farlo. A questo punto siamo vicinissimi alla fine e le fiamme riempiono quello che ormai è diventato il regno del Male. Il ritornello ci accompagna in questo viaggio infernale e ci porta verso il finale e verso la luce con il suo incedere cadenzato e sicuro di sé, come se lingue di fuoco non possano toccarci e Satana stia seduto lontano da noi sul suo trono, intento a raccontare la sua storia.
War Of The Thrones
L'altra ballata dell'album è War Of The Thrones (Guerra Dei Troni), che, come si evince chiaramente del titolo, prende spunto da "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco" di George R.R. Martin. L'inizio è tutto in mano al pianoforte, che solo dopo qualche secondo viene affiancato da Hansi e il suo timbro "da ballata" e addirittura dei leggeri e soffusi archi in sottofondo. L'atmosfera è crepuscolare, molto pacata e rilassata, anche se ammantata da un tocco di malinconia che non può mancare se si parla dell'opera di Martin. Qui non è chiaro chi sia il protagonista della canzone, forse un personaggio importante o forse soltanto un personaggio di nessuna importanza che si trova in quel mondo e osserva ciò che succede. La calma voce di Hansi si trasforma piano piano, acquistando sfumature ruggenti che vanno di pari passo con l'innalzarsi dei toni musicali e l'aggiunta di altri strumenti, fino all'esplosione del ritornello, il quale è tutt'altro che malinconico e crepuscolare, anzi. Ora le linee vocali sono vivaci e solari, l'andamento sembra essere quello tipico dei pezzi medievaleggianti della band? Sembra quasi che il nostro narratore stia danzando intorno al fuoco mentre racconta la sua storia, che però contrasta molto con l'atmosfera gioiosa data dalla musica: "All I ever feel is/ All I ever see is/ Walls they fall/ When the march of the Others begins". La Barriera sta cadendo e gli Estranei la stanno attraversando, c'è ben poco da danzare in realtà? Tuttavia il buonumore continua anche nella strofa successiva, come se la storia fosse nient'altro che una storia, una fiaba da raccontare intorno ad un falò, niente di cui spaventarsi. Sembrerebbe così, ma improvvisamente la traccia fa nuovamente emergere i toni più pacati e riflessivi, dando l'impressione che il narratore si sia seduto in un angolo a riflettere su ciò che ha visto e su ciò che continua ad accadere. Uomini che si proclamano re, uccisioni a non finire, tradimenti, guerre? Tutto è grigio. Il cantare ed il danzare pare essere l'ultima cosa rimasta per trovare un momento di spensieratezza dunque, ed è così che il ritornello ridà vita al tutto con la sua pacata gaiezza. Le sensazioni positive ora si sono impadronite di noi, gli archi che prima erano in sottofondo ora si fanno sempre più presenti ed avvolgono tutto come delle fiamme, facendo sciogliere ogni traccia di ghiaccio. Però il freddo è forte? Tutto si smorza nuovamente e restano solo Hansi, il pianoforte e dei timidi archi che provano ancora a fare capolino da dietro il bianco, per quello che forse è il momento più intenso della traccia, anche per il contrasto con quanto l'ha appena preceduta. Un ultimo istante di riflessione prima di lanciarsi verso un'ultima danza spensierata e rassegnata che ci prende per mano e ci accompagna, insieme alle backing vocals, fino agli ultimissimi secondi, mentre nel resto del mondo la guerra dei troni impazza.
A Voice In The Dark
Ci troviamo ancora nelle "Cronache?" di Martin con il singolo A Voice In The Dark (Una Voce Nell'Oscurità), per cui fu anche girato un videoclip dove appariva un Hansi con i capelli corti. All'epoca la cosa mi stupì non poco! Se la traccia precedente parla del Mondo di Martin in modo abbastanza vago, la traccia in questione prende in esame un personaggio in particolare: Brandon Stark, il ragazzo rimasto paralizzato ma che sembra ancora avere un destino importante. Dopo due ottime ballate e due canzoni più cadenzate e non troppo entusiasmanti, la band ci sbatte in faccia dei riff thrashy che fanno subito venire l'acquolina in bocca e ci sorprendono ancora di più quando sentiamo la batteria cominciare a pestare e la tagliente chitarra ritmica di Siepen incastonarsi con quella melodica di Olbrich. Il pezzo parte veloce e deciso e sembra proprio che continuerà su questa strada. Le strofe si susseguono senza sosta e senza rallentamenti, la mente di Brandon è inquieta e in cerca di risposte? Chi è il corvo che lo perseguita? Cosa vuole? Un breve rallentamento in effetti arriva, ma noi già sappiamo che non basterà a cambiare il corso del brano, come un masso in mezzo ad un fiume non può arrestare il suo corso. Infatti i riff ripartono ancora più serrati di prima e le linee vocali di Hansi si fanno potenti ed epiche, adatte per anticipare un ritornello vecchio stile in cui le ritmiche si mantengono piuttosto veloci ma tutto suona molto melodico e arioso. Neanche qui mancano i cori ovviamente, ma non sono eccessivi e roboanti, hanno il loro spazio e fanno il loro lavoro rendendo la canzone ancora più potente ed arrembante. Il mistero che affligge Brandon però è ancora vivo e sembra palesarsi sotto forma di una profezia: "Fear the voice in the dark/ Be aware now/ Believe in dark wings and dark words/ The shadow returns". Un breve assolo melodico di Olbrich fa da collante con le nuove strofe che ci travolgono proprio come un'orda di bruti travolgerebbe i popoli che vivono al di sotto della Barriera. Ma non si parla di battaglie qui, no, qui sono i pensieri di Bran ad essere al centro dell'attenzione. I suoi dubbi riguardo la sua posizione, il fatto di essere paralizzato ed immobile ma perseguitato da voci ed immagini che sembrano predire un futuro di dolore? Come nella sezione precedente, anche qui abbiamo un piccolo rallentamento, ma anche qui la traccia torna subito sui suoi passi e si rende più epica ed enfatica, pure qui per fare da trampolino di lancio al riuscitissimo refrain corale, che è senza dubbio uno dei migliori dell'album. Dopodiché il tempo si fa più ritmato e possiamo apprezzare ancora di più il lavoro ritmico della 6-corde di Siepen, che forse qui è al suo meglio e ricorda tantissimo le cose dei tempi d'oro; Olbrich ovviamente non sta a guardare e sforna uno dei suoi assoli tipici, uno di quelli che spaziano tra momenti più veloci a momenti più melodici e ariosi in cui sembra che il protagonista trovi per un attimo la pace dei sensi. C'è poco da fare però, perché la canzone riparte veloce e nervosa, mentre il povero ragazzo continua ad avere dubbi e paure: "In vain/ Still I don't understand/ So talk to me again/ Why do I fear these words?/ What keeps holding me back?" Un ennesimo rallentamento però sembra cambiare la situazione: i riff serrati e taglienti vanno in secondo piano e l'atmosfera si fa per un attimo più calma e rilassata, come se adesso fosse proprio la voce a parlare a Bran, dicendogli che lui è la chiave e deve assolutamente iniziare a capire qual è il suo ruolo. Non molto rassicurante, ma per lo meno qualcosa comincia ad uscire fuori. Poco dopo però il momento rilassato si perde nell'aria, cacciato via dai ritrovati riff che spianano anche la strada all'ultima ripetizione del refrain. Il finale è tutto appannaggio di riff e ritmiche potenti che si rincorrono e sembrano scuotere le montagne di Westeros, proprio come una canzone dei Blind Guardian dovrebbe fare.
Wheel Of Time
L'album si chiude con la lunga Wheel Of Time (Ruota del Tempo), che, proprio come la traccia iniziale, è quella in cui l'uso dell'orchestra è massiccio e ben presente, anzi, a dir la verità qui si raggiunge proprio l'apice. Già dai primissimi secondi, infatti, le sinuose note degli archi e delle percussioni ci avvolgono e danzano attorno a noi in un'atmosfera tutta mediorientale, fino a quando il vocione di Hansi ed i cori emergono da dietro le dune del deserto con veemenza, portando con loro anche chitarre e batteria. A questo punto la canzone inizia sul serio, con ritmiche cadenzate ed imponenti che vengono amplificate dall'aiuto di profondi e gravi fiati in sottofondo che fanno sembrare la canzone una struttura gigante che avanza verso di noi gettando ombra su tutto ciò che le se para davanti. Gli archi invece sono più vivaci, e questo crea un bel contrasto con l'imponenza. Ovviamente questa è solo una sensazione iniziale, visto che in quasi 9 minuti i Blind Guardian hanno il tempo necessario per inserire passaggi variegati e contrastanti a volontà, rendendo quasi ogni strofa unica nel suo genere. Man mano che andiamo avanti, in effetti, possiamo sentire come il tappeto sinfonico non sia mai uguale a sé stesso e muti in continuazione come un'enorme nuvola spinta dal vento, lasciando magari immutati alcuni punti cardine. Anche gli strumenti Metal fanno la loro parte, anche se ad un ascolto non proprio attento risultano abbastanza sommersi dalle maestose orchestrazioni. André però ha la possibilità di farsi sentire con un brevissimo assolo melodico, e da questo momento la canzone sembra farsi più nervosa, soprattutto quando la voce di Hansi diventa più graffiante e la batteria di Ehmke comincia ad accelerare il tiro, permettendo anche ai riff di Siepen di emergere dal muro sonoro. L'accelerazione non dura molto, ma ci trascina con forza verso il teatrale e luminoso ritornello, che con le sue linee vocali ariose e pompose e le sinfonie bombastiche esplode in tutta la sua lucentezza e solarità, inondando di luce ogni angolo della nostra stanza! Come si sarà intuito dal titolo, poi, questa è un'altra canzone che parla dell'enorme omonimo lavoro di Robert Jordan. Proprio il refrain ci parla sinteticamente di questa Ruota del Tempo che gira in continuazione e per sempre, come già ci era stato fatto capire in "Ride Into Obsession": "There's no end/ Wheel of time/ It keeps on spinning/ There's no beginning". Dopo tutta questa luminosità, però, la canzone vira verso schemi più cupi e minacciosi che sfociano in un altro assolo di Olbrich, stavolta più lungo, che è accompagnato dall'orchestra in ogni sua nota e sfocia, a sua volta, in una strofa veloce ed eccitante in cui le liriche sembrano parlare di una forza malvagia che sembra andare di pari passo con la Ruota. Il refrain però torna a spazzare via ogni nube e lo fa ancora più teatralmente di prima grazie ad una struttura lievemente differente (più semplice e più bombastica) dalla sua prima apparizione. Il momento più interessante però si trova a metà brano, ovvero quando le redini della traccia vengono affidate totalmente all'orchestra. Chitarre, basso, voce e batteria svaniscono per lasciare il posto alla sola orchestra, la quale ci delizia nuovamente con atmosfere mediorientali e calde che ormai sembrano essere una costante. La sezione è composta così bene che davvero ci sentiamo con i piedi nella sabbia, circondati da colori accesi, da palme e dromedari. Qui tutto sembra avere l'aria di una colonna sonora, se ci pensiamo. Tuttavia, il momento presto rilascia il posto ad Hansi, ma resta come uno dei più riusciti ed interessanti di tutto l'album, e sicuramente come un unicum all'interno della discografia dei Bardi, come potrebbe esserlo la traccia stessa d'altronde. In ogni caso, da questo momento in poi non troviamo più molte sorprese, visto che il più dello spazio rimanente è occupato dal ritornello, ma i versi continuano comunque ad incastonarsi tra loro in un modo davvero magistrale e naturale che fa sembrare la composizione semplice e lineare, proprio come gli avvenimenti e le lotte tra Bene e Male si susseguono eternamente, senza soluzione di contiguità e naturalmente. Come dicevamo, il ritornello è il grande protagonista degli ultimi istanti del brano, e lo è anche grazie alle solite orchestrazioni che ora sono ancora più presenti di prima, rendendo il tutto molto teatrale e fragoroso, dando alla canzone un finale degno dei minuti che sono trascorsi fino a questo momento. Un finale in cui anche la Ruota è al centro di tutto, la Ruota costruita dal Creatore e al centro degli avvenimenti che regolano l'Universo. Insomma, un protagonista che sarà anche non animato ma che ha, nello stesso tempo, un ruolo importantissimo e davvero influente. Non a caso la canzone è tutta incentrata su questo, dal titolo passando per il celebrativo ritornello fino agli ultimi versi, che guarda caso ribadiscono il concetto della lucentezza che: "Shine on/ Embrace and deny me/ Turn on, wheel of time/ Shine on". Un brano del genere i Blind Guardian non l'avevano mai fatto, ma è lecito pensare che fosse nei desideri di Hansi già da molto tempo.
Conclusioni
Come vi avevo anticipato nell'introduzione, quest'album potrebbe sembrare come una continuazione del percorso iniziato con "A Twist?", ovvero quello incentrato su un parziale ritorno a sonorità più classiche. Ebbene, questo è vero, ma in parte. Era vero solo in parte anche per l'album del 2002, in quanto pure lì non è un semplice e revival quello che si poteva apprezzare, dato che non mancavano le solite canzoni più dinamiche e dal retrogusto Prog, come poteva essere una "Fly". Qui, nello stesso modo, possiamo apprezzare alcune canzone dal piglio e dal tiro tipico dei Blind Guardian degli anni '90, sicuramente in maniera maggiore rispetto a quanto udibile nel precedente lavoro, basti pensare a "Tanelorn", "Ride Into Obsession" e "A Voice In The Dark"; quindi brani molto veloci, ricchi di riff serrati e taglienti, epici, scorrevoli, senza troppi abbellimenti e soprattutto potenti. Tuttavia, come abbiamo visto durante la recensione, non mancano neanche canzoni in grado di stupire per le novità che portano in casa Bardi. Faccio ovviamente riferimento alle canzoni di apertura e chiusura dell'album, che sono, rispettivamente, "Sacred Worlds" e "Wheel Of Time". Due canzoni che rappresentano un'assoluta novità nella discografia della band. È vero che in "A Night At The Opera" (e anche in episodi degli album precedenti) era palese questa passione per le orchestrazioni e le stratificazioni sonore, è anche vero che una vera orchestra non era mai stata usata, qui invece è stato possibile proprio usufruire del significativo aiuto di una vera orchestra, e la differenza si sente. Non che l'uso di tastiere abbia in qualche modo rovinato le canzoni in passato e si sia sentito il bisogno di strumenti "veri", ma è indubbio che sentire violini, violoncelli, strumenti a fiato e quant'altro dà alla canzone una certa tridimensionalità rispetto a delle campionature. Inoltre, aggiungo, le due canzoni in questione non si somigliano neanche un po', confermando ancora una volta l'abilità della band di non ripetersi mai, anche quando un nuovo mezzo potrebbe portarli ad abusare. Una infatti, l'opener, è più dura, drammatica e dalla struttura più semplice, con l'orchestra in primo piano soprattutto all'inizio e alla fine; l'altra, quella posta in chiusura, è decisamente più bombastica e appariscente, più teatrale e dalla struttura più imprevedibile. Al di là di questo, comunque, è la qualità media delle canzoni a stupire. Se escludiamo "Control The Divine" e "Valkyries" (che forse sono le uniche due canzoni leggermente sottotono rispetto alle altre) l'album viaggia su livelli abbastanza alti e a volte anche molto alti. Complice sicuramente anche la volontà di tornare alle sonorità classiche citate più su, che è una cosa che non dispiace mai a nessun fan, neanche a quelli abituati agli sperimentalismi e all'arricchimento del sound (tipo il sottoscritto). Questo la dice lunga su quanto siano stati importanti gli anni '90 per la band e per tutti i fan, dopotutto i veri capolavori sono lì e molti non hanno mai digerito la virata stilistica intrapresa dalla band, neanche uno dei suoi membri, ovvero il mitico e mai troppo lodato Thomen Stauch, lo storico batterista che lasciò la band dopo l'album del 2002. Va detto che il sostituto Ehmke aveva già dimostrato nel 2006 di essere un degno sostituto, preciso e potente, forse più tecnico del vecchio Thomen e anche polistrumentista, tutte qualità che emergono anche qui, ma dispiace molto non sentire più le bordate e le cavalcate terremotanti che hanno accompagnato la band per molti anni. Lo stile di Stauch era riconoscibile come pochi altri. Va però detto che forse Ehmke soffre anche una produzione a volte un po' priva di mordente che lo relega più in secondo piano rispetto al suo predecessore. Le produzioni della Nuclear Blast sono sempre pulitissime e limpide, pure troppo a volte, ma ogni tanto suonano anche un po' piatte. Qui la produzione è buonissima, va detto e l'avevo già accennato, le orchestrazioni si sentono tutte benissimo, gli strumenti medievali di "Curse My Name" altrettanto, le chitarre ritmiche tornano a tagliare, eppure un pelo di potenza in più avrebbe solo che migliorato ancora di più il risultato. Ripeto, però, che la produzione è buonissima, e queste forse sono critiche pignole di un fan che vorrebbe sentire ancora i Blind Guardian far tremare la terra. Per concludere, anche se con qualche piccolo difetto, "At The Edge Of Time" è un album davvero buono che molto probabilmente supera anche i problemi di coesione interna che aveva "A Twist In The Myth" e ci dona un altro insieme di tracce di tutto rispetto, anche ottime, che continuano a portare alto il nome dei Bardi di Krefeld.
2) Tenelorn (Into The Void)
3) Road Of No Release
4) Ride Into Obsession
5) Curse My Name
6) Valkyries
7) Control The Divine
8) War Of The Thrones
9) A Voice In The Dark
10) Wheel Of Time