BLIND GUARDIAN
A Twist In The Myth
2006 - Nuclear Blast Records
CRISTIANO MORGIA
11/04/2018
Introduzione recensione
Ecco qui l'ottavo album dei Blind Guardian, giunto ben quattro anni dopo il precedente "A Night At The Opera (2002). Chi conosce bene i Nostri non si stupirà di questa pausa così lunga, anzi, sa bene che ormai far passare anni tra un album e un altro è una loro prassi. Ad inizio carriera il lasso di tempo più lungo era di due anni, poi si è passati a tre e infine ai famosi quattro anni tra "Nightfall In Middle-Earth" (1998) e lo stesso "A Night?" Anche qui, come già fatto notare, gli anni sono quattro; un numero destinato a ripetersi anche in futuro. In ogni caso, chi conosce bene i Nostri, sa bene anche che i Bardi non hanno fretta e curano ogni loro lavoro con una perizia tale da giustificare i lunghi tempi di attesa. In poche parole, meglio aspettare per pochi album ben fatti che vedere sfornare album mediocri a raffica. Va poi aggiunto che gli ultimi due album della band sono tra i più complessi e ricchi mai composti, e questo è un altro motivo per cui c'è stato da aspettare così tanto. Ora, "A Twist In The Myth" è dunque un altro album complesso, teatrale, mastodontico e sinfonico sulla scia del precedente? Un altro album che giustifichi un lunghissimo lavoro certosino poiché pieno di elementi? In realtà non è proprio così, come vedremo nel corso dell'articolo. Il precedente lavoro aveva mostrato i Blind Guardian in una veste più magniloquente e sfarzosa che mai, i loro famosi cori erano ancora più numerosi e presenti del solito, così come le sovraincisioni e le partiture tastieristiche. Era un'opera davvero ben fatta ma che aveva fatto storcere il naso a più di qualche fan per il suo essere troppo prolissa e preziosa, mancante di quelle soluzioni dirette e potenti tipiche della band. Sicuramente tutti si sono domandati quale direzione avrebbero preso i tedeschi: se avrebbero continuato su un percorso simil-sinfonico (e il loro percorso stilistico-musicale avrebbe potuto far presagire questo), oppure se avrebbero preso tutt'altra via alleggerendo la proposta dai difetti di "A Night?" L'ottavo album dei Blind Guardian si inserisce proprio nella seconda via. Quasi a sorpresa la band rilascia un album molto più semplice e diretto del precedente, senza troppe spinte teatrali o da musical e senza troppi pezzi intricati e strabordanti di cori, forse con l'intento di tornare un po' sui propri passi cercando soluzioni che avrebbero richiamato a casa anche i fan delusi, anche se va detto che i Nostri non sono mai stati una band incline ad accontentare i gusti ed i capricci del vasto pubblico, e, come vedremo, parlare di un semplice ritorno al passato è fuorviante. Ovviamente, da musicisti di altissimo livello quali sono, i Guardiani non abbandonano o rinnegano quanto fatto fino a quel momento, lo riutilizzano incanalandolo in una direzione diversa che però porta ancora la firma della band, la quale si legge benissimo e senza troppi sforzi. Quindi troveremo ancora i celebri ritornelli cathcy, pomposi e corali (marchio di fabbrica della band da ben prima di "A Night?" comunque), ma non troveremo canzoni di 6, 7 o addirittura 14 minuti, per esempio; troveremo i soliti begli assoli e le solite ritmiche rocciose, ma non troveremo più le innumerevoli armonie di Olbrich o le strutture intricate e multiformi. Insomma, ancora una volta i Blind Guardian prendono quanto di buono e caratteristico fatto fino a quel momento e lo cambiano leggermente, lo limano e lo alleggeriscono a seconda del loro volere, lasciando però sempre intatta la loro riconoscibilissima personalità. Per quanto riguarda il battersita Thomen Stauch c'è però una brutta notizia: lo storico batterista della band, presente praticamente da sempre e uno dei migliori e fondamentali per quanto riguarda il Power Metal (ed il mio preferito in assoluto), non è presente in quest'album in quanto non più parte della formazione. Pare proprio che abbia lasciato la band dopo "A Night?" perché non contento della direzione intrapresa dalla band, una direzione in cui sembrava non esserci più molto spazio per le sue bordate e cariche di cavalleria in doppia cassa. Forse è vero, e in un'intervista Hansi lo conferma, ma sta di fatto che un anno prima dell'uscita di "A Twist?" uscì il debutto dei Savage Circus, band dalle sonorità molto simili a quelle dei Bardi degli anni '90. Comunque, i Bardi non erano di certo rimasti con le mani in mano lasciando l'album senza batterista, il sostituto è infatti il giovane Frederik Ehmke, il quale si rivela una scelta azzeccata in quanto in grado di suonare anche flauto e cornamusa. Adesso, dopo le dovute premesse, vediamo quanto e come quest'album suoni diverso dal precedente.
This Will Never End
Le danze vengono aperte da "This Will Never End" (Questo Non Finirà Mai) ed il suo riff che riesce ad unire sonorità Thrash a sonorità più moderne e pulite. In un batter d'occhio ci troviamo in un veloce vortice in cui svetta Hansi con uno dei suoi rarissimi acuti e le ritmiche sembrano portarci indietro ai tempi di "Imaginations?" Le prime due strofe rallentano il tiro, ma restano comunque rocciose e quadrate, offrendo uno sfondo perfetto per il cantante ed il suo incedere guardingo e misterioso: "I am the soul collector/ Dressed in ebony,/ There are no rules/ But only one". La figura a cui si fa qui riferimento altri non è che la Morte in persona, apparsa davanti al protagonista della vicenda. Per questa canzone i Bardi tornano al Fantasy (leggermente accantonato nell'album precedente) "musicando" il romanzo intitolato "A Wild Ride Through the Night" (2001) di Walter Moers; il protagonista è il celebre artista Gustave Doré, il quale (dodicenne nel racconto) si ritrova a fare i conti con la Morte, sua sorella Dementia e le prove impossibili che loro gli mettono davanti. Tornando alla musica, il momento topico del brano è senza dubbio il ritornello, il quale resta sempre su ritmiche non veloci ma si eleva verso l'alto e verso la luce grazie agli ariosi ed accattivanti cori. È davvero un bel ritornello che ha anche il pregio di essere abbastanza semplice ed immediato. Dopodiché la canzone ritorna sullo stile presente anche nelle prime strofe, ma dopo non molto esplode grazie ad un ennesimo acuto di Hansi e si lascia andare a velocità sostenute in cui spicca la potente batteria del nuovo entrato Ehmke. Il brano comincia ad essere ammantato da una certa aura cupa e minacciosa che ci fa immaginare il povero Doré alle prese con le sue 6 missioni da portare a termine per evitare la morte. Il ritornello però riporta la pace. Non che sia un refrain atmosferico e rilassante, anzi, però le linee vocali e le chitarre sono distese e quasi serene, pur nascondendo una certa malinconia che è anche naturale, considerando il tema. L'assolo centrale è in pieno stile Olbrich e presenta anche delle interessanti sovraincisioni che lo rendono più interessante, insieme, poi, alla repentina accelerazione che continua anche dopo il suo termine e guida pure le strofe che seguono. Sembra che il percorso di Doré si faccia più complicato e nervoso con il passare dei secondi, ma il ritornello è sempre là come un Sole nel cielo, sempre presente anche se nascosto, pronto a portare un finale che non vi rivelerò: "I have told/ That this will never end (this will never end)/ Things go on/ But nothing will last,/ Only the fool in me believes/ There is sense in it./ In distant shores of grief/ It's over now!"
Otherland
Giunge il momento di arrivare "Otherland" inizia immediatamente e senza troppi indugi, Hansi infatti comincia a cantare già dal settimo/ottavo secondo. Da questi primi cadenzati secondi capiamo che il pezzo in questione sarà differente dall'opener, in quanto i tempi sono più cadenzati e le chitarre meno taglienti; in più la voce di Hansi è meno irruenta, più bassa e più narrativa. Con lo scorrere del tempo il brano sembra farsi addirittura misterioso e dall'incedere cauto e attento, come se ci fosse un pericolo dietro l'angolo. All'improvviso però i riff tornano a farsi sentire di più e con loro anche la batteria: le ritmiche restano comunque piuttosto cadenzate, ma i riff sono abbastanza elaborati e le linee vocali strizzano l'occhio a molte delle soluzioni più pompose e ariose dei Bardi, cosa che emerge ancor di più nel bel ritornello. Qui fanno la loro comparsa anche gli immancabili cori che rendono il tutto molto orecchiabile e possente nello stesso tempo, anche perché la batteria resta salda su un roccioso mid-tempo che contrasta parecchio con la fastosità delle voci. Inutile dire che il contrasto funziona benissimo, soprattutto se leggiamo le liriche, tutt'altro che fastose o positive: "You're a part of the game/ You're a slave to the grind/ Oblivion/ Is your key to the Otherland/ You're a part of the game/ You're cursed/ You're damned". Si fa qui riferimento alla tetralogia fantascientifica di Tad Williams intitolata per l'appunto "Otherland". In questo ciclo futuristico, per farla molto breve, le persone possono immergersi quasi totalmente in realtà virtuali che potrebbero sostituirsi alla vita reale. Da qui il testo del refrain. Tornando alla musica, dopo questo momento Olbrich emerge dal muro sonoro per un po' con le sue tipiche melodie che in qualche istante mi hanno ricordato Brian May. Dopodiché il brano si mette nuovamente sui binari iniziali, procedendo dunque cautamente e senza clamore, con Hansi che, spiano e su note basse, lascia trasparire molto bene le problematiche della situazione. Tuttavia, le chitarre e la batteria tornano in bella vista per dare uno scossone al tutto e guidarlo verso uno dei ritornelli più riusciti dell'album. A questo punto possiamo apprezzare un'accelerazione in cui svetta Olbrich con, anche qui, uno dei migliori assoli dell'intero album. Lo stile è tipicamente il suo, eppure si sente che c'è qualcosa di nuovo. Dopo l'assolo, che avrei voluto fosse durato di più, la canzone resta stranamente su ritmiche medio-veloci sulle quali si inseriscono delle liriche che ci fanno capire quanto sia problematico sostituire la vita reale con una virtuale: "?The entrance is gone/ We can't get out of it?" Il ritornello però ritorna con tutta la sua ariosità e apparente positività, sorretto sempre dalla possente batteria di Ehmke, e ci trasporta verso la fine di quella che possiamo tranquillamente definire come una delle migliori canzoni presenti su quest'album.
Turn the Page
Un riff dal retrogusto celtico dà il via al successivo brano dal titolo "Turn The Page" (Gira Pagina), un brano molto solare e piacevole che si rende orecchiabile già dai primissimi secondi. L'incedere generale è medio-veloce, ma non mancano momenti in cui la band accelera leggermente di più guidata dai riff delle asce Olbrich e Siepen e dalla batteria del nuovo arrivato. Uno dei momenti più belli della canzone è costituito dalla strofa che precede il pre-chorus, in quanto le ritmiche si fanno meno rocciose e la chitarra di Olbrich disegna melodie, anche qui, dal sapore celtico e danzante che sembrano attorcigliarsi intorno alle belle linee vocali di Hansi come l'edera intorno al tronco di una quercia. L'immaginario naturale non mi viene in mente proprio casualmente: si parla infatti dei riti Wiccan sulla rigenerazione e sul cambio delle stagioni, quindi non può venire in mente un certo scenario, anche se va detto che forse sarebbe venuto in mente comunque grazie proprio alla musica dei Bardi, senza il bisogno di leggere il testo. In ogni caso, con il pre-chorus la traccia ricomincia ad essere lievemente più rocciosa e gioiosa essendo aiutata, oltre che dalla 6-corde di André, anche dai cori che cantano di questo cambiamento stagionale: "Turn the wheel again/ A new beginning/ Another end/ Dried out the land needs blood/ Inside the ring we're waiting/ Give up yourself/ Enter life". Con il ritornello vero e proprio, invece, le ritmiche rallentano ed i cori si fanno più ariosi e distesi, quasi più rilassati ed adagiati su un letto di foglie, ma non perdono comunque di vitalità. Vitalità che è sempre mantenuta, infatti, da Olbrich, ma anche dal modo in cui la band procede nelle strofe seguenti ora rallentando lievemente il tiro ora accelerandolo, dando al tutto un'energia positiva non indifferente. La primavera è ormai alle porte dopotutto: "?We know/ There is light beyond the dark". L'atmosfera vagamente festosa è sempre intervallata dal più lento ritornello che non disturba comunque l'arrivo della luce e della bella stagione, magari ci fa solo capire come i primi tempi di questo cambiamento siano sempre incerti. L'incertezza però dura poco e si torna subito alla festosità portata, verso il finale, anche da dei cori in sottofondo che ci fanno venir voglia di danzare in un bosco verdeggiante. Dopodiché il refrain torna per un'ultima volta a rallentare il rito, ma Olbrich ancora una volta emerge dai cori con un breve e vivace assolo che chiude definitivamente la canzone.
Fly
Arriviamo ora a quella che forse è la canzone più famosa dell'album e sicuramente la più particolare e caratteristica: "Fly" (Vola). Già l'inizio, con quelle percussioni quasi tribali, i suoni elettronici e le tastiere che accompagnano dei riff particolarmente duri ma apparentemente statici, fa presagire degli sviluppi che potrebbero rilevarsi inaspettati. Dopo la prima strofa che si adagia su questo tessuto appena descritto, il brano parte verso velocità più tipiche della band in cui anche i riff sono meno monolitici, ma è questione di poco, in quanto la musica ritorna su tempi lenti e abbastanza tranquilli in cui possiamo ancora sentire dei suoni elettronici. La voce di Hansi è sempre molto chiara e narrativa, e stavolta ci presenta Peter Pan e Wendy, i famosi personaggi nati dalla penna di James Matthew Barrie: "There at the door/ The inspiration I've looked for/ The spirit of the youth appears". Dopo questo momento i riff tornano ad essere più presenti e attivi, come a simboleggiare la voglia della giovane ragazza di seguire l'eterno giovane volando via; va però detto che questo brano riprende molto la linea di "A Night?", proponendo accelerazioni e rallentamenti improvvisi che rendono il brano molto variegato, simil-Prog e difficile da inquadrare in una struttura precisa. Infatti, ancora una volta, tutto rallenta e si quieta nuovamente e appaino degli strani suoni di tastiera che accompagnano il pre-chorus, il quale come ci si aspetta dà vita ad un ritornello più in linea con lo stile della band, quindi con suoni enfatici e linee vocali positive che hanno anche modo di intrecciarsi tra loro, anche se forse non è un refrain che resta impresso al primissimo ascolto. Dopo un assolo distorto di Olbrich possiamo quasi vedere Wendy prendere la mano di Peter Pan e lanciarsi dalla finestra della sua cameretta verso il vuoto, vibrandosi però nel cielo di Londra guidata dal giovane verso una meta ben precisa e famosissima, così come sono famose le indicazioni cantate dal tedesco: "The second one to right/ And then straight on/ Until morning light". Da questo momento in poi entriamo nei momenti più interessanti della canzone, in quanto, oltre ad esserci molti cambi di tempo, sono presenti anche molte linee vocali e melodie che lasciano il segno e che riescono benissimo a dare l'idea del volo e dell'eccitazione che esso comporta. Sono momenti molto positivi in cui i cori vanno a mettere l'accento e quell'enfasi in più che fa venire voglia anche a noi di tornare bambini e volare verso l'Isola Che Non C'è. Il ritornello spezza un po' questo crescendo riportando la canzone ad una certa gaia pacatezza che comunque serve a non rendere il brano troppo dispersivo. L'assolo di Olbrich, in ogni caso, ci riporta verso altri momenti più veloci e magici, oserei dire, in cui i Bardi riescono a far cadere un po' di polvere di fata anche sulle nostre spalle. Dopo un'ultima strofa (anch'essa ricca di bei momenti) il ritornello ci porta verso la fine della canzone affidata alle rare note acute di Hansi. "Fly" ormai è un punto fisso nella scaletta dei Nostri e senza dubbio uno dei pezzi migliori dell'album, ma devo ammettere di averci messo moltissimo (anni?) per apprezzarlo appieno e per assimilarne la poesia; quasi sicuramente è perché purtroppo dal vivo non mi ha mai entusiasmato quelle volte in cui l'ho vista ed ero lì presente, perde qualcosa in profondità forse? Ma questa è un'altra storia!
Carry the blessed home
Un altro buon pezzo è "Carry The Blessed Home" (Portate Il Benedetto A Casa), il quale si apre in modo molto delicato, da ballata, con soffici arpeggi e leggere tastiere in sottofondo su cui, nella prima strofa, si adagia l'altrettanto calma e rilassata voce di Hansi. In un attimo, però, arriva una sorta di ritornello con i suoi soliti cori solari e catchy sorretti dalle armonie di Olbrich e dalla rocciosa e cadenzata batteria di Ehmke. Un cambio totale e repentino. Dopodiché il brano torna ad essere piuttosto rilassato, ma la batteria resta a scandire il tempo e la voce di Hansi è più alta e, a volte, accompagnata da sovraincisioni e addirittura dal suono di una cornamusa (suonata proprio da Ehmke) che si trascina anche verso il secondo, e più semplice, ritornello che recita: "Carry the blessed home/ No one's left here but me/ And I'll sing out your name". La traccia, comunque, parla di due personaggi nati dalla penna di Stephen King, ovvero Roland di Gilead (il Pistolero) e Jake Chambers, entrambi presenti in "La Torre Nera". Il testo sembra essere incentrato sul loro rapporto e sul suo tragico epilogo (accennato anche nella canzone "Somewhere Far Beyond degli stessi Bardi). Il Pistolero infatti, per seguire l'uomo in nero, lascerà cadere Jake, considerato alla stregua di un figlio, in un precipizio. I versi che seguono, quieti e malinconici musicalmente, ci fanno entrare proprio nella mente di Roland, il quale riflette sulla sua scelta: "I've open my heart/ And my soul to you son/ So pale turns the innocence/ And all I feel is pain./ Suddenly I understand/ He's gone". Dopo questo momento introspettivo il primo ritornello emerge dall'ombra con la sua carica positiva ed è addirittura seguito da un bell'assolo melodico di Olbrich (pure qui vagamente alla Brian May) che permette anche alla batteria di essere più viva e presente mentre da lontano risuona la cornamusa. La canzone poi prosegue senza tante sorprese, riproponendo quindi una nuova strofa sullo stile delle precedenti e altre ripetizioni del ritornello che si trascinano verso il finale del pezzo così come il Pistolero si trascina in avanti nel suo percorso cercando di dimenticare quanto accaduto. La cornamusa di Ehmke risuona per un'ultima volta e tutto si spegne, forse anche il dolore.
Another Stranger me
Con la traccia n°6 entriamo nella parte un po' sottotono dell'album, parte che viene aperta da "Another Stranger Me" (Un Altro Me Sconosciuto), traccia per la quale è stato girato anche un videoclip. L'inizio è tutto incentrato su una progressione medio-veloce di riff granitici e semplici in cui possiamo sentire anche le tastiere. La prima strofa però si fa decisamente più tranquilla e pacata grazie agli arpeggi e alla voce sussurrante di Hansi, la quale ha un retrogusto sinistro. Questo retrogusto è presto spiegato nella più veemente e "metallica" strofa che segue, dove le liriche ci descrivono quella che sembra essere una situazione di bipolarismo: "?Let's find out now/ That I am not dreaming/ Welcome to my damnation/ Here it comes the real me". Il ritornello arriva in un attimo, ma non risulta così vincente come altri dei Bardi, anzi, sembra anche molto diverso dal solito: è infatti molto semplice e privo di quella potenza immaginifica tipica dei Blind Guardian, ma per fortuna è impreziosito dal lavoro della chitarra di Olbrich. I riff del duo Siepen/Olbrich suonano duri e tendenti al Thrash, e ciò ci piace, ma tendono ad essere anche un po' monocorde a tratti, e questo rende la canzone un po' statica e priva di veri e propri guizzi. Il ritorno del refrain, piacevole soprattutto grazie all'ultima strofa corale, infatti non riesce a sollevare del tutto la situazione (che non è comunque tragica, sia chiaro). A sollevare il tutto ci pensa il solito Olbrich che ci offre un assolo davvero ben fatto che suona nervoso e quasi schizofrenico, grazie anche all'accelerazione di Ehmke. Insomma, un assolo che sembra adagiarsi comodamente sul tema del brano. Intanto il nostro Io narrante, in una strofa che riporta la canzone verso lidi apparentemente più calmi, è in preda alle peggiori sofferenze mentali a causa del suo problema che pare non riuscirsi a risolvere, anzi, ormai si è giunti al limite: "?Can't resist/ Cold and sore/ The bolt of pain/ Keeps ripping through my head/ I can take no more". In un attimo la musica si fa più dura: sembra che la traccia stessa sia bipolare, in quanto alterna strofe calme guidate dagli arpeggi a strofe più prettamente Metal. Ecco, questo è un elemento interessante. In ogni caso, alla fine troviamo ancora il ritmato ritornello che a questo punto riusciamo quasi a considerare piacevole, ma credo sia grazie alle ritmiche in generale e, come già detto, alla melodia chitarristica di Olbrich che lo avvolge e ci trascina verso la chiusura vera e propria.
Straight Through The Mirror
"Straight Through The Mirror" (Dritto Attraverso Lo Specchio), oltre a riproporre uno dei tempi più usati da Hansi (lo specchio) è anche il pezzo più classicamente Power dell'album, e a dirla tutta potrebbe essere il loro pezzo più Power da qualche anno a questa parte. I riff iniziali, coadiuvati dalle tastiere, strizzano l'occhio a certe soluzioni degli anni '90, così come le ritmiche medio-veloci in cui spicca una bella melodia distesa e danzante di Olbrich. Dalla prima strofa, che parte in modo piuttosto cadenzato e dominato da riff granitici, la canzone sembra accelerare sempre di più fino a lasciarsi andare ad un'accelerazione in doppia cassa squisitamente Power (in cui spicca un'altra melodia vincente del buon André) che sfocia nel brevissimo, semplice e piacevole pre-chorus. Il ritornello corale e vagamente sognante si lega direttamente ai due versi che lo precedono e Hansi ci guida, non a caso, proprio nel mondo dei sogni, pieno di meraviglie, contraddizioni e pericoli: "The end's a miracle/ Dream on if you dare/ Straight through the mirror/ We'll sail on through the air/ There's magic everywhere/ Just be aware/ Wake up when the crow will call". Segue quindi uno dei tanti brevi assoli melodici di Olbrich che legano le parti di moltissime canzoni dei Bardi, proprio come succede qui, dove il suono della 6-corde fa da ponte tra il refrain e la strofa successiva, e tra questa e la sezione che contiene il pre-chorus. L'atmosfera generale è piacevole e, nonostante la durezza delle parti chitarristiche, molto pacata e rilassata; Hansi canta di come i sogni siano liberi da regole e schemi e di come essi cambino repentinamente, un po' come le sue stesse canzoni se pensiamo a quest'ultimo punto. Il ritornello conferma quest'atmosfera sognante e noi ne gioiamo facendoci cullare dai cori e le loro linee vocali. Dopodiché ci pensa ancora una volta Olbrich a svegliarci, e lo fa con un gran bell'assolo che alterna momenti più melodici a scale dal vago retrogusto Neoclassical; pure qui il sound del chitarrista tedesco mi ha fatto pensare a quello di Brian May, chissà se è solo una mia sensazione, in ogni caso questo potrebbe essere l'assolo migliore dell'album. Olbrich però ha cambiato l'atmosfera pacata, il sogno si è trasformato in un incubo! La batteria di Ehmke si fa più dura e veemente mentre Hansi alza il tono della sua voce rendendosi più aggressivo e preoccupato: "There is something wrong/ It's twisting and turning/ When everything's burning/ Awake/ It's not safe". All'improvviso però anche questo clima cambia ed il tutto si fa più ritmato e quasi giocoso, a riprova del fatto che i sogni cambino velocissimamente senza un perché e senza uno schema da seguire. La cosa sicura però è che loro sono sempre lì ogni volta che chiudiamo gli occhi, come uno specchio verso un altro mondo, e nello stesso modo il ritornello è lì a fare da punto focale e finale della traccia più lunga dell'album.
Lionhearth
L'inizio di "Lionhearth" (Cuore Di Leone) è molto diverso da quello che i Blind Guardian suonano di solito. Questo perché anche qui troviamo un suono delle chitarre molto moderno e cupo unito al suono di tastiere ora sinfoniche ora elettroniche. La prima strofa ritorna su lidi riconoscibili mantenendo quell'aura leggermente cupa e malinconica dell'inizio e anzi, sottolineando quest'ultimo aspetto grazie alle linee vocali di Hansi che ci danno un sensazione di stanchezza. Molto interessanti sono i 3 versi finali, in cui i riff delle due asce si fanno meno monocorde e le stesse linee vocali riescono a catturare l'attenzione con il loro incedere più arioso. Il ritornello, sorretto da una batteria molto attiva e accarezzato da leggeri cori evanescenti, ci svela il protagonista del pezzo, che non è il famoso Riccardo Cuor Di Leone come si potrebbe pensare, bensì Ulisse: "?I am ashamed/ I myself can't make it/ Drown Ulysses/ Drown here in the silence/ Cause down to Hades I've gone/ But I cannot get out". Il protagonista dell'Odissea è sceso nell'Ade ma non riesce più ad uscirne e proprio da qui si capisce l'atmosfera scura e grigiastra del brano. Anche dopo il solito breve assolo di Olbrich le cose restano così, la batteria è molto viva e variegata, ma l'incedere della traccia è stanco, ciondolante e tendente all'onirico; possiamo immaginarci Ulisse vagare senza una meta con la paura di restare per sempre insieme alle ombre mentre il tempo scorre inesorabile. La canzone ripropone dunque la strofa iniziale e pare quasi che Hansi voglia fare qualche riferimento a Dante ed al suo incontro proprio con Ulisse nel canto XXVI (Inferno), ma risulta tutto molto criptico per poter esserne certi. In ogni caso, il refrain ci mette nuovamente davanti ad un Odisseo inquieto ed impaurito, molto diverso quindi da quello che conosciamo, a riprova del fatto che al cantante dei Bardi piaccia giocare con la letteratura e la cultura in generale per presentare ed inventare dei lati sconosciuti o nascosti di personaggi famosissimi. Il ritornello comunque ha il pregio di confermare l'andamento generale del brano, ma non risulta come uno dei più riusciti dell'album, anzi, quella sensazione di evanescenza e spossatezza potrebbe essere un'arma a doppio taglio. La sezione solistica però risulta molto più energica del resto grazie alle plettrate di Olbrich e alla batteria di Ehmke messa in risalto da una produzione molto buona. Dopodiché, però, Ulisse torna ad essere dubbioso ed impaurito, il tempo scorre ed il silenzio intorno a lui è insopportabile. A questo punto ritorna ancora una volta la strofa iniziale, ma stavolta ci porta verso una svolta: "Welcome to the sad place/ And hand me what is mine/ I'm the Theban prophet/ The dead and blind". Finalmente il nostro protagonista trova colui per il quale era sceso nell'Ade, il profeta tebano infatti altri non è che l'indovino cieco Tiresia, da consultare per conoscere gli avvenimenti futuri. Nonostante questo l'ultima ripetizione del ritornello resta vagamente triste, ma dopotutto siamo pur sempre nell'Ade, le cui porte si chiudono dietro di noi con dei gravi riff dal sound moderno.
Skalds and Shadows
Giungiamo ora a quello che forse è il mio pezzo preferito dell'album, ovvero alla bellissima "Skalds And Shadows" (Scaldi Ed Ombre). Dai primissimi accordi e dal suono del violino capiamo immediatamente di trovarci davanti ad un pezzo acustico e medievaleggiante, un tipo di canzone che mancava da "Imaginations?" e che ora può tornare ad essere presente su un album dei Bardi, per la gioia di tutti. Ad appoggiare la bella voce di Hansi, qui più che mai in veste di bardo o di scaldo, c'è anche un clavicembalo che dà ancora più atmosfera e magia al tutto; inoltre le liriche hanno una gran forza narrativa che sta proprio nel fatto di raccontare l'azione e la bellezza del narrare! La delicatezza dei primi versi si mantiene anche nel semplice e breve ritornello, il quale però è impreziosito da cori e percussioni che lo rendono più enfatico. La strofa che segue sembra parlare non di uno scaldo nordico qualunque, ma di Hansi stesso, che, come ben sappiamo, è anch'egli un narratore sopraffino che ci accompagna verso innumerevoli posti attraverso le sue canzoni: "Songs I will sing/ Of runes and rings/ Just hand me my harp/ And this night/ Turns into myth?". La traccia ha un incedere tipico delle antiche ballate, con le strofe che si alternano continuamente e prevedibilmente al refrain, permettendo quindi di rendere il tutto più memorabile. Utile se si è degli scaldi alla corte di un re o in una piazza e si è intenti a cantare proprio di re, di miti e di Valhalla: "Songs I will sing/ Of tribes and kings/ The carrion bird/ And the hall of the slain?" Come già detto il ritornello è sempre là dove ce lo aspettiamo, con i suoi cori leggeri che ci cullano e trasportano verso quei luoghi di cui si canta e di cui vogliamo sentir parlare ogni qualvolta sentiamo il bisogno di evadere. L'ultima strofa differisce leggermente dalle precedenti, per quanto riguarda linee vocali e melodie, ma mantiene ovviamente intatta l'atmosfera medievale data dai suoni che l'avvolgono e, inoltre, mantiene ben attiva la magia che permea il tutto sin dai primi secondi grazie ad una prova vocale di Hansi molto sentita e delicata, ma nello stesso tempo sprizzante di luce e fioche scintille, che conferma ancora una volta quanto detto finora e quanto questo pezzo sia magico. Forse "magico" è un aggettivo vago e soggettivo, ma chiunque conosce il brano sa di cosa sta parlando, e lo stesso penserà chi si appresterà a sentirlo per la prima volta.
The Edge
L'atmosfera sognante della traccia precedente viene spazzata via in un attimo dai gravi e moderni riff di "The Edge" (Il Bordo). Ad accompagnare l'introduzione troviamo anche delle tastiere dal piglio elettronico che rendono il tutto tendente per un attimo all'Industrial. Non appena Hansi entra in gioco, però, anche la dinamica e veloce batteria di Ehmke fa il suo ingresso, accompagnata da riff piuttosto aggressivi e meno monocorde del solito che mantengono il brano su lidi abbastanza cupi e minacciosi. Qui Hansi è alle prese con un tema religioso, che è uno dei temi più presenti negli album dei Bardi. Stavolta il protagonista dovrebbe essere San Paolo di Tarso (almeno secondo quanto si legge in giro, visto che il testo è molto criptico), il quale fa anche qualche riferimento alle sue esperienze al seguito di Gesù: "I witnessed everything/ Faith won't leave me?" Dopo le prime due strofe iniziali assistiamo ad una brevissima accelerazione, in cui ritroviamo i suoni elettronici, che ci porta subito al più arioso e aperto ritornello in cui le ritmiche ed i riff si fanno meno taglienti e meno opprimenti permettendo alle parti corali di emergere, anche se il refrain di sicuro non è tra i più immediati e potrebbe non risultare neanche tra i più riusciti. In ogni caso, le ritmiche si fanno nuovamente cadenzate e guidate da moderni riff che però, in pieno stile Blind Guardian, si trasformano in breve tempo in riff più taglienti e veloci che seguono ovviamente l'andamento del pezzo e le accelerazioni dettate da Ehmke, le quali danno un certo tocco di aggressività al tutto, soprattutto quando si parla di un momento importante come quello della crocefissione e l'ultimo istante di Cristo durante la nona ora: "Light my agony/ And crucify me/ Void the law/ At the ninth hour". Il ritornello però riporta una leggera ventata di positività grazie sia alle linee vocali ed alle melodie in esso presenti sia alle liriche che parlano di come l'amore infine regnerà sullo stesso San Paolo. L'assolo di Olbrich è buono come sempre e sembra riprendere il suo stile "classico" proponendo delle melodie molto orecchiabili e dalla facile presa. Dopodiché però la canzone torna ad essere più dura grazie anche alla voce leggermente sporca e ruggente del solito Hansi, la quale cambia totalmente non appena ritorna il refrain con i suoi cori. Il finale è molto interessante ma purtroppo dura poco: le linee vocali sono evanescenti e lontane, ma nello stesso tempo risultano molto enfatiche e colpiscono subito, così come i serrati riff in sottofondo. In questo modo termina un altro pezzo che potrebbe non risultare poi così brillante, anche se non stiamo di certo parlando di una canzone brutta, anzi, come abbiamo visto qualche buon momento c'è e come e potrebbe essere valorizzato da più di qualche ascolto.
The New Order
L'undicesima ed ultima traccia è intitolata "The New Order" (Il Nuovo Ordine). L'introduzione sembra far presagire una ballata acustica dagli accordi delicati e carezzevoli che procedono insieme ad una melodia chitarristica dal tono grave e insieme alla calma voce di Hansi. All'improvviso la stessa voce del cantante tedesco alza i toni e viene aiutata dall'entrata in campo dei soliti riff thrashy ma dalle sfumature moderne e pulite che però svaniscono in un attimo lasciando il posto agli accordi più delicati dell'inizio, guidati stavolta dalla batteria. A questo punto capiamo che la canzone è una sorta di mezza ballata che alterna momenti più calmi a momenti più duri; una scelta buonissima se pensiamo che il tema del testo sembra riguardare i cambiamenti che fanno parte della vita, come fanno intendere le liriche poco prima del ritornello: "?Enter the here and now/ A new horizon/ You'll rise you'll fall/ And learn to live?" E' proprio il refrain a dare enfasi sacrale al tutto grazie all'apporto di una batteria più rocciosa e soprattutto delle parti corali che come sempre danno una marcia in più a tutto. I cori, inoltre, alzano i toni e, nonostante mantengano un certo retrogusto malinconico, riescono a spingerci verso l'alto per farci accettare l'eventuale nuovo cambiamento avvenuto, per farci accettare il nuovo ordine delle cose. A questo punto sembra che anche la band l'abbia accettato, in quanto abbandona gli accordi da ballata di un minuto prima per concentrarsi su un incedere più ritmato in cui i riff di Marcus Siepen procedono insieme alla melodia/assolo di Olbrich che si era staccata proprio dal refrain, fino a quando i due diventano un tutt'uno. Tuttavia, il messaggio apparentemente ottimista del ritornello viene ridimensionato da queste strofe ritmate che seguono, in cui il cambiamento mette paura ed è visto come una cosa da accettare con crudo realismo e senza farsi troppi piani: "This is no wonderland/ Just keep in mind/ Like a spell in certain books/ Time will change it all". La canzone intanto procede in pieno stile Blind Guardian, ovvero cambiando riff e ritmiche o riprendendo temi iniziali ritardando l'arrivo del refrain. Creare canzoni dalla struttura classica è troppo facile infatti, meglio variegare il tutto, e in questo senso "The New Order" è forse una delle canzoni che più si avvicinano allo stile di "A Night?" In ogni caso, per ritrovare un po' di positività dobbiamo attendere l'arrivo proprio del ritornello e dei suoi cori distesi. Verso metà canzone i riff di Siepen si fanno particolarmente duri ed aggressivi mentre Olbrich si diletta con un gradevole assolo melodico che si adagia sulle ritmiche accelerate di Ehmke. Da questo punto in poi la batteria sembra mantenersi più veloce del solito, e così rimane anche dopo l'ennesima ripetizione del ritornello seguita a ruota dai riff delle due asce che, a loro volta, accompagnano gli ultimissimi versi cantati da Hansi che segnano la chiusura della traccia e anche dell'album. Anche qui abbiamo visto una canzone che potrebbe far breccia nei cuori degli ascoltatori soltanto dopo ripetuti ascolti, in quanto non è di certo un pezzo che punta sulla semplicità o su partiture catchy, anzi, a ben vedere è uno dei meglio strutturati dell'album e ha bisogno di tempo per maturare.
Conclusioni
Dunque, è sempre difficile trovarsi alle prese con un album dei Blind Guardian, soprattutto se presi da un certo periodo in poi, in quanto sono in costante evoluzione ed è difficile schematizzare o prevedere certi cambiamenti, lo si può fare soltanto retrospettivamente. L'esempio perfetto di quanto appena detto è proprio "A Twist In The Myth". Prima della sua uscita infatti, guardando al percorso che da "Nightfall?" aveva portato a "A Night?", si sarebbe potuta predire l'uscita di un lavoro ancora più pomposo e sinfonico di quello del 2002, oppure, in caso di nostalgia, di una virata verso il sound degli anni '90. I Blind Guardian però non fanno nessuna delle due cose, o meglio, come già accennato, strizzano l'occhio alla seconda possibilità senza però esagerare. Ecco quindi che le predizioni sono servite a poco. Se però è vero che in effetti uno snellimento sonoro c'è, è anche vero che questi Blind Guardian non suonano come quelli di "Somewhere Far Beyond", per esempio, suonano come i Blind Guardian del 2006, ricchi di esperienza, di tecnica e di differenti elementi musicali con cui fare un bel compendio per far uscire un qualcosa che però è diverso da quanto ascoltato fino a quel momento. Come detto in introduzione, infatti, la band fa tesoro della sua stessa carriera e del suo stesso percorso, non abbandonando del tutto le caratteristiche che hanno fatto la sua fortuna, neanche quelle più complesse del discusso lavoro precedente, ma, nello stesso tempo le abbandona anche! Come si sarà capito durante il track-by-track, è chiaro che le canzoni sono più dirette e compatte rispetto a quelle composte 4 anni prima, così come le chitarre di Siepen ed Olbrich ed i ritornelli tornano ad essere i veri punti focali; non che prima non fosse così, ma si rischiava di perdersi in un turbinio di sovraincisioni vocali e di melodie soliste, assolutamente ben fatte tra l'altro, sia chiaro. La band però non si limita a snellire il sound e a togliere strati, inserisce delle piccole sperimentazioni e delle soluzioni che risultano del tutto nuove. Innanzitutto il lato Progressive della band risulta ampliato, e lo si vede particolarmente in tracce come le due conclusive e soprattutto con l'atipica "Fly", la quale è diversa da tutto quanto sia mai stato scritto e suonato dai Bardi (nel bene e nel male). Alcune canzoni, quindi, potrebbero sembrare semplici, ma in realtà riescono a svelarsi completamente soltanto dopo ripetuti ascolti, e non sempre appieno, visto che a volte si ha la sensazione che manchi quel quid in più, quel quid che rende le canzoni dei classici o dei veri capolavori. E questo è un po' il problema generale di quasi tutto l'album, che alla fine dei conti risulta leggermente inferiore ai precedenti, ma è anche vero che viene naturale fare il confronto con i capolavori passati. Ci sono poi anche tracce che non riescono proprio ad incuriosire, come per esempio di "Lionheart", canzone che presenta pure delle linee vocali interessanti ma che non riesce mai a prendere il volo e che, anzi, potrebbe anche appesantire l'album. Stesso discorso per l'altro pezzo davvero atipico dell'album, ovvero quell'"Another Stranger Me" che risulta fuori posto e a tratti addirittura banale con il suo incedere a metà tra l'Hard Rock e il Metal moderno. Ecco, un'altra novità è portata dal cosiddetto "moderno": spesso infatti i riff di Siepen e Olbrich strizzano l'occhio alle sonorità del nuovo millennio, pur restando fortunatamente ancorati a soluzioni abbastanza Thrash e aggressive. Come se non bastasse, poi, troviamo anche molti suoni elettronici, ma in verità non disturbano così tanto l'ascolto in quanto si trovano quasi sempre in sottofondo e solo in alcuni momenti. In ogni caso, la buonissima produzione affidata alla Nuclear Blast mette in risalto il suono pulito delle chitarre e lo rende particolarmente pieno e vivido, stessa cosa per la batteria di Ehmke, il quale, devo ammettere, rende meno pesante l'assenza di Stauch con un buonissimo lavoro dietro le pelli, e, in qualche occasione, anche alla cornamusa e al flauto. Insomma, alla fine dei conti possiamo dire che l'album è molto buono, c'è sì qualche episodio sottotono e di non facile lettura, ma ci sono anche tracce ottime che colpiscono subito e con potenza e, ancora, tracce buone ma che non fanno gridare al miracolo, e per questo "A Twist?" è un album strano, certamente molto vario, ma che a volte sembra mancare di coesione e sembra anche leggermente confusionario, paradossalmente più del precedente, che nonostante la prolissità aveva un certo innegabile equilibrio, ma l'importante è che ogni canzone suoni Blind Guardian al 100% al di là delle novità e delle soluzioni atipiche. È questo il bello di questa band: riesce ad evolversi e a cambiare ogni volta le carte in tavola restando però sempre fedele ad un insieme di caratteristiche che ormai la rendono riconoscibile a tutti, anche prendendo album separati da anni, tipo il qui presente "A Twist In The Myth", che aggiunge comunque un altro tassello di una certa qualità alla discografia dei Bardi.
2) Otherland
3) Turn the Page
4) Fly
5) Carry the blessed home
6) Another Stranger me
7) Straight Through The Mirror
8) Lionhearth
9) Skalds and Shadows
10) The Edge
11) The New Order