BLAZE BAYLEY

The Man Who Would Not Die

2008 - Blaze Bayley Recordings

A CURA DI
PIETRO GANDOLFI
13/12/2014
TEMPO DI LETTURA:
10

Recensione

Il mondo dell’Heavy Metal è un luogo strano, a volte inspiegabile. Ci sono artisti apprezzati in maniera incondizionata nonostante i loro evidenti limiti, mentre altri, colpevoli solo di circostanze sfavorevoli, diventano il bersaglio preferito delle critiche degli appassionati. Non si può dire che le capacità vocali di Blaze Bayley siano inferiori a quelle di Ozzy Osbourne, solo per fare un esempio, eppure il povero Blaze ha dalla sua la sfortuna di avere sostituito una vera e propria icona come Bruce Dickinson nell’organico degli Iron Maiden. Punto. Per la maggior parte della gente Blaze è solo questo, un tizio dalla voce sgraziata colpevole di non essere stato all’altezza della Sirena del Metal. Nessuno si interessa di ciò che ha fatto prima e neppure di cosa ha fatto poi. Chi scrive pensa “X-Factor” rappresenti l’ultimo capolavoro dei Maiden e “Virtual XI un album con delle pecche, ma anche una manciata di ottime canzoni, e considera la carriera degli Wolfsbane – la band precedente di Bayley – una vera forza della natura, puro Rock and Roll distillato. Ma, soprattutto, crede che gli album da solista rilasciati dal cantante inglese dopo la dipartita dai Maiden siano uno migliore dell’altro. Dopo due ottimi dischi come “Silicon Messiah e “Tenth Dimension, una vera estensione del discorso affrontato con gli Iron Maiden, ma non solo, purtroppo il nostro incappa nel suo full-length più debole, l’inutilmente modernista, ma comunque potente, “Blood & Belief. Privo del contratto con la “SPV/Steamhammer”, Blaze fonda allora la sua etichetta personale, la “Blaze Bayley Recordings”, e grazie al supporto della moglie/manager Debbie Hartland, trova una band completamente nuova dalla quale farsi accompagnare, costituita da ottimi musicisti: Nicolas e David Bermudez, rispettivamente alla chitarra e al basso, Jay Walsh alla seconda ascia e il batterista Lawrence Paterson. E decide di scrollarsi di dosso in maniera definitiva l’ombra dei Maiden. Come? Registrando, nel 2008, un vero concentrato di metallo fuso, incorruttibile e inarrestabile, The Man Who Would Not Die. Cambia persino il nome della band (semplicemente nota, adesso, non più come Blaze ma come Blaze Bayley, dunque omonima del cantante stesso), ma non certo la sostanza: la band si dimostra sin da subito affiatatissima e molto unita nella scrittura dei pezzi, il tutto sembra lasciar presagire un re-inizio con i fiocchi. Complice anche e soprattutto una produzione potentissima, la band rilascia un insieme di canzoni fra le quali è impossibile trovare un solo riempitivo. Qui la voce di Blaze viene valorizzata come non mai, lasciando intendere ogni sfumatura del suo timbro maschio e aggressivo. Ma non si tratta di un discorso puramente tecnico, perché la performance del nostro è evidente vada al di là di un’ottima preparazione o di un lavoro certosino compiuto dietro la console. Blaze ha qualcosa da dire, dei sassolini da togliersi dalle scarpe, una verità che deve sputare in faccia a chi si ostina a ostacolarlo, a non comprenderlo per ciò che è in realtà: un semplice ragazzo inglese appassionato di Heavy Metal. Al giorno d’oggi è molto più di quanto si possa dire di gran parte dei protagonisti che affollano il panorama della nostra musica, purtroppo. Senza ulteriori indugi, dunque, iniziamo il nostro cammino nei meandri



Si parte a bomba, con la title track: The Man Who Would Not Die è una canzone veloce, introdotta da un riff devastante e da una doppia cassa inarrestabile. Una vera e propria raffica di Heavy Metal nella più classica accezione del termine, vecchia scuola che ricorda da vicino i più grandi maestri del Metal europeo. Possiamo udire il classicismo ed il gusto melodico tipicamente Maideniani, misti alla dura concretezza e ruvidezza degli Accept, in un lavoro di chitarre sferraglianti e possenti, adagiate su di una ritmica eccezionalmente maschia e tirata. Certo non abbondano i virtuosismi, ma basso e batteria fanno il loro lavoro come va fatto, mettendoci tutto l’impegno e la grinta possibili. Quando la voce di Blaze inizia a cesellare la sua melodia, è già chiaro la rabbia sia a malapena controllabile: la voce del cantante è forse una delle più sottovalutate della storia del Metal, ed in questo particolare brano il buon Bayley dimostra di non essere una comparsa della scena, ma un vero e proprio protagonista, con tanto da dire e da affermare. Una voce melodiosa ma potente, profonda, virile e distruttiva. A metà pezzo arriva un break: il tempo rallenta e l’assolo ha una venatura di tristezza, la stessa che contraddistingue la maggior parte dei pezzi nell’album. Una sorta di malinconia intrinseca ben amalgamata ad un contesto comunque aggressivo, un’autentica pioggia di metallo fuso pronta ad abbattersi sull’ascoltatore. Dopo l’assolo, Blaze riprende a declamare il titolo del brano quasi fosse un suo diretto proclama, un messaggio che egli vuole a tutti i costi lanciare e far capire all’ascoltatore. Egli non è morto, è ancora qui, vuole continuare a dispensare Metal al mondo tutto. Una nuova formazione, un brano dal sapore old school che ci trascina almeno vent’anni indietro nel tempo, un’attitudine rara a trovarsi, soprattutto nel presente della band, presente in cui era lo sperimentalismo dei nuovi gruppi Nu ed Alternative a dettare legge. Ottima lezione di Storia del Metal, una storia cantata da un Blaze Bayley mai monotono e mai nostalgico. Semplicemente, egli è ciò che è sempre stato e non si vergogna ad ammetterlo: la sua lezione è appresa da tutti i suoi musicisti che non esitano certo a seguirlo in questa nuova avventura. La storia raccontata dalle lyrics è quella di un uomo deceduto non per cause naturali, ma perché tradito da persone nelle quali aveva riposto la sua fiducia. Tutto ciò lo porta a risorgere e giurare vendetta nei confronti di queste persone. È chiaro quanto l’artista intenda il testo come una metafora della sua vita. Non è difficile immaginare il modo in cui un personaggio tormentato come Blaze sia stato osteggiato e insultato e questo pezzo, come del resto l’intero full length, sia un lungo canto di ribellione, un modo per dire “io non ci sto”.  “Ancora e ancora, sono condannato a vivere, maledetto finché non avrò fatto ciò che deve essere fatto” macina il nostro, rendendo lampante l’impeto della sua furia. Una furia talmente palese da essere comprensibile anche senza ascoltare una sola parola. “Hanno costruito questo patibolo sotto una nera luce, ma la scintillante alba di questa verità li farà capitolare, e io sarò libero”, entra nel dettaglio il testo, e ancora “Riprenderò ciò che mi apparteneva, e su quel patibolo di lucente acciaio li impiccherò, con la stessa corda che hanno costruito per me”. Più ci si inoltra nella canzone più l’impressione è che Blaze decida di affondare i suoi colpi senza alcuna pietà, senza andare per il sottile, senza girare intorno alla questione. E la musica è il perfetto specchio di questa attitudine, breve e intensa. In Blackmailer il discorso affrontato con il primo pezzo trova un naturale sviluppo, sia musicale sia testuale. Un riff impetuoso seguito da una raffica di note dal vago sapore powereggiante aprono il brano, sempre aggressivo ed imperiale nel suo genere, quasi il nostro Blaze volesse indossare i panni di un condottiero, impavido e coraggioso, diretto verso il campo di battaglia. Gli strumenti accompagnano questa marcia, alternando riff cadenzati a raffiche di note più melodiche, finché il contesto viene accelerato quasi ci trovassimo dinnanzi ad un brano dei Judas Priest, solo reso più “oscuro” e cupo del normale, un po’ per via del contesto musicale (come già accennato) velato di intrinseca ed ancestrale melodia, un po’ per la voce di Blaze, meno acuta e squillante di quella del Metal God Rob Halford. Il tutto si mantiene su coordinate più o meno stabili fino al minuto 1:57, in cui una piccola porzione di assolo lascia al singer il compito di introdurne uno molto più sviluppato, dopo una serie di anthemici cori fortemente debitori alla nobile tradizione Epic Metal. Il lavoro solista che ne consegue è un gioiello più unico che raro, graffiante ma struggente, delicato ma monolitico nel suo essere compatto e ben legato. Come se, facendo le dovute proporzioni, Yngwie Malmsteen decidesse di appesantire in maniera esponenziale il suo sound, per intenderci. Se in questo pezzo le sonorità si dilatano un poco, esplodendo in un refrain più potente rispetto all’atmosfera generale della canzone, il testo parla di, appunto, un ricattatore messo per la prima volta di fronte a una delle sue vittime, con intenzioni tutto fuorché pacifiche. In questo caso il lupo e la pecora si ritrovano per un inaspettato faccia a faccia. “Credevi che tutti fossero deboli, deboli come te, e che cadessero in ginocchio, permettendo di farsi divorare. Mi chiedo se i Lupi amerebbero il sapore di un codardo come te!” canta Blaze, la voce sempre in bilico fra melodia e una tecnica più sporca, che dà l’impressione di essere governata appena. “Sei il responsabile di questa mia morte vivente, osservatore di questa mia lenta e amara decadenza. Sei marcio dentro, ma io non l’ho capito... sino al giorno in cui mi hai ingannato” esplicano le liriche, come dicevo un vero continuo della title track. Questa volta il protagonista può finalmente trovarsi faccia a faccia con il suo aguzzino, ed ha finalmente l’occasione di potersi vendicare, non prima di aver passato in rassegna ogni squallida cattiveria subita dal suo mortale nemico. Dopo quella rassegna e dopo un sentito mea culpa, il Nostro è pronto ad affondare il colpo finale per dimenticarsi una volta per tutte quest’amara faccenda, in modo tale da uccidere definitivamente i fantasmi del passato. Arrivati a questo punto del disco, dopo due pezzi del genere, già si potrebbe intuire la portata dell’intero progetto. Ma il meglio deve ancora venire e si intitola Smile Back at Death: a parere di chi scrive vero picco dell’album, l’introduzione è affidata a una melodia di chitarra malinconica, ma imbastita su una base come al solito solida e irrefrenabile. Due volti di una stessa medaglia ancora una volta sapientemente presentati: rabbia e tristezza, un eterno balletto fra due dannate sorelle. Possiamo udire una sezione ritmica ancora una volta concreta e possente nel suo incedere, vera e propria ossatura di un brano che si, risulta essere struggente, ma come detto non può rinunciare alla naturale aggressività dell’Heavy Metal. Paterson e David Bermudez non si lasciano dunque pregare, e sono prontissimi a picchiare sui propri strumenti per permettere alla coppia d’asce ed al cantante di esprimersi al meglio. Walsh e Nicolas Bermudez dal canto loro rispondono alla chiamata dei colleghi, decidendo di tingere questo brano di Epic, anche di più di quanto già fatto in precedenza. Soprattutto in questo brano, difatti, possiamo udire quanto la nobile lezione americana (un tocco di Manilla Road ed Omen è fortemente percettibile) abbia decisamente avuto e sviluppato negli anni un notevole ascendente persino sulla “dura e pura” scuola Inglese, poco da dire. Soprattutto a partire dal minuto 3:44 possiamo avere conferma di tutto ciò: ascoltate bene questa chitarra melodicamente mesta e cupa, la voce declamatoria ed incredibilmente carica di fervore lirico di Blaze.. sembra quasi di trovarsi faccia a faccia con il condottiero protagonista delle lyrics, notare e scrutare il suo sguardo pieno di rassegnazione ma voglia di vendicarsi, ad ogni costo, come solo un vero guerriero potrebbe riuscire. Visto il clima, anche la voce si allinea, con il tipico tono cui il cantante inglese ci ha abituati nei suoi momenti più epici. Epicità che tocca vette inaspettate durante il bridge e il ritornello, sporcato dalla “triste rabbia” ormai marchio inconfondibile della produzione del nostro. Il riff portante non lascia respiro e conduce il pezzo con un’architettura impeccabile, dall’inizio sino al break dove la voce è più malinconica, sino a tornare ad esplodere in un intenso crescendo che sbocca nella sezione strumentale infarcita dal solito, stupendo assolo. La vicenda raccontata, anche se mai esplicitamente dichiarato, pare collegarsi al film Il Gladiatore, di Ridley Scott, e non fa altro che spostare il concept dell’album in un’ambientazione differente. Il protagonista, privato di affetti e tutto ciò che di caro aveva al mondo, porta avanti la sua vendetta e solo dopo averla attuata potrà trovare la meritata pace nei Campi Elisi. Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle Legioni Felix: parole che hanno riecheggiato nelle orecchie di intere generazioni, cresciute ammirando le gesta di un Russel Crowe mai così a suo agio come nella parte del condottiero ispanico – romano. La storia la conosciamo: Massimo, implacabile signore della guerra ma uomo dal cuore buono, viene scelto dall’Imperatore Marco Aurelio come suo successore. Il tutto suscita l’invidia di Commodo, figlio dell’augusto, che dapprima assassina suo padre ed in seguito si vendica di Massimo, condannandolo a morte. Tuttavia, l’uomo riesce mediante l’astuzia a ribellarsi ai suoi boia, sconfiggendoli ed uccidendoli. Malconcio per via di una ferita infertagli, decide comunque di recarsi verso casa in fretta e furia, causa un cattivo presentimento.. ma scopre di essere giunto troppo tardi: Commodo aveva nel frattempo ordinato l’uccisione dei famigliari dell’ex generale, che una volta arrivato alle porte della sua abitazione non può fare altro che inginocchiarsi disperato davanti ai corpi crocifissi di sua moglie e di suo figlio. Da qui le mille peripezie che intraprenderà pur di potersi vendicare di Commodo, oramai autoproclamatosi imperatore. “Gli mostrerò il sangue, loro acclameranno il mio nome. E’ tempo che i Tiranni scoprano cos’è la paura! Gladiatore, protettore, padre di un figlio assassinato… Gladiatore, protettore... io compirò la mia vendetta!”, con queste parole si comprende appieno l’intento del cantante di proseguire nelle tematiche affrontate fino a questo momento. “In quest’arena io non morirò, non ti tributerò onore! Avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra! Mi hai tramutato in uno schiavo guerriero, mi hai fatto uccidere chiunque, ma a mano a mano che il tempo passerà, capirai che ho solo un’altra vita da spezzare… e allora avrò finito”: e, come accennavo, solo con la realizzazione della vendetta, il guerriero troverà la meritata pace. Con While You Were Gone si cambia registro e i tempi rallentano. L’inizio della traccia è difatti drammatico, malinconico, e ritroviamo il Blaze del periodo Maiden, cioè con le sue tipiche parti vocali basse e intense. Un delicato arpeggio accompagna difatti il cantante, ancora una volta deciso a mostrare il suo lato più profondo e celato, in un inizio a dir poco memorabile. Poi il pezzo esplode, la voce di Blaze ritorna ben più aggressiva e rabbiosa, i riff divengono più possenti e granitici, ma la tristezza saldamente legata alla canzone non viene mai meno, nemmeno nell’accelerazione che all’improvviso spezza la composizione. Le chitarre costruiscono parti più complesse, e giungiamo al minuto 2:21, nel quale per l’appunto possiamo notare alla perfezione questa impennata. Una cavalcata di note assai veloce, ma comunque struggente e densa nuovamente di quel fervore lirico questa volta riscontrabile anche e soprattutto nella musica, non solo nella voce di Blaze. L’assolo che ne deriva è di chiara matrice Heavy – Power, splendidamente cesellato e rifinito sino al più piccolo particolare, e le chitarre (sempre accompagnate da una ritmica d’eccezione) hanno ampio spazio per esibirsi fino al ritorno del cantato, momento nel quale Blaze si congeda rivelandosi ancora una volta capace di emozionare. Ritorna l’arpeggio iniziale, nuova performance vocale del singer che dimostra come l’avventura dei Maiden lo abbia un po’ consacrato, in fin dei conti, al ruolo dell’uomo “al posto sbagliato nel momento sbagliato”. Un problema dunque di sfortuna, perché qui la sostanza c’è, si sente, è percettibile, e sfido chiunque ad affermare il contrario. Un pezzo magistrale, di un’atmosfera impossibile da descrivere solo con le parole. E soprattutto nel finale, quando, come già detto Blaze tornerà a sussurrare tutto il suo dolore, solo chi è privo di un cuore potrà non provare un brivido incontrollato lungo la spina dorsale. E non ci sono estensioni o esasperate tecniche vocali che possano reggere il confronto con un cantante, con un uomo capace di fare provare certe sensazioni. Un brano che forse, anzi sicuramente, sarà stato studiato a fondo (per via della sua sapiente mescolanza di tristezza e potenza metallica, ma anche per il tipo di sound adottato) da giovani band odierne come i Five Finger Death Punch, che proprio di certe mescolanze hanno fatto il loro marchio di fabbrica. Un Blaze dunque ispiratore ed al contempo esecutore implacabile, impossibile non soffermarsi sul suo talento. Le parole sono altrettanto sentite, cariche di un profondo rimorso nei confronti di qualcuno, una persona amata che se ne è andata per sempre, dopo avere patito a lungo. Come se il protagonista della canzone non fosse riuscito a fare abbastanza, a confessare i suoi sentimenti prima che fosse ormai troppo tardi. “Non vedevo, non sentivo, non riuscivo a capire nulla, mentre te ne andavi. Il mio sangue era di ghiaccio, io ero di pietra, qui da solo… mentre tu te ne andavi”, parole semplici e cariche di sofferenza. “...Perché sei il mio cuore che batte, sei il motivo per il quale respiro. Ho capito tutto ciò, mentre te ne andavi”: impossibile non pensare al lutto che poco tempo dopo colpirà il cantante. La morte della moglie lo ferirà terribilmente e alla sua memoria dedicherà l’album successivo – e buona parte dei testi che lo compongono –, “Promise and Terror. Forse Blaze sapeva cosa lo aspettava, soprattutto perché la moglie era purtroppo già in condizioni critiche. In certi momenti è difficile capire cosa fare e non fare, cosa provare e non provare. Potevamo essere, un minuto prima, convinti di aver donato tutti noi stessi alla persona amata o al caro amico.. salvo essere poi clamorosamente smentiti, dinnanzi all’immagine netta e chiara della sofferenza di una persona speciale. Siamo lì, semplicemente impotenti, a pensare a cosa avremmo potuto dire o fare. Un brano che sa emozionare anche dal punto di vista lirico, proprio per via di questa profonda allusione ad un episodio realmente accaduto. E’ come se la vita volesse mettere ancora alla prova il frontman inglese… Nessuno di noi semplici fan può pretendere di capire cosa l’artista possa avere provato perdendo la donna amata, ma almeno una riflessione deve essere fatta, per il semplice motivo le conseguenze siano sotto gli occhi di tutti. Perché nemmeno una simile tragedia è riuscita a metterlo in ginocchio, prova ne sono i dischi successivi e i lunghi tour affrontati. Blaze non si è arreso e, come i protagonisti delle sue canzoni, direttamente ispirato da quella moglie che lo ha sempre incoraggiato, ha continuato nella sua lotta, inarrestabile. E questo è qualcosa da ammirare che va al di là del giudizio sulla qualità del suo operato. Con Samurai si torna a un metal dal forte impatto. Ad introdurre la track ci pensa questa volta il basso di David Bermudez, presto raggiunto dagli altri strumenti, in un tripudio di esplosiva metallicità. I riff tornano sferraglianti e serrati, meno mesti del solito, anzi più concreti e diretti, note che in un impeto di fiera virilità si accingono a tagliare quasi fossero le lame di una katana, per l’appunto. Veloce e semplice, il tappeto sonoro offerto dagli strumenti non lascia scampo, il tutto per sorreggere una delle canzoni più spudoratamente epic del lotto: una componente, questa, a quanto sembra assai cara al nostro, a suo agio sia nella sua terra natale sia nel continente a stelle e strisce. Possiamo notare, difatti, una nuova mescolanza assai particolare ed accattivante. Se in alcuni passaggi sono chiare le dirette ispirazioni più smaccatamente NWOBHM (Tokyo Blade, nemmeno a farlo apposta, su tutti) è altrettanto vero che la trionfale marcia di band come Riot o Vicious Rumors non viene certo interrotta o messa a tacere, anzi. Una prova ben più fedele alla tradizione d’altre, che recupera a piene mani sonorità in quegli anni forse dimenticate dai fan dell’ultima ora o mai apprezzate dai giovani, ma dai true defender mai messe da parte. La band ha il grande merito di costruire un brano semplice e di impatto, suonato egregiamente e con una buona tecnica di base (elemento che non scontenterà i puristi dell’esecuzione), che ci permette di scatenarci in un furioso headbanging in maniera selvaggia e forsennata. Anche in questo caso, Blaze porta avanti il suo discorso di onore e vendetta, cambiando ancora una volta pelle. Stavolta è la tradizione dei tipici guerrieri nipponici a offrire una chiave di lettura inedita. “Non mi interessa, non provo dolore, nulla potrà farmi tirare indietro. Ora sono qui, in prima linea, senza paura, nella valle della morte. Ho preso la decisione, sono disposto a morire… come un Samurai… sono disposto a morire come un Samurai”; con queste parole si dichiara l’intenzione di sacrificare qualsiasi cosa pur di arrivare fino alla fine, pur di dare alla propria vita, e alla propria morte, un significato. E ancora, “Sono assolutamente disposto a pagare questo tributo, anche se ciò vorrà dire sacrificare la mia vita. Sono pronto a sacrificare tutto, se non fossi disposto a morire non potrei vincere”. Parole dure e cariche d’onore, tipiche di un uomo che ha, alla base, una consapevolezza – mantra impossibile da non capire: chi non ha nulla da perdere può solo vincere, e dunque non si tirerà indietro di fronte a nulla. Il nostro protagonista è veramente disposto a giocarsi l’ultima carta, abbandonando paura e rimorso, proprio come i Samurai, che per la loro causa avrebbero tranquillamente rinunciato alla propria vita. Ed in caso di disonore o codardia, avrebbero lasciato il mondo in maniera comunque, per loro, onorevole, eseguendo il drastico rituale del seppuku, un suicidio espiatorio. Da sottolineare il bel giro di basso nella canzone e i toni raggiunti da Blaze sul finire del pezzo: alla faccia di chi non lo crede capace di giocare su note più alte, il tutto senza perdere una briciola di potenza e limpidezza. Con Crack in the System, la band di Bayley torna a strizzare l’occhio ad atmosfere più moderne, le stesse che hanno caratterizzato alcuni passaggi dei tre album precedenti. I suoni si fanno più attuali, così come il procedere della canzone. Ma non esiste dubbio riguardo il fatto la composizione sia comunque Heavy Metal al 100%. Le chitarre costruiscono atmosfere quasi inquietanti, soprattutto durante la fase iniziale del brano, nella quale si lasciano andare a riff dal vago sapore “arabeggiante”, frangente questo che tornerà più volte nel corso del brano. Le asce, inoltre, frammentano il pezzo con frequenti break e la voce segue le stesse modalità, trovando nel ponte più spazio per la melodia. Ancora una volta è la sezione ritmica a spadroneggiare letteralmente, mostrando al pubblico quanto sia forte lo scheletro dei Blaze Bayley. Il basso di David Bermudez è protagonista come non mai, e se nella traccia precedente era fortemente percettibile “solo” nella intro, questa volta la sua presenza è udibile per tutta la durata del brano. Una prova decisa e concreta, di grande ritmicità: è questo ciò che dovrebbe fare un buon bassista (ed un buon batterista, of course), essere presente ma mai smanioso di “gareggiare” contro i suoi compagni. Il ritmo è fondamentale, da lì viene tutto, nessuno può affermare il contrario.. e gli artefici del ritmo giocano un ruolo a dir poco fondamentale nell’economia di un qualsivoglia brano. Sia Bermudez che Paterson lo hanno capito, e aiutano il resto dei loro colleghi a ricamare riff e note grazie alle quali il brano decolla ad altissima quota. Un brano possente ma “anomalo” se paragonato ai precedenti, non per questo figlio disonorevole o comunque indesiderato, anzi. Un tocco di novità (strutturale e melodica) che fa senza dubbio bene all’album, che non lo appesantisce ma anzi, lo esalta rendendolo ancor più interessante. Ennesima grande trovata di una band che, arrivata al giro di boa, ancora non è incappata in un solo episodio negativo o in un passo falso, molto bene così. Dal punto di vista lirico, come sempre le parole si sposano alla perfezione con la musica, in quanto l’argomento trattato è delicato e drammatico. Blaze ci mette di fronte a una cruda realtà, facendoci capire quanto il nostro ruolo nella società, nel sistema, sia paragonabile a quello di un semplice ingranaggio. Veniamo manovrati dall’alto e a essere compromessa è la nostra stessa vita, la nostra libertà. “Non apparteniamo a nulla, non abbiamo una casa, non ci sono confini in questo mondo così diviso, non abbiamo certezze”, canta il nostro, “Il nostro DNA e le nostre impronte digitali, un numero di dati che viene usato per nutrire le loro macchine. Stanno divorando i nostri sogni”. Ci stanno annullando, costringendoci a giocare un ruolo predeterminato, privo di una via d’uscita. Ma quando sembra che il pessimismo pervada la canzone senza possibilità di salvezza, ci viene mostrato un raggio di luce: “Voglio credere che tutti noi siamo molto di più di quello che loro vedono in noi, più di un gioco di parole e codici”. Sì, perché la salvezza esiste sempre, basta volerlo, basta combattere per ottenerla. Non siamo numeri, nonostante ci abbiano insegnato a esserlo. A credere di esserlo. Questa è la nostra forza, ciò che ci rende uomini e forse un giorno uomini liberi. Ancora una volta Blaze non ci sta e, penso di parlare a nome di molti, noi con lui. A livello lirico, la successiva Robot segue lo stesso concetto. “Uno schiavo robot, con una rabbia silenziosa che cresce dentro di me… La mia prima parola è stata NO, ora assisteranno alla mia nascita!”: l’uomo viene paragonato a una macchina programmata dalla società per ragionare e agire in un determinato modo, a essere come i suoi costruttori l’hanno immaginato. Ma l’uomo si ribella e può mostrare la sua vera natura. Basta volerlo. “Libero, mi dicono che sono libero, ma solo se mi  conformo e li assecondo. Sono libero solo di fare quello che loro decidono per me” recrimina Blaze con le sue parole, ma solo per arrivare a una differente conclusione: “Io sono, io sento, io capisco… IO PENSO, E DUNQUE SONO”. Delle tematiche, quelle della contrapposizione uomo – macchina – società, che sarebbero sicuramente molto care ai Fear Factory e che qui vengono sviluppate in maniera similare (ma con le dovute differenze) alla band di Burton C. Bell. La Macchina è la consacrazione dell’annullamento della volontà, la quintessenza del servilismo incondizionato: è quello in cui ogni potente vorrebbe tramutarci, per poter rubare dalle nostre tasche ancor più indisturbato, senza il pericolo che qualcuno troppo sveglio se ne accorga. A livello musicale si tratta di una speed song capace di creare un vero tappeto sonoro atto a sostenere le secche melodie del cantante. Questa volta Blaze decide di onorare in toto le sue radici presentandoci un pezzo che trasuda Heavy 100% Inglese da ogni nota. Mancherebbe solo la voce del già citato Halford per trovarci dinnanzi ad un brano dei Judas Priest, e sono soprattutto le chitarre di Walsh e Nicolas Bermudez a dimostrarcelo, che in questo frangente decidono di mettere da parte una buona quantità di malinconia per concentrarsi unicamente sulla velocità e la concretezza del brano. I dialoghi che udiamo, fra chitarre, sono a dir poco stupendi e mozzafiato, in grado di coinvolgerci in un turbine di velocità di chiarissima matrice Heavy Speed. Basta udire l’assolo per rendersene perfettamente conto, abbandonando ogni dubbio: dal minuto 1:37 assistiamo ad uno dei migliori lavori di sei corde mai uditi in questo album, descrivere questo frangente di brano è letteralmente impossibile ed è saggio approcciarvisi portando seco un tanto di “ineffabilità Dantesca”. L’Heavy Metal, cari lettori, nella sua accezione più pura e classica. Una melodia che non ammalia, anzi sveglia, che non ammansisce, graffia, che non punge, lacera direttamente. Una chiara dimostrazione di come la band abbia voluto favorire la propria attitudine classicheggiante mediante una produzione a dir poco cristallina ed impeccabile, che non risulta troppo “artefatta” o stucchevole, il contrario, permette a tutti i Blaze Bayley di esprimersi al meglio e di sfoderare delle performance che si, ci fanno capire in che periodo ci muoviamo, ma comunque non abbandonano quella che è l’atmosfera tipica degli anni ’80, in cui erano album come “Screaming For Vengeance” a dettare legge. La scelta della voce filtrata nel ritornello sottolinea il senso del testo e porta quella nota particolare che si lascia molto apprezzare ed ascoltare. Con At the End of the Day l’album rallenta il passo. L’apertura è caratterizzata da un rumore cupo ed oscuro, simile ad una tetra raffica di vento, subito raggiunto e dominato da chitarra molto più pulita del solito e dalla voce “sentita” ed evocativa, ormai un vero e proprio marchio di fabbrica del nostro Blaze. A dominare, in questo frangente, sono per lo più i toni dimessi e mesti che, dopo le sfuriate ascoltate nelle precedenti tracce, sembrano riemergere prepotenti per ottenere anch’essi un loro posto sul podio, quasi a voler ricordare all’ascoltatore che loro ci sono, e nessuno può fare a meno di notarlo. Timidi arpeggi si alternano a riff più aggressivi, ma tale “rocciosità” non comporta comunque lo snaturare un brano che è partito come più “mitigato” e tale è intenzionato a rimanere. Una splendida dilatazione del sound, che mostra prepotente la seconda faccia della medaglia Blaze Bayley: potenza ed Heavy Metal alternata ad una forte teatralità e liricità nell’esprimere la propria arte. Per certi versi, il tutto rende Blaze non di troppo inferiore al ben più blasonato Bruce Dickinson. La distorsione delle chitarre si annuncia a tratti, mentre una certa malinconia si sviluppa poco alla volta. Tutto, ogni singolo strumento, procede su un sottile equilibrio, una potenza tenuta a bada senza che trovi mai un vero sfogo, così come la voce, a volte sul punto di esplodere senza poi farlo per davvero. Lo dimostra una conclusione fortemente di impatto e molto particolare, nella quale il nostro bravo singer decide di congedarsi letteralmente sussurrando le parole finali, sussurrate così come il sound che sfuma poco a poco. Ancora una volta il mood del pezzo trova piena giustificazione nelle tematiche trattate: il protagonista delle liriche riflette sul rimorso provato, per le parole non dette, le stesse che non è mai riuscito a scrivere. C’è stato un momento della sua vita nel quale avrebbe voluto confessare i propri sentimenti a qualcuno, ma ha deciso di non farlo, guidato in questo dal suo orgoglio: “Ho fatto un errore, l’ho fatto nonostante lo sapessi. A quei tempi non riuscivo a capirlo, ora è tutto chiaro”. Difatti, ora il nostro protagonista è conscio dell’errore commesso e se ne pente. È cresciuto, la situazione attorno a lui è cambiata, e ciò lo ha aiutato a comprendere a pieno il suo sbaglio. “Che parole erano? E come posso essere stato così noncurante e arrogante da pensare di prendermi gioco di loro, non concedendo loro il rispetto di nascere dalla mia penna e di stare su una pagina, dove tutt’ora dovrebbero stare, ancora e ancora…” Ma forse certi sbagli possono ancora essere rimediati, forse non è troppo tardi. E magari Blaze ha trovato modo di farlo proprio con questa canzone. “Vivi dove hai sempre vissuto, siedi dove ti sei sempre seduto, nulla sembra cambiare, alla fine dei giorni”. Un brano ancora una volta forse venato di autobiografia, forse scritto pensando ad una cara persona ormai andata via, che non potrà leggere quelle parole, finalmente impresse su di un foglio e pronte per essere consegnate alla memoria di un destinatario ormai impossibilitato a custodirle nel proprio cuore. Con Waiting for my Life to Begin si cambia nuovamente approccio: il pezzo nasce come nascerebbe un principio d’esplosione, con la stessa carica e potenza con la quale una bomba detonerebbe. Ancora una volta, Blaze decide di tornare alle origini, presentandoci un brano che più di tutti risente della grande lezione degli Iron Maiden, e proprio come accaduto con i pezzi più “Priestiani”, anche questa volta mancherebbe unicamente la voce del caro Bruce Bruce per trovarci senza alcun dubbio dinnanzi ad un brano della Vergine di Ferro. Un pezzo che cresce in maniera progressiva, grazie ad un sapiente incedere possente ma raffinato, che alterna momenti più “tosti” a momenti ben più melodici, con il tutto finalizzato a esplodere nello stupendo ritornello, sorretto da una melodia che i gruppi più blasonati avrebbero pagato per comporla. Basta difatti ascoltarla per bene per rendersi conto quanto quest’ultima non faccia affatto rimpiangere quelli che furono “i tempi migliori”. Siamo nel nuovo millennio, a tenere alto l’onore dell’Heavy Metal sono rimasti in pochi, causa il sopraggiungere di nuove sonorità e, di conseguenza, il cambio di interesse del pubblico e delle case discografiche. Trovavamo, con la bandiera in alto e fiera, il sempiterno Rolf Kasparek ed i suoi Running Wild, Ronnie James (rip) ed i suoi Dio, i Motorhead di Lemmy Kilmister.. nomi importanti, ai quali possiamo tranquillamente affiancare lo stesso Blaze, che grazie alla sua carica e alla sua attitudine è riuscito a divenire il collante di una band che, in questo brano come in tutto l’album, sta dimostrando come le logiche di mercato alla fine poco contino: se quel che si ha nel cuore è Heavy Metal, questo sgorgherà da ogni dove, non lasciando spazio a sperimentalismo troppo fini a loro stessi o comunque dettati da una ragion di stato in quegli anni assai opprimente. Percepibile, tutto questo, soprattutto nelle chitarre che spadroneggiano totalmente, costruendo riff e passaggi raffinati ma sempre potenti. L’atmosfera più smaccatamente ottimista si può respirare fin dalle prime note, e difatti l’incedere del brano è molto più leggero e meno cupo di quanto udito nelle tracce addietro. Un cambio di rotta piacevole ma non “traumatizzante”, che ben si amalgama nel contesto tutto. La canzone racconta la storia di una persona che decide, dopo una vita trascorsa rimanendosene al suo posto, lavorando in una comune fabbrica, di mollare tutto per inseguire il proprio sogno, nello specifico vivere di musica. Come sempre, le parole di Bayley sono personali, autobiografiche. “Mi sono svegliato in un giorno così pesante, in una settimana pesante, in un mese pesante, in un anno pesante, sempre tutto così pesante! Quest’oppressiva routine mi sta distruggendo, vado a lavoro, torno a casa, provo a dormire, poi di nuovo vado al lavoro”. Stavolta il ruolo di automa va stretto e l’unico modo per cambiare le cose, per prendere in mano la propria vita, è quello di mollare tutto e cominciare a vivere per davvero. “Il mio sogno è così reale, sono lì, su un palco, canto con la mia band per un’orda di fan in delirio. Sono più resistente dell’acciaio!”. Insomma, un impeto di ribellione che molto spesso aveva trovato spazio in molti altri testi di ogni genere: da “Rock n Roll Singer” degli AC/DC a “We’re Not Gonna Take It” dei Twisted Sister, la passione per il genere musicale più “tosto” al mondo mal si amalgama con una semplice vita scandita da ritmi troppo monotoni, oppressa da un alienante lavoro “9X5”. Prima o dopo il gene metallico di ognuno di noi arriverà a farsi sentire con molta prepotenza, ed allora non riusciremo più a star fermi, zitti e buoni, a subire. Il Nostro sogno sarà sempre quello di state lì su quel palco, con i nostri amici, diffondere il verbo del Metallo a suon di decibel ed amplificatori infuocati. Nel testo originale la frase Tough as Steel cita una delle più famose canzoni degli Wolfsbane, prima band di Blaze, dando al tutto persino una connotazione storica. Una bella melodia di chitarra introduce Voices From the Past, uno dei pezzi meno potenti ma comunque caratterizzato da una marcata musicalità. Molto pregevole il primo minuto, praticamente affidato alle chitarre di Bermudez e Walsh, ancora una volta salite in cattedra per mostrare come si deve suonare l’Heavy Metal, non dimenticando il gusto della melodia ma sempre facendo sentire la potenza e la concretezza di un genere musicale che, non per nulla, si chiama proprio Metallo Pesante. Non di meno la sezione rimica, soprattutto la batteria di Paterson acquisisce toni duri e marziali, divenendo in alcuni tratti quasi ossessiva, dato il modo serrato di scandire i colpi di charleston e rullante, ma capacissima di dilatare i propri ritmi in concomitanza dei ritornelli. Soprattutto al minuto 3:26 assistiamo ad un’accelerazione praticamente “comandata” dal drummer, il quale si carica tutto il peso della band sulle spalle per condurla verso lidi di sfrenata velocità. I riff divengono più serrati, la batteria 2impazzisce” letteralmente, il contesto si fa incredibilmente più aggressivo e devastante, fino a sfociare in un assolo di rara bellezza, che riprende molto da vicino gli stilemi tipici dell’Heavy più prettamente europeo, come tutto il resto del brano, per altro.  Giocato infatti fra parti elettriche e pulite, la canzone alterna momenti più “distruttivi” ad altri molto più pacati e ruvidamente melodici, soprattutto nel ritornello, il quale acquisisce ancora più respiro. E’ l’accelerazione che caratterizza la parte solista, comunque, a far riecheggiare fra le note di questo brano il tipico metal europeo anni ’80 già citato pocanzi, in particolare il metal melodico tedesco di Helloween e Running Wild. Il testo affronta la spinosa questione legata al proprio passato: spesso ignorarlo non serve a nulla e il solo modo per arrivare ad accettarlo è trovare il coraggio necessario per fronteggiarlo. “Se non affronto i problemi che ho, so bene che ritorneranno. Dopo tutto, so che è la verità”, “Ho tentato di chiudere la porta in faccia a ogni Passato nel quale sono nato, ho allontanato il passato, così sono sopravvissuto. Ma ora sento qualcosa nella mia testa”. Voci che ci tormentano, che ci tengono svegli la notte, che ci levano gioia e spensieratezza. Nulla riesce, in questi casi, a renderci realmente liberi: chiudere la porta al Passato, reprimerlo, ignorarlo, trattarlo come una creatura deforme incatenata in un cupo scantinato, serve solo a renderlo più forte e ad aumentare i suoi poteri di grande Tiranno. Sta solo nell’affrontarlo faccia a faccia, ad armi pari, il segreto per riuscire a disfarsene per vivere felici. Si soffrirà, ci saranno conseguenze e ferite, ma saremo comunque pronti ad affrontare il tutto con un piglio diverso ed una nuova, rinata capacità di guardare al domani con maggiore ottimismo. Il tormento interno di Blaze si manifesta ancora una volta, ma allo stesso modo il cantante trova la volontà necessaria per combattere i suoi fantasmi. Può sembrare scontato, ma tutti noi possiamo ammettere di non essere sempre riusciti a farlo. L’imperfezione ci caratterizza, ma allo stesso tempo possediamo anche la forza per non nasconderci di fronte alle nostre paure. Il concept dell’album prosegue anche in The Truth is One: la verità che ci viene raccontata, la stessa con la quale veniamo cresciuti non corrisponde alla realtà. La verità è solo una, quella che impariamo a conoscere noi stessi, ogni giorno, mentre diventiamo adulti, mentre costruiamo la nostra vita ed il nostro mondo. Possiamo inciampare, commettere errori, ma anche ciò significa crescere. Dobbiamo scoprirlo dentro di noi, anche se ciò comporterà soffrire. Solo grazie all’esperienza, ai ricordi, possiamo pretendere di sapere. “Dimentica le promesse, la paura di tutta questa gente è la causa della loro futura estinzione. Senti la voce delle TUE convinzioni, danza a ritmo della tua vera voce, quella dentro di te” e ancora “Lascia che il fuoco della Verità bruci, a senti con quale forza prende il controllo!”. Parole cariche di ottimismo, se non altro, fiduciose nei riguardi di un domani che si prospetta migliore. L’importante è non lasciarsi sopraffare da alcunché, anzi, rimanere saldamente al timone della propria esistenza non lasciando che la tempesta porti la nostra nave alla deriva. Abbiamo gli strumenti per poterci riuscire, basta solo impegnarsi. Il pezzo è introdotto da una potente rullata di batteria e riporta il disco su atmosfere più tese. I tempi sono sostenuti ed i riff tornano ad essere claustrofobici più che veloci, questa volta di nuovo più serrati e compatti, piuttosto che melodici. Le asce, difatti, decidono di sfoderare una cattiveria ben più marcata, distorcendo il sound nuovamente strizzando l’occhio ad una maggiore modernità, comunque sempre ben inserita in un contesto che fa delle vincenti tradizioni passate, ancora una volta, il suo distintivo. La rabbia cantata da Blaze soprattutto nel ritornello è palpabile, il nostro abbassa leggermente la voce per renderla meglio amalgamata con il tutto, tuttavia non sacrificandosi, e risultando comunque roccioso e convincente anche in queste vesti. La ritmica, tanto per cambiare, non lascia scampo, e le chitarre non possono che ringraziare i colleghi, in quanto grazie a questa sicurezza riescono a costruire riff implacabili che non lasciano possibilità di respiro. Una nota in particolare per la melodia della sei corde che anticipa gli assolo: quest’ultimo sembra particolarmente strizzare l’occhio al guitar work di Andy LaRocque, proprio per via dell’alone di “oscurità” che domina implacabile il brano, quasi quest’ultimo fosse appena uscito da uno degli Horror Concept del maestro King Diamond. Si ritorna su versanti maggiormente più Heavy verso il minuto 3:28, quando si cambia registro ed una melodia accattivante ci conduce verso il finale, ancora una volta meravigliosamente declamato dal nostro Blaze, in forma più che mai. E proprio la voce del bravissimo singer, mai così sinistra, annuncia l’ultimo pezzo dell’album, Serpent Hearted Man, una canzone veloce e intensa, perfetto riassunto dell’intero disco. Si comincia riprendendo gli stilemi già uditi nel brano precedente, ed una sorta di intro, ricavata dal sapiente mescolarsi di una nera melodia e della voce di Blaze, sussurrata ma non accennata. Subito dopo, una batteria marziale unita a riff serrati e compatti avanzano a mo’ di falange, lasciando nuovamente campo libero al buon Bayley, che non si tira indietro e sembra, ancora una volta, pervaso da un furor teatrale che lo porta letteralmente a declamare i versi di questo ultimo brano. Una prova degna di nota e per nulla ridondante, carica di espressività e momenti (seppur molto brevi) in cui è solo la voce a farsi udire, nella sua totalità. Attraversata dalla toccante malinconia con la quale ormai abbiamo familiarità, “Serpent…” è graziata da una parte strumentale centrale impeccabile, densa e implacabile, che molto risente della lezione dei sempiterni Manilla Road. Heavy, certo, ma molto epica, “possente” nel suo incedere, venata di una sorta di malinconia “doom” che tanto aveva caratterizzato la produzione del combo americano durante i suoi anni d’oro. Nel finale soprattutto, l’insieme viene intensificato, mentre, come un mantra, il ritornello ci accompagna alla fine del pezzo, spegnendo in un sussurro un album altrimenti quasi gridato, nel complesso. Nel testo si paragona la figura del serpente con quella di un uomo capace di gettarsi tutto alle spalle per rinascere come qualcosa di nuovo, differente, evoluto. Come una vecchia pelle, ogni dubbio e incertezza viene abbandonato. “La gioia del passato e il dolore di ieri vengono ora lasciati indietro, con la mia pelle sfatta, frammentata, giace su di un terreno morente. Accetto e affronterò tutto quello che il Domani potrebbe offrirmi” e poi “Rinasco tramite il potere di ogni nuovo giorno, non sono sopraffatto dalle ombre di ieri. Vivo in un eterno oggi”. Ed è come se la trasformazione affrontata fin dai primi battiti di vita del platter abbia finalmente compimento, mostrandoci come da qualcuno tradito, assassinato e dimenticato, sia potuto risorgere un uomo nuovo, forse non perfetto, ma maggiormente consapevole di sé, più forte e determinato. È sufficiente ripassare le tappe di questo mutamento, le singole canzoni, per comprendere quanto tutto ciò sia reale, tangibile. È una metafora dell’intera carriera di Blaze, perché il cantante gettato nel fango e disprezzato, abbandonato quando non era più utile, è ancora qui, più inarrestabile di prima, reso indistruttibile dalle stesse persone che lo davano per spacciato. Come dice lui stesso, la verità è una sola. Basta saper guardare.



Se ogni Heavy Metal fan fosse tanto onesto da riuscire a giudicare solo attraverso le orecchie e il cuore, dovrebbe ammettere la mostruosa qualità di quest’album in particolare e di tutta la carriera di Blaze nel complesso. Ma l’evoluzione del cantante inglese si deve scontrare col desiderio di immobilità dell’appassionato medio, lo stesso che vorrebbe ascoltare ogni anno un nuovo album della sua band preferita, caratterizzato da una formazione inalterata. Vorrebbe un nuovo “Powerslave ogni dodici, ventiquattro mesi, altrettanto bello e identico a se stesso, dimostrandosi sordo a un naturale declino che solo del “sangue nuovo” potrebbe arrestare. Perché solo qualcuno dotato di un vero amore verso la nostra musica può offrire tutta la propria anima in ciò che fa. Ma questo non viene accettato, perché ci si ostina a negare le novità. Ma Ripper Owens avrebbe potuto dare qualcosa di nuovo ai Judas Priest, se solo gli fosse stato concesso abbastanza tempo, così come John Corabi avrebbe potuto offrire nuove prospettive ai Motley Crue. Allo stesso modo un poco del Blaze solista avrebbe condizionato in maniera positiva i Maiden… e se non fosse stato lui, magari un altro giovane cantante con la voglia di spaccare il mondo avrebbe potuto prendere il suo posto. Invece è stata scelta la sicurezza offerta dal passato, la garanzia del già sentito. Perché era quello che i fan volevano, no? Ora, se davvero le cose sono andate come dovevano, perché non abbiamo fra le mani un nuovo “Powerslave? Beh, alla fine non importa, perché abbiamo comunque “The Man Who Would Not Die, uno dei migliori album partoriti dal 2000 a oggi, e anche se non molti capiranno, forse questo articolo aprirà gli occhi a qualcuno. Perché il metal, quello vero, non si trova sui palchi di immense arene, non più ormai. È tornato da dove è venuto, nei piccoli club, nelle autoproduzioni. Nel cuore di band che sputano sangue per ottenere un poco di attenzione nel caotico mondo post internet. C’è una parola per definire tutto ciò ed è Underground. Oppure, semplicemente, Heavy Metal. Blaze ha purtroppo dovuto pagare lo scotto dell’ingombrante (non certo a torto) presenza di un’icona come Bruce Dickinson.. l’eterna lotta fra il puro di cuore e la ragion di stato, vi è anche da capire chi, in certe situazioni, vuole scegliere la via più facile, in fondo. Musica certo, ma anche lavoro. Il tutto, comunque, non sembra aver fermato il nostro che, rimboccatosi le maniche, ci ha comunque donato un album degno del più grande rispetto possibile. Tanto di cappello al nostro Blaze, che ha dimostrato quanto e come si possa andare avanti, nonostante alcuni banchi di prova importanti siano, ma solo in apparenza, stati un “flop”. Riscopriamo queste piccole – grandi realtà, e non lasciamoci condizionare unicamente da tutto ciò che è arci pubblicizzato. Il Metal è un panorama troppo vasto, non basterebbe una vita a scoprirlo tutto, questo è vero.. ma se non partiamo all’avventura, non lo sapremo mai.


1) The Man Would Not Die
2) Blackmailer
3) Smile Back at Death
4) While You Were Gone
5) Samurai
6) Crack in the System
7) Robot
8) At The End of The Day
9) Waiting for my Life to Begin
10) Voices From the Past
11) The Truth Is One
12) Serpent Hearted Man