Black Sabbath
The Ozzy Era: Monografia Completa
1970 - 1978 - Vertigo Records
ANDREA ORTU
31/07/2019
Introduzione Monografia
Otto anni e otto dischi d'inarrivabile ingegno, blasfemia, ruvidezza, dissenso, ironia, emozione e grande musica. Una musica pesantissima, portatrice di semi dai frutti più inaspettati, a decine: un raccolto di cui tutt'oggi scopriamo nuove piante e nuovi incroci. Dal 1970 al 1978, i Black Sabbath di Tony Iommy, Bill Ward, Geezer Butler e Ozzy Osbourne, hanno fatto la storia grazie ad un sound che avrebbe ridefinito i confini stessi del Rock, e ad un'estetica che avrebbe influenzato l'intero immaginario collettivo. Partiremo dagli inizi, dalle origini del loro linguaggio musicale ed estetico, vivremo ogni singola tappa del loro viaggio professionale e umano, e infine, com'è giusto che sia, ne celebreremo l'inestimabile, immortale eredità culturale.
Arte e follia. Arte e oscurità. Arte e desiderio di sbigottire, turbare, intimorire coloro i quali cercano di restare rintanati nel loro piccolo eremo di convinzioni e di sicurezze. Che si tratti di letteratura, di poesia, di musica o pittura, l'arte convive da sempre con un concetto che oggi, assimilata in pieno la cosiddetta cultura pop e ogni sua più intima malizia, chiameremmo cinicamente "Maledettismo". Il maledettismo d'un Caravaggio assassino e ritrattista di cadaveri e prostitute, ad esempio, oppure quello di Charles Baudelaire, o magari, quello di un Artaud o di un Edgar Alla Poe. In musica, il "Maledetto" più grande e più noto è stato Paganini, ma nella versione contemporanea del concetto, squisitamente figlia del 900 e alla base delle moderne correnti stilistiche, il primo nome che viene in mente è quello di Robert Johnson, morto a ventisette anni. Il chitarrista afroamericano non fu il primo artista di cui si disse che avesse stipulato un patto col diavolo, ma fu il primo a vantarsene: non era soggetto inerme di tali dicerie, ma le confermava, le divulgava, lasciava ch'esse divenissero lusinga del suo innato talento, spontaneamente. Era un atteggiamento sfrontato e ribelle, il nonno infernale del concetto stesso di rockstar. Nel frattempo, la musica nera e il blues, su tutti, minavano alle fondamenta la patinata compostezza dell'America bianca. Agli afroamericani dopotutto non servivano né lustrini né capelli lunghi, per meravigliare o intimorire, bastava la pelle scura e la testa ben alzata, e ben presto, la loro controcultura avrebbe influenzato intere generazioni d'artisti di ogni colore e provenienza: nasceva il rock 'n' roll. Al di là del sound, quella del rock è una cultura che trascende la musica stessa e si pone sulla letteratura, sull'estetica, sull'attitudine d'intere generazioni. Tra gli anni '50 e '60, gli europei, di quella cultura si appropriano a modo loro, assimilandone l'estetica a una maniera caustica e tagliante, a volte cinica, un po' seria e un po' sarcastica, tipicamente britannica. Dopotutto è il Regno Unito, il ponte ideale con le tendenze del grande calderone d'oltreoceano. Qui, il "Maledettismo" trova nuova linfa e nuovi linguaggi, e le più grandi band degli anni '60, musicisti che parlano al cuore della nazione e forgiano il sentire d'intere generazioni, cantano ormai senza barriera alcuna di diavoli e di sesso, di occultismo e di droga, raccogliendo le critiche d'una generazione e l'amore incondizionato di un'altra. I Beatles, la più grande band del suo tempo, usa l'Oscurità con sottile ironia e con cauto distacco, lasciandone trapelare solo un po' per volta; gli altri titani di quel decennio, i Rolling Stones, sono più spregiudicati ma ugualmente distanti, nella loro fulgida vitalità, nella schietta derisione d'ogni cosa a questo mondo. Fra questi estremi, una miriade di sfumature e d'attitudini, da quelle più composte a quelle più ruvide e stradaiole, fino alla quasi totale saturazione dei neri ad opera di band come i britannici Black Widow, o come gli statunitensi Coven. Questi ultimi, in particolare, sono degli estremisti: in quanto americani di origine europea, fanno loro un'estetica occulta e neopagana ch'è figlia del Vecchio Continente, mischiandola all'eredità della beat generation, alle atmosfere delle tante leggende dell'America profonda - storie di pionieri e diavoli, di Streghe di Salem - e infine all'attitudine, tutta afroamericana e adesso di gran moda, ad impressionare la società perbene. Abbiamo messe nere, le primissime "corna" nella storia del rock, sacrifici rituali: i Coven offrono praticamente già tutto, ma gli manca l'elemento fondamentale. La proposta musicale della band è buona, ma è un rock progressivo e acido, venato di psichedelia, "niente di nuovo sul fronte occidentale". In realtà elementi potenzialmente innovativi ci sono, ma forse non è abbastanza, o forse è troppo presto. I Coven restano nella loro nicchia di "pochi ma buoni", e a farsi strada, sul finire degli anni '60, è un'altra band leggendaria: i Led Zeppelin. La band di Jimmy Page prende il blues e lo fa suo fino ai limiti del plagio, ma da quei limiti tira fuori un sound mai udito prima, insieme oscuro e seducente, a tratti estremamente pesante. Pezzi come "Dazed and Confused" ed "Heartbreaker" segnano nuovi confini uditivi, e l'estetica della band, a metà fra luci e ombre e ricca di storie più o meno turpi, ridefinisce ancora una volta l'immagine del Rock - e delle rockstar. Così, tra l'heavy blues occulto dei Led Zeppelin e l'hard rock sempre più ruvido dei Deep Purple, il pubblico crede d'essere ormai pronto a tutto, e invece, nel 1970, arriva dal Regno Unito l'ultimo e definitivo frammento dell'infernale mosaico, e il più estremo: il primo album dei Black Sabbath. La band è figlia d'un chitarrista già piuttosto noto, nel suo giro: Tony Iommi, nonché del batterista Bill Ward, entrambi reduci dall'esperienza con i Mythology, gruppo blues rock di belle speranze, deflagrato in seguito all'arresto dei suoi componenti per detenzione di cannabis. Il cantante è un ventiduenne di nome John Michael Osbourne, detto "Ozzy", e tale è l'omonimia col bassista e fondatore dei Coven, Oz Osborne, che molti all'inizio pensano i due siano la stessa persona; è solo il primo di un'infinità di miti e leggende legati ai Black Sabbath. Il bassista è Terence Michael Joseph Butler, detto "Geezer", giovane proletario d'origine irlandese con una precoce passione per Aleister Crowley. Tutti e quattro sono figli di una working class arrabbiata e affamata, una generazione schiacciata tra gli opposti d'una rivoluzione culturale senza precedenti, e una crisi economica che ormai da anni attanaglia il Regno Unito. I musicisti s'incontrano nel 1968 ad Aston, Birmingham, dove tutti sono nati e cresciuti, e lì, insieme al chitarrista Jimmy Phillip e al sassofonista Alan Clarke, formano i Polka Tulk Blues Band. Ben presto, la formazione cambia il proprio nome preferendo il più sintetico "Polka Tulk", per poi cambiarlo nuovamente in Earth, lasciandosi così alle spalle sia Phillip che Clarke, accusati di non prendere sul serio il progetto, e soprattutto, di non concedergli la necessaria dedizione. Sull'impegno i musicisti hanno infatti le idee ben chiare... soprattutto Tony Iommi, la cui ambizione è solida e ben definita: l'Olimpo del rock. Col nome di Earth, i quattro pubblicano diverse demo scritte da Norman Haines e ottengono d'essere seguiti da un manager esperto e navigato: Jim Simpson. Tuttavia, verso la fine del '68, Iommi lascia improvvisamente la band e si unisce ai Jethro Tull, convinto sia la direzione giusta per il suo talento e le sue ambizioni, per uscirne poco tempo dopo amareggiato e disilluso. Di quell'esperienza dirà: "All'inizio pensai che i Tull fossero grandiosi, ma non mi piaceva granché avere un leader nel gruppo, com'era nello stile di Ian Anderson. Quando lascai i Tull, tornai indietro con un atteggiamento totalmente nuovo. M'insegnarono che per andare avanti, devi lavorare sodo". Tony Iommi ritorna così a far parte degli Earth, ma data l'omonimia con la band inglese di Glenn Campbell, è costretto a cambiare nuovamente il nome della sua creatura. Sì, ma quale? Dopotutto, il nome è importante: definisce il significante profondo alle origini di un progetto. L'ispirazione arriva per caso, in un giorno qualunque, quando Geezer si trova ad osservare una lunga fila di spettatori all'ingresso d'un cinema. Il film in programmazione è un horror del '63 del nostro mitico Mario Bava, un lungometraggio composto da tre distinti episodi dal titolo "I Tre Volti della Paura", ma il nome inglese - a riprova che non siamo solo noi, a stravolgere i titoli dei film - è "Black Sabbath". "Caspita", pensa Geezer, "la gente paga più che volentieri per farsi impaurire". La rivelazione, allora, è tanto semplice quanto illuminante: la paura, l'orrore, il male, sono elementi che godono d'una fascinazione unica e particolarissima. Elementi con i quali è necessario confrontarsi. "Black Sabbath" non è solamente un nome attraente e cool, per la band di Iommi e compagni: è una vera e propria rinascita. Poco tempo dopo, arriva il primo di una lunga serie di brani destinati a fare una fetta importante di storia della musica, e il suo nome, manco a dirlo, è Black Sabbath. È l'inizio di una Leggenda.
Black Sabbath (1970)
I riff più pesanti, più spaventosi, più cool, e il lamento apocalittico di Ozzy, sono senza pari. Puoi percepire tutta la disperazione e la minaccia delle strade della classe operaia di Birmingham, da cui loro provengono, in ognuno di quei maligni groove spaccaculo. Il loro arrivo ha ridotto in poltiglia la psichedelia dei figli dei fiori, e piazzato gli standard per tutte le heavy band a venire.
(Tom Morello)
Tony Iommy, Ozzy, Bill Ward e Geezer si esibiscono per la prima volta come Black Sabbath a Workington, in Inghilterra, il 30 aprile del 1969. La band firma con la Phillips Records e a gennaio del 1970 esce finalmente il primo singolo: Evil Woman (edito da Fontana Records, sussidiaria della Phillips). È la cover di una hit piuttosto famosa dei Crow, alle cui raffinatezze, i Sabbath sostituiscono una vena maligna e vagamente inquietante. Rimane tuttavia un brano sostanzialmente innocuo e relativamente vendibile, espressamente voluto dal manager Jim Simpson per ragioni meramente commerciali. Nella versione americana dell'album, "Evil Woman" è sostituita dalla ben più intrigante Wicked World, a evidenziare un'inattesa propensione jazz della band. Impegnato in una serie di date in giro per l'Europa, il gruppo registra il suo primo disco in meno di ventiquattro ore, quasi un record: è il 16 ottobre del 1969, pochi giorni prima dell'uscita di Led Zeppelin II, e alcuni mesi dopo l'uscita del terzo disco dei Deep Purple. Il primo album dei Black Sabbath arriva pochi mesi dopo, e s'intitola semplicemente... Black Sabbath, come da consuetudine piuttosto radicata. È il 13 febbraio del 1970, quasi come ad aprire, simbolicamente, un decennio che sarà votato all'hard rock e che porrà le basi dell'heavy metal. La copertina mostra uno scorcio del Mapledurham Watermill, sulle rive del Tamigi, località squisita e lussureggiante che nella versione di Marcus Keef, alias il fotografo Keith McMillan, diviene inquietante e oscura, nella sua purpurea desaturazione. In posa di fronte all'antico mulino inglese, una modella di cui si ricorda solo il nome: Louise. La sua tetra figura, priva di contorni definiti, è una presenza stregata e affascinante. Il pezzo d'apertura è il primo, vero brano scritto da Ozzy e soci, omonimo del disco e della band, ispirato ai racconti dell'orrore di Dennis Wheatley e, si dice, alla sagoma di una siluette nera ai piedi del letto di Butler. Il brano è fondato sul tritono conosciuto come "diabolus in musica", e nella sua essenza musicale, poetica e simbolica, esprime già tutte le premesse alla base di ciò che sono e saranno i Black Sabbath. The Wizard è un pezzo straordinariamente fuori dagli schemi: da una parte classicissimo, nella sua matrice blues e l'uso dell'armonica, tanto grezzo da sembrare l'opera di un afroamericano nato e cresciuto in seno al Mississippi, piuttosto che di una banda di ragazzi inglesi; dall'altra, è graziato da un riff durissimo e avveniristico, a soggiogare l'ascoltatore col suo elettrizzante contrasto. Il testo parla in buona parte del mago Gandalf, a riprova di un'ampia riscoperta di Tolkien - e della letteratura inglese in generale - da parte della cultura pop-olare del periodo, sebbene, va detto, ci sia una realistica possibilità che lo stregone rappresenti metaforicamente il pusher preferito di Ozzy. Behind the Wall of Sleep sembra prendere il più classico rock 'n' roll e rallentarlo drasticamente, fino a renderlo quasi claustrofobico e soffocante per poi salire nei ritmi e nelle atmosfere, complice la voce estremamente peculiare del cantante. Il brano mette in risalto l'abilità del batterista, Bill Ward, autodidatta dallo stile saturo di fills e d'intuizioni di evidente scuola jazz. Il testo, tenebroso e notturno, figlio della passione di Geezer per il mondo dell'occulto, è carico di riferimenti all'opera di Lovecraft, autore all'epoca ancora fin troppo sottovalutato, lungi dal fenomeno di tendenza che oggi rappresenta. In particolare, il riferimento è al racconto "Oltre il Muro del Sonno" (Beyond the Wall of Sleep). N.I.B. è un brano parimenti ruvido e psichedelico, registrato in maniera volutamente grezza e caratterizzato in particolar modo dalla chitarra di Tony Iommi; lo stile del chitarrista è l'esempio perfetto del detto italiano "necessità fa virtù", avendo il musicista perso, in un incidente di fabbrica, le falangi superiori del medio e dell'anulare della mano destra. Una volta realizzate delle geniali protesi fatte in casa, Iommi avrebbe in seguito abbassato di mezzo tono il suo strumento, dando vita a un sound del tutto caratteristico e personale. Il suono dei Black Sabbath è dunque frutto, in qualche maniera, anche di questo incidente. Il titolo del brano, fra i tanti miti legati alla band, sembrerebbe essere un gioco di parole riguardo i baffi di Ward, e non l'acronimo di "Nativity in Black" o, "Name in Blood", come per anni creduto dai fans. Chiudono l'album Sleeping Village e Warning. La prima è una canzone dura ed elettrizzante, perfetta a strizzare l'occhio al pubblico americano, con le sue sonorità a mezza via tra il selvaggio west e l'on the road. La seconda, "Warning", è la cover di un pezzo del '68 dei The Aynsley Dunbar Retaliation, giusto un pelo più acida rispetto all'anima squisitamente blues dell'originale.
Di quest'album, di "Black Sabbath", si dirà che ha portato l'hard rock su di un altro livello, e che ha inventato ciò che decenni dopo sarà definito "doom metal", sebbene il paragone abbia un senso in chiave puramente post-modernista. Nonostante una maturità umana e artistica ancora largamente perfezionabile, nonostante i limiti di una scaletta segnata da una certa ripetitività, e infine, nonostante due canzoni su sette siano cover di dubbia utilità, possiamo e dobbiamo affermare che sì: "Black Sabbath" ha fatto la storia della musica dura, e non tanto, o non solo, delle sue sonorità, ma soprattutto del suo immaginario, e del modo in cui questo sarebbe penetrato a fondo nella cultura di massa d'intere generazioni.
Paranoid (1970)
Per essere un prodotto idealmente di nicchia e talvolta apertamente borderline, il primo album dei Black Sabbath se la cava davvero niente male: ottavo posto nella classifica britannica e ventitreesimo nell'americana Billboard 200. Ovviamente, la critica lo stronca pesantemente, deridendone le velleità occulte e demolendone quelle stilistiche, compresa l'attitudine a quei lunghi assoli di Tony e di Ward. Critiche molto simili avevano già portato fortuna ai Led Zeppelin, e prevedibilmente, ne portano parecchia pure ai Black Sabbath. Neanche otto mesi dopo il debutto del primo album, ecco infatti che arriva il secondo: Paranoid, edito da Vertigo Records in Regno Unito e dalla Warner Bros negli Stati Uniti, roba bella grossa. È il 18 settembre del 1970. Come tutti i "secondi album", Paranoid rappresenta il vero banco di prova della band, il test che deciderà se i Black Sabbath sono veramente Oro a 24 carati, oppure, come certa critica sembra pensare, solo una fregatura malamente placcata. Oggi, a quasi cinquant'anni di distanza da quell'album, a parlare è il giudizio della Storia: Paranoid è un capolavoro, puro e semplice. Incredibilmente, l'album si presenta con una cover art piuttosto bruttina, oltre che intrinsecamente sbagliata. Il tizio che spunta fuori dalla boscaglia, vestito con una specie di armatura rosea e la spada scintillante, dovrebbe essere una rappresentazione metaforica dei "war pigs", i "maiali da guerra", di cui parla l'omonima traccia contenuta nel disco. Il punto è che l'album doveva chiamarsi proprio "War Pigs", ma l'etichetta decise che "Paranoid", destinata ad uscire come singolo, fosse più vendibile come title track, e assai più orecchiabile. Alcuni dissero che la band non voleva rischiare le ire dei simpatizzanti del conflitto in Vietnam, viste le tematiche alquanto spinose di "War Pigs", ma molti anni dopo, Ozzy avrebbe seccamente smentito tutta quella faccenda. Peccato, comunque, che la copertina rimase la stessa. Non a caso l'album si apre con la sua "vera" title track, War Pigs, un brano che delle antiche radici blues conserva unicamente la mastodontica possanza nei movimenti, degna del Muddy Waters più elettrico. Per il resto, "maiali da guerra" è un brano senza più mezze misure, "Metal" nel senso più contemporaneo del termine, quasi otto minuti interamente giocati su di una geniale interazione tra Ward e Tony Iommi, tra riff di chitarra e fills di batteria. Se proprio gli si vuole trovare un difetto, è forse una lunghezza eccessiva, in contrasto con una ripetitività non del tutto stemperata da intuizioni ed assoli. Se c'è però una grande qualità che "War Pigs" mette in risalto, è l'attitudine dei Black Sabbath al dissenso, un impegno politico che le altre rock band, nello stesso periodo, trattano quasi sempre con superficialità o furberia, interessate più all'evanescenza dell'ideale, che non ai problemi concreti della società. Segue Paranoid, già uscita come singolo un mese prima del full length, e a tutt'oggi, col suo quarto posto nelle classifiche britanniche, il più ragguardevole successo commerciale dei Black Sabbath. Eppure, sembra che il brano sia nato quasi per caso e all'ultimo momento. Lo stesso Geezer avrebbe affermato che: "Buona parte dell'album "Paranoid" è stata scritto ai tempi del nostro primo album, "Black Sabbath". Abbiamo registrato tutto in circa due o tre giorni, dal vivo in studio. La canzone "Paranoid" è nata come un ripensamento. Fondamentalmente avevamo bisogno di un filler di tre minuti per l'album, e Tony s'è inventato il riff. Ho ideato velocemente il testo e Ozzy lo leggeva mentre cantava". Insomma, una canzone quasi improvvisata, ideata come "riempitivo" di un album ancora troppo spoglio. Eppure "Paranoid" si dimostra all'altezza delle aspettative, perfetta a portare in alto il nome del Sabba Nero: è una svirgolata furibonda che prende il rock 'n' roll e lo blinda come un carro armato, manifesto della voce meravigliosamente "sbagliata" di Ozzy, grezzissima, nel suo assolo stradaiolo e nel suo finale privo di coda. Il testo è angosciante e reale, distante dall'idea adolescenziale che la critica aveva della band; "Paranoid" parla di depressione, il "cane nero" di tanti poeti, artisti e personalità della storia, ma nel 1970 non c'è una grande cultura alla sensibilizzazione nei confronti di questi problemi, e così, Geezer confondo la depressione con la paranoia, un fraintendimento che sarà parte della storia della musica. Planet Caravan dimostra che i Black Sabbath sono musicisti completi, sia in termini tecnici che culturali. Il brano accarezza l'irreale idea di fluttuare in un dolce vuoto cosmico insieme alla persona amata, fra stelle e carovane spaziali; quattro minuti e mezzo di calma interstellare, contemplazione esistenziale e sonorità minimaliste, folk a una maniera vagamente orientale, psichedeliche a una maniera tutta loro, fuori dal tempo. Famosa diverrà la cover di "Planet Caravan" ad opera dei Pantera, altra metal band fra le più amate di tutti i tempi. Come a rassicurare il giovane e turbolento ascoltatore ideale, l'album torna al metallo pesante con Iron Man, pezzo simbolo dei Black Sabbath e della musica dura tutta. Il riff principale di questa canzone, infatti, ha ispirato migliaia di chitarristi nei decenni a venire, assurgendo a standard. Il testo è geniale: un uomo viaggia nel futuro e vede la fine dell'umanità, ma durante il suo ritorno al presente rimane intrappolato in un campo magnetico, e se il suo corpo si trasforma in puro acciaio, la sua voce, di contro, scompare per sempre. Furibondo che i suoi muti tentativi di avvisare l'umanità vengano ignorati e derisi, l'Uomo di Ferro impazzisce e si vendica sul mondo intero, causando egli stesso l'apocalisse che aveva visto nel futuro. Electric Funeral incede con passo maligno e metallico, e proprio come dirà Kerry King degli Slayer, "i suoi mostruosi riff superano la prova del tempo". Il tema è ancora una volta l'apocalisse, la fine atomica d'un umanità ridotta a plastica e parodia, l'estinzione percepita come benedizione celeste. Centinaia di gruppi heavy, doom e death riproporranno tematiche del genere ad infinitum, ma hey!, è qui che è iniziato: questa è l'originale. "Electric Funeral" esce inoltre come singolo insieme ad "Iron Man", a ottobre del 1971. Di Hand of Doom, Jerry Cantrell degli Alice in Chains dirà che è "?un capolavoro. È ipnotico e terrificante e possiede un groove seducente. La canzone esplode in un paesaggio distorto, reso reale attraverso il suono". Una descrizione estremamente precisa. La canzone è contro la droga, ma per la frustrazione del povero Butler, il suo significato è stato per lungo tempo frainteso e ribaltato. Dopotutto, la depressione e la paranoia descritte dal bassista su "Paranoid", sono proprio il frutto dell'esperienza del bassista con la droga. Rat Salad è una sarcastica, rapidissima frustata strumentale che inizia col chitarrista che s'atteggia un po', e finisce nell'esibizione personale d'un batterista davvero troppo sottovalutato. Chiude l'opera Fairies Wear Boots, brano d'inattesa eleganza, piacevolmente sincopato, acido al punto giusto, ovviamente durissimo. È l'unica canzone dell'album di cui Ozzy abbia scritto il testo, solitamente appannaggio di Geezer, e in effetti il cantante si sbizzarrisce dando prova anch'egli di un background blueseggiante e vario. Il testo non è affatto oscuro, ché Ozzy in fondo è un simpaticone, e parla di... "fate con gli stivali", appunto; insomma, l'incontro fortuito e notturno con un gruppetto di sensuali skinhead ante litteram. Un finale disimpegnato che trova il suo senso nella relativa lunghezza del brano, oltre che nella sua ruvida raffinatezza.
La seconda avventura dei Black Sabbath si conclude con l'ennesimo successo e la meritata consacrazione, ma nel 1970, pochi colgono l'enormità di quanto ascoltato. Come sempre, la storia dell'arte si fa un mattone alla volta, lasciando che gli anni asciughino la malta, ma senza dubbio, le fondamenta costruite da "Paranoid" sono assai solide e fatte per durare.
Master Of Reality (1971)
"Paranoid" catapulta d'improvviso i Black Sabbath nel giro dei grandi... non "grandi" quanto i colleghi Zeppelin o quelli d'oltremare, i Doors, la cui musica meglio s'adatta a un pubblico più ampio, ma certamente famosi e ammirati, talvolta odiati - ed è un bene, essere odiati: l'odio di certa critica e del pubblico più moralista fa parte del gioco, ed è spesso indicatore di qualità. Il terzo album esce il 21 luglio del 1971, alla fine del primo e indimenticabile tour americano del Sabba Nero. Si chiama Master Of Reality, e se forse aggiunge poco alla formula già perfezionata su Paranoid, il nuovo disco rappresenta senz'altro il vero, definitivo punto di svolta della band. Da questo momento in avanti i Black Sabbath diventano una realtà internazionale, il loro verbo oscuro, d'esempio a migliaia di musicisti in erba. Al pubblico adolescente, ragazzi che magari iniziano a mettere le mani su chitarre e bassi elettrici per la prima volta, è un po' come se "Master Of Reality" dicesse: "ci si può spingere ancora oltre, ragazzi miei, fino a questo punto e ancora più in profondità fino alle viscere dell'inferno". Le cover art non sembrano essere il pezzo forte del gruppo, ma almeno, quella del terzo album si limita ad essere solamente un poco sempliciotta, e non letteralmente sbagliata come quella di "Paranoid". "Master Of Reality" è l'ultimo disco dei Black Sabbath prodotto da Rodger Bain, nome piuttosto noto agli amanti della musica dura (produrrà il primo album dei Judas Priest; in pratica, ha contribuito ad inventare buona parte di ciò che oggi definiamo "metal"). Come detto, la formula vincente già sperimentata e perfezionata su "Paranoid" non è sovvertita, né vi sono aggiunte stilistiche eclatanti, tuttavia, questo non significa che Master Of Reality sia privo di una sua personalità, e soprattutto, che non vi sia intrinseca una crescita artistica e un generale miglioramento. I testi, già piuttosto sopra le righe, trovano coerenza e filo logico laddove prima c'erano solamente idee grezze e intuito. E riguardo il resto - la musica, la registrazione, la concentrazione dei musicisti - è Bill Ward, che in un'intervista del 2013, dà la descrizione più dettagliata: "Col primo album abbiamo avuto due giorni per fare tutto, e non molti di più per "Paranoid". Ma ora potevamo prenderci il nostro tempo, e provare a far uscire cose differenti. Abbiamo accolto tutti l'opportunità. Tony ci ha messo parti di chitarra classica, il basso di Geezer è stato virtualmente raddoppiato di potenza, mentre io ho provato grancasse più grandi, e anche sperimentato con le sovraincisioni. Ozzy è migliorato parecchio. Per la prima volta non avevamo concerti in programma, e potevamo semplicemente concentrarci sul rendere il nostro album un riferimento". Sweet Leaf dà inizio al ballo con l'ennesimo riff torcibudella del buon Tony, lento e aggressivo come ormai da tradizione. Il testo è una candida ode all'erba - ovviamente quella che si fuma - e quei colpi di tosse che si sentono all'inizio sono veri: pare che Ozzy avesse offerto uno spinello a Tony Iommi mentre registrava le parti acustiche, e che la reazione di quest'ultimo sia rimasta immortalata a beneficio dei posteri. After Forever è la canzone scelta per rappresentare il nuovo album, il primo singolo tratto da "Master Of Reality". I Black Sabbath erano stati spesso additati come satanisti, occultisti, degenerati di varia natura, ma la verità è che Geezer, autore dei testi, era e sarebbe rimasto convinto cattolico. Dopotutto, per un irlandese la Chiesa romana non è solamente un fatto di fede, ma d'identità nazionale, specialmente in quegli anni. Il testo del brano parla dunque di spiritualità, del confronto con Dio, con la morte, con le proprie azioni, perfino della parola di Cristo, il tutto su note più ritmate del solito, meno pesanti e ostili, certamente molto dure ma in una chiave classica, tipicamente rock 'n' roll... tipicamente americana. Un pezzo del genere è infatti perfetto per il mercato statunitense, in cui da sempre la musica si confronta con la spiritualità, e in cui certi "vezzi europei" non hanno mai avuto più di tanta presa. Ad "After Forever" segue un pezzo strumentale di neanche trenta secondi chiamato Embryo, esecuzione acustica e orientaleggiante come molte, ai tempi, ma distorta a una maniera da sembrare suonata da dentro una tomba. Ad essa segue il vero pezzo forte e perno centrale dell'intero album: Children of the Grave, un pezzo che farà la storia del metal e influenzerà centinaia d'artisti, purissimo, nelle sue sonorità prive di mezze misure e nella sua poetica mortuaria, pessimista, rabbiosa. I "bambini del cimitero" sono i figli d'una generazione mandata al macello, tradita, tenuta sotto scacco dai burattinai di tutto il mondo (i "maestri della realtà"?), e che tuttavia ancora combatte per far trionfare la pace e l'amore. I Black Sabbath non erano "figli dei fiori" alla maniera in cui lo erano i figli di papà in giro per la West Coast, ma di certo erano figli d'una generazioni di sognatori e rivoluzionari. Il riffing è roccioso e memorabile, tenuto costantemente in tiro dai fills di Ward, dalla voce di Ozzy, dalle intuizioni di Iommi e Butler. Preceduta da "Embryo", "Children of the Grave" è seguita da un'altra strumentale di chitarra acustica, poco più lunga e decisamente classica, squisitamente europea: Orchid. Pare quasi che la band abbia voluto "incorniciare" il suo capolavoro, prima di proseguire con Lord of This World, per certi versi la "title track" dell'album. Pezzo parecchio lento e duro, sostenuto da un riffing particolarmente basso e roccioso, "Lord of This World" è la sintesi delle tematiche più care ai Black Sabbath: la critica a un sistema corrotto, nato e sviluppato per distorcere e controllare la realtà stessa, e la droga, la scelta più facile e la più vigliacca. La connivenza col male ci rende fautori del male stesso, il "signore di questo mondo". Alla band non servono molte parole e molte strofe, per delineare tale sintesi, a parlare è un muro di suono fitto e pesantissimo come una parata di carri armati. La band nel frattempo pare avere imparato a gestire le luci e le ombre della propria opera, e non è un caso che a un pezzo come "Lord of This World" segua un brano dalla morbidezza inusitata, astratto e senza tempo: Solitude. L'abilità di Tony Iommi è qui messa in risalto non solo dalla chitarra, ma anche dal piano e dal flauto, mentre Ozzy e Bill Ward offrono l'ennesima dimostrazione di versatilità. Il testo di Butler mette in risalto la malinconia intrinseca nella musica e nel titolo, descrivendo una persona abbandonata dalla propria metà, un'anima fragile ormai soggiogata da una solitudine esistenziale. Chiude il cerchio Into the Void, un heavy blues la cui registrazione è stata particolarmente ostica, soprattutto per il cantante e il batterista. Il tema del brano riporta l'ascoltatore all'antimilitarismo di "War Pigs", alle apocalittiche visioni di "Iron Man" ed "Electric Funeral", fino a quel richiamo ad un mondo migliore del finale di "Children of the Grave". Insomma, nonostante l'aura di oscuro misticismo che avvolgeva la band, i Black Sabbath si dimostrano una band assai concreta, attenta alla contemporaneità della sua epoca. Il risultato finale è un album eccellente ma dal minutaggio assai ridotto (anche per i canoni del '71), quasi una "espansione" del secondo album - per rubare un termine video-ludico. La critica è ancora ostile alle ragioni del gruppo, ma già si avverte un certo ammorbidimento; dopotutto, "Master Of Reality" raggiunge la top ten americana, primo e unico album dei Black Sabbath a ottenere un risultato del genere, proiettando Ozzy, Tony, Bill e Geezer verso l'apice della loro carriera e della loro gioventù.
Vol. 4 (1972)
Forse per inseguire la tendenza creata dai Led Zeppelin con il loro album senza titolo, uscito pochi mesi prima, l'etichetta dei Black Sabbath decide che il quarto album di Ozzy e compagnia s'intitolerà Vol. 4. A Tony Iommi l'idea pare piuttosto stupida, visto che gli altri tre album non si chiamano Vol. 1, 2 e 3, ma la band ha ancora dei vincoli e dei limiti cui deve sottostare, e il 25 settembre del 1972, "Vol. 4" fa il suo ingesso ufficiale sulla scena discografica. È il primo album senza il produttore Rodger Bain, sostituito dallo stesso Iommi che adesso, raggiunta una certa sicurezza, punta a rendere la sua band il più possibile padrona del proprio destino. A supportarlo in questo lavoro, lo storico manager Patrick Meehan. Registrato in California entro la patinata cornice dei Record Plant di Los Angeles, il quarto album dei Black Sabbath nasce in un contesto di totale eccesso, in particolare, di grande abuso di droga; non più la semplice erba cantata in "Sweet Leaf", ma cocaina purissima, a sacchi, e come affermerà Butler, anche un po' di eroina. Tutto questo incide a una maniera alquanto peculiare sull'intera opera, e tuttavia, gli eccessi e la confusione non sembrano pesare più di tanto sulla qualità compositiva e poetica della band. "Vol. 4" si dimostra infatti un ottimo album. Stavolta anche la copertina non è per niente male, con quell'uso minimale dei colori e la sagoma di Ozzy con le braccia aperte, a fare il segno della pace. Apre il disco Wheels Of Confusion, canzone che nei suoi oltre otto minuti contiene quella che, nella versione americana dell'album, è una traccia a parte: "The Straightener". Con questo pezzo, i Black Sabbath dimostrano una ancora più netta "contaminazione" americana, eppure, il loro stile rimane unico e particolare, ovviamente ancora pesante e durissimo, ora pure volutamente grezzo e stradaiolo. Il testo parla di alienazione, di "confusione" intesa come il circolo vizioso d'una società non più a misura d'uomo, e riconferma Geezer come un autore capace tanto d'intimismo quanto di critica sociale; non per nulla, lo storico critico Lester Bangs paragona la sua poetica a quelle di Bob Dylan e William S. Burroughs. Tomorrow's Dream è il primo e unico singolo estratto da questo Quarto Volume, non a caso una canzone dai ritmi un po' più sostenuti del solito e dalle aperture ariose, sebbene dotata d'intuizioni pesantissime e particolari. Il tema è di quelli rari, per Geezer: l'amore mal riposto e la volontà d'andare avanti, il tutto condito di pessimismo cosmico e alienazione (queste sì, decisamente "sabbatiane"). Purtroppo, il singolo non riuscirà ad aggiudicarsi la classifica. Changes è come l'avesse scritta, suonata e pubblicata un'altra band. Un conto era "Planet Carava", un conto era "Solitude", ma qui pare essere arrivato John Lennon e aver detto "ragazzi, bello tutto, ma ora facciamo qualcosa di più popolare, un pezzo malinconico ma ottimista come piace a me". E la cosa bella è che funziona. "Changes" emoziona più d'una volta, col suo piano e i suoi crescendo d'archi, e ad oggi è l'ennesima e forse più profonda dimostrazione di quanto i Black Sabbath potessero essere poliedrici, di certo meno legati ai rigidi schemi entro cui oggi tendono a barricarsi le metal band. Il testo l'ha scritto, come quasi sempre, Geezer, ma parla di Bill Ward e della sua rottura con la moglie, e lo fa a una maniera dolce e totalmente priva di risentimento, definita unicamente dalla melanconia d'un cambiamento inevitabile. A seguire un pezzo così, diciamo, "normale", è un brano totalmente assurdo, una piccola strumentale neanche definibile come tale, più un insieme di suoni vagamente inquietanti: FX. Si dice che questa breve follia sia stata ispirata dal consumo di hashish - cosa di cui non si fa fatica a credere - nonché dal suono fortuito del crocefisso al collo di Iommi con le corde della chitarra. Segue Supernaut, una delle canzoni preferite di Frank Zappa, di Beck Hansen e di... John Bonham; sarà per l'enorme spessore che ricopre la batteria, o per l'amicizia e la stima che esisteva (ed esiste) tra i Led Zeppelin e i Black Sabbath, o chissà, magari un po' entrambe la cose. Ad ogni modo, tenuta del tempo e fills di batteria sono determinanti, soprattutto in sinergia col groove di Geezer e il riffing di Iommi, mentre Ozzy finisce un pelo in secondo piano, a cantare solo poche strofe dal sapore evocativo e irreale. Protagonista del brano è infatti un viaggiatore dello spazio e del tempo senza età né scopo alcuno, un'entità super-naturale che tutto ha fatto e tutto ha visto. La sesta traccia, Snowblind, palesa già dal titolo il tema spinoso della cocaina, ed è la vera title track dell'album. A tal proposito sarà Ozzy, in seguito, a raccontare i fatti: "Snowblind è stato uno dei migliori album dei Black Sabbath - anche se l'etichetta discografica non ci ha permesso di mantenere il titolo, poiché all'epoca quello della cocaina era un grosso problema e non volevano il disagio d'una controversia. Non abbiamo discusso". Insomma, i musicisti e gli appassionati più preparati, "Vol. 4" lo chiamano col suo vero nome, ovvero "Snowblind". La canzone, fatta di piccole raffinatezze e moltissima roccia dura, anticipa la crescita di Ozzy negli anni a venire; il testo ha infatti un peso notevole, e così ce l'ha pure il cantante e la sua performance. In realtà, quel peso, il testo non ce l'ha a livello concettuale, ma nella misura in cui le parole diventano puro suono. Ozzy canta solo un'ambigua ode alla cocaina, un'elegia a suo modo ironica e sprezzante, quasi a criticare la sua stessa indole arrendevole. Sulle note dell'album, con un sarcasmo piuttosto britannico, la band scrive il suo personale ringraziamento alla grande "COKE-cola". Cornucopia è un'altra mazzata sui denti, una traccia piuttosto particolare che pare avere messo in difficoltà uno stressatissimo Bill Ward, così insofferente e sotto l'effetto della droga (e dell'alcol) da temere d'essere cacciato dal gruppo. Alla fine tutto regge sull'ennesimo, geniale riff di Tony Iommi, mentre a crescere parecchio è Osbourne: il cantante imbastisce una performance che già dice qualcosa sul futuro Ozzy solista, e attraverso le parole di Butler, parla del sistema e dei suoi inganni, di meccanismi tipici di certo capitalismo, di gente mandata ad ammazzare altra gente. Una bella strizzata d'occhio a un pubblico d'oltreoceano in continua crescita. Laguna Sunrise accompagna l'album verso la fase finale, e coi suoi quasi tre minuti di durata, è la strumentale in studio più lunga del Sabba Nero fino a questo momento. È un brano acustico innalzato oltre le nuvole da pochi archi leggeri e soavi, con un'anima di fondo assolutamente anglosassone, grande prova di sensibilità e di bravura da parte del solito Tony Iommi. La penultima traccia è la breve St. Vitus Dance, "il ballo di San Vito" - sì, a quanto pare si usa quest'espressione pure all'estero. L'intro di chitarra, fanno notare in molti, è parecchio "zeppeliniana"; tutto il resto invece è "sabbatiano" come al solito, compresa la registrazione volutamente imperfetta e stradaiola, ché certi blackster non si sono inventati nulla. Il testo, corto quanto la canzone, parla di un ragazzo che fa il ballo di San Vito, sì, ma in senso puramente allegorico, sballottato com'è tra i suoi stessi sentimenti, tra l'amore per una donna e il risentimento che nutre nei confronti di lei, tra i consigli di certi amici e quelli di Ozzy, amico e voce narrante. Una storiella assai adatta a un pubblico ormai pieno di adolescenti, ma che in fondo non guasta. Chiude il sipario Under the Sun, traccia che nella versione originale include "Every Day Comes and Goes". Qui si fa la storia dell'heavy metal, e pure un po' del punk per certi versi. Non che sia un pezzo così straordinario, preso da solo, ma il modo in cui si fondono velocità e pesantezza, ruvidezza e neoclassicismo, antiche radici blues e nuove tendenze anglosassoni, è veramente un anticipo di futuro bello grosso, il minimo che t'aspetti da dei pionieri come i Black Sabbath. Il finale è perfino epicheggiante, ché non ci facciamo mancare proprio nulla. "Under the Sun" è anche il manifesto individualista di Geezer Butler, la narrazione d'un uomo disilluso e indipendente, fisso sulle sue idee e sul suo destino, impermeabile alle opinioni e ai giudizi degli altri, siano quelli di sedicenti santoni o di frustrate figure politiche. Una chiusura degna, insomma, per un album come Vol. 4, o "Snowblind" se preferite. Il quarto album segna il nuovo, meritato successo commerciale dei Black Sabbath, e seppure non sembri così distante dai due dischi che lo precedono, i piccoli dettagli e le numerose intuizioni fanno la differenza: Vol. 4 traccia davvero la rotta per il futuro della band.
"Quel disco segnò una totale svolta - avemmo la sensazione d'aver saltato un album, davvero... avevamo provato ad andare troppo oltre".
(Tony Iommi)
Sabbath Bloody Sabbath (1973)
Tornati dall'esaltante esperienza di un tour mondiale, ed elettrizzati dagli ottimi risultati del loro quarto album, nell'estate del '73 i Black Sabbath tornato a Los Angeles per mettere su disco un po' di nuovi brani, molti dei quali elaborati in viaggio. Sono tutti spunti incompleti cui la band, all'inizio, non riesce a dare un seguito. I musicisti sono letteralmente esausti: un tour mondiale ti priva dei giorni e delle notti, della vita sociale e famigliare, per mesi. A questo si aggiunge la droga, che come sempre, è causa e soluzione di tutti i mali, in un circolo vizioso che i Black Sabbath conoscono molto bene. Il più in difficoltà è Tony Iommi, di cui rimane esemplificativo l'episodio all'Hollywood Bowl, e di cui Ozzy, nella sua biografia, dirà: "Tony era fatto di coca letteralmente da giorni... lo eravamo tutti, ma Tony aveva superato il limite. Voglio dire, quella roba incasina completamente il tuo senso della realtà. Inizi a vedere cose che non ci sono. E Tony era andato. Verso la fine del concerto è uscito dal palco ed è collassato". Ciliegina sulla torta, la band trova i Record Plant Studios occupati da Stevie Wonder. I Black Sabbath, che speravano di ritrovare in California l'ispirazione che diede vita a "Vol. 4", fanno armi e bagagli e tornano in Inghilterra. La confusa combriccola trova rifugio nel cuore della Foresta di Dean, negli oscuri meandri del Castello di Clearwell, e in quell'ambiente all'apparenza ostile, in un mese tira fuori abbastanza canzoni per un album nuovo di zecca. Sabbath Bloody Sabbath esce il primo dicembre del 1973 con una copertina memorabile (finalmente), opera di Drew Struzan ed Ernie Cefaiu. Una vera opera d'arte che mette in scena tutto ciò che i Sabbath rappresentano per i loro appassionati: sogno e incubo, paradiso e inferno, un teschio dall'aria malvagia e un bel 666, ad anticipare un mucchio di elementi caratteristici del metal anni '80 e '90. L'album è un ulteriore passo avanti sotto molti aspetti: è più duro, è più tecnico, è più vario - sebbene difficilmente vedremo ripetersi miracoli come "Solitude" o "Changes". Apre l'opera la title track, Sabbath Bloody Sabbath, un pezzo ormai storico sul quale si sono formati numerosi musicisti della futura scena metal. Il testo è un vero colpo di genio, forse inconsapevole, da parte di Geezer, e funziona su tre livelli distinti: da una parte è metafora del mondo dei musicisti - dei suoi alti e dei suoi bassi, dei tanti avvoltoi e iene che bazzicano l'industria discografica; dall'altra, è una perfetta rappresentazione del modo in cui chiunque, soprattutto da adolescente, si è sentito nella vita. E infine, visto il titolo stesso e la strofa finale, è un'ottima autocelebrazione degli stessi Black Sabbath. La ruvida melodia del brano è cucita su di una serie di riff tra i migliori di Butler e di Iommi, evidentemente del tutto rinsavito, ed è incredibile l'equilibrio tra momenti d'intrigante apertura ariosa e melodica, e quelli più pesanti, ormai assolutamente heavy metal. Dei tanti che hanno tessuto le lodi del brano, prendiamo le dichiarazioni di Slash: "il finale di 'Sabbath Bloody Sabbath' è la roba più pesante che abbia mai sentito in vita mia. Ad oggi, non ho ancora sentito qualcosa di così pensate e che abbia così tanta anima". Nonostante tutto, però, il meglio deve ancora arrivare. A National Acrobat alza l'asticella dell'hard rock ancora una volta, e di parecchio. Acida e pesantissima, lenta e cattiva, questa canzone di oltre sei minuti (la più lunga dell'album) mette in scena un pezzo di futuro su colonne di solido passato. A parlare attraverso le parole di Ozzy è un bambino mai nato, mai concepito, e proprio per questo vivo in mille vite, cosciente dell'umanità tutta e dei suoi destini. È un testo decisamente criptico, fra i più astratti di Geezer, in parte influenzato dalla sua fede e in parte dalla sua visione del mondo, dalla sua percezione dell'odio e dell'amore. Quanto al titolo, be', solo il bassista ne conosce il senso. Coi suoi circa quattro minuti di durata, Fluff non è esattamente la solita strumentale riempitiva, ma il suo scopo nell'economia della scaletta rimane quello di spezzare la tensione, e in ogni caso, di regalare all'ascoltatore una parentesi acustica che spezzi l'acciaio che pervade l'album. Segue Sabbra Cadabra, uno di quei rock 'n' roll in stile Sabbath, meno pesante e incombente rispetto al solito repertorio, ma non meno duro e perfino più aggressivo, merito soprattutto dell'interpretazione tesa e disperata di un Ozzy in stato di grazia. Si dice che un bel giorno i Led Zeppelin entrarono nella sala dove stavano registrando i Black Sabbath; le due band avevano un solido rapporto d'amicizia, in particolare, Robert Plant e John Bonham erano una vecchia conoscenza fin dai tempi di Birmingham. Si dice allora che Bonham non vedesse l'ora d'improvvisare "Sabbra Cadabra" col resto dei Black Sabbath, ma che Ward glielo avesse impedito: in passato, a Birmingham, quando capitava che i due condividessero lo stesso palco, sembra che Bonham fosse solito chiedere in prestito la batteria di Bill per poi devastargliela, letteralmente. Il batterista dei Black Sabbath, da allora, avrebbe coscienziosamente evitato di far mettere le mani a The Beast sui suoi preziosi tamburi. Alla fine, le due storiche band si limitarono a una jam session la cui registrazione perduta è tutt'oggi leggendaria. E il testo? Classicissimo come un buon rock 'n' roll, maliziosamente pieno d'amore come si addice all'hard rock. Viene il sospetto che il titolo sia solo una frase che suona bene, o forse chissà, magari "Sabbra Cadabra" è la formula magica d'una donna per tenere avvinghiato a sé il suo uomo, come quello, innamoratissimo, protagonista del brano. Da segnalare le tastiere di Rick Wakeman, special guest noto per la sua militanza negli Yes; la sua presenza su"Sabbath Bloody Sabbath", è la testimonianza vivente dei sempre più marcati influssi progressive sul sound del Sabba Nero. Di maggiore spessore Killing Yourself to Live, che musicalmente rimane su binari molto simili a quelli del brano precedente, ma più distorti, la voce di Ozzy che suona volutamente distante. Sonorità del genere sarebbero ciclicamente tornate di moda negli anni a venire: nei primi anni '90, finita l'epoca dell'heavy e del glam dai suoni puliti e dall'immancabile protagonismo della chitarra solista, il grunge avrebbe riscoperto molto del proto-metal riff oriented dei Black Sabbath. Il testo, scritto da Butler in clinica di riabilitazione, sottolinea la follia "dell'uccidersi per vivere", ossia l'attitudine degli alcolisti a sopportare le miserie della vita autodistruggendosi. "Killing Yourself to Live" è la canzone dei Sabbath preferita da Kirk Hammett, dei Metallica, che dirà: "Un sacco di gente pensa solo alla title track, "Sabbath Bloody Sabbath", ma per me questo è il pezzo distintivo dell'album". Quanto a Who Are You, è stato Ozzy a comporne la struttura. Aveva comprato un sintetizzato Moog anche se non sapeva usarlo, e tuttavia, con poche note geniali mise su uno dei pezzi più strani dei Black Sabbath. "Who Are You" ha il tipico sound pensante, perfido e incombente della band di Birmingham, ma ottenuto con soluzioni elettroniche ed effetti sintetici. Un giorno, vien da pensare, John Carpenter avrebbe ringraziato in ginocchio a oscure divinità, per tutto questo. Il testo è misterioso quanto l'identità di colui cui si rivolge il ritornello, quando Ozzy chiede: "chi sei?", ma possiamo immaginare una metafora del potere, tanto per restare in linea con le tematiche care alla band... o chissà che altro. Sebbene ci piaccia pensare che Ozzy abbia fatto tutto di testa sua, dobbiamo quantomeno supporre il coinvolgimento di Wakeman al Moog, sebbene non accreditato. Alcuni pensano a "Who Are You" come al brano più debole dell'album, altri, forse più lungimiranti, come a un esperimento post-modernista d'inconsapevole preveggenza. L'opera si avvia verso il finale con Looking For Today, pezzo d'una certa tradizione rock, del genere che va dai Cream ai Grand Funk Railroad, ma con un piglio e una sintesi che stupisce, nella sua notevolissima modernità. Bravi tutti, soprattutto un Ozzy in evidente maturazione artistica. Fra le righe, il cantante imbastisce una critica tanto aspra quanto realistica del mercato discografico, indicando con ironia sprezzante l'illusione del successo, la natura effimera delle opere e d'intere carriere, in un contrasto decisamente dolce-amaro col dinamismo della musica. Scrive la parola "fine" di quest'album Spiral Architect, un brano che sembra diviso a metà fra parti ariose e melodiche, definite da un'orchestra classica, e altre più ruvide e prepotenti, il tutto mescolato con una sapienza affatto scontata. Pare che Geezer Butler avesse fatto uno strano sogno e che il testo gli fosse stato dettato lì, nel bel mezzo della fase REM. Il risultato è una poetica esistenziale criptica e affascinante, forse uno dei testi più interessanti dei Black Sabbath. Infine, l'applauso di una folla invisibile sul finale è perfetto, a chiudere il sipario di "Sabbath Bloody Sabbath. L'album è l'ennesimo successo immediato, disco di platino negli Stati Uniti e quarto posto nella classifica britannica. Perfino la critica si ammorbidisce: se col terzo e col quarto album, le riviste specializzate avevano dovuto conservare una certa dignità e continuare ad attaccare, anche se più tiepidamente, una band di cui all'esordio avevano detto peste e corna, ora il momento è maturo per un ripensamento totale e definitivo, seppure alquanto ruffiano. "Sabbath Bloody Sabbath" è salutato come un capolavoro, un'opera immancabile per qualsiasi appassionato di puro hard rock. Tony Iommi ricorderà quell'opera e l'intera cornice storica come "il pinnacolo" dei Black Sabbath - e della sua vita. Ozzy dirà invece qualcosa di più agrodolce: "Sabbath Bloody Sabbath" è stato il nostro ultimo album veramente grandioso, penso... e con la musica siamo riusciti a raggiungere il perfetto equilibrio tra la nostra vecchia pesantezza e il nostro nuovo, sperimentale lato". L'ultimo, vero grande album dei Black Sabbath, dunque. Sarà così? Dopotutto una volta raggiunto il "pinnacolo", come dice il chitarrista, si può solo scendere.
Sabotage (1975)
Il sesto album dei Black Sabbath arriva quasi due anni dopo "Sabbath Bloody Sabbath", il 28 luglio del 1975. Oltre a un'agenda fitta di concerti in giro per il mondo - la norma per una band oramai così famosa - a rendere lunga la gestazione sono i problemi legali col manager, Patrick Meehan, al tempo assurto anche a coproduttore. Sembra che i Sabbath abbiano letteralmente registrato i nuovi brani con gli avvocati in sala di registrazione, e il rancore e la tensione, racconteranno, avrebbe influenzato il nuovo disco a una maniera piuttosto particolare. Questa sensazione di essere perseguitati, sabotati dall'interno proprio da coloro che avrebbero dovuto garantire la qualità del loro lavoro, porta i Black Sabbath a scegliere il nome del nuovo album: Sabotage, edito da Vertigo e coprodotto da Mike Butcher, l'ingegnere del suono di "Sabbath Bloody Sabbath". Alcuni ritengono che la cover art del disco, opera di Graham Wright, sia tra le peggiori nella storia del rock. Un giudizio forse un pelo lapidario, ma, di certo, quella di "Sabotage" non è una copertina felice, con la band agghindata alla bell'e meglio e quel tocco di kitsch che, certamente, poco appartiene a tizi che si fanno chiamare "Sabba Nero". Anche in questo caso, più che del povero Wright, la colpa è di una produzione in piena fase confusionale, con gli addetti ai lavori sballottati da ogni parte e i musicisti presi da ogni genere di problema. Ciò che conta alla fine è tuttavia la musica, e quella, nonostante tutto, non fa rimpiangere i Sabbath migliori. Qui si sperimenta e si sperimenta duro, senza tanti vezzi o carinerie. Hole in the Sky sarebbe quasi power metal, se non fosse per la tempistica lenta e pesante e l'incombenza di un elefante che carica. Iniziare con un brano del genere è una dichiarazione d'intenti evidente, come a dire: "sentirete tuoni e fulmini trafiggervi le orecchie". Il testo è di quelli astratti e un po' "codificati", ché evidentemente Geezer ci ha preso gusto, e può essere letto sia in chiave esistenziale, per esempio nel rapporto con la morte, sia in chiave sociale, nel rapporto col potere e i suoi mezzi di diffusione. Segue una strumentale di quarantanove secondi, Don't Start (Too Late), la solita (e apprezzatissima, sia chiaro) esecuzione acustica di un Tony Iommi curiosamente latineggiante, fondamentalmente un prologo di lusso al pezzo simbolo dell'album: Symptom of the Universe. Questo brano c'è chi l'ha definito proto-thrash, ma la verità è che per certi versi è anche più duro e più cattivo di un mucchio di thrash metal DOC. Parliamo di un capolavoro che nel '75 non è facile da assimilare, e che spianerà la strada a un indurimento della musica senza precedenti. Poi è chiaro: sono solo assaggi di futuro, mentre il resto sono elementi di purissimo heavy metal su di una base tradizionalmente hard rock, a sconfinare in un finale "acusticheggiante" e fuori dagli schemi, e si dice, improvvisato direttamente in studio. Per il testo, Geezer si affida ancora una volta ai consigli del sonno, lasciando che i suoi sogni lavorino per lui (chissà che razza di "tisane" si faceva prima di andare a letto). Il risultato è una poetica dall'astrazione assoluta, il concetto di automatismo di pensiero portato al suo culmine. C'è il rapporto con Dio e con l'universo tutto, c'è un intricato sottobosco di citazioni mitiche e cosmologiche, e infine, proprio nel momento in cui il brano abbandona la sua durezza in favore di tutt'altro suono, c'è un finale che è pura manifestazione d'amore e di speranza. "Symptom of the Universe" è un gioiello che s'aggiungerà ai grandi classici dei Black Sabbath e della musica dura in generale, e a buonissima ragione. Segue una brano d'inaudita lunghezza, per gli standard di Ozzy e soci: Megalomania... un titolo piuttosto adatto, in tutti i sensi. Lungi dall'ostinata ripetitività dei primi capolavori Sabbath, troppo spesso allungati oltre il necessario, questo brano fa saggio uso di tutti i suoi (quasi) dieci minuti di durata: l'inizio lento e misterioso, carico d'effetti sulla musica e sulla voce, è indistinguibile da tanto alternative rock - o post-rock che dir si voglia - arrivato tra la fine degli anni '80 e la metà dei '90; il seguito sconfina su anticipi di power metal, mentre il centro della canzone è puro rock 'n' roll in salsa europea; il finale torna abilmente su sonorità proto-power, poi su quelle effettate e sperimentali e infine di nuovo al rock 'n' roll, chiudendo senza tante smancerie. Praticamente, un riassunto della crescita artistica della band e il manifesto di quanto sia stata capace di anticipare sonorità a venire. Ozzy è onnipresente e canta la megalomania del mondo che lo circonda, quel mondo fatto di produttori e avvocati e dirigenti vari che, nel periodo di registrazione di "Sabotage", danno il tormento a lui e alla sua band. Geezer, come sempre autore del testo, dipinge in questo modo un uomo lacerato tra i suoi estremi, insieme interiori ed esteriori, spirituali e materialistici, e lo fa con grande equilibrio linguistico e una consapevolezza ormai del tutto matura. The Thrill of It All ci riporta ad un robusto e sano hard rock, in parte tipicamente "sabbatiano", in parte influenzate da certe derive di metà anni '70 (le stesse che animavano i Budgie, per dire, o alcune canzoni dei Deep Purple), molto ruvide ma in fondo decisamente orecchiabili. Ascoltando una canzone così centrata sul riff, e così equilibrata nelle soluzioni strumentali, è più semplice intuire come mai a Chris Cornell e altri misicisti anni '90 piacessero tanto i Black Sabbath. Ozzy, in una strofa tanto semplice quanto memorabile, si chiede se Cristo creda nell'uomo, creatura fatta di contraddizioni e di problemi... e i problemi li hanno tutti, "problemi che neanche esistono", canta Osbourne, come a dire: lascia scorrere e goditi la vita. Supertzar, una semi-strumentale figlia del puro genio, fa da contrappeso all'altra strumentale sul lato A del vinile, "Don't Start (Too Late)". Si dice che quando Ozzy arrivò in studio e ci trovò l'English Chamber Choir, pensò di avere sbagliato posto e andò via. Invece era nel posto giusto, giacché il coro era lì proprio per lui. A metà fra metal e lirica, "Supertzar" sembra il sottofondo di un'opera epica e fantastica, la colonna sonora d'un fantasy guerresco e vagamente vittoriano; una piccola e irripetibile meraviglia d'audacia e creatività. Differentemente, Am I Going Insane mette in luce i Sabbath più "commerciali", ovviamente ponendo le opportune virgolette. Parliamo sostanzialmente di un pop metal orecchiabile e dai ritmi sostenuti, in cui quel "radio", messo lì tra parentesi, è sinonimo gergale di "stato della mente", e non del fatto o meno che il brano fosse destinato ad uso radiofonico, come tanti ritenevano. Il punto, pare, è che i musicisti erano preda d'un umore ai limiti della depressione, cui faceva da pessimo contrappeso l'esaltazione indotta da droghe e stile di vita. Sostanzialmente, lo stesso tema del testo del brano. Nonostante ad Ozzy la canzone non piacesse, e nonostante qualche critica negativa, "Am I Going Insane" farà la sua parte nel definire certe caratteristiche dell'hard rock, soprattutto quello più popolare. La risata sgangherata che chiude il penultimo brano, è la stessa che apre The Writ, degna chiusura di "Sabotage". Quasi nove minuti di durissimo riffing, inaspettati arpeggi melodici ai limiti del lirismo e piccole, geniali intuizioni, a fare una corte forse non troppo convinta ma evidente al mondo del progressive - dopotutto, anche la durata di alcuni brani è indicativa dell'intenzione di prendere le distanze dal rock popolare, e di avvicinarsi a quello "impegnato". Il testo è opera di Ozzy, quindi una piccola rarità, ed è ispirato alla situazione legale della band in quel momento, all'odio per Meehan e all'ostilità per il mercato discografico in generale. Il tutto, ovviamente, espresso a una maniera oscura e metafisica, sebbene più diretta rispetto ai voli mentali di Geezer.
Alla fine, "Sabotage" è l'ennesimo successo commerciale e di critica, avendo quest'ultima cambiato totalmente la sua opinione sulla band. Certo, è anche il primo disco dei Black Sabbath a non raggiungere il disco di platino negli Stati Uniti. D'altra parte il 1975 è un periodo di cambiamento, per il mercato discografico americano, divenuto improvvisamente ostico, o disincantato, nei confronti delle grandi rock band inglesi. La qualità rimane inoltre elevatissima, nonostante le difficoltà legali ed organizzative: non solo i Sabbath eguagliano i livelli raggiunti col precedente full length, ma continuano a sperimentare e alzare l'asticella del loro suono, sia in termini di pesantezza che d'innesti stilistici. Non sempre la band è soddisfatta: Ozzy non gradisce né "Am I Going Insane", né "Supertzar", che pure è una piccola genialata (ma che senz'altro "spezza" una certa dialettica di fondo dell'opera), e tuttavia, i Black Sabbath non scendono dal loro personale "Pinnacolo", ma vi rimangono in equilibrio, su un solo piede, dondolando pericolosamente sulla vastità d'un mercato discografico in continuo mutamento.
Technical Ecstasy (1976)
Il settimo album dei Black Sabbath arriva un 25 di settembre del 1976, alla fine di un tour complicato e discontinuo a causa di un incidente di Ozzy. I problemi legali con l'ex manager, nonché ex co-produttore Patrick Meehan, non sono del tutto finiti, ma quantomeno, si sono assestati su livelli accettabili. La band rimane negli Stati Uniti ma cambia costa, trasferendosi ai Criteria Studios di Miami, in Florida. I problemi sono evidenti. La band è stressata e con poco tempo per dar voce a nuove idee, i musicisti non si fidano di nessuno e si sentono assediati. Tony Iommi racconta che "abbiamo registrato l'album a Miami, e nessuno voleva prendersi la responsabilità di produrlo. Nessuno voleva l'aiuto di un estraneo, e nessuno voleva che se ne occupasse l'intera band. Quindi hanno lasciato tutto a me!". I Black Sabbath sono una band in crisi d'identità: si sentono superati sul piano della controcultura, della rivoluzione musicale, surclassati da una nuova generazione di artisti e di sonorità, soprattutto quelle punk. L'Inghilterra è fuoco e fiamme e loro non ne sono parte... Such a Shame!, direbbero i Talk Talk. In America, nel frattempo, il rock s'ammorbidisce, si trasforma, diviene innocuo enstablishment e si prepara a macinare grossi numeri. Dopotutto, "Hotel California" è alle porte. Temendo di perdere anche quel treno, i Black Sabbath decidono di trasformarsi a loro volta: basta atmosfere cupe ed opprimenti, benvenute sonorità orecchiabili e melodie pop-oriented. Il nuovo album si chiama Technical Ecstasy, ad evidenziare l'onesto tentativo di crescere come musicisti, di aggiungere armonie complesse ai soliti riffoni heavy blues, così rozzi, ruvidi e fuori moda. Come farà notare qualcuno, purtroppo, è come cercare di coprire un'armatura con lana d'agnello: non funziona. I Queen, o perfino i Kiss e gli AC/DC, che fanno da spalla proprio ad Ozzy e compagni: i Black Sabbath si trovano a rincorrere e farsi influenzare dalle stesse band che, pochi anni prima, avevano loro stessi profondamente influenzato. I ragazzi tentano un imborghesimento un po' subdolo, o magari inconscio, continuando a fare la corte all'universo progressive, sperando forse che il rock "impegnato" li tenga sul lato della controcultura. È per questo motivo che la copertina dell'album non è del solito disgraziato raccattato (scherzo, ragazzi), ma del leggendario Storm Thorgerson dello Studio Hipgnosis. Visto che il titolo parla di "estasi", e visto che quell'estasi l'associa alla "tecnica", l'artista imbastisce un artwork un po' futurista e un po' cubista, i cui soggetti sono due robot intenti a copulare: uno maschile, squadrato e spigoloso, l'altro femminile, bello tondeggiante, a spruzzare strani fluidi meccanici sul partner. Interessante. Forse non ispiratissimo, ma interessante. Da segnalare infine le tastiere di Gerald "Jezz" Woodroffe (accreditato "Woodruffe"), ché se fai il filo a un certo tipo di rock, le tastiere non possono mica mancare.
Il brano d'apertura è alquanto anonimo; Back Street Kids è un rock 'n' roll bello pesante e un po' scapigliato... forse un po' troppo, quasi confuso, forse per inseguire i ritmi forsennati del punk, forse per ritrovare le radici di certo heavy metal. Ha un bel riff, pure se ricorda un po' quello di "Immigrant Song". Il testo è una dichiarazione chiara e molto semplice, così riassumibile: "siamo i ragazzi della porta accanto, i figli del proletariato, quelli che avevano il sogno del rock 'n' roll. Oggi con quel sogno ci paghiamo le tasse, conosciamo il successo, ma siamo ancora gli stessi ragazzi semplici di prima". Retorico, vagamente furbetto e, cosa peggiore, poco nello stile della band. You Won't Change Me, comunque, è già parecchio più interessante. È pesante e opprimente come le canzoni d'un tempo, e le tastiere non solo non stonano, ma l'arricchiscono di una inedita sfumatura funebre. È una ballatona metal come se ne scriveranno a frotte, in futuro, ma nel '76 "You Won't Change Me" è ancora un brano parecchio interessante, oltre che solenne ed evocativo. Geezer mette Ozzy nei panni d'un uomo depresso che si rivolge alla sua donna, che le dice che non può cambiarlo e che lui non cambierà. Chiede tempo e amore ma non promette nulla in cambio, poiché solo Dio, semmai esiste, potrà aiutarlo. La terza traccia l'ha scritta Bill Ward, e cosa più interessante, l'ha pure cantata - facendo peraltro un'ottima figura. Certo, qualcuno fa notare che It's Alright è tipo il Paul McCartney dei poveri, ma la verità è che le critiche del tempo sono davvero troppo lapidarie. I Black Sabbath hanno sempre avuto exploit del genere, di solito con ottimi risultati (per esempio con "Changes"), e questo brano così dolce, così tradizionalmente composto, è una piccola ventata d'aria fresca. A inspessirlo e a renderlo più interessante, comunque, è proprio la batteria dello stesso Ward. Nonostante sia inequivocabilmente una canzone d'amore, il testo si presenta del tutto intraducibile, prestandosi a interpretazioni addirittura opposte tra loro, adattandosi in tal modo al vissuto di ogni ascoltatore. L'album torna su sonorità più concitate con Gipsy, un pezzo davvero sopra le righe. Non è pesante né oscuro, ma è movimentato e luminoso al tempo stesso, ruvido quando serve, piuttosto calzante all'idea di nomadismo che sottintende fin dal titolo. Oltre che dalla voce di Ozzy, il brano è definito dalle tastiere ossessive e onnipresenti, dal riffing di Geezer e da un batterista veramente sovraccarico di lavoro. Sul finale, va detto, Tony Iommi è superbo. Il protagonista della canzone è un uomo preda di se stesso e delle sue visioni, e là, in fondo alla sua anima, c'è una donna infernale o divina - difficile a dirsi - che lui chiama la gitana, o zingara. La donna lo porta con sé e gli mostra la via, prendendosi anche la sua anima. E trasformandolo in un gitano. Il disco prosegue su sonorità energiche ma pulite, molto diverse da quelle che hanno fatto la fortuna dei Sabbath; All Moving Parts (Stand Still) è un ottimo esempio. Il brano, seppure potente, seppure indiscutibilmente heavy metal, manca dell'antica ruvidezza e dell'incedere pesante, cui sopperisce con indubbia maturità tecnica e momenti anche molto lanciati, ma quasi privi di catarsi. Il testo parla di un depravato che diventa presidente degli Stati Uniti d'America; davanti a tutti egli mostra i suoi rigidi schemi mentali e sociali, la sua potenza bellica ed economica, ma dietro le quinte, ipocrita e nascosto, svela le sue perversioni folli e crudeli. Il tema della liberazione sessuale è assai presente, ché dopotutto, gli anni sono quelli giusti. In un'intervista, Geezer dirà di aver sentito la necessità di esprimere tali idee "perché quella americana era una società terribilmente misogina, ai tempi". Grossomodo stesse sensazioni per Rock 'n' Roll Doctor, brano molto centrato sulla sinergia tra chitarrista e tastiere, palesemente e ricercatamente manierista. Qui Buddy Holly, Little Richard, e tutti e gli altri grandi autori classici, sono omaggiati a una maniera post-modernista che ricorda proprio quella dei Kiss o di Bon Scott, personaggi a loro volta influenzati dai Black Sabbath. Una dinamica per molti imbarazzante, soprattutto per la critica dell'epoca. Il testo è probabilmente il più elementare mai scritto da Geezer: sei stanco di sopportare i mali del mondo? Il "dottor Rock 'N' Roll è la cura. Fine. Ovviamente, sorge spontaneo il sospetto d'una metafora riguardo all'uso di droghe, che in quel periodo, neanche a dirlo, erano la vera "medicina" di una band sempre più confusa e priva di riferimenti. Il cupo pessimismo di She's Gone arriva d'improvviso come una doccia fredda, eppure rigenerativa. Qui c'è finalmente qualcosa dei vecchi Sabbath, seppure a una maniera totalmente diversa. Visti forse i buoni risultati di "You Won't Change Me", la band propone un'altra ballad intensa e malinconica, definita adesso dalla chitarra acustica di Iommi, dalla voce di un Ozzy evidentemente sul pezzo, e infine, da un sottofondo orchestrale assai classico. Gli archi leggeri e delicati di questa cupa melodia sono lo sfondo di un amore finito, d'un uomo depresso che ha atteso invano la sua donna e ora non la desidera più; anzi, non desidera più nulla. A questo punto c'è da chiedersi: dove sono finiti i Black Sabbath dell'intensa lacerazione dell'anima? Quelli del dissenso sociale, del travagliato rapporto con Dio, del turbamento morale? Quella di "She's Gone" è una tematica che andrebbe benissimo, se rappresentasse un unicum. Ma su "Technical Ecstasy", questo riciclo di tematiche ormai abusate rappresenta lo standard. Il pezzo di chiusura non tradisce la monotonia. Se non fosse per la voce di Ozzy, sarebbe pop-rock del genere più commerciale, quello che negli anni '80 sarebbe dilagato da tutte le parti e in tutte le forme. Rispetto a quello ottantiano, comunque, il Rock di Dirty Woman conserva ancora qualche elemento lasciato alla pura intuizione, momenti che escono fuori dalla gabbia che avrebbe standardizzato l'intero genere. Ma non basta. Il protagonista del brano potrebbe tranquillamente essere quello di "She's Gone"... riusciamo quasi a immaginarlo: l'uomo depresso e privato del suo grande amore, si aggira ora nella notte urbana e piovosa di qualche città americana, trovando un labirinto d'insegne al neon e prostitute a ogni angolo. La "donna sporca" è appunto una di loro, momentanea soluzione ai mali d'un uomo sul bordo della miseria umana. Ne complesso non è affatto così male, ma purtroppo, la distanza tra la dirty woman di quest'album e la evil woman dell'esordio, è siderale.
"Technical Ecstasy" trova un decente riscontro commerciale, ma niente più di questo. Le recensioni vanno dal mediocre alla sufficienza - e non parliamo della critica in malafede dei primi anni '70, ma di una critica ormai da anni favorevole e affascinata, e adesso, fredda e spietatamente oggettiva. Le cose giravano piuttosto male ancor prima dell'uscita dell'album; Ozzy a tal proposito ricorderà: "...in studio, Tony diceva sempre: 'dobbiamo suonare come i Foriegner' o 'dobbiamo suonare come i Queen'. Ma pensavo che fosse strano che le band che avevamo influenzato, adesso influenzassero noi". Dello stesso periodo, Geezer parlerà in un'intervista con Guitar World, affermando: "Quello fu l'inizio della fine. Ci stavamo gestendo da soli perché non potevamo fidarci di nessuno. Tutti cercavano di fregarci, compresi gli avvocati che avevamo assunto per farci uscire dai nostri pasticci legali. Ce ne stavamo accorgendo solo in quel momento, e non sapevamo cosa stavamo facendo. E ovviamente, la musica ne soffriva". La situazione deflagra definitivamente dopo l'uscita del settimo album: Ozzy Osbourne lascia i Black Sabbath...
Never Say Die! (1978)
...però alla fine, torna all'ovile. Dopo l'uscita di "Technical Ecstasy", Ozzy abbandona la band per quasi un anno: il tempo di valutare possibili progetti solisti e di rodersi nel dubbio. Nel frattempo, i Black Sabbath sono costretti a cercare un altro frontman. Tony Iommi ammetterà che "non abbiamo mai voluto che se ne andasse, e penso che volesse tornare... ma nessuno avrebbe confidato agli altri il proprio stato d'animo. Quindi abbiamo dovuto ingaggiare un altro cantante e scrivere nuovo materiale". Il cantante in questione è Dave Walker, noto per la sua militanza nei Fleetwood Mac. Con Walker, i Sabbath scrivono diverse canzoni e suonano dal vivo per una trasmissione della BBC. I dubbi tuttavia persistono, e quando infine Ozzy torna sui suoi passi, la band lo riaccoglie a braccia aperte. Be', più o meno. La tensione tra i musicisti è sottile ma palpabile, i problemi legali parzialmente irrisolti, e l'abuso di stupefacenti oramai fuori controllo. Non bastasse, Ozzy si rifiuta di cantare le canzoni scritte da Walker. I tempi stringono e la band inizia a registrare comunque, si lavora giorno e notte: di giorno si scrivono i brani, e di notte si registrano. Non c'è tempo per i ripensamenti, non c'è tempo per le correzioni, solo tanta confusione e una voglia quasi disperata di risalire la china. Il nuovo album esce il 28 settembre del 1978 con una copertina dello studio Hipgnosis; due piloti da guerra dal volto completamente coperto sembrano rivolti verso lo spettatore, mentre alle loro spalle s'intravede quello che sembrerebbe un caccia americano della seconda guerra mondiale (un North American T-6 Texan, dicono i più preparati). Il titolo dell'ottavo album è una dichiarazione d'intenti forte e chiara: Never Say Die!, punto esclamativo compreso. Come vedremo, nel marasma di una confusione umana e professionale insanabile, i Black Sabbath hanno cercato di riunire dieci anni di carriera in un solo volume, gridando a tutti la ferma volontà di continuare a esistere.
Il primo brano è proprio la title track, un solido hard rock la cui energia gli è valsa l'uscita come singolo (e si sa quanto i Sabbath lesinassero sui singoli). Never Say Die! sa essere orecchiabile e dura al tempo stesso, dotata di un buon groove, sebbene manchi forse di una catarsi all'altezza, di un culmine che faccia esclamare all'ascoltatore "Eccoli, i Sabbath che conosco!". Il finale con l'exploit di Iommi e di Ward, comunque, arriva in extremis a correggere tale mancanza. Il testo si rivolge a tutti, ma soprattutto ai giovani cui sembra dire: "siete il futuro, non arrendetevi". Non lasciarsi "morire", mai, per quanto certe volte la vita sia veramente dura; "rallenta, guardati intorno, va tutto bene", canta Ozzy, e nel farlo, pare quasi si stia rivolgendo a se stesso. Il sound inizia a farsi più ricercato e sperimentalista con Johnny Blade, brano aperto dalle tastiere di Don Airey, il quale presta le sue notevoli competenza su buona parte del disco. Momenti di pesantezza decisamente "sabbatiana" convivono con altri più concitati, definiti dalle rullate quasi compulsive di Bill Ward, a dipingere un quadro che sa essere finalmente ruvido e aggressivo come si addice al Sabba Nero. Il risultato finale è opinabile e non piacerà a tutti, ma finalmente, è quantomeno particolare. Il testo parla di un tizio poco raccomandabile di nome Johnny Blade, armato di spada o pugnale e sempre pronto all'omicidio; dalle sue parti, egli è padrone delle strade. Il brano non dice (quasi) nulla più di questo, sebbene in giro si parli di una possibile affinità fra Johnny e il fratello di Ward, oltre che a una plausibile influenza dei più vari personaggi storici o letterari. Il brano successivo, Junior's Eyes, inizia su di una ritmica funk decisamente ammiccante, sapientemente cauta e contenuta. Il sound di questa canzone così poco "sabbatiana" trova la sua personalità in numerose sottigliezze, piccoli dettagli importanti, raffinatezze di vario genere e infine un'apertura ruggente e ariosa, finalmente hard rock. La catarsi riempie la centralità del brano, e quando pare che questo stia per tornare a un passo cadenzato, irrompe sul finale e s'infrange sull'ascoltatore. Su tutto, aleggia un impalpabile velo di malinconia; il testo di "Junior's Eyes", originariamente di Walker, è stato infatti riscritto al ritorno di Ozzy in formazione, e parla dell'allora recente scomparsa del padre del cantante, del dolore e del rapporto con la vita e con la morte. Niente male davvero, sebbene fino a questo momento, in termini di sonorità, la scaletta dell'album non sembri seguire uno schema che sia minimamente organico. Ormai lontani dall'antica, incombente oscurità, i Black Sabbath vanno avanti con un hard rock attento alle tendenze: A Hard Road è dunque orecchiabile, ricca di vocalizzi e perfino di momenti corali, di soluzioni botta-e-risposta, di riff squillanti e leggeri. L'attitudine di fondo tende esplicitamente al rock americano, ovvero al mercato che i Sabbath tentano da diversi anni di riconquistare. È davvero un buon pezzo, ma come gli altri, l'energia che fu di album come "Paranoid" (che pure è presente) va a disperdersi in soluzioni che funzionerebbero meglio su ben altri progetti. Il soggetto del brano riprende la retorica già iniziata nella traccia d'apertura: la vita che assale tutti, vecchi e bambini, poveri e ricchi, seguendo non-logiche inique e figlie del caos. A questa vita che tutti mette alla prova, canta Ozzy, bisogna rispondere con rinnovata speranza verso il futuro, leitmotiv di un album che tenta di gridare "Rinascita" da ogni singola nota. Su medesimi solchi anche Shock Wave: un pezzo più che discreto, nel suo insieme, perfino brillante in certe dinamiche vocali e strumentali. Rimarchevole l'exploit di Iommi a metà del brano, duro e sabbatiano il giro di basso di Geezer. Purtroppo però, anche qui, ciò che caratterizza i Black Sabbath si confonde in una rincorsa a sonorità derivative. La poetica, dal canto suo, così maligna ma niente affatto vuota, ricorda davvero i Sabbath migliori: sulla morte imminente di un uomo, il cantante dipinge uno sfondo di metafore oscure ed evocative, in quello che pare decisamente un richiamo alla droga e al suo effetto ultimo, ovvero la morte. L'intento autobiografico è dunque palese. Air Dance vira su sonorità ancora poco esplorate, dalla band di Birmingham, e il risultato è rimarchevole: sebbene la prova poco convita di Ozzy, il quale poco apprezzava le più evidenti variazioni jazzistiche, la sinergia tra il piano e la sezione ritmica è fantastica, impreziosita da un Tony Iommi particolarmente raffinato. Affasciante anche l'intermezzo fusion, veste che mancava anche nei Sabbath più sperimentali. Il testo ha una profondità poetica notevole, nella sua generica semplicità e sintesi. La protagonista del brano è infatti una donna che si culla in ricordi antichi, ricordi d'una giovinezza passionale e fragorosa; la malinconia che traspare in poche strofe, l'empatia che l'ascoltatore sviluppa immediatamente per la donna, sono elementi che mettono in luce tutta la maturazione stilistica di Butler. Over to You fa un passo indietro: il settimo brano del disco pare prendere qualcosa scritto dai Kiss e rallentarlo, aggiungendo soluzioni pianistiche anche interessanti e raffinate, mischiando momenti d'un vivido hard rock alle velleità jazzistiche di Ward e di Iommi. Il risultato finale è un brano orecchiabile ma non del tutto banale, sebbene anche qui i reali elementi d'interessa vadano a disperdersi su sonorità fin troppo citofonate. Va detto, comunque, che Geezer s'impegna a ritrovare le vecchie tematiche; il testo infatti è pessimista, acido, di stampo sociale. Una poetica che attraverso il linguaggio allegorico cerca di evidenziare la follia intrinseca del sistema, descrivendo come quest'ultimo s'impossessi dell'individuo a partire dall'infanzia fino alla morte. Prima del finale, la band si concede una breve strumentale: Breakout. Decisamente orientata al jazz e al funk, la canzone oppone le raffinatezze dei fiati all'aggressività di basso e chitarra, per la gioia di un Bill Ward che può finalmente sfoggiare il suo stile migliore (la sua principale scuola, vale la pena ricordarlo, è quella jazz). Benché il brano abbia un certo tiro e tutto il resto, Ozzy lo odia. Infatti, il cantante avrebbe in seguito rivelato che canzoni come "Breakout" sono quanto di più lontano ci si aspetterebbe da chi porta il nome di "Black Sabbath", riservando parole di caustico sarcasmo nei confronti delle band jazz in generale. L'ultimo brano si chiama Swinging the Chain ed è un brano scritto e cantato da Bill Ward, un heavy blues vecchio stile con la partecipazione di Jon Elstar all'armonica. Sembra che Ozzy si sia rifiutato di cantarlo, forse perché sviluppato insieme a Walker, forse perché contrario allo stile del pezzo. Peccato, perché parliamo di un "bluesaccio" sporco e stradaiolo al punto giusto, potente e pesante nei momenti giusti e graziato da intuizioni vocali e compositive intriganti. Vien da pensare che Ward avrebbe dovuto scrivere più spesso, poiché il testo, sebbene "sgraziato" (che in un pezzo del genere è più una qualità che non un difetto), è intelligentemente sviluppato su più livelli allegorici: quello storico, quello sociale e quello personale, ognuno al servizio dell'altro. Al pessimismo cosmico sviluppato su base storica, si aggiunge l'allegoria di una band che combatte con le unghie e con i denti per restare in vita, per continuare la Rivoluzione. E che tuttavia, alla fine, soccombe.
"Never Say Die!" vende ma non quanto dovrebbe vendere un prodotto dei Black Sabbath, e comunque, ancora meno dell'album precedente. Sommato alle spese legali e alla necessità di spostarsi da una costa all'altra dell'America, da un lato all'altro dell'oceano, è chiaro che il progetto Black Sabbath, per i nostri di Birmingham, sia oramai controproducente. Ed è un peccato. Certo, l'album consuma le sue energie verso direzioni opinabili, o antitetiche, sviluppando idee interessanti in un contesto inadeguato, confuso; ed è vero anche che si sente la mancanza di capolavori veri come "Paranoid" o "Symptom of the Universe"; ma la verità, è che non è per nulla un brutto disco, anzi: è decisamente un'opera da riscoprire, piena di esperimenti interessantissimi, energia e voglia di rivalsa. I tempi non sono tuttavia maturi per guardare all'opera dalla corretta prospettiva, e "Never Say Die!" si becca le prevedibili critiche del caso, quasi tutte giuste, o quantomeno giustificate. Il tour dà buoni risultati, ma il ritorno a casa è un ritorno alla realtà, alle miserie artistiche e personali di musicisti allo stremo di una relazione inconciliabile. La situazione è allora chiara ed evidente a tutti, l'insofferenza ormai al suo culmine. La conseguenza, anche quella, è ovvia.
Conclusioni
"Solo un idiota ignorerebbe ciò che i Black Sabbath hanno portato all'heavy metal"
- Phil Anselmo
Ozzy Osbourne abbandona la band, stavolta in via definitiva. O meglio, a dirla tutta, viene licenziato. Il tour per promuovere l'ultimo album è seguito da un periodo di permanenza a Bel Air, uno spazio di tempo in cui la band cerca di creare nuovo repertorio, nuove canzoni cui Ozzy, regolarmente, si rifiuta di partecipare. Stando alle dichiarazioni di Iommi, l'abuso di droghe era ancora un problema molto serio per tutti, ma Osbourne, be' "lui era a un altro livello". Tony Iommi non se la sente di silurare di persona il vecchio compagno, e delega l'onere a chi lo conosce e gli è amico da più tempo: Bill Ward. Il quale, sulla questione, affermerà: "Speravo di essere professionale, ma temo di non esserlo stato. Quando sono ubriaco sono orribile, sono orrido", e aggiunge "l'alcol era ciò che più di ogni altra cosa danneggiava i Black Sabbath. Eravamo destinati a distruggerci fra noi. La band era tossica, davvero tossica". La separazione non è drammatica, almeno in prospettiva; è una cosa che doveva succedere e alla fine succede, e che dovrebbe permettere ai musicisti rimasti di reinventarsi. È tuttavia un cambiamento importante, poiché Ozzy, seppure partendo da una matrice assai grezza, o forse proprio grazie ad essa, è un elemento cardine del sound Sabbath. Il suo tono acido, i suoi allunghi fin troppo tirati, la sensazione metallica che giunge dal fondo della sua gola, sono le caratteristiche che hanno permesso a certe sonorità di rifulgere, a una certa personalità di venire fuori in tutta la sua maligna possanza. Negli ultimi due album, i Sabbath abbandonano determinate sonorità in favore di raffinatezze non richieste, di esperimenti, o meglio deviazioni, che riducono il cantante a mero contorno vocale. Divenuto così un cantante rock come tanti altri, e nemmeno tra i più talentuosi, Ozzy abbandona la band già dopo "Technical Ecstasy", saggiamente in cerca di un progetto il cui sound gli sia cucito addosso, e che riesca, in sostanza, a far riemergere l'oscuro e maligno signore delle tenebre d'un tempo. In gran parte, dopo il definitivo addio seguito all'uscita di "Never Say Die!", il cantante riuscirà nel suo intento; la collaborazione con, tra gli altri, il chitarrista Randy Rhoads, riporterà la sua voce ad esprimere ciò di cui davvero è capace, e che va ben oltre le amenità della tecnica o del bel canto. Certo, la sua vita sarà incasinata ancora per un bel po', quantomeno prima della riabilitazione, sia per quel che riguarda l'uso di stupefacenti che il rapporto con la moglie, Sharon, che sposerà nell'82. I Black Sabbath, dal canto loro, vivranno un'odissea fatta di grandi avventure e disastrosi naufragi. Nel 1979 il manager del gruppo (nonché padre della futura moglie di Ozzy), Don Arden, entrerà in contatto con un cantante dall'aspetto poco promettente ma dalle capacità inconfondibili: Ronnie James Padovana, noto anche come Ronnie James Dio. Ovvero, la prova vivente che anche se sei alto un metro e sessanta e non sei neanche baciato dalla bellezza, la personalità e il talento possono davvero fare la differenza. Superate le iniziali difficoltà umane e professionali (tra cui l'iniziale abbandono di Geezer), i Black Sabbath danno alla luce un album di puro heavy metal: Heaven and Hell. Le vendite sono le migliori dai tempi di "Sabotage", grazie sia a una rinnovata popolarità del genere (la grande ondata di punk va già "imborghesendosi"), sia all'oggettiva qualità lirica e compositiva dell'opera. Il grande limite di questa rinnovata band è uno e uno soltanto: i Black Sabbath di Dio sono una band heavy metal. Non una band che inventa l'heavy metal. O che sperimenta, o che indaga in tutte le direzioni facendo domande a se stessa e dandosi risposte anche folli, ma geniali. È una band di grandi musicisti supportata da un frontman d'eccezionale carisma e bravura, questo sì, e "Heaven and Hell" è un disco carico d'energia e personalità, probabilmente l'album più elevato dei Black Sabbath in termini di consapevolezza artistica, raffinatezza, tecnica. Ma è tutto qui. I Black Sabbath sono diventati un brand, un gruppo da cui ci si aspetta l'attinenza a un determinato standard, la pedissequa riproposizione di sonorità che loro stessi hanno contribuito ad evolvere. Tra l'altro chiariamoci: tale concetto vale in termini prettamente macroscopici poiché "Heaven and Hell", nel 1980, è comunque un album rilevante per il genere in virtù di un numero importante d'intuizioni - sia tecniche che stilistiche; è difficile, in buona sostanza, trovare nello stesso periodo un altro album che somigli a questo, che ne proponga tout court gli stessi identici contenuti. Ciò non elimina la natura intimamente derivativa dei nuovi Black Sabbath, ma rimane il fatto che, grazie a Dio, la formazione inglese torna ben più che onorevolmente a vendere e far parlare di sé. Mob Rules (1981) è un ottimo album, nonostante la stroncatura di Rolling Stone. È già l'ultimo album con Dio alla voce (almeno per un bel po'), e il primo senza il batterista Bill Ward, sostituito da Vinny Appice (a causa dei problemi di Bill con l'alcol). Piccoli battibecchi tra il cantante e i vecchi Sabbath s'ingigantiscono inutilmente, la situazione va fuori controllo, e infine, implode. Dio prende con sé Appice e forma il suo progetto solista, chiamato semplicemente "Dio", e a Tony Iommi e Geezer Butler, soli come agli esordi del 1968, tocca stare a guardare mentre Ozzy Osbourne colleziona quattro platini nei soli Stati Uniti col suo primo album solista (Blizzard of Ozz), o mentre ottiene il medesimo successo e un generale plauso da parte della critica per "Diary of a Madman". Nel frattempo, anche Ronnie James collezione il suo primo, clamoroso successo solista grazie a quella bomba di "Holy Diver". Non che sia una gara o che vi sia reale astio, ma il successo dei colleghi è senza dubbio la cartina tornasole dei problemi e dei limiti dei Black Sabbath. La situazione migliora con il ritorno di un ripulito Bill Ward e l'arrivo del nuovo cantante: Ian Gillian. A Born Again (1983) basta il nome dei Sabbath unito a quello del cantante storico dei Deep Purple, per vendere come non avveniva dai tempi di "Sabbath Bloody Sabbath". Perfino Ozzy esprime il suo apprezzamento per l'opera. L'opinione della critica è altalenante ma il disco, in fondo, è buono e la musica dal vivo anche meglio (nonostante le difficoltà di Gillian a memorizzare il vecchio catalogo della Ozzy-era). I "Deep Sabbath" se ne vanno per un po' in lungo e in largo a suonare per il mondo, ma Ian ha molti altri progetti per la testa e, com'era prevedibile fin dall'inizio, lascia i Sabbath alla fine del tour. Bill Ward abbandona dopo un fallimentare tentativo di portare avanti la band con David Donato alla voce, e così fa pure Geezer, già disilluso dal trattamento dell'etichetta nei confronti del disco registrato con Gillian (che mai avrebbe dovuto essere un album "dei Black Sabbath", nelle intenzioni dei musicisti). Da qui in poi, il destino della band è tutto in discesa... nel senso che è una caduta verticale e ineluttabile da quel pinnacolo che, nelle parole di Iommi, aveva rappresentato "Sabbath Bloody Sabbath". Tony Iommi non cede: nel 1986 esce Seventh Star, con Eric Singer alla batteria, Geoff Nicholls alle tastiere, Dave Spitz al basso, e un Glenn Hughes pieno di problemi di salute e dipendenze, alla voce. L'album, che inizialmente doveva essere un progetto solista di Iommi, vende poco e male nonostante gli ottimi nomi, ma non è certamente un disco da buttare e la critica si divide. I segnali comunque, a voler consultare gli aruspici, non sono per nulla incoraggianti. The Eternal Idol esce l'anno successivo con una formazione completamente rinnovata e Tony Martin alla voce. Sarà l'ultimo album prodotto con la Vertigo e la Warner Bros. Per la critica è un album generalmente mediocre (sebbene non sia per niente tutto da buttare), ma la vera tragedia sono le vendite, riflesse da posizioni impietose sulle classifiche americane e inglesi. Il nome dei Black Sabbath, almeno con questi musicisti, non attira più né i vecchi fans, né tantomeno le nuove leve. Tony Iommi, tuttavia, conserva il coraggio e la testa dura di un operaio di periferia inglese, e nel 1987 ci riprova con una nuova, straordinaria formazione. Headless Cross vede ancora Nicholls alle tastiere e Martin alla voce (quest'ultimo, nel frattempo, assai cresciuto e calatosi nel ruolo), mentre s'arricchisce di Laurence Cottle al basso e del leggendario Cozy Powell alla batteria. La super-band non sbaglia il colpo e il disco incassa un favore che non si vedeva dai tempi di Ronnie James, sia presso la critica che da parte del pubblico più affezionato. Il posizionamento tiepidino nelle classifiche angloamericane, tuttavia, e in seguito il cocente insuccesso del tour statunitense, raffreddano immediatamente i bollenti spiriti del gruppo e del suo chitarrista. L'andazzo è peggiore di quanto ci si aspettasse, ma visti i pur pochi segnali positivi, la band ci riprova nel 1990 con Tyr (con Neil Murray al basso). Stavolta la band neanche ci arriva, ad entrare nella classifica U.S.A., cosa che porterà i Black Sabbath a rinunciare, per la prima volta nella storia del gruppo, ad esibirsi negli Stati Uniti. In Regno Unito le cose non vanno tanto meglio e il tour si conclude con largo anticipo rispetto alle date preventivamente fissate. Anche la critica è impietosa, stavolta. Dopotutto "Tyr" si presenta come l'opera di cinque rockettari di mezz'età che tentano, fuori tempo massimo, di cavalcare l'onda del metal a sfondo vichingo, con le rune, il Valhalla e tutto il resto. Col senno di poi potrebbe decisamente valere un approfondimento, ma nel 1990 non ci sono santi che tengano: il disco è un fallimento bello e buono. Nello stesso anno, Geezer Butler e Ronnie James Dio condividono lo stesso palco e iniziano a ventilare l'idea di riunirsi ai Black Sabbath. L'idea va in porto qualche tempo dopo, quando Iommi abbandona la formazione di Martin e si ricongiunge ai suoi vecchi compagni. Alla batteria, Cozy Powell è ben presto sostituito da Vinny Appice a causa di un infortunio a cavallo. La gestazione del nuovo album è lunga, problematica e "ridicolmente costosa", come avrà giustamente da lamentarsi Tony Iommi, ma Dehumanizer, album che arriva in piena era grunge e che sembra giunto dal passato, ottiene riscontri più che dignitosi e incoraggianti. Quando però Geezer, Tony e un redivivo Bill Ward decidono di mandare i Sabbath a supporto del vecchio Ozzy, chiamati da quest'ultimo a partecipare alle ultime due date del suo "No More Tours" (Ozzy aveva infatti annunciato il suo primo ritiro, che detta così fa abbastanza ridere), Ronnie James Dio, ferito nel suo orgoglio, abbandona la band con gesto improvviso e plateale: giusto la sera prima dell'esibizione con Osbourne. Dopotutto, il parere di Dio nei riguardi di Ozzy non era nei migliori, e la sua dignità come artista fuori discussione. Fortunatamente per i Black Sabbath (e per Ozzy), a salvare la situazione e fare le veci di Ronnie è nientepopodimeno che Rob Halford, al tempo appena fuoriuscito dai Judas Priest. È la prima volta dal 1985, anno della reunion al grandioso Live Aid, che la vecchia formazione si ritrova unita su di un palco. Esattamente come "Born Again", anche Cross Purposes (1994) esce come album dei Black Sabbath per pura dittatura dell'etichetta. Con un ormai disilluso Tony Martin alla voce, l'opera è bocciata dalla critica e scarsamente supportata dal pubblico, che trova più interessante dividersi tra l'hard rock di band fresche come i Soundgarden, o il sempre più diffuso metal estremo di matrice soprattutto europea. Destino perfino peggiore per Forbidden del 1995, forse l'unico, vero disco "brutto" dei Black Sabbath, fuori dalle classifiche e stroncato da ogni rivista, definito dallo stesso Martin un "album filler che ha strappato la band alla sua etichetta, ha mandato via il cantante e traghettato definitivamente la band verso la reunion". E infatti, Tony Martin se ne va e i Sabbath si riuniscono al gruppo di Ozzy per suonare all'Ozzfest. Inizialmente sono solo Geezer e Iommi, e dal '97 in poi, anche Bill Ward. Nel '99 la vecchia formazione si prepara addirittura a creare nuovo materiale in studio, progetto abbandonato a causa degli impegni solisti di Ozzy. I musicisti sono ormai leggende viventi di una certa età e la situazione è fondamentalmente in stasi. Nel 2007 escono tre nuovi brani marchiati "Sabbath" con Ronnie James alla voce per la raccolta "Black Sabbath: The Dio Years". Il grande successo della compilation spinge la band a riformare la storica line-up di "Heaven and Hell", e di partire per un tour mondiale dallo stesso nome di quel mitico album. La medesima formazione, ma con Appice alla batteria, scende in campo con un album davvero eccezionale: "The Devil You Know". Adesso si fanno chiamare gli Heaven and Hell, ma tutti li chiamano ancora Black Sabbath. Il successo del progetto va avanti fino al 16 maggio del 2010, il giorno in cui Ronnie James Dio è ucciso da un maledetto cancro allo stomaco. È la fine di un'era. La tragedia, tuttavia, è come un colpo di spugna su alcune vicende legali che nel frattempo avevano avvelenato il rapporto tra Ozzy e Tony Iommi. Nel 2011 Ozzy, Butler, Ward e Iommi si riuniscono per suonare insieme e creare nuovo materiale, e dopo le solite, varie vicissitudini, nel 2013 ecco che arriva... 13, l'ultimo e definitivo album ufficiale dei Black Sabbath. È un gioiellino complesso e sfaccettato, prodotto da un vero e proprio squalo del mercato discografico: Rick Rubin. Alle pelli c'è infatti una vecchia conoscenza del produttore, Brad Wilk, già batterista degli Audioslave e dei Rage Against the Machine; Bill Ward, purtroppo, aveva dovuto nel frattempo abbandonare il progetto per seri motivi di salute. Negli anni seguenti la band inizia a lavorare ad un ultimo album che purtroppo non vedrà la luce, ma in compenso, avvia un tour mondiale d'addio tanto pantagruelico quanto commovente: The End Tour. L'evento dura da giugno 2016 a febbraio 2017, con un Tony Iommi impegnato, nel frattempo, a combattere e sconfiggere un linfoma già diagnosticato nel 2012. Ormai anziani signori, ognuno col proprio lavoro e i propri problemi, i musicisti si dividono per l'ennesima e forse ultima volta il 7 marzo del 2017.
Dal 1978 ad oggi la musica dura ha vissuto di rivoluzioni. L'esperienza maturata dai Black Sabbath della cosiddetta "Era Ozzy", ha contribuito ad innescare la miccia di ognuna di queste sommosse musicali. Il Maledettismo novecentesco, che nasce per le strade e per i ghetti delle controculture, che fa radici ed evolve in direzioni molteplici e totalmente inattese, deve ai Black Sabbath un intero universo di segni, simboli, suoni. Quell'attitudine oscura e maligna, la stessa che per molti oggi è pura estetica, un gioco di ruolo ormai sedimentato nell'immaginario collettivo, per i Black Sabbath è stata presa di posizione nei confronti del mondo, delle sue ipocrisie e dei suoi infiniti orrori; ma per contrapposizione, è stata anche grido di speranza, di amore, di fratellanza, elementi cardine di una generazione ingannata e tradita. Mentre i Black Sabbath proseguivano su di un cammino incerto, l'antico fuoco ormai esaurito, il metal ha scavato, approfondito, migliorato e infine portato al parossismo la loro lezione; e più certi elementi entravano nella cultura popolare, più il metal diveniva estremo, ricercato, folle, cercando magari di rimanere "puro" e inalterato, ormai un po' conservatore, eppure ibridandosi lo stesso. Fino ad arrivare a oggi: alla torre di Babele di una musica contemporanea le cui basi - così vicine a fondamenta e radici - poggiano ancora sui monumentali mattoni edificati da quattro operai di provincia nell'Inghilterra in crisi dei primi anni '70.
"Se non ci fossero stati i Black Sabbath, molto probabilmente mi ritroverei ancora a distribuire i giornali la mattina. Dico sul serio"
- Lars Ulrich
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2) Black Sabbath (1970)
3) Paranoid (1970)
4) Master Of Reality (1971)
5) Vol. 4 (1972)
6) Sabbath Bloody Sabbath (1973)
7) Sabotage (1975)
8) Technical Ecstasy (1976)
9) Never Say Die! (1978)