BLACK SABBATH
Technical Ecstasy
1976 - Vertigo/Warner Bros.
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
04/05/2011
Recensione
I Black Sabbath, nel 1976, pubblicano il loro settimo album, intitolato "Technical Ecstasy", uscito il 25 settembre negli USA e l’8 ottobre in Regno Unito. Nella prima metà dell’anno si sono chiuse le controversie legali con l’ex manager Jim Simpson, scaricato un paio d’anni prima dalla band per passare alla coppia di produttori Meehan e Pine, una scelta a dir poco infausta che però lascia strascichi importanti appianabili solo nell’aula di un tribunale. A Simpson viene corrisposta a titolo di risarcimento una somma che scontenta sia la band che il manager stesso, senza contare la frattura personale che si è prodotta tra le due parti. L’album è un episodio di chiaro distacco dalle sonorità dei dischi precedenti, e suona molto più pop e radio-friendly, cosa che crea una spaccatura notevole all’interno dei fans. In aggiunta, il lusso sfrenato in cui la band vive è, come spesso succede, un elemento inibitore della creatività, e la continua frenesia degli impegni dal vivo mina sempre di più la coesione interna tra i membri, già particolarmente traballante, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Iommi e Ozzy. Le vendite, inizialmente abbastanza incoraggianti, si riducono nel giro di poche settimane, tanto che il disco sparisce dalle classifiche dopo un mese e mezzo appena. La copertina, decisamente distante dagli artwork precedenti, raffigura un bizzarro scambio di fluidi tra due robot che s’incontrano su una scala mobile, e rimanda chiaramente al titolo del disco. Nella formazione, anche se in veste non ufficiale, continua a lavorare il tastierista Gerald Woodruffe. La prima traccia, "Back Street Kids", è già evidente l’intreccio di riff sabbathiani vecchia maniera con un suono decisamente ammiccante e con una struttura abbastanza banale, se paragonata ai pezzi storici del gruppo. Per di più, il testo incentrato stucchevolmente sulle vicissitudini dandy dei rocker si adatta sicuramente meglio ad un gruppo glam rock che non ai padri fondatori del metal. L’assolo, con un buon dialogo tra Iommi e Woodruffe, per fortuna si salva, peccato per la chiusura ridicola e inutilmente provocatoria del pezzo...La successiva "You Won’t Change Me" vede un apporto di tastiere ancora maggiore, con un organo iniziale che, accompagnato dalla chitarra di Iommi, promette bene. Il largo uso delle sovra incisioni rende la strofa una vera potenza chitarristica, ed in alcuni elementi il sound sembra già anticipare alcuni tratti caratteristici del Sabba Nero nel decennio successivo, anche se Iommi a volte indulge un po’ troppo nelle divagazioni sopra il riff. I lunghi solo chitarristici riportano la mente ai primi, seminali album, in cui le canzoni spesso e volentieri si fregiavano di episodi solistici piuttosto ampi. Di sicuro questo secondo pezzo risolleva un po’ il morale dopo l’opener, sia per realizzazione musicale (pregevole il lavoro di Woodruffe) che per il testo.
"It’s Alright", cantata dal batterista Bill Ward, non ha proprio della Sabbath-song, ed anzi si regge su un tappeto pianistico e su un solo chitarristico dal suono molto patinato, diventando un vero e proprio pezzo pop, una scelta difficile da interpretare per i Sabbath: Ward stesso riferirà molto tempo dopo che la canzone, registrata quasi per scherzo, piacque molto all’etichetta, e venne inserita nell’album con il beneplacito del resto della band. "Gypsy", al contrario, è un pezzo energico, aperto da un intro di batteria potente e da un riff niente male, semplice ma efficace proprio nella tradizione di Iommi, forse un po’ troppo "allegro" e rock’n’roll, quasi melodico, ma va più che bene così. Il testo parla dell’incontro con una zingara, dipinta come di norma nel proprio mitologema di tentatrice, ammaliante e sensuale, che cattura l’anima del protagonista. Anche qui il solo (pregevole a dir la verità) di Iommi non si fa attendere, stavolta collocato in coda. Il riff iniziale di "All Moving Parts (Stand Still)" è a metà tra il metal e il funky, e nel mood ricorda decisamente "Stormbringer" dei Deep Purple di un paio d’anni prima. La traccia si evolve vorticosamente attraverso numerosi sott-riff, con linee strumentali intricate ed estremamente virtuosistiche (compresi i soli), mentre la voce nasale di Ozzy, per contrasto, è molto dritta e cadenzata (la melodia vocale è quasi fastidiosa da tanto assomiglia alle canzoncine dei jingle pubblicitari). La complessità della struttura del pezzo, forse, lo penalizza un po’ in quanto a memorizzazione ed apprezzabilità, ma lo rende finora l’unico brano dell’album capace di competere con le vecchie glorie. La successiva "Rock’n’Roll Doctor", nonostante l’inizio tribale, vira subito verso una commistione di blues di bassa lega e rock vecchio stampo di cui sinceramente non c’era proprio bisogno nell’album. Meglio tacere poi sul testo piuttosto imbarazzante, a proposito di un dottore che prescrive droga per "tirarsi su"… L’inizio orchestrale di "She’s Gone" spiazza totalmente quasi tutti gli ascoltatori dei Sabbath, che scoprono una ballata a tema amoroso la cui pecca, purtroppo, è quella di avere delle liriche piuttosto banali e ritrite, ma che onestamente può essere considerata un’ottima canzone per composizione musicale ed arrangiamento. Certamente un pezzo come questo è accolto da molte critiche tra i fans meno disposti a compromessi pop, ma non c’è ragione di non riconoscere la bravura della band nel creare un’atmosfera ricca di pathos ed emozione, visto che il metal è anche questo. Nondimeno, "She’s Gone" può dirsi un po’ la "zia zitella" di quel capolavoro che, due anni più tardi, sarà la ballad "Rainbow Eyes" scritta da Blackmore e Dio per "Long Live Rock’n’Roll" dei Rainbow. Una specie di esperimento precursore, insomma. Per chi sperasse in un risollevarsi delle sorti del disco, l’ultima traccia "Dirty Women" è una mazzata tra capo e collo: elogiando le gesta delle prostitute, Ozzy si districa tra due riff portanti abbastanza fiacchi e banali, talmente ripetitivi da risultare nauseanti. Un buon cambio di tempo in mezzo ai due ennesimi bei solo di Iommi (che di album in album sperimenta sempre più sonorità e tecniche nuove, ed è forse l’unico insieme a Woodruffe a tirare fuori qualcosa di buono dall’album) non basta a salvare un pezzo eccessivamente protratto lungo tutta la coda finale, in verità non da buttare via (terzo solo chitarristico della canzone) ma faticosa da sopportare fino alla fine. "Technical Ecstasy" è da molti dipinto come il primo serio "inciampo" della lunga e gloriosa storia del Sabba Nero. Lo è davvero? Sì e no. Tra gli indubbi aspetti positivi ci sono il tentativo di resistenza all’astro nascente del movimento punk, fortemente pubblicizzato da molti media britannici, sempre alla ricerca di materiale nuovo (a detrimento della qualità), le lunghe divagazioni chitarristiche e lo sperimentalismo in studio di Iommi, nonché l’ottima alchimia col tastierista Woodruffe (peccato non sia diventato membro ufficiale della band) e col sempre solido, ed in alcuni caso persino virtuoso, Geezer Butler. Il sound più commerciale non è necessariamente una vergogna, visto il momento un po’ critico che il genere hard rock – heavy metal vivrà nei due anni successivi, e può servire a catturare una maggior fetta di sostenitori, magari prima spaventati dal suono oscuro e sulfureo del gruppo. Di contro, proprio la commercializzazione, già aleggiante nei due album precedenti, costa ai Sabs’ una feroce critica da parte degli adepti della prim’ora, quelli attirati proprio dalle atmosfere cupe ed inquietanti di "Paranoid" o "Black Sabbath". La scrittura dei testi è a dir poco crollata verticalmente in qualità rispetto ai lavori precedenti, i concetti espressi non sembrano particolarmente ispirati, ed anche il riffing non è paragonabile ai fasti passati, pur mantenendo qua e là sprazzi di classe cristallina; i frequenti soli strumentali non possono compensare la mancanza di strutture solide e portanti nei pezzi, che a volte appaiono o estremamente semplici, al limite del banale, altre volte suonano un po’ troppo complicati. Per gli appassionati dei Sabbath, "Technical Ecstasy" è un disco da ascoltare, se non altro per dovere di cultura, ma per i semplici ricercatori di buona musica, meglio rivolgere l’attenzione ad altri sforzi del quartetto inglese. Nel 1976 le tensioni all’interno della band si fanno sempre più forti e non ci vorrà molto prima che sfocino in grossi guai per Iommi e soci.
1) Back Street Kids
2) You Won’t Change Me
3) It’s Alright
4) Gypsy
5) All Moving Parts (Stand Still)
6) Rock’n’Roll Doctor
7) She’s Gone
8) Dirty Women