BLACK SABBATH
Sabbath Bloody Sabbath
1973 - Warner Bros.
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
03/03/2011
Recensione
Nel dicembre 1973, più di un anno dopo “Vol. 4” (cosa strana visti i tempi di produzione dei dischi precedenti) viene alla luce “Sabbath Bloody Sabbath”, il quinto ed ultimo album del “pentateuco” dei BLACK SABBATH. Questo disco è quello che segna la fine dell’età dorata, o forse l’inizio della crisi, della formazione originale dei Sabs. Viene pubblicato per Vertigo come gli album precedenti, e ad oggi ha una vendita stimata di circa tre milioni di copie dall’anno della sua uscita, vantando ben tre dischi di platino nel Regno Unito ed uno negli States; il titolo dell’album richiama alla lontana un sanguinoso evento accaduto quasi due anni prima a Londonderry, capitale dell’Ulster (l’Irlanda del Nord), dove militari regolari dell’esercito britannico, per la maggior parte di confessione protestante, aprirono il fuoco su manifestanti unionisti cattolici, che reclamavano l’annessione dell’Irlanda del Nord (protestante ma popolata da una numerosa minoranza cattolica) a quella del Sud (Eire), di confessione appunto prevalentemente cattolica e già fortemente indipendente dalla monarchia del Regno Unito. Non è dato sapere con certezza se l’assonanza del titolo del disco con il nome assegnato al ricordo di quel tragico evento, “Sunday Bloody Sunday” (la domenica di sangue), richiami volutamente l’episodio in questione, ma data la vicinanza cronologica ed il constante impegno politico della musica del Sabs, ipotizzare uno stretto collegamento tra le due cose non sembra un grosso azzardo. La line-up del gruppo rimane ufficialmente invariata, ma dopo le pesanti suggestioni progressive di “Vol. 4”, Iommi decide, palesando sempre più il proprio ruolo di leader non dichiarato del quartetto di Aston, di chiamare come collaboratore il prodigioso tastierista Rick Wakeman, un vero e proprio monumento del rock progressivo mondiale, all’epoca dell’album militante negli Yes ma anche già impegnato nella propria fruttuosa carriera solista (proprio di quegli anni sono due suoi album stratosferici, “Journey to the Centre of the Earth” e “The Six Wives of Henry VIII”). Con Wakeman alle tastiere, Iommi può dedicarsi solo alla chitarra ed il suono del gruppo si arricchisce, si complica, diventa più marcatamente progressive, un ulteriore spostamento rispetto all’album precedente, che già vedeva diminuite le istanze heavy e doom dei primi tre dischi. Tuttavia entra anche una carica di commerciale, quasi di pop, che rende buona parte dei pezzi orecchiabili anche ad un pubblico non strettamente legato al mondo dell’hard rock (cosa che molti fan non perdoneranno). Wakeman, nonostante il successo di “Sabbath Bloody Sabbath” e la prestazione ottima offerta in fase di registrazione (in seguito diventerà grande amico personale della band), non sarà presente sul disco successivo, “Sabotage”, a riprova che i fragili equilibri personali tra Iommi, Ward, Butler e Osbourne (ormai più “Ozzy” che “Osbourne”) negli anni tra il ’73 e il ’75 hanno sempre meno supporti su cui poggiare, e da lì a poco si vedranno i segni tangibili della crisi. Ma torniamo al 1973 ed a “Sabbath Bloody Sabbath”. Il consumo di cocaina del quartetto si intensifica notevolmente con il quarto album ed, appunto, il quinto. Secondo le parole stesse di Ozzy, in quel periodo la cocaina è la droga delle rockstar, perché le classi medie e povere non se la possono permettere, al contrario di erba ed allucinogeni vari, quindi diventa ovvio come sia molto figo nei primi Anni Settanta, potersi permettere l’abuso di “neve”, spesso in situazioni che numerosi film sulla mafia americana ci hanno dipinto come leggendarie: le star stravaccate su un divano in un lussuoso hotel durante il tour, un uomo vestito con abiti eleganti e dispendiosi, occhiali neri ben calcati sul viso, entra dalla porta con una ventiquattr’ore piena di roba. Il resto, come si suole dire, è storia. Il grande consumatore di droga tra i quattro è proprio Ozzy, che per sua stessa ammissione lo fa più che altro per sfuggire all’incubo che lui e gli altri tre Sabs hanno sempre avuto: quello di doversi abbrutire in catena di montaggio o in lavori massacranti per tutta la vita nello squallore di Aston, una terra devastata dalla guerra che nella loro adolescenza offriva prospettive pressoché nulle a qualunque giovane di belle speranze. Appare quindi molto più comprensibile come la vita della band sia ormai diventata sregolata e libertina; certo, Ozzy è la felicità di ogni spacciatore, ma Iommi e Butler sicuramente non sono dei santi. Quest’ultimo comincia anche a soffrire di depressione, ma se ne accorgerà solo molti anni più tardi. Il vero problema è l’alcolismo incipiente di Bill Ward, che non si limita più a bevute devastanti ma cerca riparo da ogni difficoltà nella bottiglia. Anni dopo, con la separazione tra Ozzy e i Sabbath, la questione diventerà ancora più spinosa. Senza catastrofismi, penso si possa dire che “Sabbath Bloody Sabbath” è l’ultimo vero grande album della prima formazione dei Sabbath, la fotografia del loro periodo migliore, forse non “il meglio” tra i primi cinque dischi, ma di certo una rappresentazione fedele della loro creatività dei tempi d’oro, ma i problemi personali cominciano a farsi sentire e la musica non è quello che conta di più. Stremati dal frenetico andirivieni dei tre dischi precedenti, un leitmotiv che recita vagamente “registra il disco – tour – componi il disco nuovo”, i quattro sono sempre più disuniti, e pure il rapporto con i loro agenti Meehan e Pine (cani sciolti fuoriusciti addirittura dalla scuderia del leggendario Don Arden, che sono riusciti dopo “Master of Reality” a far licenziare dai Sabbath il loro primo e fedele manager, Jim Simpson) comincia a deteriorarsi, perché Meehan ha a cuore il denaro e la fama più che la musica del gruppo. Non bastasse ciò, la piccola crisi creativa attraversata da Iommi e soci convince la band a spostarsi dagli States, in cui dovrebbe registrare “Sabbath Bloody Sabbath”, di nuovo nella cara vecchia Inghilterra, per tornare al primo studio di registrazione, quello in cui sono nati “Black Sabbath” e “Paranoid”, ma questo è momentaneamente occupato dai Free, quindi i quattro si spostano in Galles, in un vecchio castello nei pressi di Clearwell. Un castello infestato da uno spettro, a quanto pare (lo vedono tutti mentre stanno provando alcuni riff, Iommi e un roadie addirittura gli corrono dietro)… Le jam session a Clearwell ristabiliscono una momentanea serenità all’interno del quartetto, e “Sabbath Bloody Sabbath” rimane nelle parole di Butler il disco della rinascita dopo gli stress, le incomprensioni e le crisi. C’è da notare che i tempi di registrazione si allungano notevolmente con “Vol. 4” e “Sabbath Bloody Sabbath”: per i primi tre dischi sono sufficienti una manciata di giorni o addirittura di ore (il primo album viene registrato in un pomeriggio), mentre per il quarto e il quinto sono necessarie alcune settimane. Iommi è sempre più attirato dalle possibilità offerte dalla tecnologia dei nuovi studi di registrazione, dagli effetti chitarristici, dalle sconfinate prospettive che l’elettronica musicale offre a chi scrive e suona, e questo è uno dei principali motivi per cui le sessioni di produzione degli album si fanno via via più durature. Ciò è da tenere bene a mente, perché uno dei motivi di scontro fra Iommi e Ozzy negli anni successivi sarà anche questo. L’album inizia con la canzone che gli attribuisce il titolo: “Sabbath Bloody Sabbath” è un pezzo nato proprio nei sotterranei di Clearwell da un’idea di Iommi. Il primo riff non tradisce il consueto spirito dei Sabbath, con una chitarra distorta e potente accompagnata dal solito basso pieno di groove, ma se la strofa poggia su questo riff decisamente heavy, il ritornello presenta una melodia più leggera ed occhieggiante alle classifiche, addirittura sembrando quasi un misto di funk e di Santana direttamente dai Seventies (un momento… Santana?!?!). La voce di Ozzy raggiunge registri superiori alla sua abitudine, elemento che caratterizzerà anche il resto dell’album, candidando il disco “Sabbath Bloody Sabbath” ad essere la miglior performance vocale del Madman in studio durante la sua permanenza nel gruppo. Il testo del pezzo parla di un argomento molto caro ai Sabs’, ovvero la solitudine dell’uomo nel cercare risposte ai grandi e piccoli interrogativi dell’esistenza e, sfortunatamente, agli inganni che certa gente cerca di propugnare agli ingenui riempiendo loro la testa di fandonie. Dopo due strofe e due ritornelli, segue un solo di Iommi retto inizialmente dal giro armonico del riff principale, ma che nel finale assume toni propri, e che nelle ultime due strofe porta proprio ad un riff diverso, dal suono pesantissimo, incalzante, arrabbiato, oggi forse lo definiremmo quasi thrash (!), su cui Ozzy urla sguaiatamente (ma in maniera irresistibile) parole che richiamano all’impossibilità di ottenere certezze, persino per Dio stesso (“Dio conosce quello che conosce il tuo cane”), e quindi alla condizione sventurata dell’uomo condannato ad una specie di inferno in terra. “A National Acrobat” vive su un altro riff magistrale (e come potrebbe essere altrimenti?) del solito Iommi, in cui abbondano le sovraincisioni, e già nella strofa sono presenti due voci in stereo di Ozzy che formano un interessante effetto di coro. Il testo è a dir poco ermetico, una commistione strana di gnosi e magismo (i primi quattro versi), di teoria della reincarnazione e tempo lineare cristiano (quinto e sesto), di panpsichismo (la seconda strofa). Con il cambio di ritmo e l’entrata della chitarra in wah, riprende il tema della reincarnazione, con la linea vocale di Ozzy pesantemente effettata dal delay. Sul secondo riff continuamente caratterizzato dal wah, Iommi si pronuncia in un breve ma incisivo solo, prima della ripresa nell’ultima strofa. Dopo la fine del cantato, un nuovo cambio di tempo porta il pezzo su coordinate quasi scherzose, che forse giustificano il moto “acrobatico” del titolo… Anche qui il chitarrista non perde occasione di sfornare un altro paio di riff potenti ed un elemento di accordi ripetuti che chiuderà spesso molti concerti dell’era-Dio.
“Fluff” è uno dei pezzi meno conosciuti e più sottovalutati scritti da Iommi, ed al contempo a mio parere uno dei suoi grandi capolavori. L’instrumental caratterizzato dalla presenza di steel guitar, pianoforte, mellotron e chitarra crea un’atmosfera irripetibile, suonato anche in maniera decisamente sovrumana, e sembra ricordare una delle tante ninna-nanna che chi ha avuto in casa un carillon meccanico ancora può ricordare. Descriverne lo sviluppo sarebbe un insulto imperdonabile nei confronti della bellezza di un simile pezzo, l’unica cosa da fare è ascoltarla un milione di volte. Il riff iniziale di “Sabbra Cadabra” potrebbe appartenere tranquillamente ad un pezzo dei Deep Purple, ma il suono è decisamente di marca Black Sabbath! La canzone strizza indubbiamente l’occhio alle classifiche, ma ciò non ne mina assolutamente la grande qualità. Ozzy si pronuncia tre volte in un acuto che considerate le sue capacità vocali “nella media” desta non pochi stupori, urlando un testo a proposito dell’eterno amore per una donna che probabilmente ha una forte carica ironica. In quel periodo Geezer frequenta una ragazza e scrive questa canzone, le cui parole altro non sono che una rielaborazione “artistica” di Ozzy di ciò che la band sente quotidianamente nello studio di registrazione, utilizzato anche per il doppiaggio dei film pornografici provenienti dalla Germania. Già il fatto che il protagonista giuri eterno amore ad una ragazza solo perché i rapporti con lei durano a lungo e perché lei non lo tratta mai male fa capire il tono sardonico delle liriche… Dopo una prima parte veloce e catchy, il riff cambia e il tempo rallenta, lasciando spazio alle tastiere di Wakeman, soprattutto al pianoforte, e ad un stile quasi funk da parte di Iommi (il funk impera in questo disco). Il quinto pezzo dell’album è “Killing Yourself To Live”, oscillante tra blues, rock’n’roll, che tratta del paradosso da sempre insito nella vita, ovvero della sua propria componente sofferente. Vivere è anche morire, per vivere bisogna anche morire un po’ alla volta, nelle quotidiane sconfitte che ogni persona affronta, nell’abbrutimento industriale che il quartetto di Aston ha cercato di scansare proprio dedicandosi alla musica. Il pezzo presenta diversi stacchi di tempo, alcuni più lenti, altri veloci, ma sempre mantenendo il ritmo abbastanza incalzante. La voce di Ozzy trapassa i riff in maniera sublime, come forse mai ha fatto nei dischi precedenti, dando prova del fatto che nonostante la distanza personale aumenti progressivamente tra i componenti del gruppo, quella musicale non sia cambiata di molto. “Who Are You?” è un brano molto particolare dominato dalla presenza tastieristica di Wakeman, che ai sintetizzatori offre una grande prova traducendo in un suono alieno e post-apocalittico il riffing di Iommi. Anche lo strano assolo centrale è sempre opera dei sintetizzatori, rendendo “Who Are You?” uno dei pezzi più particolari ed inediti dei Sabbath nei primi cinque dischi. Il testo parla di un’ipotetica divinità venerata dall’uomo, che il protagonista ha “smascherato” individuandone la personalità crudele e superficiale. Resta da vedere, ovviamente “chi sia” questo essere superiore… Anche “Looking For Today” potrebbe tranquillamente, almeno per quanto riguarda il riff e l’intelaiatura principale attorno cui si snoda la canzone, stare in un album dei Purple, ma la voce di Ozzy è inconfondibile, anche se bisogna dire che il suono della chitarra di Iommi appare un po’ meno caratteristico e riconoscibile rispetto al solito, e stesso discorso vale per il basso di Butler. Ward, invece, addirittura in certi punti potrebbe assomigliare molto a Ian Paice, per l’appunto batterista dei Purple di quegli anni, soprattutto per quanto riguarda il rullante. Wakeman, similmente ad Ozzy, elabora una sonorità che è dichiaratamente sua, forse un po’ parente dei King Crimson ma fondamentalmente propria. Il testo parla dell’annoso rapporto tra essere umano e tempo: a cosa deve guardare principalmente l’individuo, al passato, al presente (l’oggi) o al futuro? La problematica è tutt’altro che semplice, perché coinvolge l’atteggiamento di base che la cultura deve tenere, ed i Sabs’ criticano quello che si rivolge solo al presente senza tenere conto delle altre due dimensioni temporali. L’ultimo brano si intitola “Spiral Architect”, una complessa filippica contro la modernità e soprattutto contro il suo carattere ultramediatico, destinato ad imporre all’uomo il modo di pensare “giusto” piuttosto che svilupparne le potenzialità individuo per individuo. Anche in questa canzone si susseguono vari cambi di tempo, con due riff principali che ricorrono e si rincorrono, presentando un carattere abbastanza “leggero” se paragonati alla potenza di pezzi come “Paranoid”, “Iron Man”, “Black Sabbath”, “Children of the Grave” e così via. D’altronde l’introduzione delle tastiere di Wakeman sposta il contesto sonoro della produzione Sabbath verso coordinate più progressive rock, persino più pop considerando gli anni. Non a caso “Sabbath Bloody Sabbath” è un successo di vendite, e sempre non a caso molti fan storcono un po’ il naso nel sentire il nuovo lavoro dei loro beniamini. In conclusione, questo è forse l’album meno “potente”, meno “efficace” tra i primi cinque targati Sabba Nero, ma è anche quello che porta a compimento un percorso musicale cominciato quattro anni prima, un percorso indubbiamente assai tortuoso sfociato imprevedibilmente in un addolcimento delle sonorità primitive (in generale la storia del metal è andata nella direzione opposta) ed in un’attenzione meno politica (ricordate i testi dei primi due dischi?) e più introspettiva ed esistenziale: “Sabbath Bloody Sabbath” parla quasi esclusivamente del rapporto uomo-mondo, principalmente da un punto di vista cognitivo. Dal punto di vista musicale, abbiamo già notato la performance di Ozzy superiore alle precedenti, nonostante l’enorme assunzione di droga, o forse proprio in virtù di essa; la crescente complessità delle strutture, visti i numerosi cambi di tempo e riff (quindi l’introduzione di aspetti ancora più progressive rispetto a “Vol. 4”. Anzi diciamo che se “Vol. 4” è progressive dal punto di vista della ricerca timbrica, “Sabbath Bloody Sabbath” lo è riguardo all’introduzione di sintetizzatori e di strutture formali tipiche di questo genere); l’uso sempre più abbondante di sovraincisioni, effetti tecnologici e meraviglie elettroniche da parte del “capoccia” Iommi, a suo totale agio nello sperimentare ogni tipo di sonorità inedita consentitagli dai prodigi della tecnica; la ritrovata verve di gruppo, aiutata forse anche dalla grande amicizia stretta tra Wakeman e il resto della band. In definitiva, un disco passato forse molto volte sottotono rispetto ai predecessori, a causa probabilmente della difficoltà nell’ascolto della seconda metà e nel carattere spensierato (almeno musicalmente) e gioviale della prima. Una specie di pietra minore dello scandalo per molti fans dei Sabbath, che però ancora non si aspettano il tracollo prossimo a venire da lì al 1979..
1) Sabbath Bloody Sabbath
2) A National Acrobat
3) Fluff
4) Sabbra Cadabra
5) Killing Yourself To Live
6) Who Are You?
7) Looking For Today
8) Spiral Architect