BLACK SABBATH

Never Say Die!

1978 - Vertigo/Warner Bros

A CURA DI
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
03/07/2011
TEMPO DI LETTURA:
5

Recensione

Il periodo che intercorre tra il 1976, anno di "Technical Ecstasy", ed il 1979 porta nei Black Sabbath un gran numero di novità. Innanzitutto, Ozzy Osbourne è suo malgrado costretto ad affrontare la malattia del padre Jack, cui viene diagnosticato un cancro nell’autunno del 1977. Apparentemente un evento tanto tragico ma separato dalla carriera della band potrebbe al più rientrare nell’aneddotica sui Sabbath, invece riveste nel concreto un ruolo fondamentale nel determinare gli avvenimenti di questo periodo: lacerato dal dolore per l’agonia del genitore (che muore il 20 gennaio 1978), Ozzy decide di lasciare la band, e viene temporaneamente rimpiazzato con Dave Walker, che sia a livello vocale sia nel look e nella presenza scenica è totalmente agli antipodi rispetto al predecessore. Vengono scritti alcuni brani insieme al nuovo frontman, anche se un po’ tutti sentono la mancanza di Ozzy. Non a livello di relazione, beninteso: Walker si dimostra una persona splendida e disponibile, almeno così lo ricordano tutt’ora gli altri membri della band. Sul piano lavorativo, tuttavia, non si crea una grande alchimia, ed i pezzi di nuova scrittura non sembrano convincere molto il quartetto. Le stesse doti di Walker non sono mai messe in discussione, semplicemente lo stile suo e quello dei Sabbath fanno molta fatica a trovare un punto di contatto. Non bastasse la difficile integrazione del nuovo cantante (arrivato insieme al tastierista Don Airey, preso come turnista al posto del precedente Gerald Woodruffe), ognuno dei musicisti affonda sempre di più nei propri problemi personali. Geezer tende a diventare violento ed incontrollabile (durante il tour del ’77 con gli AC/DC arriva ad una rissa con Angus Young), Bill Ward annega il dispiacere per la partenza di Ozzy nella bottiglia, Iommi è l’unico che tenta di tenere insieme la baracca e forse solo grazie a lui i Sabbath passano sotto le forche caudine dell’autunno ’77. A fine gennaio, pochi giorni dopo la morte del padre, Ozzy chiede di essere riammesso nel gruppo e viene accontentato. I primi tempi di nuovo insieme sembrano essere la trasposizione reale di un film Disney: buoni sentimenti, amicizia, vicinanza interiore e fisica tra i componenti, ma ovviamente i problemi non si cancellano da soli, e lavorano sotto traccia nell’attesa di esplodere ancora.

Uno dei problemi evidenti è il rifiuto di Ozzy di cantare qualunque cosa scritta dalla band insieme a Walker. Per di più, il maggiore autore dei testi, Geezer, si sente frustrato da questo atteggiamento infantile che lo costringe a riscrivere quasi sempre i pezzi daccapo per colpa delle bizze del frontman. Il clima funesto, minato da tutta una serie di incomprensioni e sguardi obliqui (Ozzy racconterà anche di una presunta cotta di Iommi verso Sharon Arden, fidanzata e poi moglie di Ozzy, su cui lo stesso Iommi non ha mai dato conferme o smentite), non aiuta certo a produrre materiale di qualità, e lo stesso chitarrista, principale compositore dei brani, si trova più spesso impegnato a mantenere coesa la ciurma piuttosto che a trovare spunti interessanti per le canzoni. Ne viene fuori un album banale, abbastanza scontato e tutto sommato negletto un po’ da tutti i componenti del gruppo, soprattutto ad anni ed anni di distanza. Il tour promozionale, che vede l’emergente gruppo dei Van Halen malauguratamente scelto come spalla ai Sabbath, contribuisce non poco ad affossare quel po’ di autostima rimasta nel quartetto: gli show dei Van Halen, pirotecnici sia per quanto riguarda le capacità tecniche sia in merito alla resa scenica, surclassano quelli dei Black Sabbath. David Lee Roth, frontman del gruppo americano, ha atteggiamenti da vera superstar glam, estremamente mobile e vulcanico, per non parlare di una voce portentosa (due caratteristiche che Ozzy, diciamolo, non ha mai avuto), mentre il chitarrista Eddie Van Halen, con la sua nuova tecnica che trascende i limiti finora imposti dallo strumento, impressiona molto di più di tutti i grandi axemen della scena perfino di Iommi; le tecniche di nuova concezione nel rock, soprattutto il tapping ereditato dal jazz e dal blues, vengono spinte a velocità supersonica, e pongono le basi della generazione di chitarristi shredder emersi tra la fine del decennio e l’inizio del successivo: Van Halen stesso, Randy Rhoads, Vivian Campbell, Yngwie Malmsteen sono solo alcuni nomi eccellenti di una generazione di maestri della sei corde influente almeno quanto quella precedente, i cui eroi sono Blackmore, Page e Iommi stesso. Di fronte alle magiche evoluzioni di Eddie Van Halen, anche un guitar hero come il chitarrista dei Sabbath sembra anni luce indietro. Non bastasse l’arrivo di giovani e rampanti leoni del rock, Ozzy diventa compagno di scorribande notturne di Roth, dedicandosi (insieme a Bill Ward) sempre più ad alcol e cocaina. Geezer e Iommi, pur moderandosi, non sono estranei a condotte analoghe. Il rito del tour dopo l’album comincia ormai a stancare tutti i componenti del gruppo, e la situazione ripiomba in un clima di tensione. Alla fine, nel 1979, Ozzy prende la decisione di andarsene dai Black Sabbath, un po’ per i molteplici motivi personali, un po’ per la scarsissima qualità del materiale più recente (qualità che, pur non volendo ammetterlo, ha per primo contribuito ad affossare). Non è tutt’oggi chiaro dove stia la verità, se sia Ozzy ad abbandonare o la band a cacciarlo, fatto sta che la separazione tra il cantante ed il resto dei Sabs’ prende forma alla fine del tour.

Riguardo all’album, edito sempre da Vertigo, la produzione in generale non lascia affatto a desiderare, così come il modo in cui i brani vengono eseguiti. Quello che manca sono le idee, le geniali trovate di riff come "Paranoid" o "Sabbath Bloody Sabbath", lo spirito sulfureo degli anni migliori. Opener del disco è "Never Say Die!", è una canzone in un grottesco stile rockabilly con la chitarra leggermente più indietro rispetto agli altri strumenti, diversamente da quanto si può ascoltare negli album precedenti. Un solo non particolarmente ispirato di Iommi e testi abbastanza banali completano il quadro di una title track piuttosto desolante. Non va molto meglio con la canzone successiva, "Johnny Blade", narrazione delle gesta errabonde di un reietto criminale della società, in cui colpisce la staticità del drumming di Bill Ward, sorprendente perché negli album precedenti ha sciorinato ben altro talento; anche il riff portante non sembra particolarmente pensato, e lascia l’impressione di essere lì solo perché non si trovava di meglio. Persino il solo chitarristico di Iommi in coda, una volta accolto come una benedizione, non lascia evidenti tracce.

"Junior’s Eyes" è dedicata allo scomparso padre di Ozzy ed al rapporto col figlio (nasce comunque dalla rielaborazione di un brano scritto dai tre Sabbath originali insieme a Walker per omaggiare Ozzy). Il testo non sarebbe neanche male, ma il riff è decisamente noioso, e solo un intermezzo in cui emergono le tastiere di un già grande Don Airey ravviva un po’ la situazione, così come il buon solo di chitarra con largo uso del wah (che invece nel riff è all’inizio interessante ma alla lunga un po’ fastidioso). "A Hard Road" vanta un testo tra i peggiori scritti dai Sabbath dei primi dieci anni, nonché una pallida imitazione del nascente stile AOR nato da pochissimo tempo. Il suono Sabbath mal si coniuga con musica di questo stampo… Sono presenti anche richiami al rock degli Anni Sessanta, e gli stessi Geezer e Iommi prestano la voce per i cori di questo pezzo. "Shock Wave" comincia con una chitarra distortissima, ed un riff che fa ben sperare verso il ritorno al sound delle origini, ma ancora una volta nelle liriche ci si aspetta qualcosa di più dalla band che ha sfornato "Black Sabbath" e "Master of Reality"… Di buono si può riconoscere la struttura relativamente semplice ma efficace del pezzo, con un solo rabbioso di Iommi al centro della canzone.

"Air Dance" torna nuovamente su un versante quasi pop, in linea con gruppi come Journey e Foreigner (senza dimenticare un tocco di Vangelis qui e là) che spopolano proprio alla fine degli Anni Settanta. Sia il testo che l’attitudine musicale virano verso una direzione hard rock americano. Spuntano perfino, in un intermezzo, un sassofono e un suono simile a quello di una marimba, corredati da un basso ed un guitar-sound tipicamente jazz, a ricordare la provenienza musicale del quartetto di Aston. Paradossalmente, una ventata di aria fresca in un disco puzzolente di muffa. La brusca accelerazione, sempre in chiave jazzistica, che porta alla fine del pezzo non lascia per nulla desiderare, è senza dubbio uno dei punti migliori del disco. Il riff metallico e minaccioso di "Over To You" sembra un riuscito connubio tra il suono rozzo dei primi Sabs’ e la produzione più heavy di un gruppo in forte ascesa, i Judas Priest. Gli arrangiamenti pianistici di Airey però, pur essendo molto graziosi e ben pensati, tolgono spigoli alla pietra grezza che poteva essere potenzialmente questa canzone. Un testo "impegnato" e nemmeno troppo banale contribuisce a mantenere almeno decente il livello del brano, in cui però non c’è l’ombra di uno stacco, di una variazione, di un intermezzo, di un solo non diciamo vulcanico ma almeno un po’ carburato: insomma, calma piatta. Un treno mestamente in movimento a velocità non proprio folle più adatto a funerale piuttosto che ad un sabba.

La strumentale "Breakout" non vede l’apporto della voce di Ozzy in quanto composta nel breve periodo di lavoro con Dave Walker. Suoni da big band aprono il pezzo, seguiti a breve distanza da un virtuoso solo di saxofono. Sì, avete letto bene: big band e saxofono. No no, non scherzo: big band e saxofono. Ora, nessun pregiudizio né verso la big band in sé né verso il magnifico strumento che è il saxofono, ma una big band e un saxofono (sì, esatto, sempre loro, non sono spariti, sono lì, non li state sognando) invero su un disco dei Sabbath, perlomeno su "questo" disco dei Sabbath sono davvero troppo. Per favore. Per "Swingin’ The Chain" vale lo stesso discorso del brano precedente: niente Ozzy, perché lui si rifiuta di cantare roba scritta insieme a Walker; no problema, ci pensa Bill Ward a salvare capra e cavoli, cantando su un solido riff che sembra uscito più da uno show dei Blues Brothers che da un disco dei Sabbath (eh sì, state ascoltando un disco dei Sabbath). Rispetto al lavoro già fatto sull’album precedente, nella traccia "She’s Gone", non si può più di tanto apprezzare la voce di Bill, a volte un po’ sguaiata, altre lanciata in gridolini di dubbio gusto, per non parlare della monotonia della canzone.

Che valutazione si può dare a "Never Say Die"? Ascoltandolo si capisce che è un album dei Black Sabbath, ma allo stesso tempo ci si chiede come possa esserlo. Il discorso è già stato fatto: ottimi musicisti, buona produzione, idee poche. Molto poche. Di sicuro è la direzione musicale che cambia nettamente, accostandosi a sonorità decisamente più pop e ruffianando anche i vecchi affezionati del blues e del jazz da cui il quartetto di Aston ha mosso i passi alla fine dei Sessanta. Certo, non bisognerebbe penalizzare gli artisti che, nel bene o nel male, tentano una svolta nella loro carriera, ma un conto è cambiare direzione, un conto è prenderne una a caso. Non c’è una sola strada, ma non tutte le strade vanno bene insomma. Si aggiunge, o forse ne è concausa, alla mancanza di idee anche il clima irrespirabile all’interno del gruppo, sia per l’alito da alcolista di Ward, sia per il continuo uso di droghe di Ozzy, sia per la serietà e determinazione quasi "insensibili" di Iommi, che per il patetico trascinarsi di Geezer da un pub all’altro. Nonostante il rispetto dovuto alla band, il disco è nettamente insufficiente, considerando le meraviglie che i quattro hanno saputo tirare fuori negli anni precedenti. Ozzy se ne va, la formazione "classica" (e la più duratura di gran lunga, perlomeno contando anni consecutivi) dei Sabbath si sfalda e più che un canto del cigno lancia il rantolo del licantropo. Ozzy comincerà, sotto la materna ala della futura moglie Sharon Arden (entrata proprio a causa di Ozzy in conflitto col padre Don, manager del gruppo), la propria incredibile carriera solista dopo aver sguazzato per un po’ nel proprio vomito, gli altri tre componenti recluteranno il frontman dei Rainbow di Ritchie Blackmore, andatosene nel 1978 dalla band proprio per litigi con l’eccentrico chitarrista. Il nome di questo cantante è Ronald James Padavona. Dio.


1) Never Say Die!
2) Johnny Blade
3) Junior’s Eyes
4) A Hard Road
5) Shock Wave
6) Air Dance
7) Over To You
8) Breakout
9) Swingin’ The Chain