BLACK SABBATH

Master Of Reality

1971 - Warner Bros.

A CURA DI
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
16/02/2011
TEMPO DI LETTURA:
9

Recensione

Il terzo disco dei BLACK SABBATH è meno conosciuto dei suoi predecessori, probabilmente perché ha meno scioccato, in ambito di liriche e innovazione musicale, rispetto a un “Black Sabbath” o ad un “Paranoid”. Ciò non toglie che anche il terzo album faccia di diritto parte dell’”età dorata” del quartetto britannico, insieme ovviamente ai due album che seguiranno, formando un’infilata di cinque dischi davvero stratosferici e seminali, essenziali per comprendere buona parte dell’evoluzione dell’heavy metal moderno (dagli Ottanta in poi). In più, è vero che “Master of Reality” riscosse un successo strepitoso, arrivando addirittura nella top ten inglese (bei tempi quelli), e vincendo cinque dischi di platino tra USA e Gran Bretagna. Curiosamente, per la prima volta il gruppo scorda gli strumenti, arrivando a raggiungere addirittura l’accordatura in do# (normalmente la chitarra ed il basso sono accordati in mi, quindi una terza minore sopra l’accordatura utilizzata in “Master of Reality”). Una simile decisione, come si apprende dalla mirabolante Wikipedia, consente ad Ozzy di strillare in un registro a lui più congeniale, ma soprattutto caratterizza con un alone oscuro e sinistro tutta l’atmosfera del disco, in cui sono particolarmente presenti gli elementi musicali “occulti” con la quarta eccedente, accordo diabolico per antonomasia (Diabolus in Musica). I chitarristi ed i bassisti sicuramente lo sapranno già, ma a vantaggio di tutti gli altri facciamo presente che più si accordano gli strumenti in basso (quindi in “grave”) più la sonorità diventa cupa e chiusa, e ciò sta alla base di buona parte del sound metal moderno, soprattutto nell’ambito core, in quello heavy e nel doom/death.

Per alcuni, il masterpiece in questione è l’evento fondante del genere doom musicalmente parlando, in quanto nell’album sono presenti numerosi momenti caratterizzati da riff incessantemente ripetuti ed addirittura ossessivi, talvolta molto lenti, cadenzati e con sonorità pesanti. Rispetto a “Paranoid” gli strumenti acustici (in primis la chitarra di Iommi) trovano maggior spazio, e contribuiscono all’altmosfera dark e lugubre dell’album. Le liriche trattano principalmente del mondo giovanile dell’epoca, dividendosi tra il consumo i droghe descritto in “Sweet Leaf”, l’autointrospezione religiosa di “After Forever” e l’antimilitarismo dell’arcinota “Children of the Grave”.

Il brano di apertura dell’album è “Sweet Leaf”, aperto dai colpi di tosse di Iommi e concernente l’uso (e l’abuso, nel caso di Osbourne) di sostanze stupefacenti, molto in voga nella gioventù del periodo. La voce del frontman, stridula e nasale come al solito, accompagna lungo il pezzo che come già detto presenta caratteristiche sinistre nell’architettura musicale. La seconda canzone è la pregevole “After Forever”, in cui ci si interroga sull’esistenza di Dio in un ipotetico momento finale della vita, ponendosi l’eterno problema di cosa ci sia dietro il velo di porpora, se il nulla o un’esistenza di chissà quale fatta e all’insegna di chissà quale regola. Dal testo si evince come nel mondo giovanile frequentato dai quattro Sabs non fosse comune la fede cristiana (“Could it be you're afraid of what your friends might say If they knew you believe in God above?”), segno che si stava fortemente uscendo dalla cultura anni Cinquanta e Sessanta improntata sulla fede, per approdare in situazioni più incerte ma anche più oneste, caratterizzate dallo smarrimento esistenziale proprio della generazione, appunto, degli anni Settanta e Ottanta. Inoltre, spesso e volentieri i Sabbath sono stati tacciati di satanismo, nonostante nominino molte più volte l’amore rispetto a Satana (menzionato direttamente solo in tre canzoni dei primi cinque album), e si inseriscano così in una corrente ben più complessa di quella puramente satanista, proponendo anzi un accostamento alla cultura hippie che rifiuta la guerra (del Vietnam soprattutto), a quella beat che ricorre alle droghe, alle domandi sulla vita tipiche dell’esistenzialismo. Il terzo, impressionante pezzo di questo album è “Children of the Grave”, una canzone rimasta nella storia e divisa in tre parti, un’intro (“Embryo”), la canzone vera e propria e un outro (“Orchid”). Sia l’intro che l’outro sono strumentali ed eseguiti pregevolmente da Iommi con la chitarra acustica. “Children of the Grave” è un pezzo strepitoso, aperto con una cavalcata di basso che sfocia poi in un riff rimasto celeberrimo. Il testo parla del pericolo di guerra atomica ed esorta la generazione giovane a ribellarsi contro la guerra incessante, se non vogliono appunto essere spazzati via dalla follia dei politicanti dal missile facile e diventare quindi effettivamente “figli della tomba”. Il pezzo tra l’altro reca un solo di Iommi a mio avviso tra i migliori del suo repertorio negli anni con Osbourne al microfono. Successiva ad “Orchid”, la quale funge sia da outro di “Children of the Grave” che da intro del pezzo successivo, è “Lord of This World”: il riff sulfureo e demoniaco ben accompagna il testo che descrive come l’essere umano, creato da un dio votato al bene ed all’amore, si rivolga invece al Maligno (il signore di questo mondo) in tutta la sua cupidigia e bramosia, fingendo l’innocenza che invece dimostra di non possedere. Ironicamente, gli ultimi versi finali interrogano l’ascoltatore chiedendogli se anche al momento della morte, così come in vita, sarà al Male che vorrà rivolgersi, in prospettiva di un’esistenza nell’oltretomba. Dal punto di vista musicale, non si può per l’appunto evidenziare il riff ossessivo, ma anche le volute e sapienti divagazioni strumentali, come quella al centro e quella alla fine della canzone, che dimostrano la fantasia strumentale di Iommi, Butler e Ward. “Solitude” può vantare un testo a mio avviso tra i più belli degli anni Settanta nella discografia dei Sabs; è una vera e propria canzone d’amore, un amore ovviamente sofferto e caratterizzato dalla mancanza, un brano che i Pink Floyd immagino avranno ascoltato per ore, data la somiglianza del loro sound in alcuni loro pezzi famosi con quello di questa canzone. Il tempo lento e l’armonia ricordano come il background dei Sabbath sia essenzialmente blues, almeno nei primi tre album, e l’intervento del flauto, di percussioni e di alcune parentesi solistiche molto brevi della chitarra contribuiscono a rendere ancora di più l’effetto malinconico. La finale “Into the Void”, inizialmente cadenzata e mid-tempo, si evolve in una furiosa cavalcata che ricomincia poi ad alternarsi al riff iniziale. Il testo, bellissimo a mio avviso, tratta di uno sparuto manipolo di eletti, guerrieri per la libertà che in un futuro apocalittico e post-atomico lasciano il pianeta Terra, sconvolto dalle esplosioni nucleari ed ormai in mano al Male, per fondare una nuova civiltà su astri lontani, una civiltà ovviamente basata sull’amore. “Master of Reality”, come dice anche il titolo, è un disco dalle tematiche profondamente legate alla realtà contemporanea, sia ai problemi del quotidiano sia alle grandi interrogazioni esistenziali. Un album che ovviamente lancia ancora di più i Sabbath nell’universo del heavy rock, con già le prime forti avvisaglie di quello che sarà il loro sound negli Anni Ottanta (soprattutto del periodo con Dio, tanto è vero che per motivi contrattuali ma non solo, Dio nei primi anni coi Sabs canta anche “Children of the Grave”). Forse da riascoltare più volte prima di giungere ad un completo apprezzamento, ma di sicuro un album imprescindibile per chi volesse conoscere per bene il quartetto di Birmingham.


1) Sweet Leaf
2) After Forever
3) Embryo
4) Children of the Grave
5) Orchid
6) Lord of This World
7) Solitude
8) Into the Void

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