BLACK SABBATH
Headless Cross
1989 - IRS
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
01/09/2012
Recensione
Sono passati due anni dal ritorno sulle scene dei Black Sabbath "di marca", con il neo-acquisto Tony Martin al microfono e l'uscita di Eternal Idol, accolto in maniera piuttosto fredda da pubblico e critica nonostante la buona prova del nuovo cantante. La scarsa pubblicizzazione e promozione dell'album convince Iommi e soci a terminare il contratto che lega la band alla storica Vertigo Records, etichetta presente nella Sabbath-saga fin dagli albori, per accasarsi con la IRS, label dedita ad un panorama piuttosto variegato e generalista. A questo punto però si presenta il problema di rinnovare l'immagine del gruppo dopo il tonfo discografico, e di trovare nuove idee compositive che possano nuovamente convincere i fans. Per farlo vengono reclutati Laurence Cottle al basso, un turnista di valente esperienza che ha suonato con Brian Eno, Eric Clapton e una serie di altri musicisti di primo piano, e Cozy Powell (al secolo Colin Flooks) alla batteria, artista capace di entrare in formazioni con Greg Lake e Keith Emerson (Emerson, Lake & Powell), Rainbow, Jeff Beck, Michael Schenker e Whitesnake, insomma un drummer con un curriculum stellare. Insieme a Ian Paice, John Bonham e Carl Palmer, è uno dei super-drummer di matrice britannica, sempre senza dimenticare lo stile particolare di Bill Ward. A proposito di Cottle, viene subito messo in chiaro che il suo impegno sarà limitato alle registrazioni del nuovo disco, per poi lasciare il posto durante il tour a qualcun altro: Geezer Butler è la scelta più logica, il re che riprende il trono su cui per un certo periodo si sono susseguiti i reggenti, ma con grande sorpresa proprio Geezer si unirà alla band di Ozzy Osbourne per il tour di No Rest For The Wicked. Sarà allora Neil Murray, già nei Whitesnake e nella band dell'axeman Gary Moore, a ricoprire per l'ennesima volta il ruolo di "session man nei Black Sabbath", ormai simili a un album di figurine più che ad una formazione stabile. A livello di produzione, si opta per un album (prodotto da Sean Lynch) completamente in linea con lo stile degli Anni Ottanta che volgono al termine: chitarre brillanti, basso piuttosto ripetitivo, batteria regolare e sonoramente riverberata. L'identità peculiare dei Sabbath, mutevole ma sempre presente fino a Born Again, giunge al finale annullamento in virtù di un allineamento allo stile imperante soprattutto nell'hair metal, uno dei generi più in voga, se non in assoluto il dominatore, del metal contemporaneo. I testi, sono scritti, questa volta, da Tony Martin, che rileva Iommi dell'onere e tenta di sostituire il genio creativo di Butler.
L'inizio del disco è segnato dall'intro strumentale "The Gates Of Hell", un brano atmosferico in cui il bending dei sintetizzatori la fa da padrone, ancora ua volta conferendo a Geoff Nicholls l'incarico di araldo del quintetto. La title track "Headless Cross", di cui viene anche girato un video, è un possente mid-tempo che fa notare subito la differenza dalla produzione precedente: i Black Sabbath, a quanto pare, sono tornati rabbiosi e diabolici. Proprio di Sua Maestà il diavolo tratta il testo, che dipinge il ritratto di un piccolo paesino a Nord di Birmingham, appunto Headless Cross, di cui sembra che gli abitanti, in tempi oscuri (nel Medioevo) avessero stretto un patto col Demonio per salvarli da una pestilenza. Scappati su una collina dopo che il patto era fallito, furono falcidiati dalla potenza del Maligno. Il brano si snoda con grande particolarità prima su una modalità di Do diesis misolidio, per poi approdare a un potente Do eolio (l'eolio è il modo principalmente usato dai Sabbath soprattutto dopo i primi album, ed è una delle pietre angolari dell'heavy classico). Il ritornello, armonizzato nella voce di Martin, è veramente coinvolgente e rimane impresso, senza contare che il cantante sfodera una prestazione a dir poco brillante ed intensa. Anche lo special di sintetizzatori è particolarmente efficace, e contribuisce a non rendere noiosa all'ascolto la lunga durata del pezzo. Non ci si inganni, però: il pezzo è solidamente costruito su strutture pressoché omoritmiche, su abbondanza di power chords e su funzioni armoniche molto standard per il metal dell'epoca. Un chiaro segno di adeguamento ai tempi, dunque, senza che questo infici l'efficacia del combo inglese, quanto piuttosto limitandone l'originalità. "Devil And Daughter" si basa su un riff facilmente memorizzabile e dalla chiara spinta ottantiana: anche le melodie vocali di Martin ricalcano complessivamente un atteggiamento piuttosto omologato e standard, ma il pezzo in sé è trascinante e soprattutto il frontman lo interpreta in maniera drammatica, da vero istrione. Il solo di Iommi si inserisce sul binario della solita pentatonica, salvo poi evolversi in un intreccio di dialoghi virtuosi tra sei corde e tastiere per poi tornare ai consueti riff che supportano la voce di Martin. Il testo parla ovviamente della figlia del Diavolo, dai poteri paragonabili a quelli del padre ed occupata per la maggior parte del tempo a causare la dannazione eterna dei mortali. "When Death Calls" vede la partecipazione straordinaria di Brian May, chitarrista della band inglese Queen (famosa nel melodic rock quanto i Black Sabbath lo sono nell'heavy metal). La canzone è un poderoso anthem in cui si mettono ancora una volta in risalto le doti vocali di Martin, ma anche la delicatezza di tocco di Iommi e dell'ospite speciale May, nonché la solita sapiente discrezione di Nicholls, nato bassista ma, ammettiamolo, buon tastierista nella storia del rock (checché ancora oggi ne dica Bill Ward). Il solo vede il furioso assalto alla baionetta dei due axemen, quasi impegnati in una gara di ferocia sui manici delle loro rispettive chitarre. Man mano che la canzone avanza, si sovrappongono i cori ed i piani sonori, rendendo il tessuto acustico più spesso e denso e creando così un climax di drammaticità nonostante la ripetitività del testo e delle linee melodiche. "Kill In The Spirit World" sembra un incrocio tra la ricetta dei primi Sabbath e un pezzo dei Whitesnake che potrebbe essere tranquillamente uno sleaze hard rock da lustrini su dischi come Whitesnake/1987 o Slip Of The Tongue. Nonostante l'eccessiva lunghezza (il pezzo dura molto d più di quel che ha in realtà da dire) si notano l'espressività graffiante del solito Martin e la ritrovata lucentezza e spinta delle dita mutilate di Tony Iommi, mentre la potenza di Powell e la diligenza ordinata di Cottle si mettono al servizio della coppia dei Tony. "Call Of The Wild", alterna un riff piuttosto orecchiabile e radiofonico con un bridge, al contrario, di difficile digeribilità e dal sapore più "old Sabs", mentre una breve pausa riflessiva sembra pescare nella memoria qualche break teatrale in stile Manowar prima di rilasciare le briglie a Iommi, impegnato stavolta in un solo sentito ed emozionante da tanto calore emanano le corde della sua Gibson. Si ritorna subito su un'attitudine più combattiva e la batteria pulsante di Cozy Powell mangia battuta dopo battuta un pezzo che sembra quasi fatto apposta per lei, anche se la produzione, al tempo esaltata dal nuovo "giochino" del noise gate, la sacrifica un po'. Dal punto di vista testuale, Martin opta paradossalmente, questa volta, per un approccio in stile Dio, ovvero abbastanza orientato verso un mondo fantasy indefinito ma ugualmente evocativo. Bisogna render conto della relativa complessità della struttura del brano, il che lo rende meno orecchiabile rispetto ad altri numeri dell'album, ma anche per certi aspetti un po' più vario e interessante. "Black Moon" è un brano piuttosto semplice comparato alle strutture degli altri che lo circondano, ma punta soprattutto sulla capacità solistica di Iommi e sull'interpretazione di Martin. Di nuovo, come in tutto l'album, le liriche ricalcano l'argomento demoniaco, che in realtà non è mai stato così forte nella discografia dei Sabbath come in questo disco, finora. La conclusiva "Nightwing" comincia con un'intro dal gusto acustico, ma di tutt'altra pasta rispetto a vecchie perle indimenticate come "Orchid" o "Fluff". Martin ce la mette di nuovo tutta per rendere la drammaticità della situazione descritta nel testo, ovvero il vagare maniaco ed assassino di una delle tante creature notturne, forse la più pericolosa di tutte. L'uomo? Il Diavolo? La paura stessa? Non è precisato chi sia il protagonista, ma di sicuro il riff inquietante e dal vero sapore sabbathiano, mischiato ad intermezzi semiacustici che coinvolgono sonorità ancora poco conosciute allo stile della band, trasporta l'ascoltatore in un mondo notturno popolato di fumi, ombre, angoli di strade buie e solforose. Chissà che dietro quello più vicino non si nasconda un pericolo che può metter fine all'esistenza di chiunque di noi. Segnaliamo anche, per gli appassionati, una bonus track pubblicata nel 2010 nell'edizione speciale, "Cloak And Dagger".
Rea di aver pubblicizzato malamente il disco in America, la IRS è praticamente la responsabile della scarsa vendita su quel mercato, anche se le strette maglie della censura (la PMRC, ovvero Parents Music Resource Center, fondata pochi anni prima da Tipper Gore, moglie del senatore Al Gore, sta facendo proseliti tra i bigotti nazionalisti e retrogradi statunitensi, ostacolando la diffusione di molto materiale metal e fondamentalmente mettendo i bastoni tra le ruote a tutta la scena di questo macro-genere) contribuiscono probabilmente in maniera indiretta a scoraggiare dall'acquisto dell'album, mentre in Europa le cose vanno per il meglio. Tra l'altro, si respira aria nuova, aria di speranza e rinnovamento in casa Sabbath: Martin è felice del proprio ruolo, Cozy Powell è un'aggiunta essenziale, Neil Murray sostituisce bene Cottle e fa del suo meglio per rendersi indispensabile, Iommi stesso, seppur col muso lungo verso la IRS, sente che un nuovo ciclo è iniziato: un'altra rinascita dopo la luce in fondo al tunnel che già s'era vista con Heaven And Hell. Dopo Dio, il primo vero frontman stabile è quindi proprio Martin, considerato un Sabs' a tutti gli effetti e non un'ugola in prestito. In più, si crea tra i cinque membri (Nicholls non va dimenticato) un affiatamento ed un rapporto "democratico" che evita galli nel pollaio, invidie e ripicche: l'atteggiamento è molto collaborativo e ognuno, pur essendo un fuoriclasse nel proprio campo, si presta volentieri a servire lo scopo del gruppo piuttosto che i singoli. Chiariamoci, Headless Cross non è "il miglior disco dei Sabbath", ma sicuramente è il migliore da lungo tempo, quello che serviva per ridare al gruppo (o meglio, a Iommi) fiducia e speranza nel futuro. Un supergruppo vero e proprio... Di certo è l'album più "satanico", quello legato, anche in maniera intellettualmente forse ingenua, al Maligno ed all'immaginario che lo circonda.
1) The Gates Of Hell
2) Headless Cross
3) Devil And Daughter
4) When Death Calls
5) Spirit Of The Kill
6) Call Of The Wild
7) Black Moon
8) Nightwing
9) Cloak And Dagger