BLACK SABBATH

Eternal Idol

Vertigo - 1987

A CURA DI
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
14/08/2012
TEMPO DI LETTURA:
6,5

Recensione

Archiviata momentaneamente la sfortunata parentesi solista Iommi/Hughes, i Black Sabbath si concentrano sul nuovo arrivato, il talentuoso cantante statunitense Ray Gillen. Il tour di Seventh Star viene portato a compimento con un bilancio tutto sommato buono, anche se alcune date americane vengono cancellate (forse per vendite non soddisfacenti) e il pubblico si trova spesso un po' disorientato di fronte al nuovo vocalist, spesso confuso con Hughes della cui uscita dal gruppo non tutti sanno, e dal cognome pericolosamente simile a quello di Ian Gillan, anche lui peraltro ex-Sabbath. Durante una pausa del tour la band ha voglia di voltare pagina e dedicarsi alla composizione di nuovo materiale agli Air Studios di Monserrat, con la collaborazione del produttore Jeff Glixman. Dave Spitz, il bassista del gruppo, lascia la barca per ragioni personali mai del tutto chiarite, e al suo posto viene chiamato Bob Daisley, storico elemento della formazione di Long Live Rock'n'Roll dei Rainbow e del debut album di Ozzy come solista, Blizzard Of Ozz. Il contributo di Daisley, anche a livello di morale, è una spinta notevole, e Gillen è entusiasta delle registrazioni, preannunciando con grandi proclami un album più metal rispetto alla release con Glenn Hughes. Peccato che all'inizio dell'87 Daisley termini il proprio incarico e se ne vada per entrare nella band del chitarrista Gary Moore, portandosi dietro il batterista Eric Singer. Nondimeno, frizioni con Glixman portano a reclutare il produttore Vic Coppersmith-Heaven, anche se pure lui verrà poco dopo licenziato e sostituito con Chris Tsangarides.

Gillen stesso, anch'egli per motivazioni non meglio chiarite, a marzo molla la band. Finirà stroncato dall'AIDS nel 1993, a soli 33 anni (numero fortunato, si dice in giro). Ecco quindi che i superstiti Iommi e Geoff Nicholls, ormai membro sempre più importante del gruppo e vero vice-iron man della situazione dopo lo scioglimento della line-up originale, richiamano Bev Bevan (ve lo ricordate nel tour Born Again?) e Dave Spitz, fortunatamente ritornato disponibile. Al microfono viene reclutato Tony Martin, dalla voce piuttosto aggressiva e potente, che entra in casa Sabbath con più di una perplessità, timoroso di poter essere lasciato presto a casa dopo la miriade di cantanti susseguitisi in breve tempo nella formazione britannica. Nel corso dell'estate dell'87, in ogni caso, vengono progettati sia un tour sia le reincisioni delle parti vocali dell'album (gli originali con Gillen sono oggi disponibili nella versione deluxe con 2 dischi), concedendosi una breve parentesi live in Grecia (evento eccezionale e raro) e in Sudafrica, al tempo stritolato dall'apartheid. Proprio il mini-tour sudafricano getta i Sabbath, come se fosse una novità, in un ginepraio di polemiche. La data di Sun City, una specie di Las Vegas sudafricana per bianchi, frutta al gruppo una somma consistente, e la scelta di Iommi di associarsi ad un luogo di azzardo e razzismo così deprecato dal blocco europeo filo-statunitense non risparmia una pioggia di critiche. Peraltro, la stessa cosa è già successa a band importanti come Queen e Status Quo. Bev Bevan si rifiuta di prender parte all'evento e viene sostituito da Terry Chimes, già coi The Clash. In interviste successive, Iommi si scuserà con la stampa pur difendendo la propria posizione: dichiarandosi male informato sul genere di idee politiche vigenti a Sun City, rivendica il diritto della musica a non mischiarsi con la politica, incorrendo forse in un piccolo inciampo di coerenza (basti leggere i testi di Paranoid per capire quanto politicamente influenzata e influente sia stata la band del Sabba Nero). In ogni caso, a settembre l'album è pronto, e con esso la cover raffigurante una famosa scultura di Auguste Rodin, chiamata appunto "Idolo Eterno". Originariamente avrebbe dovuto essercene un'altra, "I Cancelli Dell'Inferno", la cui riproduzione sarebbe però stata ardua per la copertina di un vinile.

"The Shining" è la prima traccia del disco, un brano che si distacca completamente da quanto sentito su Born Again. Chitarre pompose, riverberi della batteria tipicamente ottantiani, un bilanciamento figlio bastardo del lavoro compiuto da Martin Birch sin dall'inizio del decennio su dischi di Iron Maiden, Rainbow, Black Sabbath stessi, insomma sugli album che sono poi diventati la bibbia degli Anni Ottanta. Anche la voce di Tony Martin è notevolmente più in linea coi tempi rispetto a quella di Gillan, che vive di vita propria e non ha bisogno di adattarsi ai generi (avendo contribuito a crearne uno). Stentorea e graffiante, non ha l'eleganza di Dio, la potenza di Gillen, la brillantezza di Hughes, ma si inserisce perfettamente nel contesto un po' patinato dei nuovi Sabs'. Il testo è parzialmente ispirato al racconto omonimo di Stephen King, da cui come tutti sanno Kubrick ha tratto un film magistralmente interpretato da Jack Nicholson nel 1980 (pellicola, tuttavia, mai benedetta dal consenso dello scrittore). "Ancient Warrior" comincia con un riff che vorrebbe sembrare piuttosto minaccioso, ma in realtà ha le unghie più spuntate di un gattino, con tutti quei suoni belli soffici e la voce di Martin che starebbe a puntino su una love ballad di quelle da strapparsi le mutande. Anche a livello di riff, di suoni, di apporto tastieristico non può non emergere come Iommi e soci abbiano voracemente banchettato alla tavola dei rinati Deep Purple di Perfect Strangers e The House Of Blue Light. Una rinascita quindi foriera di nuova linfa per entrambi i gruppi inglesi. Il testo non è nulla di particolarmente originale, ma tratta con dignitosa epica di un antico combattente dal passato oscuro e misterioso. Il terzo brano, "Hard Life To Love", non smentisce la tradizione della lungaggine e dura, come i due precedenti, cinque più minuti. Il mood è parecchio movimentato, e il drumming serrato di Singer sembra un savoiardo goduriosamente intinto nelle caratteristiche dei batteristi dell'epoca: riff potenti e semplici, diretti nella strofa, bei controtempi negli stacchi e nel bridge, filler da pelle d'oca nei chorus. Un lavoro dannatamente buono. Il testo ci mette a confronto con un grande dilemma esistenziale, ovvero quanto sia difficile e piena di insidie la vita. Alta filosofia. "Glory Ride", un po' come "Ancient Warrior", riprende temi fantastici e crepuscolari à-la Dio, ma vede mischiarsi l'hair metal più pesante di quegli anni (citiamo per esempio gli Iron Maiden che qui sembrano aver fornito più di uno spunto, o i Whitesnake di Coverdale, al quale peraltro c'è anche un richiamo involontario nel testo con il verso "soldiers of fortune", mentre nel brano precedente era contenuto un profetico "slip of the tongue") con il riffing unico e inimitabile di Tony Iommi, ancora una volta chitarrista capace di evocare fantasmi oscuri e senza tempo. "Born To Lose" è un superclassico Anni Ottanta, da film con poliziotti ganzi, Cadillac colori pastello e, perché no, un paio di squinzie cotonate che si rifanno la manicure. La voce di Martin è graffiante e provocatoria, il tempo è sufficientemente incalzante, il testo è nella migliore tradizione ottantiana un intrico di metafore abbastanza poco direzionate. Un po' come andare da una chiromante e constatare che le sue predizioni vanno bene per il novantanove per cento dei clienti a cui legge i tarocchi... Il mid-tempo "Nightmare" mescola un po' i fasti di Heaven and Hell con lo stile tipico, ancora una volta, dell'hair metal tanto in voga al momento. Ne esce un brano pomposo, trionfante, epico, in cui la voce di Martin campeggia in grande spolvero e la chitarra di Iommi la fa da padrone su basso e batteria. Inizialmente, la canzone dovrebbe far parte della colonna sonora del film omonimo (chi dimenticherà mai il personaggio di Freddy Krueger, sotto le cui sembianze deformi si cela Robert Englund?), ma non viene trovato l'accordo tra il regista e la band per la corrispondenza musicale. Vale la pena ricordare la canzone per il buon cambio di tempo verso la fine, ma niente più di questo, e il brano si rivela abbastanza insipido nel complesso del disco. "Scarlet Pimpernel" è il classico strumentale che Iommi inserisce nell'album, dal titolo quanto mai particolare e fantasioso. Un intermezzo tutto sommato ascoltabile ed evocativo, ma non paragonabile a perle di malinconia poetica come "Orchid" o "Fluff". "Lost Forever" ha un piglio decisamente heavy ed incalzante, un bridge arrabbiato e coinvolgente e si rivela un ottimo brano, uno di quelli da sparare nello stereo dell'auto a finestrini abbassati, mentre di notte si corre su e giù per le strade della California, tra un localaccio e l'altro (inseguiti magari dalla polizia) e con gli occhiali da sole. Di notte. La lunga e conclusiva "Eternal Idol" è una versione Anni Ottanta di "Black Sabbath", un minestrone di effetti, tecnologia, sovraincisioni, sovra-struttura. Però efficace. Lo stile Sabbath riemerge prepotentemente in questo pezzo, dopo aver latitato alla grande per tutto il disco. L'interrogativo posto nelle parole cantate da Martin riguarda l'esistenza di un mondo ultraterreno cui fare riferimento: esistono un Dio e un Paradiso, un Diavolo e un Inferno? Dove ci conducono le nostre azioni? Che senso ha la nostra esistenza? Fondamentalmente, l'accorata risposta del Sabba Nero risiede ancora una volta nel salvare il mondo dalla perdizione di avidità, cupidigia, materialismo sfrenato, arrivismo politico e corsa al potere che lo stanno distruggendo.

Dopo il flop totale di Seventh Star, disco buono ma promosso in maniera deprecabile (e pure baciato da Madama Sfortuna), le cose non vanno meglio per Eternal Idol, che raggiunge vendite risibili, viene discretamente massacrato dalla critica e vede persino alcune importanti date del tour, tra cui una importantissima all'Hammersmith Odeon, annullate per una serie di malasorti quasi fantozziane, non ultima l'influenza Asiatica che stende completamente Iommi. Ripetute defezioni (Jo Burt sostituisce Dave Spitz, fuoriuscito definitivamente dalla band, Terry Chimes rimane nel tour come batterista), un costante calo nel numero di biglietti venduti per i live, un disco veramente forte in solo due-tre pezzi su nove e, in generale, la sfiducia totale verso una band che dei Black Sabbath amati da tanta gente negli Anni Settanta ha solo il nome fanno del 1987 un anno tragico per la band. Tra i meriti indubbi di questo disco, evitando di menzionare per forza quel paio di brani come "Eternal Idol" e "The Shining" che si salvano ma non sono chissà che piatto prelibato al desco altrimenti raffinato e di classe del Sabba, sta il consolidamento di Iommi come gran cerimoniere della bagnarola, meritevole di aver scommesso su un outsider come Martin e di aver sempre creduto in un progetto che mai come per Eternal Idol è stato simile ad un cane rognoso ben mazzuolato. Letta a posteriori, la fiducia di Iommi nelle possibilità del Sabba sarà ben ripagata dai quattro dischi successivi, tre dei quali con lo stesso Martin, che ritorneranno a scrivere pagine significative nella storia del gruppo. Per il resto, Eternal Idol è purtroppo un disco suonato e cantato ottimamente, in cui spiccano un paio di buone canzoni ma in cui latitano le idee, al contrario della svolta lite metal di Seventh Star (in cui, d'accordo o meno, si intravedeva una nuova direzione coerente intrapresa da Iommi, comunque convinto di presentare un progetto solista e non un disco dei Sabbath). Come si dice spesso in questi casi, Eternal Idol è "un possibile masterpiece per quasi ogni altra band del pianeta, ma una mezza delusione per i Black Sabbath". Che si rifaranno abbondantemente nel quinquennio successivo..


1) The Shining
2) Ancient Warrior 
3) Hard Life To Love
4) Glory Ride
5) Born To Lose
6) Nightmare
7) Scarlet Pimpernel
8) Lost Forever 
9) Eternal Idol 

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