VOIVOD
Post Society
2016 - Century Media Records
PAOLO FERRANTE
13/06/2017
Introduzione recensione
Prosegue la lunghissima carriera dei Voivod che, nel 2016, realizzano "Post Society" anche per darci un assaggio di quelle che saranno le sonorità prescelte nel prossimo, atteso album. Un EP ben confezionato, pubblicato dalla Century Media Records in formato digipak, ed in formato jewel case trasparente dalla Avalon per il mercato Giapponese. Anche questa volta la produzione è stata gestita dal gruppo stesso, e ciò che immediatamente varia rispetto al precedente album è la formazione: lo storico bassista del gruppo, Jean-Yves Thériault, conosciuto come Blacky, era tornato proprio in occasione del precedente album; ma manca all'appello per questo EP. Nulla cambia per gli altri: l'indispensabile Michel Langevin (Away) alla batteria, il veterano Denis Bélanger (Snake) alla voce, Daniel Mongrain (Chewy) alla chitarra, ed infine il nuovo arrivato Dominique Laroche (già soprannominato Rocky), al basso. Il nuovo arrivato ha un background Blues, quindi sarà interessante scoprire come verrà integrato in formazione, quante e quali variazioni di stile saranno apportate in questo EP sia per via del nuovo membro, sia, naturalmente, a prescindere. Intanto si può notare che, dal punto di vista grafico, si nota un certo collegamento con la grafica dell'album precedente. Anche in questo caso si tratta, inevitabilmente, di un'opera di Away: possiamo osservare uno scenario desolato, in bianco e nero... o per meglio dire: grigio e nero. Un sentiero irto di aculei, uno steccato che collega un cimitero alla enorme ciminiera industriale che sta in fondo alla grafica. Anche dal cimitero stesso spuntano dei comignoli che, assieme alla grossa ciminiera, sputano fumo che satura l'aria; in alto, come avvolto dalle nubi, il logo dei Voivod. In basso, invece, dei fantasmi si aggirano tristi nei luoghi della scena. Desolazione totale, tutto disegnato a mano con tratti semplici; si diceva riguardo al collegamento con la precedente copertina, e sta proprio nello stile di questi tratti. Eppure, questa volta, non ci sono più colori sgargianti: c'è il grigio ed il nero, ogni altro colore sarebbe stato di troppo in questa rappresentazione che vuole porre l'accento sulla distruzione che la nostra post-società sta portando sul pianeta e, di conseguenza, su noi stessi. In una grafica del genere perfino il logo viene disegnato appositamente per l'occasione: se fino ad ora, anche nella copertina dell'album precedente, seppur disegnato, lo abbiamo sempre distinto per i tratti alieni e meccanici, tecnologici, adesso è invece più spoglio e quasi a forma libera. Particolare questa voglia di occuparsi personalmente di ogni aspetto artistico del gruppo, incluse le grafiche: così facendo i Voivod dimostrano di avere il controllo totale di tutto ciò che di artistico viene trasmetto dal gruppo in termini di audio e persino di immagini. Un modo di fare indice anche di un approccio old school in cui qualsiasi aspetto è un'occasione per esprimere la propria arte; in cui gli artisti sono spesso dei tuttofare. Scomparsa la vincente simmetria tra lettera iniziale e finale, scomparsa quella linea di collegamento che attraversava tutti i caratteri, ora le lettere sembrano dei rami spogli, o comunque qualcosa di secco, prosciugato. Non c'è più quella parvenza di precisione meccanica, squadrata e geometrica: è tutto irregolare. Fino ad ora abbiamo parlato di circostanze che ci porterebbero a pensare che i Voivod abbiano stravolto il loro sound, quindi è il caso di precisare immediatamente che non l'hanno fatto. Hanno semplicemente continuato per la loro strada, che prevede, sistematicamente, un oscillare tra un'influenza e l'altra. In ogni caso - e questo era inevitabile - qualche cambiamento c'è, qualche barlume di quella che sarà la direzione presa in futuro si può intravedere, suggerita se non altro dall'inizio del titolo: "Post", che suggerisce una musicalità con un prefisso "post-". Il futuro della società, il futuro musicale dei Voivod e, chissà, forse il futuro del Metal in generale possono nascondersi in questo lavoro! Cinque brani, di cui una cover, ci prefigurano un EP generoso dei suoi trenta minuti: ora possiamo iniziare il track by track.
Post Society
"Post Society (Post Società)", che dà il nome a questo EP, fa quasi da singolo: è stato realizzato, infatti, anche un videoclip da accompagnare all'ascolto. Per fortuna notiamo subito dalle prime parole che il riferimento alla tecnologia non manca: fibre di carbonio e maestri dell'uccisione stradale. Una scia di polvere si alza nell'aria, ci sono delle macerie brucianti dappertutto, distruttori a bordo di bolidi che bruciano carburante; sono fasi di rabbia, in un futuro arrugginito, in cui guidano conducenti bendati. Dicevamo del background Blues del nuovo arrivato al basso... be', da questo inizio non si direbbe affatto: tamarrissimo giro di basso sporco, quasi Sludge, carico di groove zozzone, poi si accodano chitarra e batteria in un riff che sembra evocare il Metal più primordiale, un dialogo carico di ritmo ma con quel tocco di ironia. La voce è inconfondibile, si inserisce in un ottimo gioco di chitarre: una voce dinamica, acida e nasale, da Rock/Punk vecchio stile, mentre la chitarra inizia a tradire quel tocco Post-Metal che integra anche elementi Punk. La cosa particolare, in tutto questo, è il suono della chitarra che è stranamente più pulito di quello del basso (di solito avviene il contrario); ciò apre le porte ad influenze che spaziano dal Punk al Funky, tutti elementi che inseriti nel calderone Progressive del gruppo fanno davvero un macello! Il basso si sente bello forte, stacchi di batteria, altra ripartenza tamarra che prende spunti Thrash, anche se lenti, distorsioni ed armonici sporchi e sbavati; la voce a volte racconta, altre graffia, intrattiene in modi mutevoli. Il destino dell'umanità è come questo mezzo, condotto da un pilota bendato che prende sempre più velocità ma sta andando inevitabilmente a schiantarsi: l'adrenalina dell'accelerazione rappresenta il progresso del quale, stupidamente, ci gloriamo senza comprendere che stiamo semplicemente prendendo più velocità e, quando avverrà l'urto, quello sarà ancora più distruttivo. Sarà un incidente sociale, che manderà in pezzi tutta la società, e per poter evitare questo urto bisogna rigare dritti e mantenere viva la fede; si sopravvive giorno per giorno, bisogna cogliere l'occasione o farsi da parte, non c'è spazio per l'esitazione. Tutto attorno c'è un disastro, tutti potevamo renderci conto di come si stavano mettendo le cose ma ormai è troppo tardi per porvi riparo: non possiamo più farci niente, è irreversibile. La voce si accoda agli strumenti, seguendone il ritmo ed accentuando i colpi, poi si fa più dolce e melodica quando racconta ciò che si fa pur di sopravvivere; dissonanze alle chitarre rendono l'idea del disastro che ci sta tutto attorno, poi passaggi atmosferici lenti e distorti, riverberati e con armonici cupi. Il basso è spaventosamente basso, oscuro e minaccioso, poi inizia una nenia, un lamento, distorsioni ed un crescendo orrorifico: fantasmi industriali, zone proibite, una recinzione elettrica racchiude una terra promessa. Sopra di noi un cielo morto, vite senza amore ed una luna rossa che ci mostra la polvere delle nostre vite che si stanno disintegrando: c'era un tempo in cui potevamo ancora cambiare le cose, ma adesso ecco che riceviamo i risultati delle nostre azioni, il conto da pagare. Nel profondo il magma trova la sua strada verso la superficie e quindi fuoriesce in enormi esplosioni per poi pioverci addosso e cancellarci. Un passaggio da Pychedelic Rock descrive questi momenti fatali, con classe ma anche con una certa malinconia, graffiante, poi ancora tempi lenti e tristi in un crescendo ritmico in cui il basso esegue giri sempre più vivaci. Variazione di chitarra che prende velocità e poi si lancia in un assolo distorto e creativo, ancora l'ombra della sperimentazione da Post-Metal che, questa volta, si presenta con un carattere da Fusion virtuosa che approfitta di momenti microtonali. Il Progressive si presta quindi ad una deriva Math, che fa di poliritmie e sinfonie sempre più ardite il cavallo di battaglia, una costruzione crescente che ci porta alle ultime considerazioni: per aver salva la vita dobbiamo resistere e tenere gli occhi fissi sulla strada (non sul cellulare...), una distrazione potrebbe costarci cara. C'è un posto in cui l'acqua scorre pura, ma quell'acqua non è di nessuno. Questa la triste conclusione del brano. La tecnologia ha un posto, non poteva essere altrimenti, in questa nuova provocazione dei Voivod; ma non è il posto principale. Il posto principale è della desolazione, formata da ammassi di ferraglie inutili, carcasse meccaniche ormai non funzionanti, ceneri dell'apparentemente gloriosa tecnologia umana che è diventata lo strumento della sua disfatta. Distruzione irreparabile, la chitarra che scatta e quindi il ritornello che ci ricorda, ancora una volta, che ci siamo rovinati con le nostre mani. Un tempo l'uomo era il peggior nemico dell'uomo, adesso è la tecnologia al vertice, quindi l'uomo non è più schiavo di sé stesso, ma lo è della propria creazione.
Forever Mountain
Tecnologia completamente assente nel secondo brano: "Forever Mountain (Per sempre montagna)". Silenzio e poi un ipnotico e ripetitivo riff, con qualcosa di Punk/Hardcore, poi il basso entra in gioco per dare al tutto un carattere più tecnico e confuso; la voce non è da meno cantando su una tonalità non certo orecchiabile. L'impianto Progressive è innegabile, il tocco canadese al basso e quella ricerca di ritmi trascinanti ma nulla affatto immediati, quelle poliritmie costruite tassello per tassello durante l'avanzare del riff. Tutto sporcato da una vocalità graffiante, acida, che poi raddoppia con un effetto chorus per farsi insistente e lamentosa; ci sono delle difficoltà da affrontare, lo si percepisce dal tono vocale. Il testo inizia con l'incoraggiamento a !continuare a scalare!, a non mollare, fino a raggiungere quella vetta, fino a toccare il cielo, preparandosi al balzo: all'improvviso una crepa nel ghiaccio, la cordata cede e tutte le provviste cadono nel baratro, davanti ai suoi occhi ogni speranza cade. Lo sapevano sin dal principio che quella non era un'impresa facile, sapevano che qualcosa avrebbe potuto andare storto ma non hanno esitato a seguire quel loro pazzo sogno, rovinando in basso cercando di aggrapparsi a qualcosa per restare lassù o, perlomeno, limitare la caduta. Un crescendo, cori e poi una parte davvero geniale che ci porta delle psichedelie avvolgenti che si diradano di colpo per permettere un passaggio Hard Rock più secco e graffiato. Aggressione e disperazione nell'accorgersi della disgrazia appena avvenuta, ma anche tenacia nel tenersi stretti le poche speranze rimaste, folle disperazione nell'aggrapparsi a qualsiasi cosa pur di continuare ad inseguire quel sogno. La parte cantata si fa progressivamente più quieta mentre anche la musica asseconda questo dinamismo, accentuando sempre meno le battute, si fa morbida e quindi le melodie - tristi e fatali - prendono il sopravvento. Si torna alla strofa, aggressiva e disperata, variazioni strumentali ci mostrano un basso frenetico che sa quando rallentare e sottolineare, con virtuoso incedere, i passaggi fondamentali. Giunge un tempo in cui, quando tutti i progetti vanno in fumo, si presentano i dilemmi, dubbi che ci rendono forti mentre danziamo con la morte sull'orlo delle nostre paure. In queste circostanze avverse non ci resta altra scelta che resistere, e lottando diventiamo più forti. Nel ritornello si ripete spesso il concetto di tenere duro, di aggrapparsi forte, di continuare a lottare per non cadere giù. Parte lenta e pulita, una variazione calante, vibrata ed intima: è un mondo di avventura, non si torna indietro, i nostri resti non verranno trovati da nessuno; non c'è stata fatta alcuna promessa, ci è stata solo rivelata una bellezza fatta di infinite possibilità da cogliere. Quindi ci troviamo sul tetto del mondo, sopra di tutti, qua c'è un picco di intensità strumentale con un assolo altalenante in cui la chitarra vibra, ebbra di conquista, ed anche la voce tradisce la stessa folle gioia. Siamo tutt'uno col cielo, abbiamo raggiunto il punto del non ritorno! Un testo del genere è davvero molto profondo: racconta delle fatiche assurde, dei tremendi sacrifici che si compiono per scalare la vetta; pur sapendo che il cammino sarà pieno di ostacoli, pur sapendo che quella strada ha mietuto troppe vittime, il sognatore continuerà imperterrito nel proprio cammino. Questa follia, questa testardaggine che ignora ogni ragione, questa è la scintilla della grandezza di chi si mette alla prova contro l'impossibile. La vetta è descritta non come "il punto di arrivo", ma come "il punto di non ritorno"; questa è una differenza notevole! Non c'è una "vittoria", c'è la consapevolezza di essere arrivati ad un punto in cui tornare indietro è, oltre che inutile, anche impossibile: arrivati a quel punto - probabilmente - l'unica vittoria sta nel fatto che ogni sofferenza ha avuto termine.
Fall
All'inizio di "Fall (Autunno)" troviamo un arpeggio di chitarra, in clean; sensazioni da ballad ed accordi minori. Poi un montare di ritmo, con un crescendo percussivo di cassa e basso all'unisono, quindi la voce, morbida e quasi parlata, la chitarra è ancora pulita ed il basso è pomposo ma vellutato. La voce ha un effetto che, per certi versi, ricorda quegli effetti vocali usati da Dave Mustaine nelle parti parlate, per dare più carattere alla vocalità acida e spigolosa. E' una voce che dialoga, domanda "E' di nuovo quel periodo (dell'anno)? Metti la giacca, fuori piove, l'estate è finita.". La malinconia autunnale offre anche quel contesto in cui, dopo la spensieratezza estiva, si torna a pensare ai doveri ed ai problemi, ammirando i colori del paesaggio mentre soffia il vento. Variazioni di chitarra e la voce prende vigore nel descrivere il paesaggio incantevole, poi un crescendo dinamico e la grinta ei fa più evidente, la voce si sporca ancora di più prendendo sembianze sempre più Punk che, proseguendo, si fanno Hardcore. Lo scenario è così bello che quasi fa male a guardarsi, bisogna cogliere il momento perché non durerà: i fantasmi stanno tornando. Arriva l'oscurità, che giunge ogni giorno prima, il cielo si fa confuso, perturbato, quindi è tempo di stare chiusi in casa a convivere coi nostri mostri; arriva la noia, camminando scalzi senza meta, inventando storie e dando fastidio agli altri. La chitarra si prende più spazio, il ritmo si fa incalzante e la batteria accenna un tribale, molta psichedelia e passaggi più tecnici; la voce si fa più aggressiva, prende pieghe Hard Rock aiutata anche dagli strumenti più incisivi. Melodie che vengono squadrate in un ritmo che tradisce qualche suggestione Stoner che non guasta affatto, tutto si alterna con movimenti più distesi in cui gli accordi si aprono, la chitarra si fa più pulita e la voce più melodica e prolungata. Questo autunno ha un effetto negativo in lui: non si sente come prima, non si sente come dovrebbe essere, si sente decadere mentre i suoi nemici interiori prendono il sopravvento. Non è in uno stato di serenità, ha strani pensieri e ferite all'anima, la mente non lo assiste più mentre marcia sul sottile strato di ghiaccio della propria autostima; col cuore freddo sente che la morte si avvicina. All'improvviso la testa gli si riempie di paure, ogni passo porta ad un vicolo cieco, ogni angolo della strada è teatro di una scena dell'orrore. Una pausa improvvisa e quindi si riprende con un ritmo vagamente stoner, andante, con voce acida e cantilenante; il basso pulsa prepotente e la chitarra varia mobile. La voce inizia ad apparire più schizzata, non si sente più se stesso: gli occhi iniziano a congelare, la bocca sanguina e si sta trasformando in uno zombie, deve scappare prima che questa trasformazione si completi. La cantilena continua con poche variazioni al testo, la paura della trasformazione ed una chitarra con variazioni microtonali con un effetto di portamento nei legati dell'assolo che si fa sempre più chiaro e poi si appanna; un assolo del genere rappresenta l'oblio che ottenebra la mente sempre di più, durante la trasformazione, una serie di fraseggi discendenti. Il ritmo incalza e la voce ripete la cantilena, nell'atto della trasformazione. Un testo particolare: all'inizio l'autunno è un'affascinante paesaggio, alla fine invece è uno stato mentale che porta a gravi conseguenze. È possibile che ci si riferisca a quella malinconia, al chiudersi in se stessi, col buio - o pessimismo - che progressivamente prende sempre più spazio nella nostra giornata. Un pezzo generalmente meno aggressivo degli altri, ma non manca di certo il ritmo con quei passaggi Stoner che, alternati a momenti più morbidi, si fanno sentire; uno spartiacque di ascolto più facile.
We Are Connected
Si torna agli scenari post-apocalittici con "We Are Connected (Siamo connessi)". A legare insieme questi vecchi rifiuti ci sono scatole da volo e rotoli di nastro adesivo, una connessione, un ritorno a casa che avviene masticando bicchieri di polistirolo. Un modo molto fantasioso per descrivere un viaggio in aereo, con una stiva carica di bagagli imballati, con passeggeri che masticano i bicchieri per ingannare il tempo; un'immagine che sa di desolazione, di vuoto e tristezza. La musica ci mette un po' ad arrivare, in sottofondo si riesce a sentire la speaker di un aeroporto, mentre pian piano arriva la musica in un lungo fade-in. Molto mobile e quasi allegro, il pezzo rimbalza di un ritmo coinvolgente, la voce è ironica e sembra volersi prendere gioco di tutte queste follie umane. Intanto, schermi mandano in onda le ennesime notizie scioccanti, terminali di terribile tristezza, labbra che si muovono senza emettere alcun suono; la chiamata finale e si parte. Lo scenario nel quale si svolge il brano è la sala d'attesa di un aeroporto, luogo che più di altri rappresenta la connessione tra persone e cose; questa connessione però non si svolge tramite una comunicazione "umana". Ogni tipo di comunicazione è registrata: la voce della speaker che annuncia le partenze e gli arrivi, i video che trasmettono notiziari che - invece di comunicare - influenzano e manipolano; serie di immagini senza parole, labbra che si muovono ma ipnotizzano e trasmettono subdole immagini piene di messaggi subliminari. Una connessione fatta di persone mute, costante bersaglio delle comunicazioni registrate, delle pubblicità e delle offerte commerciali all'interno dell'aeroporto, luogo nel quale si muovono come zombie instupiditi, o restano a mangiucchiare un bicchiere di polistirolo, o magari mostrando altri tic simili. La voce continua a prolungarsi, il ritmo incalza, stacchi alla batteria e poi è la chitarra a decollare, quindi si torna alla strofa, la voce trasmette rassegnazione adesso; sta descrivendo quanto è rovinata l'umanità: è una realtà velocizzata, in cui ci muoviamo più velocemente verso il nulla, verso la distruzione. Nel deserto vive un uomo che brucia, una sonda sta per atterrare, tutti i suoi pensieri volano via, lontano, verso le nuvole ed ancora più lontano. Fumi di tristezza, profumi di carburante, anima spirata e roteando attorno lascia la terra, senza emettere alcun suono; si sta estraniando da un mondo che non ha più spazio per lui. Solo di batteria, un breve stacco, quindi sovraincisioni di chitarra che creano un momento psichedelico che viene accentuato da voci riverberate che confondono, ipnotizzano con una cantilena malata: sta lasciando la terra, si sta estraniando. Passaggio strumentale in crescendo dinamico, apice e colpi di piatti che risuonano nel silenzio, durante lunghi accordi di chitarra che, ad un certo punto, si distorcono ed allargano le atmosfere. Adesso la psichedelia si è fatta malata, feroce, distruttiva: la voce parla piano, pesando ogni parola tra gli accordi: volerà per sempre, raggiungendo il mai, perché la vita non è finita, sarà ricordato. Una voce robotica dà una breve risposta, poi un assolo molto smooth alla chitarra si aggira tra Blues e Fusion quando gratta più del dovuto, e poi ancora evoluzioni veloci che culminano in un acuto che dà inizio ad una parte rimata; il basso sta al suo posto e sostiene i ritmi cui si alternano armonici acuti, poi la voce sembra quasi rappare. Si apre quindi una parentesi vagamente Nu Metal, che presto esplode per tornare negli ambiti originari del brano, ritmi e pause, cambiamenti repentini e nuovi stacchi, la voce è quasi ammiccante, ancora ironia e poi un'altra fuga chitarristica. Si chiede "Perché continuare a viaggiare? Vale la pena fare affidamento nel futuro?", il futuro che si prospetta è tale che forse non vale la pena di portarsi dietro tutte quelle cose, non ha senso pensare al poi quando sappiamo che ci stiamo avviando verso il mai più. Il ritmo incalza ancora e si torna alla strofa, con picchi di aggressività alla voce che di colpo graffia, non ha senso viaggiare, non stiamo andando da nessuna parte. Al bancone degli oggetti smarriti tocca il suolo, che va molto in profondità, ha un amico che è scomparso e sa che lo incontrerà lì prima o poi. La nota finale è in questa malinconia, il bancone degli oggetti smarriti fa pensare a tutto ciò che si è perso, un amico passato all'altro mondo, quindi nel toccare il pavimento immagina che lo incontrerà, prima o poi, sottoterra; un momento triste. Questo brano presenta una visione del tutto antitetica rispetto a quella di Forever Mountain: se in quel caso il viaggio era tutto, rappresentando esso stesso il senso della vita, in questo brano il viaggio non conta nulla di fronte all'ineluttabile, il viaggio è illusione di chi ancora pensa al futuro e non si rende conto che il futuro non ci sarà.
Silver Machine
Scegliere un brano del calibro di "Silver Machine (Macchina d'argento)", cover degli Hawkwind, è una scelta che la dice lunga: di certo i Voivod - essi stessi ormai parte della storia - non potevano scegliere un brano recente, ma allo stesso tempo, andare a pescare proprio una colonna portante dello Psychedelic Rock, è significativo. Brano originale del 1972, dal ritornello orecchiabile e cantabile, inizia con effetti spaziali al synth, poi una specie di allarme ed il riff di chitarra si fa strada con un basso pulsante; il brano è chiaramente reinterpretato e va benissimo così (non ha mai senso cercare di imitare alla perfezione un classico...). Ancora effetti, poi la voce che inizia a cantare ed è rincorsa dall'eco, acida e sporca, poi il motivo indimenticabile del ritornello col coro e la pronuncia masticata e contratta. Un testo che descrive un viaggio fantastico che poteva svolgersi solo con la sua fedele macchina d'argento, la quale lo porta a volare per lo spazio come una scia elettrica fino al proprio segno zodiacale; vola partendo da un sogno, si sente piccolo piccolo di fronte a tutta questa magnificenza, ora vuole raccontare a tutti il viaggio che ha fatto e le cose fantastiche che ha visto. Il ripetere, senza sosta e senza ritegno: "Ho una macchina d'argento!" innesca un qualcosa di ipnotico, trasmette stupore, meraviglia e quell'estasi che si prova quando, appena reduci da un'esperienza fantastica, si è smaniosi di raccontarlo a tutti, di offrire agli altri la stessa esperienza e di condividerla con tutti. Un pezzo reinterpretato in maniera onesta, senza stravolgerlo ma senza nemmeno cercare di ripeterlo "fedelmente". Brano ripetitivo, nei suoi quattro minuti ripete più e più volte un ritornello che, effettivamente, merita davvero molto e si incolla nella mente in modo indelebile. La chitarra e la voce seguono la stessa melodia e ritmo, il finale è lunghissimo, inframezzato da parti strumentali piene di effetti psichedelici alla chitarra e synth; si sta descrivendo un viaggio spaziale alla scoperta di cose mai viste. Riempitivo o scelta sentita? Impossibile esserne sicuri al cento per cento: il brano è uscito fuori bene e presenta il germe di quelle sonorità psichedeliche che si sono fatte sentire più di una volta in questo EP; allo stesso modo non appare nessun collegamento concettuale con quanto raccontato negli altri brani, quindi l'unico nesso sta nelle sonorità già richiamate. Considerato che la durata dell'EP è più che generosa, se anche fosse un riempitivo questo non toglie il fatto che ci sono ben quattro succosi e lunghi brani e, quindi, ci sarebbe poco di cui lamentarsi. Questo pezzo, se non altro, ci mostra le origini delle sonorità che sono state incorporate nell'EP dei Voivod e - chissà - probabilmente può essere anche un modo per suggerire i futuri sviluppi del loro sound?, il quale potrebbe volare proprio in quella direzione.
Conclusioni
Abbiamo finito di ascoltare un EP che si presenta in modo meno colorato rispetto al precedente album, un EP in grigio e nero che inizia parlando di un disastro annunciato che porterà alla desolazione. La tecnologia, sulla quale abbiamo ciecamente basato il nostro sviluppo, è ormai diventata un bolide impazzito che ci porta, a velocità sempre più alta, a schiantarci contro l'inevitabile. In questo mondo in cui la performance tecnologica è tutto ciò che conta vogliamo viaggiare veloci, senza sapere esattamente verso dove! Vogliamo l'automobile che va veloce, il telefono che naviga veloce, ma dove dobbiamo andare? Cosa dobbiamo vedere? Vogliamo le chiamate illimitate, ma cosa dobbiamo dirci? Si sta creando un mondo pieno di scintillanti strumenti, appariscenti e luminose scatole vuote nelle quali ci chiudiamo - allontanandoci così da una realtà in rovinoso declino - chiudendo gli occhi alla natura che, irreversibilmente, è al punto di non ritorno. Le sonorità sono acide, come le piogge che cadono dalle nubi nere che si addensano sui nostri cieli... nubi che noi non vediamo perché siamo piegati davanti ai cellulari, prostrati di fronte ad una tecnologia che ci rende schiavi, di fronte ad una comunicazione che ci dice "Compra!" ma non ci arricchisce culturalmente, anzi ci impoverisce. Alla fine saremo circondati da rottami inservibili, in uno scenario ostile in cui la natura non ci sopporta più generosamente, ma ci scaccia. Questo viene descritto con toni malinconici, esistono dei momenti più ritmati e graffianti ma cedono il passo alle dissonanze, ai momenti psichedelici che si insinuano nelle alternanze strumentali. Nello stesso senso va il penultimo brano, ambientato in un aeroporto: ancora una volta circondati da inutile tecnologia che dovrebbe essere l'apice della comunicazione ma diventa un silenzio desolante, un susseguirsi di manipolazioni pubblicitarie, una schiavitù che inizia dall'indottrinamento dei mass media. Anche in questo caso troviamo una felice e riuscita alternanza tra parti più pulite e grintose ritmiche sostenute; nessuno stravolgimento, sia chiaro, ma una sistematica alternanza che dà respiro ad un brano abbastanza lungo è la chiave per non annoiare. Nella fase centrale l'EP si fa più introspettivo con la descrizione di un'affannosa scalata, la quale trova senso nello sforzo che ci eleva e fortifica, pur sapendo che è impossibile, che è inutile, che porterà alla morte, che è un sogno illusorio: il temerario non cede, la sua folle testardaggine lo porta a tentare l'impresa ed affrontarla continuando a tenere duro. Questo è l'unico momento di positività all'interno di questo lavoro, perché è innegabile il fascino del sognatore che non cede, neanche di fronte alle più temibili avversità; l'avventuriero che non rinuncia al proprio sogno, alla fine del quale (e lo sa bene) troverà solo una morte senza gloria perché non ci sarà nessuno a raccogliere i suoi resti. L'autunno è un altro scenario che offre l'occasione per descrivere uno stato d'animo, il pezzo più psichedelico del lavoro: se il primo brano è quello che effettivamente colpisce di più, questo è quello che - quando assimilato - offre più spunti, regalando più prospettive grazie alle sue potenzialità che (questo è un augurio) potrebbero essere meglio sviluppate in un album. C'è spazio per diverse parentesi Stoner, influenza che non guasta certo; in questo EP ciò che appare davvero lontano è proprio il Thrash ed il Progressive! Un lavoro indubbiamente Metal ma... non esattamente: il termine più idoneo potrebbe essere Post-Metal. Un mix vincente che, pur attingendo all'origine del genere, incorpora in modo diverso elementi tradizionali: Punk, Hardcore, Psychedelic Rock e Stoner (anche qualcosa di vagamente Doom talvolta) vengono incorporati abilmente in questo EP che mantiene una forte e riconoscibile identità Heavy Metal. Particolarmente riuscito il lavoro del basso, che si è ambientato alla grande: un suono che, come la chitarra, viene proposto talvolta pulito ed altre distorto, uno strumento che sa e vuole essere protagonista. La batteria trasuda classe, mai prepotente, si presenta in modo garbato ma dice la sua con fermezza; una voce che offre un approccio genuinamente old school ?e la chitarra che fa da collante a tutto questo, sapendo anche regalare influenze Blues e Fusion che, davvero, sono l'ulteriore prova che questo gruppo non solo ha dato molto, ma ha certamente molto altro ancora da dare!
2) Forever Mountain
3) Fall
4) We Are Connected
5) Silver Machine