BLACK SABBATH
13
2013 - Vertigo
PAOLO VALHALLA RIBALDINI
27/06/2013
Recensione
Ci siamo. Dopo 35 anni dall'ultimo album della formazione con Ozzy, i Black Sabbath tornano in studio con il Madman per incidere 13, l'ideale successore di Never Say Die. Senza più le controversie legali che vedono Ozzy e Iommi contendersi i diritti sul nome della band, e che hanno portato i Sabbath a pubblicare The Devil You Know con il monicker Heaven And Hell, il Sabba Nero è libero di tornare a mostrarsi apertamente ai fans. Dopo la scomparsa di Ronnie James Dio, la macchina discografica si mette in moto. L'iniziale progetto prevede la reunion della line-up iniziale: Tony Iommi alla chitarra, Geezer Butler al basso, Bill Ward alla batteria ed Ozzy Osbourne dietro al microfono. Un tour mondiale viene organizzato per il 2012, ma le complicazioni della salute di Iommi fanno saltare tutti i piani del tour europeo (escluse poche date tra cui una informale a Birmingham ed una al Download Festival). Non bastassero le grane sanitarie, ci si mette pure l'ennesimo diverbio di natura economica interno alla band. Tutti si aspetterebbero un testa a testa a suon di avvocati "Iommi VS Ozzy", scazzottata da far impallidire le glorie di Rocky ed Apollo, con l'amabile Sharon Osbourne nell'angolo del Madman ad aizzare il marito come un cane bavoso. Invece no. Questa volta, stranamente, è Bill Ward a sollevare polverone, dichiarandosi insoddisfatto dei dividendi monetari tra i membri della band. Non è ben chiaro se pretenda la divisione in quattro fette uguali o se semplicemente gli sia stato promesso un compenso superiore a quanto poi effettivamente messo nero su bianco nel contratto, fatto sta che quel buon vecchio ubriacone di Bill si fa da parte con aria indignata. Gli indizi, le passate esperienze ed il famoso adagio "conosco i miei polli" portano a pensare che lo zampino di Sharon sia il nodo della questione. La vecchietta ebrea degna erede di Moira Orfei probabilmente ha giocato ancora una volta il più possibile per fare il proprio interesse e quello di Ozzy. La questione merita un breve approfondimento. Di Ozzy&Sharon, premiata ditta da badilate di album venduti all'inizio degli Ottanta (quando il Madman lo raccoglievano spesso nel proprio vomito), fautori di un fenomeno commerciale incredibile come l'Ozzfest, persino star della TV con il loro reality show familiare, sappiamo tutto o quasi. E quel che non sappiamo ce lo possiamo facilmente immaginare. Nessuno si nasconde che Sharon farebbe le scarpe persino ai "grandi cattivi" del cinema degli ultimi cinquant'anni. Hannibal Lecter? Se lo mangerebbe coi pancakes. Darth Vader? Gli curerebbe l'asma a calci in culo, altro che "la Forza". La ragazzina dell'Esorcista? A casa i preti, ci pensa Sharon. Il Joker? Gli toglierebbe il sorriso dalla faccia. E così via. Che Sharon sia una piaga mondiale è acclarato, meglio non aspettarsi correttezza, lealtà né tanto meno beneficenza da lei. Ma il buon Bill? Il caro vecchio zio Bill? La vera battaglia tra lui e John Bonham non è mai stata dietro alle pelli, ma attaccati alla bottiglia. Sfortunatamente l'amato John ha fatto una lunga sosta ai box... Ricapitolando le fughe principali di Ward dal Sabba Nero, la prima risale al 1980: tour di Heaven And Hell, Ozzy fuori dalle palle, Ronnie James Dio al microfono. Grandi canzoni, grande ambiente nella band, aria di festa! No, Bill ha nostalgia di Ozzy (amici quasi fraterni, i due) e deve pure ripulirsi dall'alcolismo. Molla la band nel mezzo del tour, viene reclutato il roccioso Vinnie Appice al suo posto e tutto va avanti grossomodo senza intoppi. E va bene, pazienza. Tre anni dopo, con Ian Gillan in formazione, ecco Bill registrare il discusso Born Again per poi lasciare il carrozzone prima del tour. Nel 2005, al progetto di reunion con Dio sotto il nome di Heaven And Hell, Bill accetta per fare poi un passo indietro pochi mesi dopo. La domanda a questo punto è: caro Bill, sarai anche il batterista della formazione originale, e il suono tuo ce l'hai solo tu, ma si può sapere che pretese hai!? Essere incasinato per 30 anni e tirarsi sempre fuori nei momenti meno opportuni non è esattamente un vanto da appuntarsi al bavero della giacca. Vaglielo a dire a Iommi, che quando tutti hanno lasciato la barca è comunque rimasto lì a riempire i dischi di riff, anche quando suonava con line-up completamente diverse da quella dell'esordio. Caro Bill, già è tanto che ti abbiano ripigliato (sempre tenendo ben chiaro che rimettere in piedi il quartetto originario è un'operazione eminentemente commerciale), non potresti accontentarti ed evitare di rompere le uova nel paniere a quel "qualche milione" di fans in giro per il mondo che vorrebbero tanto vedere voi quattro bastardi ancora insieme? Un dischetto, un touricino, ti pigli una sbarcata di soldi e te ne vai fuori dalle palle in santa pace. Te li puoi scolare tutti in Ballantine's se preferisci. Invece no. E pazienza. Per le poche date europee rimaste e per la crociata negli USA viene piazzato dietro alle pelli il giovanotto Tommy Clufetos, già dal 2010 drummer di Ozzy ma con alle spalle esperienze di primissimo calibro: John 5, Rob Zombie, Alice Cooper, Ted Nugent. Robetta insomma. Nessuno si sogna di mettere in discussione le capacità del virgulto, ma naturalmente si levano cori di disapprovazione: "Ma non è Bill Ward!". Eh... No reunion, no grande rimpatriata, no festa discografica dopo 35 anni. NO.
Nella seconda metà del 2012, mentre Iommi si cura, viene partorito il nuovo album: le redini della situazione vengono affidate nientemeno che a Rick Rubin, cocchiere di pluridecennale esperienza in molteplici generi, forte di aver lavorato anche (nel solo genere metal) con Metallica, Slipknot, Slayer, System Of A Down, Rage Against The Machine, Danzig, Audioslave e chi più ne ha più ne metta. Senza soffermarsi sui lavori con artisti di primissimo livello in altri stili musicali. L'intenzione dichiarata di Rubin come produttore è di riportare i Black Sabbath al suono dei primi album, quelli registrati - per intenderci - con pochi mezzi tecnologici e che si reggevano sul magnetismo dei riff di Iommi, sulla voce quantomeno bizzarra di Ozzy e sul groove poderoso di Geezer. Per ricreare la vecchia magia, il super-produttore rinchiude i Sabs' in uno studio di registrazione chiaramente bisognoso di una colf, dorme in un bugigattolo di due metri per tre di fianco al plexiglass divisorio, si veste con improbabili magliette della salute bianche e bombarda i malcapitati con l'ascolto in heavy rotation dei primi 2-3 dischi, che ovviamente i Nostri NON conoscono a memoria. Genio Rick Rubin. Genio. La scelta di Brad Wilk (Rage Against The Machine) viene motivata come segue: "Avevamo bisogno di un batterista che fosse capace di suonare quel che viene prima del metal. Oggi ci sono un sacco di persone capaci di suonare davvero bene il metal, ma non molte capaci di tornare al blues, al jazz, e dare a questi stili la pesantezza che contraddistingue i Sabbath. Ci serviva qualcuno che si inserisse bene nelle strutture astratte dei pezzi, in un contesto più orientato alla jam session, che è quel che rende Sabbath i Sabbath". Lo stesso Brad Wilk afferma, nel mini-documentario sulla produzione dell'album, di essere perfettamente consapevole che la maggior parte dei fans vorrebbe Ward dietro le pelli, e lui stesso è uno di questi. Chiariamoci: di batteristi che oggi suonino "meglio" del buon Bill o che sappiano imitare alla perfezione il suo stile ce ne sono a secchiate, ma naturalmente lui è stato il primo a fare certe cose ed ha inventato il modo di suonare la batteria nei Sabbath-con-Ozzy. Questioni puramente affettive, quindi. E commerciali. Ma comunque altamente motivate. Va da sé che, fatto fuori il "sommelier" della compagnia, bisogna in qualche modo portare a casa il risultato...
La prima traccia di 13 - "The End Of The Beginning" - comincia con un roccioso riff in modo frigio, basato sull'intervallo di seconda minore tipico del repertorio di Iommi: Faaaaaaaa - Doooooooo - ReBemolleeeeeeeeee - SolBemolleeeeeeeeeee! Viene da cantarlo dopo mezzo ascolto. Del tipo che basta sentirne metà per sapere come va a finire, l'assassino è il maggiordomo. Da subito si nota come la produzione moderna renda i suoni la vera essenza del doom, quello che gli epigoni dei Sabbath hanno tentato di ottenere in trent'anni smanettando coi potenziometri del gain e della distorsione. Ed ecco che tornano i vecchietti (con la vecchia volpe di Rubin) e mettono a posto tutto. Esattamente come quando si cerca quella maglietta tanto amata e non la si trova in nessun cassetto. Arriva mamma: "Beh, che problema c'è? Eccola qui". Tempo dell'operazione: numero secondi 2. Da notare la cura con cui Wilk imita il drumming un po' "stortarello" ed orchestrale di Bill Ward. Sorge spontanea una domanda. Di vil pecunia i Sabbath ne faranno senza dubbio a montagne con questo album, con il tour annesso e magari anche con la pubblicità del Coccolino (perché no? Non so mai come lavare il mio orsetto di pezza satanico). A questo punto, se fanno suonare un (bravo) batterista allo stesso modo di Bill Ward, non possono semplicemente pagare di più Bill Ward e riprenderselo? Anzi, probabilmente i Black Sabbath d.o.c. venderebbero ancora di più. Tutta la gente che non ha comprato il disco o i biglietti per gli show mugugnando "...gruntMAVOGLIAMOBILLWARDsnarl..." d'improvviso saltellerebbe felice come Kevin Costner con le Valleverde. E soldi a montagne. Palate. Transatlantici. In tutto questo chi ci rimette è Brad Wilk, snaturato del proprio stile per assomigliare a quello che ha praticamente insegnato - insieme a Bonham, Paice, Peart, Powell, Carmine Appice e pochi altri - a suonare la batteria nel metal. Dopo quasi un minuto di trionfale ripetizione del semplice ed ipnotico riff iniziale, che a questo punto nessuno è più in grado di scordarsi, cominciano le citazioni. La formula "gran casino seguito da chitarra in pulito che suona il riff con batteria di soli filler in accompagnamento" ricorda qualcosa. Momento. Chi ha detto "Black Sabbath"?! La voce di Ozzy - stranamente in forma per quanto confinata a tonalità ben più basse rispetto ai "tempi d'oro" - recita la cantilena che dà il titolo al brano: "Is this the end of the beginning or the beginning of the end? (trad. è questa la fine dell'inizio o l'inizio della fine?)". Un po' come a voler dire: pensate che ci siamo riuniti per il gran finale o per cominciare una nuova carriera assieme? Ai posteri l'ardua sentenza, ma se c'è proprio da scommettere forse meglio puntare su 13 come disco d'addio. Ovviamente il resto del testo non parla minimamente della band in quanto tale, essendo piuttosto una delle classiche auto-introspezioni di Geezer sul significato della vita come individualità, sull'identità personale e così via. Da applausi il verso "Regeneration of your cyber sonic soul". E uno che traduzione fa!? Dopo la mastodontica strofa col riff iniziale, una sezione in terzine dal groove pronunciato dà nuovo movimento alla canzone. Momento (cit.). Chi ha detto "Black Sabbath"?! (cit.) Senza dilungarsi sezione per sezione, basti sapere che la canzone si snoda attraverso una struttura episodica che ricorda molto lo stile dei primissimi brani, appunto come "Black Sabbath" o "War Pigs". Solo che stavolta sembra che la band abbia voluto amplificare questa caratteristica rispetto agli esordi. Le tonnellate di riff che Iommi ha apertamente dichiarato di aver ammassato in un cantuccio anno dopo anno sembrano aver fatto a gomitate per entrare tutte nell'album: la lunghezza dei brani e la poliedricità strutturale saranno uno dei grandi Leitmotive di 13... Dal punto di vista della performance non si può rimproverare nulla ai quattro cavalieri della croce rovesciata. Iommi è la solita macchina che sforna temi (principalmente in frigio ed eolio; e vabbè, quelli si sa che sono i suoi marchi di fabbrica, non avrebbe senso cambiarli), rimanendo anche di eleganza ed essenzialità encomiabili nel solismo. Geezer, per chi ancora se lo chiedesse, dimostra di essere "quello che ha inventato il groove nell'heavy metal". Ozzy si comporta straordinariamente bene e la sua voce è sufficientemente evocativa e presente da non risultare mai ridicola, per giunta non viene mai in mente durante l'ascolto che è vicino a dover portare il pannolone. Bravo Ozzy, e monumento al fonico. Brad Wilk, come già accennato, è grandioso nell'imitare lo stile di Bill Ward (ovviamente con il controllo e la padronanza dei mezzi di chi ha studiato "su" Bill Ward, ed in particolare sul suo uso di timpano e campane dei piatti) e tanto basta. Ulteriori considerazioni sarebbero inique nei suoi confronti: ci si limiti a considerarlo un egregio sostituto e si lascino le valutazioni artistiche ai suoi lavori coi Rage Against The Machine.
L'inizio di "God Is Dead?" è un semplice arpeggio in MiBemolle eolio costruito a regola d'arte sull'alternanza tra quinta giusta e tritono (un intervallo di quarta aumentata considerato in epoca medievale "Diabolus in musica", poiché non rispondeva a criteri matematici che i Pitagorici greci avevano elaborato per misurare le altezze dei suoni gli uni rispetto agli altri: in breve, il tritono si trascina dietro una lunga storia di esilio dall'armonia "corretta" in virtù della sua estraneità ai rapporti che governavano la teoria musicale di una certa epoca). Furbone, Tony Iommi. Seconda minore e tritono sono proprio gli intervalli dissonanti che, fin da principio, hanno contraddistinto il sound così particolare della formazione di Birmingham... Nello stesso riff compare anche qualche quinta aumentata, in modo da renderne ancora più esposto il carattere dissonante. Il testo si inserisce nel filone delle meditazioni di Geezer sull'esistenza o meno di Dio e dell'Aldilà (già argomento forte, per esempio, in "After Forever"). Questa volta viene pure tirato in ballo il filosofo baffone Friedrich Nietzsche, uno dei preferiti dai metallari, che coniò la famosa frase "Dio è morto" scritta nella sua "Gaia Scienza". Inutile dire che il concetto Nietzscheano è di una complessità tale da riempire libri su libri, ma la citazione di Geezer è da apprezzare!
"Loner" ricorda molto un altro grande successo dei giovani Sabbath: "N.I.B." ha un riff iniziale molto simile, la differenza più sensibile è nella ritmica. La sezione del bridge è poderosa ed è la prima, insieme al pre-solo, a non ricordare qualcosa di già sentito in altri dischi della band. Il testo è centrato sull'impossibilità di comunicare tra gli esseri umani ed un imprecisato individuo solitario ed asociale, che a questo punto può essere chiunque di noi. "Zeitgeist", l'hanno notato un po' tutti, assomiglia nettamente a "Planet Caravan" contenuta nel grande successo Paranoid. L'atmosfera psichedelica è identica, alimentata anche dalle percussioni sorde con cui Brad Wilk imita l'operato di Ward nella canzone del 1970. Il testo è uno dei più magnifici ed evocativi scritti da Geezer: si colloca a metà tra viaggio spaziale e futuristico, viaggio astrale e mistico (di cui Geezer si è interessato molto nel corso degli anni), destino della razza umana e scenari visionari. Guai a chi usa la parola "lisergico". Peraltro il titolo del brano è una parola tedesca principalmente associata al pensatore prussiano Georg W.F. Hegel (1770-1831), fautore di una filosofia dialettica dalla grande fiducia nelle capacità spirituali e razionali umane, tanto da ribaltare l'assunto di Immanuel Kant (che rimane comunque il principale "padre putativo" del pensiero hegeliano) secondo cui la ragione avrebbe dei limiti superimposti alla propria capacità di analisi e conoscenza. "Zeitgeist" è lo "spirito del tempo": semplificando agli estremi il concetto, è ciò che contraddistingue maggiormente lo spirito culturale di un'epoca, l'insieme delle sue coordinate nella storia umana. Qual è dunque lo spirito del nostro tempo per i Black Sabbath?
Guarda caso, il brano successivo si intitola "Age Of Reason". Mentre il riff iniziale presenta di nuovo la caratteristica del tritono, la strofa è retta da una ritmica dinamica che potrebbe essere associata al lavoro più recente dei Sabbath, The Devil You Know. Una sezione particolarmente maestosa e solenne dominata da sintetizzatori ne introduce un'altra - al contrario - oscura e dalle sonorità chiuse. In generale, "Age Of Reason" presenta una vasta molteplicità di riff che sembrano veramente dar sfogo a tutto ciò che Iommi ha lasciato "in soffitta" negli ultimi anni, prima del lungo e furioso solo finale. Sul piano lirico, la canzone si misura sapientemente (in pochi versi, tra l'altro) con una lunga serie di disgrazie portate dall'"età della ragione" che ha lasciato l'umanità sola soletta in un guazzabuglio di problemi senza una vera fonte di salvezza cui aggrapparsi. Forse questo si può dire più della postmodernità piuttosto che dell'età della ragione, ma intitolare una canzone "Age Of Post-Modernity" sarebbe stato poco avveduto dal punto di vista commerciale ed artistico. "Age Of Reason" va benissimo. "Live Forever" comincia con uno strano riff contenente una seconda aumentata ed una progressione abbastanza complessa rispetto agli standard sul modo eolio cui i Sabbath (e il metallo post-Sabbath) hanno abituato. La struttura della canzone non aggiunge nulla di particolare a quanto già sentito nei brani precedenti, ma si snoda abbastanza scorrevolmente grazie ad una sezione più cavalcata in cui il basso di Geezer conferisce ancora una volta un groove notevole. Dal punto di vista del testo questa volta non c'è stata una grossa spremitura di meningi: la classica dicotomia vita-morte, condita da un po' di scetticismo Berkeleyano, è il fondamento di un testo piuttosto scialbo per una canzone che non fa gridare al miracolo. Un filler, in pratica.
Più interessante è invece "Damaged Soul", che combina elementi dal sapore blues assolutamente riconducibili agli esordi del Sabba con la sonorità ed il gusto maturo degli ultimi anni. Decisamente trascinante la melodia dei due riff principali, quello di apertura e il commento pseudo-solistico della chitarra dopo le strofe. Lo special prima del solo, parimenti, è una cantilena semplice e mirabilmente costruita in cui la voce di Ozzy ricalca le orme di genuina e folle dabbenaggine che lo resero famoso all'inizio della carriera. Il testo si occupa del tema scottante della perdita di fede, ma anche l'argomento del peccato originale e dell'assenza di redenzione (con buona pace della teologia cristiana) si affacciano alla finestra del complesso bacino tematico dell'album. "Dear Father" chiude la tracklist ufficiale dell'album; rumori in studio introducono un riff paradossalmente più vicino alla tradizione doom originata proprio dai Sabbath che non allo stile iniziale della band. Anche in questa occasione tritoni e seconde minori come se piovesse. Il testo ondeggia tra lo scherno all'officiante di chiesa medio ed il solito quesito sull'unde malum da rivolgersi al padreterno (morto qualche canzone fa). Il tutto si conclude con rombo di tuono, scrosci di pioggia e rintocco di campane: l'inizio di "Black Sabbath" in Black Sabbath dei Black Sabbath, che 43 anni fa diede il calcio d'inizio ad un genere musicale.
Breve menzione per le quattro bonus tracks, che poco aggiungono al repertorio contenuto in 13: "Methademic" attinge a piene mani dallo sbinariamento più groovy ed alternativo di Iommi nei suoi album solisti; "Peace Of Mind" è un chiaro omaggio alle tracce iniziali di Sabbath Bloody Sabbath, un mid-tempo a toni semi-aperti in cui la voce di Ozzy cavalca per un momento tonalità di nuovo vagamente riconducibili ai fasti del passato; "Pariah" è un altro pacco regalo di riff andati perduti nella lavatrice insieme ai calzini spaiati; "Naïveté In Black", una carica di cavalleria dal riff abbastanza simile a "Eating The Cannibals" in The Devil You now, fa il verso al fatto che per decenni molti hanno pensato che "N.I.B." significasse "nativity in black".
Giunge il momento di tirare le somme su quel che è presumibilmente l'ultimo sforzo discografico di una delle più grandi ed influenti realtà della popular music. Un album fatto principalmente per mungere la vacca ancora un po' finché ce n'era, ovviamente (il che, ahinoi, lo mette a priori al riparo da qualunque valutazione artistica). Ma anche una specie di summa theologica dello stile-Sabbath, un saluto a milioni di fan che nel corso dei decenni hanno seguito ed amato la band in tante differenti incarnazioni. Dal punto di vista musicale, 13 è come un negozio di dolciumi in cui il bimbo goloso può fare man bassa di torte, caramelle, zucchero filato, pasticcini e così via. "Siamo in liquidazione, prendi pure tutto quel che vuoi". Occhi lucidi. Ma dopo un po' il mal di pancia è di rigore... La maggior parte dei brani dell'album dura un'eternità, spesso anche più di sette minuti, quasi come se Iommi avesse voluto fare le pulizie di primavera in mezzo alla caterva di riff inutilizzati che dice di aver registrato sulle cassettine nel corso degli anni. Veramente, è come se piovessero. Spesso le strutture sono altamente complesse e difficili da seguire, anche se non mancano mai del chiaro sound Sabbathiano. Il punto di forza di 13 è proprio questo: è cento per cento Sabbath. Ogni riff, ogni sputazzata di Ozzy, ogni giro di basso, perfino l'imitazione di Ward fatta da Brad Wilk, tutto odora di premiata ditta lontano un chilometro. Ma stavolta niente zolfo, non c'è la scintilla di spontaneità che contraddistingue perfino i lavori meno apprezzati degli Anni Ottanta e Novanta (chi ha detto Forbidden!?). D'altra parte era prevedibile avere in mano un giocattolone luccicante ma un po' falsato: l'intenzione dichiarata di Rick Rubin era di "ricreare la magia dei primi album". La magia non la ricrei, o c'è o non c'è. E ai Sabbath sicuramente non mancano idee, mestiere, inventiva e tonnellate di classe, ma quel che hanno fatto quattro decadi fa è ben diverso. Giusto uscire di scena con un disco, di nuovo (quasi) tutti insieme, giusto che in assenza di Ronnie James Dio - con il quale il lavoro di Iommi e Butler era sentito ed autentico nel progetto Heaven And Hell - sia stato Ozzy a tornare dietro il microfono, giusto che i tre vecchietti non si siano avventurati più di tanto nella ricerca del nuovo, ma abbiano semplicemente fatto quel che sanno fare meglio. Non appariranno presenze sataniche questa volta (anche perché i testi scritti da Butler sembrano più influenzati dalle crisi esistenziali della terza età che non dall'interesse per l'occulto), ma per il gran ballo d'addio almeno i Sabbath si sono messi il vestito buono. Il voto questa volta è puramente simbolico e provocatorio, non si danno i voti ai maestri. Non si può dar torto ai (tanti) critici e fan che grideranno alla sòla stracciandosi le vesti. Non si può nemmeno dar torto ai tanti altri - e chi scrive è tra questi - che il cappello se lo toglieranno sempre e diranno sempre "grazie".
1) End Of The Beginning
2) God Is Dead?
3) Loner
4) Zeitgeist
5) Age Of Reason
6) Live Forever
7) Damaged Soul
8) Dear Father
Bonus Tracks:
9) Methademic
10) Peace Of Mind
11) Pariah
12) Naïveté In Black