BLACK ACID SOULS
Shadow Walker
2015 - Autoprodotto
ANDREA CERASI
03/04/2015
Recensione
I Black Acid Souls (Chubbs e Zed alle chitarre; Gruff e Hoff, basso e batteria, Flakey alla voce) si formano nell’agosto 2008 in Inghilterra, precisamente nella contea di Northampton e, in poco tempo, riescono a ritagliarsi un piccolo spazio tra le band emergenti, riscuotendo non pochi consensi in giro per il paese e fomentando gli animi (ovviamente acidi e neri) degli appassionati grazie a concerti carichi di energia e di amore incondizionato per l’hard ‘n’ heavy di tradizione inglese. Dopo innumerevoli e continue apparizioni live, nonché una dedizione totale alla propria musica, riescono ad attirare l’attenzione della stampa producendo il primo singolo, “No Mans Land” del 2011 che, grazie al suo appeal, scala le classifiche rock e metal fino ad assestarsi al numero 44 e passando spesso (e a grande richiesta) nelle radio americane. Agli inizi del 2012 un loro brano dal titolo “Life And Death” è incluso in un videoclip del leggendario BMX rider Mark Webb, seguito a ruota dal secondo singolo “Precious Possession”, antipasto del debut-album “Deadly Sins”, licenziato qualche mese dopo. Il disco ottiene buone recensioni e permette alla band di esibirsi in vari festival musicali quali Artic Festival di Londra, Metal Gods di Mansfield (UK) e Hammerfest V, tenutosi nel marzo 2012 nel quale i Black Acid Souls si esibiscono sullo stesso palco di Sister Sin, Saint Vitus, Killing Joke, Napalm Death, Candlemass, Hatebreed, Sodom e molti altri. Nel 2013 la band partecipa ad altri festival, tra cui il Rock and Metal Circus e il Rock Diabetes concludendo, inoltre, una lunga ed estenuante tournée, incendiando i palchi inglesi e raccogliendo grandi consensi di critica e di pubblico. I ragazzi però non hanno intenzione di prendersi un periodo di riposo, anzi, si mettono subito a lavoro per dare alla luce il seguito di “Deadly Sins”, riuscendo persino ad accaparrarsi i preziosi servigi del grande produttore Chris Tsangarides (Judas Priest, Thin Lizzy, Black Sabbath, Anvil, Helloween), che collabora con loro alla lavorazione di “Shadow Walker”, secondo parto (in uscita a maggio 2015) del combo e qui recensito ed esaminato ai raggi x. L’affascinante cover-art è palesemente vecchio stile e illustra, in un’ambientazione macabra, una ragazzina con un orsacchiotto in mano e che fugge in preda al panico dalla morte, e già da qui si potrebbe intuire che il genere suonato dai cinque ragazzi è legato a stilemi più che classici, infatti inserendo il dischetto ottico all’interno del lettore le sensazioni provate si concretizzano in un suono derivato dalla mitologica N.W.O.B.H.M. (ma in bilico col thrash metal) e dalle tematiche oscure, per la gioia di tutti gli appassionati di metallo classico dalle venature nere, sulla scia di mostri sacri come Angel Witch, Witchfynde e Cloven Hoof, richiamati persino nella produzione dal gusto vagamente retrò ma comunque bella tirata e che riesce a creare un muro di suono invalicabile, tanto che si viene sommersi sin dall'inizio dai suoni massicci elaborati dai cinque ragazzi, tutti elementi tecnicamente preparati e con le idee chiare. Giunti a questo punto, prendiamo un bel respiro e immergiamoci nell'analisi minuziosa di "Shadow Walker", addentrandoci nei mistici e tetri labirinti musicali creati da questa giovane band.
Un pianoforte e sinistri cori introducono la maligna “Pain”, possente traccia d’apertura. Un arpeggio di chitarra acustica emerge dal nulla e accompagna le note nostalgiche della tastiera per preparare il pubblico a presenziare a una misteriosa cerimonia, il che crea una bella atmosfera che subito proietta l’ascoltatore in un mondo oscuro. La batteria di Hoff è quieta nell’incedere e, nello stesso momento, la voce sporca di Flakey prende il sopravvento, intonando dei versi basati su una buona melodia per un brano mid-tempo dall’antico sapore. Purtroppo la carica architettata è smorzata da un ritornello un po’ fiacco non supportato benissimo da una voce che risulta, in questo caso, troppo bassa e poco incisiva, però l’assolo di chitarra che ne segue fomenta e carica il pezzo facendo emergere la cattiveria della musica e delle intenzioni, accelerando il ritmo e destando attenzione. Ritorna il refrain che viene ripetuto diverse volte fino al termine diventando sempre più malsano, dove il vocalist accenna a una specie di growl maligno che funziona alla perfezione, appoggiandosi su una solida base strumentale, rocciosa e corposa. Una discreta canzone penalizzata purtroppo da un ritornello sottotono ma dotata comunque di un testo efficace che coinvolge. Un elogio al dolore, al dolore che si cela dietro una verità che non si può comprendere perché si è troppo ciechi e spaventati per vedere, quindi un inno alla debolezza umana, eppure c’è più vita di quanto non si immagini nelle parole pronunciate e nelle illusioni della mente e il dolore, scaturito da una vita misera e dalla tristezza, cresce nella testa travolgendo l’uomo. Non bisogna mai guardarsi indietro ma bisogna affrontare le proprie paure, lavare il sangue, prendere per mano i propri demoni e ricucire le ferite. Alcuni riescono a salvarsi ma il prezzo da pagare è elevato. L’indifferenza della gente condanna e uccide ma c’è sempre qualcuno disposto ad andare oltre e vedere gli sforzi per redimersi, invocare il perdono e capire il dolore altrui. “Bitter Taste Sweet” ha un’introduzione potente, le chitarre sono bombe innescate, ottimo il lavoro di Gruff al basso e grande prestazione di Hoff dietro le pelli. Flackey è grintoso al punto giusto e offre un’interpretazione di livello anche se il particolare timbro (e al limite della stonatura) che lo contraddistingue può risultare ostico ai primi ascolti. La sezione ritmica è compatta e svolge un lavoro efficace, sembrando una marcia di soldati pronti alla guerra, guidata dai grandi intrecci sonori di Chubbs e Zed che stridono le sei corde come ci si aspetta da un brano dall’istinto omicida, nonostante un semplice ma riuscito ritornello e una struttura classica di breve durata. “Bitter Taste Sweet” è una cavalcata hard ‘n heavy in perfetto stile anni 80, dall’architettura che alterna strofa-ritornello-bridge, dove echi di band come gli Angel Witch rimbombano nelle casse dello stereo grazie a un incedere oscuro e a un testo dal sapore amaro, nel quale si narra della fine di un’amicizia. Nonostante la fratellanza, il legame di appartenenza, l’amore e la miscela speciale che compongono l’amicizia stessa, ognuno ha scelto la sua strada, seguendo i propri impegni e spezzando quel sacro vincolo. Le difficoltà sono state molte e si è scelto di saltarle, correndo da tutt’altra parte con le lacrime agli occhi, lasciando in bocca quel dolce sapore amaro che tutte le perdite sprigionano. La violenza sonora prosegue con “Rising Death”, che eleva un muro di cemento alto come un palazzo nel quale gli strumenti ci si scagliano contro tanto è solido e monolitico. Una speed song dai connotati thrash e dal forte impatto che coinvolge nell’immediato grazie a una sezione ritmica potente, compatta e dalle venature oscure. I musicisti pestano come dannati e a metà, prima dell’ennesimo assolo convincente, una voce infernale resuscita dal nulla per accompagnare la base, è la voce della Morte stessa che incita alla foga e dona al pezzo quell’aria malsana tanto ricercata dalla band. A piacere è sicuramente il chorus che risulta, in questa occasione, orecchiabile grazie alle belle linee melodiche che lo supportano. Trattasi dunque di una traccia violenta e ben calibrata, che regala una buona impressione, forgiata nel fuoco dell’acciaio più classico e con un testo opprimente ma fiero e anche speranzoso nell’illustrare il tragicomico gioco della vita. L’esistenza è una partita a scacchi con la morte, molti cadono sotto i colpi dell’”oscura signora” e le lacrime a ben poco servono perché il destino di ogni essere umano è incerto e ostacolato dagli imprevisti. La vita è dura, misera, fragile, messa a repentaglio dai demoni usciti dall’inferno, il cui unico scopo è quello di prelevare più anime possibili e divorare l’umana carne putrefatta. L’agonia umana è il desiderio dei morti e la fine è l’unica verità che conta, eppure c’è sempre una speranza di vivere giustamente, con fierezza e orgoglio e contrastare la resurrezione della morte. Bisogna essere forti perché questa è la legge della natura, i deboli perdono e i combattenti trionfano. Si prosegue sulla stessa energica onda con “Fight Back”, altro pezzo pesante, sicuramente degno di nota, che risulta scatenato al punto giusto e che alterna, in diversi tratti, momenti rallentati ad altri velocissimi, dalle cui note emerge, grondante come sangue, tutto il nero della musica degli Acid Black Souls, che si scatenano in una cavalcata di epica memoria, suonata con gusto e perizia tecnica, accelerando il ritmo dopo i primi versi e il primo ritornello, scatenandosi in fase centrale in un vortice di assoli velenosi confezionati con mestiere e gusto melodico. La sezione ritmica pesta che è una bellezza per poi rallentare nuovamente nella seconda parte dove le briglie vengono tirate di nuovo riprendendo il ritmo cadenzato nel quale incastonare il buon refrain, feroce al punto giusto, anche se la prestazione di Flakey non riesce, anche qui, a convincere del tutto, rischiando di farsi soffocare dagli strumenti. A questo punto servirebbe un tipo di voce più alta e acuta, in grado di dare maggiore spessore alla musica, esibendo più sfumature vocali e meno tratti monocordi, tant’è che la traccia funziona, coadiuvata anche da liriche positive e coraggiose, nelle quali la band esprime la voglia di vivere e di combattere per ciò che si desidera, per realizzare i propri sogni, per vincere il dolore e le debolezze che minano il carattere di una persona. Le sofferenze e le piaghe dell’anima ormai si sono rimarginate, le cicatrici rimarranno in eterno a ricordo del percorso affrontato, ma ormai è tempo di alzare lo sguardo e camminare a testa alta, di riprendersi ciò che si è perduto. Il cammino dei sogni è ancora lungo e bisogna vivere la vita al massimo delle possibilità e riprendere il controllo di se stessi. Respirare profondamente e il dolore svanisce all’istante. La morte può attendere. “Cold As Stone” ha una grande introduzione, la batteria pulsa prepotente e la chitarra solista crea un giro incredibile che coinvolge subito, invece il basso di Gruff rifinisce il tutto trasformando la base in un tornado sonoro che ipnotizza l’ascoltatore. Esordisce il singer con voce grintosa e dosata al punto giusto, le strofe sono cattivissime e gasano diffondendo, in corpo, una buona dose di adrenalina. Ottimo il cambio di tempo tra strofa, pre-coro e ritornello dove il tempo rallenta e i ritmi vorticosi si smorzano puntando su una fase più ipnotica, laddove la sezione ritmica sembra ammorbidirsi, ma è solo un’illusione poiché da qui si prosegue con passo forsennato. Il terremoto scaturito dagli strumenti è incredibile, in questo frangente sembra di passare dall’heavy al thrash metal tanto il muro di suono è crudele e la successione è serrata. Lo scheletro che sorregge la canzone è ciclico perciò si ritorna alle aperture iniziali proponendo per l’ultima volta i primi versi e, di conseguenza, il buonissimo chorus, probabilmente uno dei migliori presenti nel disco. La dualità dell’animo è il soggetto del testo, dove il protagonista si misura con se stesso, visto come un nemico, un cinico con un cuore freddo come la pietra. Non si può andare avanti così, bisogna saper affrontare il proprio Io e prendere così una posizione definitiva, perché è pericoloso giocare con la propria mente. Le paure, infatti, sono nascoste nel cervello, tra le lacrime che cadono, negli occhi di una persona e spesso è difficile saperle distinguere. Il mondo che si popola è un regno di paura e di anime perdute, di dimensioni ignote e di parole malefiche, perciò non rimane che ribellarsi, sbarazzarsi delle parti deboli e diventare forti. E’ giunto il tempo di affrontare la vita. “Lives Love Lost” è il momento riflessivo e intimista, una toccante power-ballad introdotta da un arpeggio sofferto che dà origine alla magia di un pezzo davvero coinvolgente. Flakey è cauto e segue la melodia imposta dalla sezione ritmica. Il brano è suddiviso in quattro parti alternate per una struttura ciclica, dove la seconda e la quarta parte acquisiscono vigore attraverso un formidabile cambio di tempo, le chitarre si impennano eseguendo riffs importanti e lanciandosi in diversi assoli, mentre il basso riempie il suono e il tutto diventa un mid-tempo dove il vocalist ripropone le strofe per poi sorprendere con un ritornello che nemmeno sembra tale visto che non si distingue molto dal resto essendo poco melodico ma cattura e affascina nella sua discrezione, decretando la piena riuscita della ballata. Il testo è una breve ma intensa dedica d’amore per la donna perduta, incontrata durante una passeggiata. Lei indossava un giacchetto stretto e si muoveva sensuale sulla sabbia facendo scorrere le dita tra i capelli e il suo tono di voce era caldo come il sole. Così il ragazzo si mosse verso di lei, nella sua direzione e tentando l’approccio, un po’ confuso, annebbiato dalla sua bellezza e magari anche timido, fatto sta che riuscì a farla sua. L’uomo ricorda che fecero l’amore in spiaggia, sulla sabbia, mentre la temperatura cresceva fino a far sudare i loro corpi nudi. Insieme rimasero a guardare il tramonto e alla fine, dopo un profondo abbraccio, lei lo lasciò con la stessa discrezione di cui è composto il ritornello, spezzandogli il cuore. Adesso, dopo qualche tempo, lui ancora la cerca, vuole riconquistare la donna e coronare, dunque, il suo sogno d’amore ma, a volte, i sogni è meglio che rimangano tali. A mio avviso una splendida ballata. Con “Mirror Past” si torna a premere sull’acceleratore, dopo un attacco d’effetto e con una buona dose di energia sprigionata da chitarra e basso. Poco dopo la batteria di Hoff è in primo piano e dirige il gioco mentre il singer affronta una prova di tutto rispetto alzando la tonalità e testando i limiti della sua voce. Il metallo classico fa ancora capolino tra riffs di chitarra e parti strumentali davvero azzeccate, come il bellissimo assolo che si protrae da metà canzone fino al termine, sostenuto dai cori lontani di Flakey che donano al pezzo un’aria fiera e trionfale. Trattasi un brano dalla struttura particolare, in effetti abbiamo soltanto una strofa e due ritornelli, il resto, come appena accennato, è sommerso da un lunghissimo solo delle sei corde. Sicuramente uno tra i migliori brani della track-list di “Shadow Walker”, attraverso il quale si fanno incursioni nel mondo delle fiabe, o della magia, dove si racconta il passato attraverso uno specchio, oggetto questo carico di memorie e di racconti. Sulla lastra di vetro si rispecchia l’anima di un uomo, le sue paure, i suoi sospiri che prendono forma in una sorta di verità assoluta, anche se le ombre silenti spariscono nel buio e il loro riflesso da brillante si affievolisce con l’imbrunire. Sono le illusioni di oggi e il domani non conta. Lo specchio racconta la vita di colui che ci si riflette, la narra come se stesse leggendo un libro aperto, confrontando il passato col suo presente e osservando i cambiamenti. La verità è tutta in quell’oggetto misterioso, in grado di celare altre dimensioni, altri tempi, altre immagini, ma soprattutto la realtà. A mio avviso potrebbe elevarsi a traccia rappresentativa dell’intero lavoro, perché è un album che parla di paure, di dubbi, di orrori e dolori, di debolezze e di ombre, come esplicitato in “Shadow Walker”, che irrompe con un suono sognante, sofferto, molto nostalgico e dal grande appeal, poi il basso e la batteria cominciano a pestare per poi rilassarsi ancora, e allora Flakey comincia a cantare intonando subito il dolce chorus e che sentiremo, in seguito, modificato e potenziato. E’ incredibile la bellezza scaturita da questo pezzo che rientra sicuramente tra le hits del disco. L’andamento alterna fasi veloci ad altre più cadenzate fino a quando non si ha un cambio di tempo improvviso al terzo minuto, una sterzata che squarcia la trama sonora dove la chitarra solista sovrasta gli altri strumenti e si lancia in ritmi vorticosi e di grande perizia tecnica creando il terremoto. Poi il tutto si calma, tornando alle dolci melodie dell’inizio e concludendo con un finale sognante e da brividi. Meravigliosa traccia che si divincola in un refrain ripetuto più volte e da un testo abbastanza scarno ma che esprime il concetto dell’album, facendo tornare in mente la copertina in stile horror. E’ qui, infatti, che si parla dell’”Ombra che cammina”, probabilmente riferito alla morte o comunque a un cacciatore di vite, qualcosa insomma che si nasconde nella foschia delle tenebre, sotto la luce fioca della luna e che esce dunque solo di notte, pronta a infliggere dolori. Ma questa figura è subdola perché si nasconde nelle menti delle persone mentre queste dormono ed è pronto a uscire assetato di sangue. E’ tempo di giocare ed egli/ella è pronto a muoversi nel buio per diffondere lacrime e tristezza. Dalla cover-art si potrebbe pensare che “l’uomo nero” colpisca e spaventi soltanto i bambini, perché ingenui e paurosi, ma la verità è che non c’è distinzione di età o di sesso. Siamo tutti vittime della sua crudeltà. “Fates Game” è un brano particolare perché si denotano le influenze thrash metal nel riffing e ciò che salta all’orecchio è pura irruenza, senza spiragli melodici e con un ritornello stranamente ipnotico. Rallentamento nella fase centrale dove emerge un bel giro di basso, sprigionato tra sospiri e gorgheggi, e assolo lisergico di lunga durata per quella che è forse la traccia più particolare del lotto, composta da una struttura portante che alterna terzine, pre-chorus e refrain in sequenza, alternandoli per tutto il tempo come se fossero una cosa sola e in continuo movimento. L’ipnotismo del pezzo è talmente alto che quasi ci si perde nella sua oscurità, laddove potrebbe sembrare statico e monotono ai primi ascolti, penalizzato inoltre dalla prestazione monotona del vocalist, ma che conquista lentamente, ascolto dopo ascolto. Il testo sardonico conferma questo sentore nero e incantatore venendo, infatti, ripetuto più volte come fosse una cantilena dove si parla di fato, del destino imprevisto che coinvolge tutti noi e che ci costringe a un gioco assurdo chiamato Vita. Il fato è l’unico complice, un testimone strano, complicato, imprevedibile, dalla forza impetuosa in grado di sbriciolare ogni cosa e che si percepisce fin sotto la pelle. Vivere o morire, è questa la questione del giorno, perché l’esistenza del mortale è incerta, fragile, paradossale ma c’è un modo per affrontare la vita, vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, con gli occhi aperti e lo spirito pronto. Anche in questa canzone i Black Acid Souls testimoniano una nota di positività che va ricercata in un mare di oscurità sonora, garanzia che, nonostante la cupezza della musica, la speranza di trovare la luce è sempre l’ultima a morire. Nel pessimismo (o forse realismo) emerge la speranza di vivere in modo dignitoso, nonostante la stranezza e l’incanto di una breve vitalità che ostacola tutto e ci induce ad abbassare la testa. Tutto sommato un discreto pezzo non esente da difetti. “Night Watchmans Call” chiude l’album, l’arpeggio iniziale è inquietante, mette addosso la giusta tensione e la voce di Flakey decisa e acuta, anche qui al limite della stonatura, ma l’effetto è gradevole ed è seguito a ruota da una sezione ritmica ispirata e che pesta senza sosta tra duelli chitarristici, rallentamenti e accelerazione continue della batteria e un basso carico come una molla, tanto da assomigliare a un magma sonoro che tutto travolge. Ottime sono le strofe che comportano una buona melodia di fondo e trascinanti sono i pre-chorus disseminati nel brano. Purtroppo, come è spesso accaduto in precedenza, il ritornello vero e proprio risulta privo di grinta e affossa un brano ottimo con una linea melodica che parte bene ma che poi risulta prevedibile e priva di energia. La violenza la fa da padrone, per fortuna la sezione ritmica è indemoniata e ben calibrata, elevando la qualità di un pezzo, che se non fosse per un refrain stanco, sarebbe il migliore in assoluto. Il risultato è comunque importante e l’eleganza di “Night Watchmans Call”, alla fine, riesce ad emergere, ponendosi come una delle hits dell’album e chiudendo nel migliore dei modi un lavoro che, onestamente, mi ha lasciato qualche perplessità. Le liriche sono tra le più riuscite, facendo da critica sociale ai governi del mondo, i quali riducono la popolazione con inutili guerre e la rendono schiava utilizzando conflitti orchestrati e medicine e psicofarmaci per mutare le menti degli uomini. Basta osservare il male che ci stanno facendo per rabbrividire e odiare tutto, infatti non siamo più uomini ma burattini nelle mani del destino, in questo crudele mondo, violentato e distrutto dall’arroganza dei potenti. Bisogna ascoltare la voce del mondo, ascoltarlo e non essere sciocchi, pronti alla ribellione, prima che il pianeta sprofondi nelle tenebre per colpa di una setta di potenti malati, avidi e corrotti.
“Shadow Walker”, opera seconda dei Black Acid Souls, è di difficile assimilazione, nonostante un genere classico e non troppo elaborato, ma il lavoro in questione ha bisogno di qualche ascolto per entrare in testa ed essere apprezzato in pieno. Le atmosfere macabre, le melodie dosate col contagocce, le bordate metalliche al limite del thrash e quell’aria fumettistica sono ben presenti all’interno di un disco che, a molti, potrà sembrare anacronistico, invece è proprio questo il fascino di tale opera, in grado di proiettare l’ascoltatore nei mitici anni 80 e di sedurlo grazie all’innegabile talento della band. Le canzoni sono tutte ben strutturate, suonate bene e dal piglio giusto, con un’energia intrinseca davvero coinvolgente. L’impatto sonoro direi che è ottimo, tuttavia l’album non è esente da difetti e qualcosina non convince, come alcuni passaggi abbastanza scontati e alcuni ritornelli (“Pain”, “Fates Game”, “Night Watchmans Call”) anonimi, ma è poca cosa perché il problema maggiore, almeno al primo impatto, si ha con la voce di Flakey, fin troppo limitata per l’heavy metal dalle venature massicce e che molto spesso rischia di affossare il valore dei singoli brani. Al di là delle doti tecniche è proprio lo strano timbro a sorprendere, infatti, ho provato una sensazione di monotonia e stanchezza ai primi ascolti, poi, con i giorni e dopo un lungo rodaggio, mi sono abituato alla sua espressività. Lo ritengo comunque un piccolo limite ma chissà, col tempo, potrebbe diventare il vero marchio di fabbrica del combo inglese. “Shadow Walker” è comunque un album onesto, costituito da ottimi spunti e buoni testi e che potrebbe prendere anche mezzo punto in più in sede di valutazione qualora la voce di Flakey fosse apprezzata da parte del pubblico. Il decreto finale è sicuramente positivo, perciò si tratta di un buon punto di partenza per un'eventuale, futura, crescita artistica. Al termine dell'ascolto riemergiamo dalle acque paludose e putride che ci hanno investito per circa 50 minuti, con la testa ancora annebbiata e, a tastoni, cerchiamo di trovare l'uscita dal labirinto oscuro dentro al quale la band inglese ci ha proiettato con irruenza, testimonianza che le atmosfere create dal disco sono quelle giuste e che le dieci canzoni presentate sono tentacoli pronti a distendersi e ad agguantare quante più persone possibili. L'orrore è insito nella musica dei Black Acid Souls, un cumulo di nubi nere che si diffonde in cielo, anche se, ogni tanto, trapela un raggio di luce che dona una speranza di salvezza. Manca di affinare e limare ancora qualche cosa, non tutto funziona bene in questo meccanismo e spesso gli ingranaggi si inceppano, il voto ideale sarebbe tra il 6,5 e il 7 ma le doti ci sono ed è interessante la sensazione che un album del genere procura, perché è una sensazione di tensione, di stordimento, di nero perpetuo pronto a divorare le nostre povere e innocenti anime. Intorno a me, si è fatto improvvisamente buio, finito di scrivere questa recensione alzo la testa e getto lo sguardo fuori dalla finestra, la luce che prima filtrava e si abbatteva sulle pareti della camera adesso non c'è più ed è stata sostituida da strane ombre che lentamente avanzano. Non me ne ero reso conto ma il cielo si è fatto nuvoloso, eppure era una bella giornata di sole. Chissà se pioverà..
1) Pain
2) Bitter Taste Sweet
3) Rising Death
4) Fight Back
5) Cold As Stone
6) Lives Love Lost
7) Mirror Past
8) Shadow Walker
9) Fates Game
10) Night Watchmans Call