Beyond Our Ruins

A Dreadful Oath

2017 - indipendente

A CURA DI
NIMA TAYEBIAN
31/07/2017
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Il gruppo di cui mi vado ad occupare oggi è un'assoluta novità nel campo del melodic doom/death metal: un gruppo esordiente che a seguito di una demo di sei tracce ("Chapters of Dusk" del 2013) dà alle stampe nel 2017 il suo primo full length ufficiale. Loro sono i Beyond Our Ruins, e il disco che nello specifico mi accingo ad analizzare è "A Dreadful Oath" (uscito come già specificato quest'anno e autoprodotto). Un disco, questo, su cui si possono spendere parecchie parole, innanzitutto sottolineando la sua bellezza e genuinità: quando si parla di doom/death in relazione a qualche nuova band, molti ascoltatori sono portati immediatamente a pensare a qualche stretta "relazione" (leggete pure omaggio, plagio o palese rimando stilistico) con la celebre triade che ha reso famoso il sottogenere in questione (Anathema, Paradise Lost, My Dying Bride), e a dire il vero gli stessi Beyond Our Ruins non fanno mistero riguardo ad una qualche relazione stilistica con almeno due di questi tre gruppi (Paradise Lost, My Dying Bride, aggiungendo pure gli "epigoni" Swallow The Sun e i Daylight Dies) ma a dire il vero, se è pur chiaro che qualche rimando lo si trova sicuramente, è anche vero che lo spettro stilistico dei nostri risulta talmente più eterogeneo (sempre in ambito doom) che non è possibile etichettarli come meri epigoni, quanto piuttosto dei prosecutori del concetto di death/doom, ampliato nei confini e dai contenuti meno incasellati. Mi spiego. Se i rimandi ai tre celebri nomi di cui sopra si fanno sicuramente sentire, non è difficile neanche avvertire vaghi aloni del doom più classico (Trouble) e aloni meno vaghi di certo epic doom (Candlemass). Non mancano anche olezzi di melodic death (certi riff in Torn Asunder, alternati con un'approccio classic doom di cui parlavo sopra). Fattore, questo, che già determina una parte essenziale nella riuscita dell'album e, salvo future sorprese, di tutto il "progetto": in soldoni, se il gruppo continuerà su queste coordinate, magari ampliando ancora di più e in maniera ragionata lo spettro stilistico, allora è ovvio che il giudizio sarà sempre positivo; se al contrario vi sarà qualche inversione di rotta, e il prodotto risulterà via via più canonico e derivativo - ma ne dubito - non si potrà più parlare di tale monicker armati dell stesso ottimismo di cui faccio sfoggio ora. Certo, una buona dose di originalità e un variegato bagaglio di influenze sono solo una parte, forse neanche fondamentale (molti gruppi "derivativi" comunque danno alle stampe da anni album discreti) di ciò che serve per la piena riuscita di un disco. Importante, molto importante è soprattuto il saper catturare l'ascoltatore, e questi giovani ci riescono dannatamente bene. Partendo dall'incredibile opener (Oblivious), passando per ottimi brani come la citata Torn Asunder, sino alla conclusiva title track, tutti i brani sono davvero belli, ben fatti, capaci di rapirti e ingoiarti nelle loro perverse quanto affascinanti spire. E già questi fattori (discreta originalità/influenze variegate/capacità di intrattenere) dovrebbero bastare. Ma a completare il tutto, come ciliegina sulla torta, ci pensa anche la capacità dei singoli elementi, musicisti e cantante. Ottimi i musicisti (Luuk alla batteria, Joris e Mischa alle chitarre, Robert alle tastiere), dotati di una padronanza notevole dei loro rispettivi strumenti, e davvero bravo Bas, il cantante (e bassista), capace di alternare harsh vocals, clean vocals e modalità espressive più drammatiche con gran duttilità (riguardo alle "harsh vocals", i nostri definiscono tale modalità espressiva "grugniti vantablack", che non credo esistano, ma rendono bene l'idea di quanto si può sentire. Il vantablack per inciso è una sostanza composta da nanotubi di carbonio, nell'effettivo la sostanza più scura conosciuta - un nero vantablack è un nero "totale" - assorbente sino al 99,965% delle radiazioni. Per intenderci, un oggetto tridimensionale colorato in vantablack assumerebbe l'aspetto di una macchia nera. Anzi, proprio di un buco nero, riducendo così la sua tridimensionalità a bidimensionalità). Certo è esagerato definire questo growl un "growl vantablack" (ci si aspetterebbe qualcosa di talmente ultratombale da risvegliare persino Cthulhu) ma è molto cupo e putrido, e tanto basta. Prima di andare avanti e passare alla lente d'ingrandimento ogni singolo brano, permettetemi di darvi uno spaccato breve ma esaustivo sulla band, tradotto dalla loro stessa autobiografia: "I Beyond Our Ruins sono una "Darkned (darkeggiante) Melodic Doom" band proveniente da North-Brabant, Paesi Bassi. Aspettatevi heavy funeral hymns (inni funerei duri), sinistre melodie di chitarra, grugniti vantablack (ne abbiamo parlato prima. N.d.A.), "fragile piano tones", epici dialoghi armonici tra tastiere e chitarre, percussioni pulsanti, alti tonanti, bassi frantumanti. Per chi fosse in cerca di riferimenti, la band trasuda anche un'atmosfera già espressa da artisti come Swallow the Sun, Katatonia e Paradise Lost. La band è stata fondata nell'ottobre del 2008, fino ad arrivare all'ottobre del 2012, quando i Beyond Our Ruins suonano ormai con la loro attuale formazione, con il risultato di ottenere un sound ed uno stile più definiti. La band ha condiviso il palco con artisti quali October Tide, Esoteric, Funeralium, Officium Triste, Eye of Solitude, Marche Funèbre e Facade" Bene, detto ciò, e consapevole di non dover aggiungere altro, direi di passare alla nostra consueta track by track.

Oblivious

Si inizia ottimamente con l'opener "Oblivious" (Inconsapevole), brano dai toni drammatici e "romantici", dall'appeal particolarmente melodico. L'introduzione è affidata prima a suoni distanti e confusi, evanescenti e sfocati, che confluiscono nel giro di pochi secondi in macilento guitar work, desolato e cupo. Tale pattern va avanti sino al minuto e venti, quando subentra l'urlo strozzato di Bas, e si scivola pesantemente verso territori estremamente consoni ad Anathema (primo periodo) e My Dying Bride. Il pattern diviene catacombale, le chitarre inanellano tessiture estremamente desolanti, la batteria è usata in maniera molto parsimoniosa per scandire i tempi (lenti). A minuto e cinquanta un guitar work vertiginoso in odore proprio dei primi Anathema (The Silent Enigma) introduce in maniera definitiva la voce (che prima aveva fatto solo capolino con un grugnito da oltretomba). Il vocalist ci introduce così ad una parte testuale a dire il vero di non facilissima interpretazione, che sembra parlare di odio, di follia e di qualcosa che cresce all'interno del protagonista/voce narrante. Il protagonista si rivolge ad un elemento non specificato dicendogli/le di lasciarlo solo con la propria follia, rimproverando questi del fatto che sia ingiusto che lui sia stato eletto ad "agente della morte". Molte cose lasciano intendere che il protagonista parli del fatto che il suo marciume deriva sicuramente dal suo background ("Così io stupro come noi abbiamo seminato") ma si evince una sorta di malcelata innocenza, quando si parla del fatto che "lui" è nato inconsapevole e vuole essere lasciato con la propria follia (dunque si giustificherebbe con la sua iniziale inconsapevolezza e che attraverso il background malato di cui sopra lui sia dibìventato folle). Il tutto potrebbe essere anche interpretabile come un'allegoria del "messaggio" della band e dei suoi generi di riferimento (death metal etc), il che potrebbe essere molto plausibile. Un'allegoria (L'allegoria è una figura retorica per cui qualcosa di astratto viene espresso attraverso un'immagine concreta) che punta a creare un contesto, a dipingere scenari tetri in cui poter sguazzare, come in una putrida pozza di melma. Ritornando al piano strettamente musicale, conseguentemente ad un guitar work "vertiginoso" (nella pur non eccessiva complessità, tale lavoro alla chitarra evoca un senso di caduta, di "salto nel vuoto", a riprova che la musica talvolta suscita più emozioni di tante arti "visuali"), si arriva al refrain, molto più solare (ma attenzione, "molto più solare" non vuol dire effettivamente solare, al massimo sembrano trasparire spiragli di luce nelle tetre nubi in cui il brano sembrava avvolto sino ad ora) e soprattutto particolarmente catchy e di grande effetto, in cui la voce, abbandonata momentaneamente l'impostazione harsh, si destreggia in ottime clean vocals. Anche la batteria, sino ad ora usata con parsimonia, aumenta i colpi e da sfoggio di una certa versatilità. A due minuti e quarantasei ancora una parte lenta, funebre, sulla scia di quanto sentito prima del refrain (l'eccezione è nela batteria, più variegata). Parte che culmina ancora nel refrain (3'15"). Al termine del refrain c'è anche spazio per un protagonismo della batteria, che, con la chitarra in sottofondo si diletta in una marziale gragnola di colpi. A tre minuti e cinquanta è la volta della voce in growl, possente, animalesca, accompagnata da un riffing molto carico. Il riffing si ripete più e più volte lasciando libera la voce di sfogarsi tra grugniti bassi e parti maggiormente in scream. A quattro minuti e venti ancora il giro ripetuto di chitarra già sentito più volte (quello da me definito in qualche modo "vertiginoso"), con la voce animalesca del singer a fare da contraltare. A quattro minuti e tre quarti di nuovo il refrain, sul quale mi sembra ci sia poco da aggiungere.

Dirge of Damnation

Si continua altrettanto bene con la successiva "Dirge of Damnation" (Nenia della Dannazione). Il pezzo inizia sulla scorta di note allungate di chitarra stoppate dalla batteria, break e così per un paio di volte. Al venticinquesimo secondo inizia un affascinante guitar work, molto evocativo, che sfocia in un turbinoso lavoro di batteria e nella voce di Bas, ora impostata nel suo melmoso growl. La voce stavolta ci introduce ad una parte testuale che prende spunto da visioni "medievali" per trascinarci in una spirale di orrori e devastazione. Il tutto è introdotto da quella che viene definita una "carneficina scarlatta" (possibilmente la stessa "Morte Rossa" di cui parla Edgar Allan Poe nel racconto quasi omonimo, ossia "La Mascherata Della Morte Rossa") seguita da un'autentica serie di stragi e razzie compiute da quelle che definiremmo "orde infernali" ("come il maestro di Mephisto raccolse le truppe, ancora e ancora, stupro inseminante, rovine e disperazione"...) accennate più che "definite" appieno. Non vi sono infatti passaggi specifici atti a definire i singoli momenti delle devastazioni compiute dai demoni, né la descrizione di tali entità, ma solo "elementi contingenti" ("L'insediamento mostrava pochi segni di vita... una volta il branco di lupi [wolfpack] entrò nel nascondiglio, una grigia dormienza prese possesso della residenza") e resoconti dell'accaduto ("La puzza di marcio ed escrementi" [...] "Una roccaforte desolata e semi-distrutta" e ancora "Pile di frattaglie di neonati pulsare su una pira funebre.Vita carbonizzata e tremolante sul fuoco. Bambini squartati quella notte"). Ancora una volta ci si trova di fronte ad allegorie atte a definire il concetto di totale devastazione, di male, di negatività, in una spirale di frasi evocative destinate a suggerire piuttosto che raccontare (non vi è un vero e proprio racconto definito), a dare degli input piuttosto che creare un intreccio che abbia un inizio e una fine. Tornando al lato musicale, la batteria dal quarantesimo secondo vira verso una gragnola di colpi che aumentano l'intensità del pattern, coadiuvata dal vocione grasso e tetro di Bas e da un lavoro alla chitarra molto melodico. A un minuto e quattordici il refrain, estremamente melodico e improntato sulla voce "drammatica" del singer. Variegata la batteria e un guitar work usato solo come pattern di fondo. A un minuto e quarantacinque, alla fine del refrain, il guitar work torna più serrato ed evidente, unito ad una batteria ancora una volta veloce e molto incisiva. A due minuti abbiamo un troncone molto simile a quanto sentito dal quarantesimo secondo in su, parte destinata a scivolare ancora una volta nel pregevole refrain (2'33"). Subentra uno "stop" prima del minuto e dieci, in "fade" (è un'ultima nota prolungata a determinare la fine di questa parte) che precede un giro acustico iniettato di una malcelata mestizia, preambolo di una parte più "atmosferica" che si riaggancia a tale guitar work. La voce si inserisce verso i tre minuti e quarantacinque: una voce spenta e funerea (siamo nei territori dei My Dying Bride "senza growl", insomma, da The Angel And The Dark River in su). A quattro minuto e quindici un lavoro possente di chitarra introduce una nuova parte, molto melodica e ben più scattante del precedente troncone, introdotta dal ruggito di Bas. Seguendo i binari tracciati da questa nuova parte, si continua, oltrepassata la soglia dei cinque minuti, su frangenti melodici, stavolta addizionati alle vocals cupe ma pulite del singer. Finale dal gusto tra il melodico e l'irruento gestito su pregevoli partiture chitarristiche, e sulla voce del singer in alternanza tra harsh e clean vocals. Nel complesso un ottimo brano, il più lungo del lotto, che comunque non sa stancare in virtù di una capacità di far presa quasi immediatamente. Irruenza e "musicalità" perfettamente amalgamate in una miscela capace di determinarne la totale riuscita.

A Seance In Fear

Il proseguo è affidato alla terza track, "A Seance in Fear" (Una Seduta nella Paura), ottima track con un titolo che lascia poco spazio all'immaginazione (il termine seance indicherebbe la parola "seduta" ed è frequentemente usato per "seduta spiritica"). L'inizio è soffuso e lascia spazio a un mesto guitar work gestito su poche note, addizionato a moderati rintocchi di batteria. A questo cesello strumentale si aggiungono sparute intrusioni di chitarra ribassata, sino a quando, al quarantacinquesimo secondo, si entra in una struttura meno macilenta e decisamente più grintosa, comunque irrorata di una certa carica malinconica. Ancora ci si mantiene su lidi totalmente strumentali. La voce infatto subentra solo al minuto e quattordici, per introdurci in una parte testuale desolante e dal retrogusto pessimista: stavolta, sebbene vi sia ancora un collegamento con i testi precedenti, o meglio, con l'immaginario dei testi precedenti, potremmo quasi definire il testo di questo pezzo un prequel di quello dei primo. Il protagonista cerca di vivere la propria vita secondo gli schemi della società, fino a quando non sente una terribile predestinazione. Sebbene non rifugga il suo destino, egli vive la sua situazione con un'enorme solitudine. Tutta la poetica della band è permeata dalla solitudine dell'essere umano da quando egli nasce fino a quando non muore. I riferimenti alla madre sembrano suggerire un generico desiderio di salvezza, al quale segue il silenzio. Nel brano in questione il protagonista si trova "all'alba della propria vita", completamente solo, con un cammino avanti a se da percorrere; il fatto di mettere insieme termini come "oltre la vita" e "oltre la morte" ci fa capire che il protagonista si trova in una sorta di "limbo", di zona del crepuscolo in cui il pensiero della madre assume una sorta di componente salvifica. Tornando alla parte più strettamente musicale, a seguito di una prima parte molto melodica (sino al minuto e quaranta) ci si trova di fronte ad un inframezzo in cui a dominare è un riffing cupo e roboante. Oltrepassato il minuto e cinquantacinque si ritorna su lidi musicali più mesti e decadenti (sulla scia di quanto sentito prima dell'intramezzo). A due minuti e ventiquattro un nuovo intermezzo, uguale al precedente. A due minuti e quaranta subentra un giro di chitarra tanto melodico quanto luciferino, e la voce di Bas cambia registro lasciandosi andare al suo poderoso growl. Break appena prima dei tre minuti, quindi una parte più atmosferica gestita su tristi accordi di chitarra acustica. A tre minuti e venti vediamo come il pezzo si mantenga particolarmente lugubre, funereo: a un cesello strumentale dimesso fa eco la voce spenta del singer (il referente potrebbe essere ancora Aaron Stainthorpe, in una versione più spenta della modalità vocale ascoltata in 34.788%... Complete). A tre minuti e cinquanta la voce si fa quasi angelica, soffusa (già ci siamo fatti un'ampia idea della grande capacità interpretativa di Bas), i ritmi rimangono comunque tendenzialmente inalterati: di base spenti, ma comunque dotati di un pregevole appeal melodico. A quattro minuti e ventidue comunque, quasi inaspettatamente i toni si rivitalizzano e in breve siamo rifiondati in lidi più "colorati" in cui le nuages seppia del precedente troncone sembrano svanire come fumo al vento. Il pezzo si fa improvvisamente "rockeggiante" e sembra attenuarsi qualsiasi pesantezza metallica sentita sino ad ora (tranne che, forse, nquasi alla fine, in cui la batteria si fa più energica).

Legion

Si continua con la quarta track "Legion" (Legione), introdotta da un ricamo strumentale ancora una volta soffuso, addizionato ben presto alle vocals di Bas, che partono subito in un fangoso growl. Queste ci introducono una parte testuale di stampo apocalittico (il titolo cita appunto Legione, che secondo i cosiddetti vangeli canonici è il nome proprio di un demone che rappresenta un gruppo di diavoli, il quale possedette un uomo di Gerasa; Legione fu, sempre secondo i vangeli, scacciato da Gesu Cristo. Il termine Legione è di origine tardiva, considerando che dall'aramaico subì una traduzione direttamente in latino come "Legionem", termine che indica una schiera, una moltitudine, e che nel nostro caso si riferisce a dei diavoli uniti in un'unica entità il cui scopo è possedere il corpo di qualche malcapitato) e a dire il vero estremamente lineare e comprensibile. Praticamente si narra di un'uomo che "risponde" all'invito del demone Legione di possedere il suo corpo per causare devastazione. A seguito di una notte di riposo questi si mette in cammino, guidato dal suo demone ospite, verso la sua missione di devastazione (vi sono altri rimandi biblici, come l'uccisione dei primogeniti) e testualmente si può sentire, in uno dei passaggi, una farse che recita "Per infestare, per seminare infelicità, per spargere la morte". Per inciso, è possibile trovare un sottile filo rosso (almeno sino ad ora) tra i brani: la figura che dice "sii mio padre, il mio dio ecc" sembra essere la stessa figura già apparsa nel brano precedente. Verso il cinquantesimo secondo il growl passa ad una sorta di scream acido, e i tempi divengono, seppur di poco, più incalzanti. Si rimane comunque su tempi medi, anche se rispetto all'inizio, molto flemmatico, una vaga "accelerazione" si sente. Verso il minuto la texture è screziata da un pregevole assolo, breve, che ci porta al minuto e tredici ad una parte più robusta in cui è di nuovo il growl di Bas a farla da padrone. A un minuto e quarantadue si scivola nel refrain, caratterizzato da un'impostazione molto melodica, ancora una volta più "rockeggiante" che metallica, screziato dalla voce stavolta pulita e sibillina del singer e destinato ad accelerare moderatamente nei tempi verso il minuto e cinquantacinque. A due minuti e dieci circa i ritmi tornano granitici, e vi è un reinserimento dello scream arcigno ("grim vocals") di Bas. Pregevole l'inserimento anche di un esotico giro di chitarra in tale frangente. Pochi secondi dopo allo scream si sostituisce il growl, prima di una nuova ripetizione del melodico refrain. A tre minuti e trentacinque accelerazione (dettata dalla batteria) e scream acido, quindi una parte granitica, altra accelerazione e nuova parte granitica. Ancora un'accelerazione, quindi si entra in un troncone più "atmosferico" marcato dal tamburellio incessante della batteria. A cinque minuti la chitarra impone maggiore grinta al pattern di fondo senza snaturarne l'andamento.

Rapture Coming Down

Il proseguo è affidato alla quinta track, "Rapture Coming Down" (La Calata della Razzia), dall'andamento più pesante e claustrofobico rispetto a quanto sentito sino ad ora. Si parte con un cesello chitarristico (destinato poi a divenire praticamente onnipresente nel brano) molto cupo, presto addizionato alla batteria. Verso i cinquanta secondi il brano si assesta su ritmiche più poderose, grazie ad un riffing molto pesante e una batteria piuttosto "marziale": il clima che si va instaurando è dunque pesantissimo nella sua lentezza (nella migliore tradizione doom) e sembra di trovarsi di fronte ad una marcia di qualcosa di grosso e putrescente. Il riffing usato in questo frangente è un'altro dei leit motiv del brano, che nel complesso usa poche armi a sua disposizione ma abbastanza incisive. La voce, stavolta molto poco decifrabile (è un growl davvero cupo, stile scarico del lavandino - ma non in pig squealing - e bisogna ammettere che un'impostazione vocale simile generalmente la potremmo trovare su qualche prodotto funeral doom o - forse - slamming brutal death) ci porta al cospetto di una parte testuale invero a tratti più "risicata" rispetto a molte cose sentite in precedenza (spesso ci si limita a poche parole o frasi. Ad esempio, all'inizio si sente "L'alba/ Del mio dolore/ Destino/ Nel mio nome/ Oscurità/ Nel mio sangue" che, in poche parole, è facile evincere che faccia riferimento all'inizio del cammino del "predestinato" protagonista dell'intera poetica della band. Il nuovo mondo (quello che sorge dalle ceneri lasciate dall'avvento del regno delle tenebre - del quale fa parte il già citato "Legione" - visto nei precedenti brani) ha origine da costui, anche attraverso il riferimento a Prometeo, e dunque attraverso fiamme che sono sacro potere ma anche vascello di morte e distruzione. Diciamo che in poche parole l'intera "trama" del testo si basa su una sorta di lunga autoriflessione compiuta dal protagonista, essere dai connotati più diabolici che umani, e questa sorta di autointrospezione si compie attraverso parole talvolta molto semplici. Tutto è basato sui pensieri di questo oscuro personaggio, rivolti alla morte, all'oscurità e al suo ruolo con tutto questo. Musicalmente, come già detto, il brano prosegue quasi in toto su ritmi macilenti, talvolta marziali, talvolta più distesi, alternando il grasso rifferama di cui sopra ad altre soluzioni maggiormente melodiche (come a due minuti e quarantadue, quando subentra un'intrigante giro di chitarra). Poche le variazioni (a tre minuti ad esempio abbiamo una parte più dinamica, comunque molto possente) ma piazzate in maniera giusta, a riprova che anche con limitati cambi di tempo e atmosfere si può fare un buon brano.

Torn Asunder

Si continua con "Torn Asunder" (Lacerato), brano citato più volte nell'intro e considerabile forse come uno dei migliori del lotto. L'introduzione è affidata ad un riffing a metà strada tra Candlemass e Trouble, che in breve incorpora la voce in growl del singer. Questi ancora una volta ci esplicita una parte testuale dai connotati nuovamente, ma più velatamente, apocalittica. L'espressione "il difetto di una farfalla" che "pulsa nelle mie vene" non trova una precisa traduzione in italiano, ma potrebbe sottintendere un malessere da parte dell'ecosistema. Tutto sembra in effetti rimandare ad una disastrosa condizione del pianeta, condizione che giustifica in qualche modo l'"inondazione di sangue" citata nel testo, e che potrebbe essere un'altra metafora per la stessa cruenta "purificazione" a cui fanno riferimento le altre tracce. Qualcosa che la razza umana, sotto un giudizio che presto si abbatterà su di lei, ha causato con la sua incuria per il pianeta. Questa potrebbe essere una versione plausibile, ma in realtà, essendo un testo dotato di molte parti pressoché "sfumate" e possibilmente soggette ad interpretazioni, potrebbe essere la semplice descrizione del destino della terra che si abbatte su tutto e tutti, puro nichilismo sanguigno in stile death. Comunque c'è da specificare che nella sua modalità (riflessione dotata di punte di introspezione, visioni marcescenti e riferimenti alla martoriazione del proprio io) il brano in questione trova parallelismi con il precedente ("stuprato", "abusato dello spreco", "sodomizzato", "fatto a pezzi", e ancora "inondazione di sangue" e "il lutto di un pianeta ferito" tutte frasi che rimandano all'annichilimento del proprio io e ad un complessivo annichilimento del mondo circostante). Tornando al piano più strettamente musicale, a seguito di un primo riffing doomeggiante, troviamo l'inserimento di un cesello chitarristico che volendo potrebbe trovare parallelismi con certo melodic death. Idem dicasi per il riff successivo (appena prima dei quaranta secondi), comunque collegato a doppio filo con il primo. Ancora una piccola variazione verso i cinquanta secondi con l'inserimento di un riff più freddo, sicuramente meno evocativo, ma capace di garantire una certa tensione. A un minuto e venti il guitar work diviene più serrato, ben coadiuvato da una batteria sempre varia. Pochi secondi dopo si ritorna al cesello di chitarra di reminiscenza melodic death già sentito in precedenza. A due minuti si ritorna a pestare duro con il riff di scuola classic doom (quello introduttivo, per intenderci). Quindi, un gioco alternato di batteria e chitarra (verso i tre minuti: la chitarra si impone con una bozza di melodia, immediatamente raggiunta dalla batteria) per diverse volte, prima che la batteria imponga ritmi serrati e veloci, raggiunta immediatamente dal growl animalesco di Bas. A quasi tre minuti e quaranta subentrano le clean vocals del singer, sostituendosi al precedente growl, e imponendo a questo frangente un carattere si possente ma anche decisamente melodico. A quattro minuti e un quarto un ultimo rallentamento imposto da un riff in fase di spegnimento e una batteria sempre più lenta.

Pantheon

La settima track "Pantheon" inizia con un guitar work minimale che quasi subito inizia una sorta di botta e risposta con la batteria. Il clima, abbastanza teso che si viene a creare, funge da preambolo all'entrata della voce - stavolta giostrata su toni dimessi e spenti, vagamente teatrali - che ci trascina in una parte testuale in qualche modo affine a molte cose sentite sino ad ora: il "predestinato" (ricorrente nella poetica dei nostri) incontra faccia a faccia l'entità - o deità - artefice del suo destino, quella che negli altri brani era ora un'ombra, ora Mephisto, e così via. Tale predestinato diviene a sua volta sacrificio sull'altare dell'inferno, nel personale e malefico pantheon dell'entità malefica. Non è chiaro se il tradimento, il rifiuto e gli inganni siano qualcosa che il predestinato ha perpetrato nei confronti del suo oscuro signore, e che per tale motivo sia divenuto sacrificabile. Mentre di questa oscura figura, in alcuni brani, troviamo pensieri "in prima persona", qui l'elemento narrante è un personaggio esterno, l' oscuro signore,  che conduce a se tale "figura", il cui incontro sembra qualcosa di predestinato. I toni usati dall'oscuro signore, l'entità preponderante, sono molto accondiscendenti verso quello che chiama il "predestinato", tanto da sfiorare il "familiare" ("tutto è buono quando sei con me"). Riguardo alla parte musicale, i ritmi si mantengono energici (merito dell'ottimo lavoro di chitarra) ma al contempo danno spazio a una certa musicalità. Ritmi possenti e ineluttabili, nella migliore tradizione doom, pregni di un certo retrogusto "brumoso". A un minuto e trentasei subentrano le harsh vocals di Bas, su un tappeto strumentale che poco si discosta da quanto sentito sino ad ora. A un minuto e cinquanta il refrain, più dinamico e melodico - in cui le vocals si fanno improvvisamente pulite - che scivola presto in una parte più irruenta gestita su di un riffing roboante e una batteria veloce. A due minuti e trenta si ritorna su ritmi maggiormente rallentati e decisamente "rocciosi", coadiuvati ancora una volta dalla voce "consunta" del singer. A tre minuti e venti ancora harsh vocals che ci portano in breve al refrain, gestito ancora una volta - non poteva essere altrimenti - su tessiture "ariose" e vocals pulite. Quindi ancora harsh vocals e ritmi belligeranti. Oltrepassato il quarto minuto il riffing si fa serrato (si fanno sentire echi post-thrash e forse djent), quindi, arrivati ai quattro minuti e tre quarti emerge un giro di chitarra minaccioso destinato a sfociare in una parte abbastanza evocativa.

A Dreadful Oath

Si conclude in bellezza con la title track, "A Dreadful Oath" (Un Terrificante Giuramento), pezzo particolare in cui l'accezione "doom/death" assume toni vagamente differenti da quanto siamo abituati a sentire. Mi spiego: se il doom-death metal normalmente (ma non sempre) si basa su un doom dal mood (il mio discorso è sul piano musicale, ma testualmente navighiamo nelle stesse acque) romantico/decadente addizionato a vocals death, in questo caso ci troviamo di fronte ad un brano dal flavour potenzialmente death, ma con rallentamenti e partiture romantiche/decadenti. So che per molti sembrerà la stessa cosa, ma un conto è un brano doom dotato di harsh vocals e un conto è un brano death rallentato dotato di frangenti doom. E questo è, a mio parere, il caso di questo brano conclusivo - ancora una volta dotato di un gran fascino - al cui interno è facile riconoscere tessiture che sembrano appartenere più al patrimonio melodic death che al doom. Ma torniamo alla nostra analisi "canonica". Il brano prende il via con un lavoro di chitarra che ancora una volta ci traghetta su sentieri desolati e mesti. Una chitarra "nuda" (niente batteria, basso, vocals) che lavora di cesello per esprimere umbratili sentimenti, tinti di ocra e seppia. Oltrepassati i trenta secondi si ergono a protagonisti batteria e basso, e immediatamente dopo la voce, che ci porta stavolta in una pare testuale immaginifica, ricca di spunti visuali. Vi sono rimandi romantici e decadenti nei vari passagi, che talvolta sembrano apparentemente slegati tra loro ("Un mazzo di rose profumò l'alba, Attirato dall'indomita montagna oscura", "Purezza che respinge la debolezza della carne, Egli ottenne ragione, Sfidando un destino dall'esito drammatico"). Vi è un uso di figure retoriche ("Di un elegia lorda di sangue") atte a imprimere un'efficacia maggiore a una "narrazione" che in realtà sembra talvolta una tavolozza impressionista ("colori puri" stesi talvolta con un certo "lirismo", destinati a rafforzare la descrizione delle varie immagini). Nel complesso comunque possiamo dire che, nell'effettivo, questo risulta il testo più lungo ed articolato, volutamente pregno di termini ricercati e rimandi culturali, oltre che delle figure retoriche già accennate, le quali, più che a un significato preciso, guardano soprattutto ad un particolare senso immaginifico, dando maggiore importanza all'immediatezza delle sensazioni date dalle parole, piuttosto che ad un significato logico e compiuto. Il tema ad ogni modo potrebbe essere tanto slegato, quanto intimamente legato al resto della poetica. È il giuramento maligno che compie il destino del "predestinato" di cui abbiamo parlato fin'ora, o magari il semplice giuramento agli Dei di colui che vendicherà Gaia. Il nemico siamo noi, quello la cui "carcassa senza vita" giacerà ai suoi piedi, artefici con le nostre azioni del risentimento dell'Olimpo e della nostra distruzione. Mitologia classica e retorica "satanica" vanno ampiamente a braccetto. Tornando al lato musicale, il basso e la batteria ergono una texture abbastanza  (con il tamburellio tribale della batteria essenziale in questo frangente per intavolare una sorta di "strategia della tensione"). La voce è bassa, mesta. Si inserisce un sibilo di chitarra immediatamente prima che i toni del brano diventino più accesi incorporando un riffing potente, una voce in growl e aumentando i bpm della batteria. A un minuto e quattro ulteriore accelerazione della batteria che impone ritmi sempre più esagitati e frenetici, dando modo al singer di alternare al suo growl uno scream acido. Rallentamento al minuto e trentatrè, quindi un ritorno, dieci secondi dopo, a sonorità più possenti e quadrate (nello specifico parliamo di un granitico mid tempo). Una graduale accelerazione ci porta verso i due minuti ad un repentino incremento dei tempi, quindi a una decelerazione verso i due minuti e venti e una nuova accelerazione sette secondi dopo. Ancora una decelerazione verso i due minuti e quaranta, scandita ulteriormente dall'onnipresente growl di Bas. A due minuti e quarantasei subentra un freddo giro di chitarra che ci riporta ad una possente sezione in mid tempo.

Conclusioni

Arriviamo così al consueto bilancio finale che, da quanto ho lasciato trasparire in precedenza (nell'introduzione in primis, ma anche qua e là nella track-by-track), è senza dubbio positivo. La band dimostra, con questo disco, di avere le idee molto chiare e di saper benissimo concretizzarle grazie ad un dispiego di mezzi ineccepibile. Il disco è infatti molto bello: ben suonato, pieno di idee e prodigo di una certa varietà, oltre che - fattore importantissimo - capace di coinvolgere appieno per i cinquantadue minuti della sua durata, evitando dunque che l'ascoltatore (in primis quello occasionale, ma anche il fan del genere) possa solo pensare di skippare per passare al brano successivo (cosa che nell'epoca attuale, ove grazie ad internet di musica se ne sente in maniera illimitata, capita spesso e volentieri rendendo molti ascoltatori svogliati e privi di una seria intenzione di "affrontare" un disco nuovo in maniera seria). A livello tematico ci si mantiene su un "range" limitato ma focalizzato ( visioni apocalittiche, devastazione, rapporto tra un oscuro signore - Mefisto, Legione etc. - e una figura "prescelta",quasi una sorta di Nyarlatothep portatore del caos, di Anticristo etc.) cosa positiva - insomma, non abbiamo "dispersione" - se consideriamo che alcuni tra i più grandi artisti in ambito metal sono quasi totalmente "monotematici" (le visioni ancestrali dei Nile, le divagazioni anticristiane dei Deicide, l' "antagonismo filosofico" dei Morbid Angel, la guerra nei Bolt Thrower). Dunque anche questo gioca un punto a favore dei nostri. Comunque, tornando al lato musicale, vediamo come l'intero prodotto abbia effettivamente una sua intrinseca bellezza: sono diversi i brani capaci di creare più di un sussulto ( me ne vengono in mente almeno tre: Oblivious, Torn Asunder e la title track), mentre quelli che non possiamo reputare effettivamente dei capolavori (Rapture Coming Down ad esempio) si mantengono su un'ottima media, risultando comunque efficaci e assolutamente degni di essere ascoltati. Certo, al primo disco è difficile ottenere un capolavoro a tutti gli effetti, ma i nostri ci sono andati pesantemente vicino: i filler sono inesistenti, e tutti i brani si mantengono tra l' "ottimo" e il "buono", facendo di questo disco un peso massimo con cui immagino in molti, in futuro (o almeno spero) si dovranno confrontare. La "materia doom/death" non è sempre facile da gestire (troppo ingombrante il peso dei maestri storici che hanno fondato ed elevato ad arte il genere), ma i nostri dimostrano di sapere il fatto loro e di saper riplasmare tale materia in maniera del tutto personale (con qualche ovvio rimando qua e là ai blasonati maestri di cui sopra), inserendo nelle loro partiture anche agganci al doom storico e, perché no, al death melodico. Dunque apparentemente i nostri hanno tutte le carte in regola, proseguendo su queste direttive, per tirare fuori dischi sempre più belli e raffinati. Almeno in teoria. Di meteore, capaci di sfornare un solo disco "da paura" se ne vedono parecchie, ma non penso sia questo il loro caso: qualcosa - chiamiamolo sesto senso - mi suggerisce che tale parto discografico sia solo un primo tassello e che il meglio debba ancora venire. E considerando la capacità intrinseca di ogni singolo membro della band (da sottolineare ancora una volta la prestazione favolosa del cantante e bassista Bas: prescindendo dall'apporto - buono -  dato al disco in veste di bassista, come vocalist è riuscito a dare veramente il massimo, alternando in maniera duttile ed estremamente credibile diversi registri vocali) non è difficile che già il secondo disco si avvicini in maniera ancor più definita al concetto di "capolavoro". Non posso dunque che fare i complimenti ai ragazzi - sottolineando per l'ultima volta quanto il disco mi sia piaciuto -  aggiungendo che la strada percorsa sino ad ora è assolutamente quella giusta, e continuando così, un domani li si potrebbe tranquillamente chiamare "maestri".

1) Oblivious
2) Dirge of Damnation
3) A Seance In Fear
4) Legion
5) Rapture Coming Down
6) Torn Asunder
7) Pantheon
8) A Dreadful Oath