BEHEMOTH

Evangelion

2009 - Nuclear Blast Records

A CURA DI
PAOLO ERITTU
05/04/2016
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

"Evangelion è l'opera più significativa e definitiva della nostra carriera"

Adam "Nergal" Darski

Babilonia la Grande siede sul suo trono, sorridendo enigmatica mentre i sacerdoti e i santi si prostrano dinanzi a lei. Con la mano destra brandisce una spada con la quale acceca il sole, mentre con la sinistra regge il Calice della Conoscenza; le Tavole dei Comandamenti giacciono frantumate ai suoi piedi, mentre dietro di lei si erge il grande Drago dell'Apocalisse, che vomita fuoco dalle sue dieci teste. Questa immagine evocativa non è stata scelta a caso, perché rappresenta l'orgoglio di essere umani, unito alla convinzione di essere pari a Dio. I seguaci delle religioni monoteistiche guardano con orrore a tale figura, chiusi nel loro servilismo, felici di chinare il capo e denigrarsi, terrorizzati dal mondo e alla ricerca di un motivo per esistere, in un universo che non ci deve nessuna risposta. Cercano qualcosa verso la quale essere asserviti in modo da non aver bisogno di pensare, per poi giustificare gli orrori che compiono come la volontà di un essere superiore, o reprimere la propria individualità nell'ignavia e nell'apatia forzata. Si ha un dubbio tanto miltoniano quanto amletico: è meglio regnare all'inferno o servire in paradiso? È meglio "essere" (in un'accezione cartesiana del termine) e affrontare il mondo con le proprie forze, dando noi stessi un senso alla nostra esistenza, vivendo imperfetti ma liberi e consapevoli, o "non essere" e adagiarsi sulla convinzione di essere impotenti, accettando passivamente tutto ciò che ci viene ordinato da chi si professa superiore a noi? I Behemoth hanno le idee chiare, e nel 2009 (dopo aver firmato un contratto con la prestigiosa casa discografica Nuclear Blast) le veicolano in una sola parola: Evangelion, il "Lieto Annunzio". Un album di nove tracce, ognuna associata a una citazione di uno scrittore, un filosofo o un poeta (da Proust a Genet, passando per figure come Crowley e Sartre), che vanno a formare un manifesto della libertà umana: l'accettazione di sé, la possibilità di poter portare avanti le proprie passioni e perseguire la propria felicità, di godere del piacere, soddisfare le proprie pulsioni e la propria natura senza che nessuno dica che è sbagliato o immorale, in un mondo dove l'unico limite per la libertà individuale è la libertà altrui. A farsi portavoce di tale pensiero è come sempre Adam "Nergal" Darski, voce, chitarra e mente della "grande creatura", che unisce le sue conoscenze a quelle dell'occultista Krzysztof Azarewicz, mescolando simbologie, figure e filosofie, unendole all'occultismo in una personale interpretazione del satanismo spirituale, nel quale Lucifero non è tanto un'alternativa a Dio, quanto piuttosto un esempio da seguire per perseguire la nostra personale ribellione. Ad aiutarlo troviamo la formazione ormai classica dei Behemoth, che vede Tomasz "Orion" Wròblewski al basso, Patryk "Seth" Sztyber alla seconda chitarra e Zbigniew Robert "Inferno" Prominski alla batteria. Nergal afferma di aver iniziato il lavoro con l'obbiettivo di creare un album "che fosse funzionale nella sua interezza, e nel quale ogni traccia funzionasse singolarmente [?] e potesse essere un potenziale singolo". Come al solito, l'album si discosta dal suo predecessore: mentre The Apostasy era un album più orientato sul versante Death, qui troviamo invece una commistione di generi per un sound che il frontman definisce "sinistro e in un certo senso pericoloso". Si passa da pezzi dall'incedere lento e poderoso a tracce più rapide e violente, senza fossilizzarsi su uno standard, ma piuttosto esplorando tutte le possibilità che possono rendere ogni singola traccia pressoché perfetta, e riuscendo al contempo ad incastonarla nel contesto generale, creando un album che non stanca, da ascoltare tutto d'un fiato. A livello tecnico, la produzione è stata particolarmente curata e soprattutto seguita da personalità eterogenee. Registrato a "Radio Gdansk Studio" in Polonia, il disco ha visto avvicendarsi alla consolle dapprima i fratelli Wieslawski (Wojciech Slawomir, che si occuparono soprattutto delle chitarre) ed in seguito altre personalità per più specificati ambiti. Il sound della batteria fu infatti curato da Daniel Bergstrand (con all'attivo collaborazioni con gruppi del calibro di Dark FuneralMeshuggah In Flames), mentre il mixing finale venne affidato a Colin Richardson (CarcassCannibal CorpseBolt ThrowerGorefestGorguts ecc.). Il missaggio definitivo venne dunque eseguito nei "Miloco Studios" di Londra, da un Richardson comunque seguito, nel suo lavoro, anche da Nergal, volato in terra d'Albione per l'occasione. Lasciamoci dunque cadere in questo baratro, e vediamo cosa ci aspetta in agguato nell'oscurità.

Daimonos

Un sommesso ronzio da il via a "Daimonos", spandendo un'atmosfera nervosa che sfocia in un maestoso intro, dove lente chitarre iniziano una melodia opprimente, scandita dal basso e da un'estrosa batteria. Il pezzo accelera all'improvviso in un aggressivo sciame di note, sostenute da secche raffiche di rullante, che cessa bruscamente lasciando una chitarra sospesa nell'oscurità che si raddensa: è la genesi del riff principale. L'ondata sonora si abbatte su di noi con implacabili raffiche di batteria, mentre le chitarre si uniscono in un coro brutale, ulteriormente appesantito dal basso. Con il ritornello la musica si innalza imperiosa, grazie alle chitarre che alternano basse note vibranti con raffiche claustrofobiche che sembrano schiacciarci dall'interno, soffocarci, aiutate dalla batteria martellante. La sensazione viene portata al culmine con un picco di note folli, ma l'oppressione che ci attanaglia si dissipa all'improvviso quando la traccia ritorna a un roboante riff cadenzato, che sostiene il mantra finale del ritornello. La formula si ripete ancora una volta, prima di venire spezzata da due laceranti chitarre soliste, che danno il via a una melodia orientale, appesantita dai ritmi serrati creati da basso e batteria, e che si protrae fino a sfociare nell'assolo, dove parte un turbine di note esotiche che muta poi in una malefica melodia, nella quale le chitarre si intrecciano in un orgasmo sonoro dai toni epici, culminante in un'accelerazione repentina che lascia poi spazio a un outro che riprende la potente melodia dell'intro, portando la traccia alla sua fine. "Onoratemi / Sacerdoti della Caldea! / Inchinatevi dinanzi a me / In adorazione": l'invocazione iniziale evidenzia l'antichità del soggetto del brano, in quanto i Caldei (in accadico Kaldu) erano un popolo mesopotamico nominato da testi risalenti a 3500 anni fa; una popolazione tanto potente da contrastare i bellicosi Assiri in un lungo conflitto con alterne vicende e divisi in cinque tribù, con circa mille insediamenti tra città e villaggi. Diodoro Siculo nella sua opera Biblioteca Historica afferma che: "Primi tra tutti gli uomini hanno indagato nella maniera più accurata i movimenti e la forza delle singole stelle, grazie a ciò essi possono ben predire il futuro degli uomini". La loro conoscenza astronomica era tale, che per gli altri popoli "Caldeo" era sinonimo di "Astrologo", per cui con "Sacerdoti della Caldea" vengono intesi dei veri e propri indovini, come si evince dai versi: "Noi adoriamo il Sole / Noi adoriamo la Luna / Ci diffondiamo come ratti / Esaltati al di sopra delle stelle di Dio!". Ed ecco che viene chiarito il soggetto del brano, con il ritornello: "Tutti salutino il dio ucciso e rinato / Tutti salutino Dioniso!". La figura di Dioniso era legata arcaicamente alla linfa delle piante, e lo qualificava quindi come un dio della fertilità, simbologia legata anche al toro, animale che lo rappresentava. Era inoltre un dio patrono della sapienza e degli impulsi più profondi dell'essere umano, ai piaceri e agli istinti, e viene qui presentato secondo la tradizione legata alla tradizione Orfica, una corrente religiosa risalente circa al VI secolo a.C., che si fondava sul dualismo dell'Uomo, vale a dire la presenza nell'uomo di qualcosa di divino, la sua vera essenza, che esula dalla gabbia di carne in cui è confinato. Tale pensiero avrebbe infatti sconvolto quello che era il concetto di "psyche", di anima (anche se è una traduzione restrittiva), in quanto precedentemente essa veniva considerata semplicemente una parte naturale dell'essere umano, nel quale risiedeva in armonia. Gli Inni Orfici citano: "Degli astri celesti invocherò il sacro splendore, con voci conformi al rito, chiamando i Dèmoni sacri"; il concetto orfico del dualismo, con l'anima vista come immortale, una divinità costretta nel corpo mortale, rimandava ai culti dionisiaci e al tema della possessione divina, per cui con determinati riti (e sostanze) veniva liberato il vero "Io", il "dàimon", l'"essere divino". Lo sconvolgimento metafisico ed esistenziale suscitato da tale dottrina, viene reso perfettamente dai bellissimi versi di Platone, che nella sua opera Gorgia cita il Polydos di Euripide, dicendo: "Chi sa se il vivere non sia morire / E il morire invece vivere". In questa tradizione viene poi sviluppato il concetto di "Dio ucciso e rinato" relativamente a Dioniso: il mito si rifà alla tradizione cretese, che chiamava il dio Zagreo, e lo identificava come figlio di Zeus, che trasformatosi in serpente si sarebbe unito alla figlia Persefone, regina dell'oltretomba e signora del ciclo delle stagioni (al quale è legato il figlio stesso). Negli Inni Orfici Dioniso/Zagreo è il sesto e ultimo re degli dèi, per volontà del padre Zeus. Quando quest'ultimo prese tale decisione, suscitò l'ira della moglie Era, che decise di vendicarsi rivolgendosi ai titani; essi catturarono il piccolo e lo fecero a pezzi mediante lo stesso rituale che gli antichi greci usavano per immolare i tori agli dèi, e ne divorarono i resti. Venutolo a sapere, Zeus uccise i titani con i suoi fulmini (dal fumo dei loro corpi sarebbero poi nati gli uomini), mentre Apollo seppellì ciò che rimaneva del giovane sul monte Parnaso, tranne il cuore, che Atena portò al cospetto del re degli dèi. A questo punto il dio avrebbe dato il cuore alla dea Semele, che dopo averlo mangiato partorì la reincarnazione di Dioniso. In un'altra versione è Zeus a mangiare il cuore, per poi unirsi a Semele, una donna di origine semi-divina. La tresca scatenò l'odio di Era, che con un inganno fece sì che la giovane vedesse il re degli dei in tutta la sua potenza sterminata, facendola morire carbonizzata. Zeus salvò il figlio che la donna portava in grembo nascondendolo nella sua coscia, e una volta nato, reso immortale dal fuoco divino, egli scese nell'ade e portò la madre sull'Olimpo, dove ella rinacque col nome di Tione. Nel testo viene riportato un verso dell'Ode a Dioniso contenuta negli Inni Orfici, che cita: "Giungi Dioniso benedetto / Nato dal tuono, noto come Bacco / Dio delle bassaridi, dal potere universale / A te deliziano la spada, il sangue e la sacra furia". "Nato dal tuono" si riferisce ovviamente al padre Zeus, mentre le "bassaridi" sono le mènadi, donne preda di un'estasi continua scatenata dal dio, che formavano il suo corteo insieme ai satiri (con i quali attuavano orge rituali) capeggiati da Pan, il dio dei prati e degli spazi verdeggianti, anch'esso legato alla fertilità. Con gli ultimi versi si ha un riferimento a una parte fondamentale della vita del dio: quando raggiunse la maturità, Era non potè non riconoscerlo come figlio di Zeus, ma al contempo lo punì con la pazzia. In preda a questa "sacra furia", egli girovagò con i satiri, giungendo in Egitto, combattendo i Titani e recuperando da essi lo scettro del dio Amon, per poi volgere la sua follia sanguinaria a oriente, scorticando il re di Damasco, respingendo le Amazzoni fino a Efeso e arrivando fino in India, dove sconfisse il re Deriade e ottenne l'immortalità, per poi tornare indietro e sbaragliare di nuovo le Amazzoni lungo il tragitto. A questa follia si ricollegano anche le strofe successive: "Sia condotta la Guerra! / Sorge la mia fenice senza dio / Mai mi sottometterò ai deboli / Offrendo solo la spada, non la pace / Estinguendo in me pietà e codardia". Il fatto che Dioniso sia deliziato dalla "sacra furia", cioè la pazzia (ricordiamolo, i greci pensavano che i pazzi fossero posseduti da una divinità), deriva anche dagli avvenimenti seguenti al suo ritorno: dopo essere andato dalla nonna Rea per purificarsi dopo gli orrori commessi, il dio si recò in Tracia, ma venne aggredito insieme al suo seguito dal re Licurgo, che lo costrinse a fuggire, per poi uccidere i satiri e violentare le menadi. Per tutta risposta egli lo rese pazzo insieme con il fratello, il pirata Bute, facendogli prima uccidere la famiglia con un'accetta, e poi rendendo sterili le sue terre fino alla sua morte, che avvenne per mano del suo popolo. Nel testo la figura di Dioniso rappresenta l'essere umano libero dai vincoli e dalle costrizioni della società e della religione, un essere che trova la saggezza in una vita consacrata alla ricerca del piacere e della libertà assoluta dai dogmatismi, che sovverte l'ordine costituito senza cercare però di sostituirlo con un altro "ordine", ma lasciando che ognuno insegua la propria felicità in un'ottica crowleyana. 

Shemhamforash

"Shemhamforash" apre con inquiete orchestrazioni, preludio a un violento attacco di batteria e chitarre che cominciano un rituale malefico. Il drum-kit minaccia di esplodere, il basso e le chitarre si uniscono in un rombo violento e articolato, e le stesse gelide note iniziali continuano la sinistra nenia, aggiungendo al tutto una vena di malignità glaciale. Improvvisamente il suono si appesantisce ulteriormente, e quello che era un intro muta in un riffing rapido e coinvolgente, senza perdere l'iniziale atmosfera iniziale, e anzi, rincarando la dose con un furioso blast-beat e trascinandoci in un'oscura danza rituale, qualcosa di istintivamente associabile all'ignoto che si cela nelle tenebre: terrificante e sublime, che ispira al contempo attrazione e repulsione, lasciando l'ascoltatore nel mezzo, teso in un'estasi incredula. La musica cambia in un battito di ciglia mutando in un intermezzo soffocante, dove si sollevano alte note dissonanti che si incuneano glaciali nel nostro cervello, mentre chitarre e basso mutano il loro cantare, volgendosi a ritmi orientaleggianti, pur rimanendo in linea con la pesantezza della traccia. Al termine del secondo intermezzo si scatena l'assolo, con note laceranti che si stemperano poi in un tapping basilare, prima di sfociare in un duetto stupendo dove a parti soliste si alternano cori imperiosi, in un'escalation sonora che porta a un outro dai ritmi serratissimi che sfuma in un istante, lasciando che le dolci note di un sitar cullino le nostre menti con melodie sognanti, intrecciandosi sopra il feedback delle chitarre. Shemhamphorash è una alterazione di Shem ha-Mephorash ("Il Nome Esplicito"), termine ebraico utilizzato dai Tannaim (saggi rabbini la cui presenza è attestata all'incirca tra il 10 e il 220 d.C., la dottrina dei quali è racchiusa nella Mishnah, uno dei testi fondamentali dell'ebraismo). Il termine viene utilizzato nella prima Qabbalah per designare il nome di Dio composto da 72 lettere, e a volte quello da 42, mentre secondo altre fonti indica quello di quattro lettere, il Tetragrammaton. Il nome da 72 lettere (l'interpretazione più comune di Shemhamphorash) sarebbe la chiave di volta del Lemegeton, o Piccola Chiave di Salomone, un grimorio (libro di demonologia) risalente al 600, che contiene chiare descrizioni degli spiriti e dei rituali per evocarli. Secondo l'occultista e matematico Thomas Rudd, i nomi dei 72 angeli avrebbero bilanciato quelli dei 72 demoni descritti nell'Ars Goetia, la prima delle cinque parti in cui il grimorio è diviso. È presente inoltre un nome di 216 lettere derivante da tre versetti dell'Esodo (14:19, 14:20 e 14:21), ciascuno composto da 72 lettere. Se scritte in forma di boustrophedon (un metodo di scrittura serpeggiante, che vede le righe pari rovesciate "a specchio", cominciando dal punto in cui le dispari terminano, quindi senza andare a capo) e raggruppate in gruppi di tre, queste lettere formano i nomi di 72 angeli e 72 demoni, che si possono dividere in quattro righe da 54 lettere ciascuna (ogni riga rappresentante una delle quattro lettere del Tetragrammaton, YHWH). I praticanti di magia cerimoniale considerano i 72 nomi del Shemhamphorash alla base della creazione di tutte le arti e di tutto il Creato in generale, e la sua corrispondenza con i 72 angeli e i 72 demoni è la chiave per la composizione o il disfacimento dell'ordine o disordine degli elementi, nella creazione della realtà materiale. Il testo si lancia con brutalità contro la religione e i credenti, cominciando con uno scenario apocalittico: "Consumati da lingue di fiamma / Bruciando come il Flegeton (il "Fiume di Fuoco" che circonda l'Erebus, la parte più oscura dell'Ade) / I Sacri Giardini sono ridotti in cenere / Estinguendo la luce della speranza / Portando la fine dei giorni". I versi seguenti potrebbero essere il punto di vista di un Dio impotente, in quanto citano: "Le parole del mio Vangelo disperse / Disprezzo sacrilego sputato in pallide credenze"; si ha poi un momento di amara riflessione ("Sottile è la linea tra il puro Essere e il puro Nulla"), che sembra riferirsi al potere di cambiare la Creazione proprio del "Nome Esplicito". Viene poi impersonato re Erode il Grande, governatore della Giudea sotto Ottaviano, a simboleggiare il disprezzo per la religione, in quanto pur conscio dell'arrivo di un presunto figlio di Dio, pur di preservare il suo potere non rinunciò a tentare di eliminarlo, ricorrendo a un brutale ed efferato espediente: "Al mio comando: / Che il sangue degli infanti inondi / Le vie di Betlemme!". In realtà questo episodio, noto come "La Strage degli Innocenti", quasi sicuramente non ebbe mai luogo, essendo riportato solo ed esclusivamente nel Vangelo secondo Matteo . Fu la propaganda cristiana, nei secoli che seguirono, a demonizzare la figura di Erode per il suo governo filo-romano; è vero però che il sovrano era noto per la sua indole crudele, che lo portò ad eliminare spietatamente molti dei suoi stessi parenti durante le lotte per ottenere e mantenere il trono. È ora la volta di Lucifero, che schernisce la fede cristiana e i suoi seguaci, "Dall'etica marcescente in una gabbia morale", apostrofandoli con parole spietate: "Carne morta lanciata ai vermi / Per nutrire il tumore della Religione".

Ov Fire and the Void

Un unico accordo esplode, dando il via a "Ov Fire and the Void" con boato seguito da tre note prolungate, accompagnate dal tintinnare dei piatti. Secche scariche di grancassa scandiscono il tempo di un intro bestiale, dal ritmo lento e pesante, quasi a rappresentare l'incedere di un'entità titanica. Improvvisamente questa marcia si ferma, e sopraggiunge un riff carico di tensione, dove un sommesso lavoro di piatti fa da sfondo a un glaciale coro di chitarre; alla terza ripresa, sei potenti accordi introducono la voce, mentre il riff precedente prosegue, con una batteria ora in piena attività, con un incessante e rapidissimo rimbombare della doppia cassa. Proseguendo, il pezzo si arricchisce di cori malinconici, finchè altri sei accordi non spezzano l'equilibrio, appesantendo la traccia con un break brutale nel quale spicca un lavoro di piatti sublime. Il riff principale prosegue, finchè a metà pezzo non muta nella cadenzata melodia iniziale, che viene spezzata da un rapido intermezzo nel quale la musica si solleva in un impeto frenetico. Il secondo intermezzo termina con grevi note vibranti, introducendo il magico assolo, lento e inesorabile, al cui termine riprende il riff principale, che prosegue imperterrito e invariato, se non per l'espressiva batteria, che colpisce piatti e rullante con ritmi sempre più serrati, fino a chiudere il pezzo in coro con sei potenti note di basso e chitarre. Il testo è un'auto-celebrazione di Lucifero, e comincia con il chiarire la natura del protagonista: "Io, Sole dell'Uomo / Progenie di una razza stellare / La mia aura cadde e si schiantò sulla Terra / Possa io portare equilibrio in questo mondo!". Satana si pone subito in contrapposizione a Dio, visto come l'unico peso su una bilancia con due piatti, il cui ago è l'Uomo; il Caduto decide di non cedere alla sconfitta e di continuare a combattere, occupando il piatto lasciato libero. Egli si pone come dio di sé stesso, possessore di una consapevolezza di sé nata dal dolore e dalla rabbia, che l'ha portato a riconoscere la natura tirannica di Dio, che lo considera "Figlio della perdizione". Ma egli afferma di essere "Trasgredito dal puro Nulla / Al più alto Sè - alla totale Libertà", mettendo così in evidenza un cambiamento radicale, che l'ha portato dall'essere una semplice marionetta priva di valore ad avere la piena consapevolezza di sé, liberandosi così dai suoi fili. Lucifero indica sé stesso come "Innegabile legge della Natura", affermando di reggere la "Torcia di Eraclito". Eraclito era un filosofo dalle idee così criptiche che lo stesso Aristotele lo definisce "l'Oscuro", riferendosi al suo modo di esprimersi simile a quello degli oracoli, con frasi difficilmente interpretabili, a meno di non essere stati iniziati alla sua dottrina. Solitamente apostrofato come il "filosofo del divenire", la sua ideologia si basava su una visione del mondo e della natura come di un flusso esistenziale auto-definente in continuo mutamento. La sua visione si collega a quella di Lucifero nel considerare la divinità come presente in ogni cosa, collegando il macro e il micro cosmo come parte di un unica essenza. Egli è arrivato a comprendere il rapporto di interdipendenza tra gli opposti (quindi il fatto che il bene e il male, la luce e la tenebra, si definiscano l'un l'altro), e accetta la cosa, laddove Dio vuole imporsi come unico sovrano e considerarsi (ed essere considerato) al di sopra di una totalità che invece ingloba anche lui. Lucifero è un filosofo in senso eracliteo, in quanto ha esplorato i recessi più profondi del suo Io, ed ha abbracciato la consapevolezza di essere parte di un tutto pur nella sua individualità, innalzandosi sopra coloro che, ancora legati ai loro fili inesistenti, danzano asserviti a Dio. Con questi presupposti, il Caduto si definisce "divino iconoclasta", quindi distruttore dell'immagine di Dio, che serra le sue grinfie sull'Uomo sfruttando la sua "accettazione della vita" priva di interrogativi e di volontà di conoscenza, ma incentrata sul dolore e sul bisogno, che tengono l'Uomo impegnato a sopravvivere, per evitare che si ponga le giuste domande; lui si è adeguato al mutare continuo dell'esistenza, ed è cambiato a sua volta: non è più ciò che era, e ora tutto può essere. "La gioia di un'alba / L'estasi di un tramonto / Ho nutrito questo flusso karmico / Dove il grande sovrastante incontra il grande sottostante". Ritorna il concetto di interdipendenza tra gli opposti, che il protagonista afferma di aver nutrito, sostenuto, e grazie all'accettazione del quale può bearsi della meraviglia del flusso dell'esistenza, da qualsiasi polo tale bellezza venga. "Che ciò sia scritto! / Che ciò sia attuato!".

Transmigrating Beyond Realms ov Amenti

"Transmigrating Beyond Realms ov Amenti" si mette subito in luce come una delle tracce più brutali dell'album, con una batteria rapidissima che cannoneggia implacabile, arricchita dall'elaborato tintinnare dei piatti, a sostegno di un lavoro di chitarre cupo e pesantissimo, sferzato da brevi raffiche di note più alte. D'improvviso la musica rallenta, pur senza perdere minimamente in pesantezza, mutando in un poderoso riff mediorientale, che diffonde un senso di attesa, finchè la batteria cessa per qualche istante, mentre le chitarre dettano un ulteriore cambiamento della melodia, sovrastate da un rantolo malefico. La musica si velocizza, con la doppia cassa che martella senza sosta e un coro di chitarre laceranti, con i riff che si alternano e fanno passare il pezzo da malefiche ondate sonore a ritmi sincopati, mantenendo l'ascoltatore sotto un tiro incrociato opprimente, quasi fosse un pupazzo in balia di una valanga, che viene sballottato, schiacciato, soffocato e annichilito. Verso la fine del brano si innalza un veloce assolo, molto espressivo e tecnico, che precede un ritorno al riff principale in un delirio sonoro che sostiene le ultime strofe ruggenti, portando il pezzo alla chiusura. Il testo è un'esortazione a ricercare la conoscenza, a indagare nel profondo di sé per trovare la pace, rinnegando la tirannia di Dio, e aprendo quelle che Aldous Huxley (scrittore, umanista e mistico britannico) definiva le "Porte della Percezione". "Vi è una fiamma selvaggia / Nel profondo del mio cuore / Inflessibile, pura Ain Soph / Smisurata": questa fiamma incontenibile è natura divina allo stadio primordiale, infatti con "Ain Soph" viene definito Dio prima del suo manifestarsi nell'atto della Creazione, letteralmente un "Infinito" potere latente, che si collega all'essenza di Shemhamphorash, il "Nome Esplicito", nel suo essere una pura qualificazione per un qualcosa di inqualificabile e non quantificabile: puro potere su spazio e tempo. Per trovare questa essenza divina, questo dàimonos di concezione Eraclitea, c'è un viaggio da intraprendere: "Aspira a tutti gli orizzonti / Per cercare la natura delle cose / Ritirati dentro di te / Per trovare il Respiro Primordiale". Il ritornello schernisce gli "Schiavi di dèi morti / Martiri della falsità", per poi condurli nell'oltretomba: "Benvenuti ad Amenti". Amenti è uno dei nomi delle forme sincretiche di Amonet, "La Nascosta" moglie di Amon, nonché personificazione del Duat, l'Oltretomba. Il Duat è diviso in dodici zone per dodici ore, e Amenti si trova nella quinta ora notturna, accessibile solo alle anime giuste e senza peccato, che siano a conoscenza di tutti i rituali, e che dopo la cerimonia della pesatura del cuore vi venivano traghettate; ciò è scritto nell'Amduat (letteralmente "Chi è nel Duat", nell'Oltretomba (chiamato anche Libro della Camera Nascosta), il più antico dei libri sacri connessi alla sepoltura (che servivano a preparare i morti alla nuova vita nel mondo ultraterreno), ed incentrato sul viaggio notturno del dio Sole. Quando il fosse calato sotto l'orizzonte, egli si sarebbe dovuto scontrare con Apophis, il Serpente Cosmico, manifestazione del puro Caos primordiale, le Tenebre archetipiche che volevano impedire il risorgere del Sole, passando per le dodici frazioni dell'aldilà, una per ogni ora della notte, prima di risorgere come Khepri, "Il Sole che sorge". Vi è di nuovo un'esortazione a ricercare la conoscenza e ad ampliare le percezioni ("Percepire significa conoscere / Possedere significa negare"), per poi congiungere il concetto di trasmigrazione delle anime a quello della religione induista, con il riferimento alle "Nitya-samsarins". Secondo la scuola Dvaita ("Dualismo") della filosofia indu Vedanta, esistono due realtà relazionate fra loro: la prima è quella legata al divino, incentrata sulla figura di Vishnu, dio che è puro Essere, ed è l'unica indipendente; la seconda è quella legata a un universo dipendente dalla prima, ma ugualmente reale e possessore di una sua propria essenza. Il macro e il micro cosmo esistono in due realtà separate, ma in qualche modo relazionate tra loro, in quanto il primo esiste in maniera autonoma, ma vede la propria realizzazione riflessa nell'esistenza del secondo, in un concetto di interdipendenza che richiama quello dell'Ain Soph. In questo contesto, le Nitya-samsarins sono le anime in eterna trasmigrazione: slegate da etica e spirito, esse provano soddisfazione solo nei valori terreni, e seguono un continuo ciclo di morte e rinascita, che richiama l'eterno viaggiare del dio Sole. Il testo si rivolge a queste anime in viaggio nel Duat, tra le quali si trovano i già incontrati "Schiavi di dèi morti", che si devono relazionare con una realtà per la quale non sono preparati, e che nella loro ignoranza non potranno quindi accedere ad Amenti. Non avendo superato la cerimonia della Pesatura del Cuore dinanzi a Osiris, ed essendo quindi impuri, essi saranno preda di Am-Heh ("Am-Heh! Divora i loro cuori!"), divinità ctonia dalla testa di cane, il "Divoratore di moltitudini" che vive in un lago infuocato, un'entità dal potere terribile che può essere parzialmente controllata solo da Ra, il dio Sole sovrano del Cosmo. Viene quindi sottolineata l'ignoranza delle religioni abramitiche, viste come usurpatrici, menzognere, che hanno allontanato l'Uomo dalla vera conoscenza per asservirlo: "Yerushalaim nehereset!", "Gerusalemme è caduta!".

He Who Breeds Pestilence

Il gracchiare di corvi e avvoltoi apre "He Who Breeds Pestilence", introducendo un lento e inquietante arpeggio che dopo un poco viene spezzato dal brusco attacco di tutti gli strumenti, che esplodono in un riffing serrato e brutale, scandito da secche raffiche di rullante e chitarre dal suono crudo e feroce, mentre il basso, pur senza risaltare, dona profondità e potenza agli altri strumenti, appesantendo e al contempo ammorbidendo (si fa per dire) il riff, che si interrompe per poi lasciare il campo al precedente arpeggio. Presto si fa strada un lavoro di tom e doppia cassa, che muta repentinamente e reintroduce il brutale riffing precedente. Ma ecco che la musica cambia ulteriormente, con le chitarre che seguono una melodia corale dai toni epici; all'improvviso giunge un illusorio attimo di quiete, rapidamente cancellato dall'imporsi di un intermezzo potente ed evocativo, reso inquietante da cori sinistri dove la batteria continua a tuonare con rapidità, nonostante il pezzo assuma un incedere più lento e solenne grazie al coro delle chitarre. Lo schema main riff-intermezzo si ripete, ma questa volta il secondo prosegue, portando a un outro strumentale potente ed epico in maniera indicibile, nel quale in seguito si ferma il tintinnare dei piatti, in favore di raffiche marziali di rullante, per un flusso di note cupo e accattivante che porta il pezzo al termine. Il testo è molto criptico, ma sembra riferirsi a un essere umano, una donna ("Il seme di Eva è inflitto su di me / L'eredità di Caino non può essere disfatta"), che si vede vittima di peccati non commessi, dei quali rifiuta la colpa: "È il mio rifiuto! / È il mio diniego! / Che si unisce a riprovevoli mortificazioni"; ella si sente quindi tradito e abbandonato. È consapevole di avere in sé una "natura angelica", un "Aborto divino nel mio grembo lebbroso". In questi versi si nota la rabbia della protagonista, che si accorge della propria natura ultraterrena ma è oppressa da Dio, che martoria il suo corpo mortale non potendo estirpare quella scintilla. Sotto la tirannia della divinità lei si strugge: "L'Universo è inaridito / Così come il mio cuore". Con questa rabbia nell'anima, lei impreca contro Dio: "Brindo alla desolazione / Brindo alla tua morte / Monarca di un regno afflitto / Supremo disprezzatore della Vita". Questa visione del cosmo si rifà alla dottrina esoterica iniziatica dello Gnosticismo, che si pone come obbiettivo la Conoscenza, vista come mezzo principale e fine ultimo, nonchè fonte di salvezza. Secondo la teoria della cosmogenesi gnostica, all'Inizio vi era un Eone perfetto, puro potere spazio-temporale noto come l'Uno, che ha al suo interno un'altra entità (che può essere Pensiero, Grazia o Silenzio); da questo Eone ne nacque una nuova coppia, chiamata sizigia (che possiamo indicare molto sbrigativamente come l'unione interrelazionale degli opposti), uno maschile e uno femminile: Potere e Amore/Verità, che non sono creature (quindi creazioni) spirituali, ma vere e proprie emanazioni dell'eone, pura essenza divina. Le sizigie sono circa 20-30 e nel loro insieme formavano il Pleroma, la Regione della Luce. Uno degli eoni, chiamata Sophia (in greco "Saggezza"), emanò senza il suo compagno, dando vita a un abominio folle chiamato Demiurgo, o mezzo-creatore, non appartenente al Pleroma, e il cui nome era Yaldabaoth. Egli che creò il mondo materiale e l'Uomo, al fine di farsi adorare, e sarebbe nientemeno che il Dio delle religioni monoteiste (per questo motivo la dottrina gnostica esalta le varie figure che si sono opposte a Dio). Sophia riuscì però a salvare l'Essere Umano, mutandosi in serpente e riuscendo a fargli mangiare il Frutto della Conoscenza, e spezzò così il crudele gioco del Demiurgo, instillando nell'Umanità una scintilla divina che in seguito il suo compagno Cristo avrebbe cercato di risvegliare. Tale racconto è presente anche nel Vangelo di Giuda, redatto nel 130-150 d.C., e che afferma che Cristo ridesse di fronte all'adorazione degli apostoli per il Demiurgo, creduto una divinità suprema. La natura fondamentale della Conoscenza viene ulteriormente approfondita nel brano, con una invocazione in latino: "E credo nel Serpente / Mistero dei misteri / E nel suo nome Baphomet": questa figura è tra le più note e importanti nell'esoterismo, e rappresenta l'essenza del Sapere (il suo nome significa "Battesimo di Conoscenza"), nonché la pace e la saggezza che da esso derivano. È simboleggiato dal leone e dal serpente, e raffigurato come un essere con testa caprina, avente i seni e un fallo serpentino; avendo in sé entrambi i principi della generazione, si pone come essenza stessa della Vita, ricollegandosi a divinità primordiali come Hekate, antichissima dea ctonia adorata in Tracia, che presiedeva alle conoscenze occulte. La figura del Serpente, simbolo del Sapere, viene adorata nella setta gnostica degli Ofiti, che il testo apostrofa: "Udite! Miei Ofiti / Consumate la carne e bevete il sangue [?] Disdegnate la menzogna! / Affinate i vostri sensi / Lasciate che i vostri occhi vedano nella sconfinata Oscurità", esortandoli quindi a essere come "lupi famelici", cacciatori di Conoscenza. Il brano termina con un'ultima invocazione in latino rivolta a Baphomet: "Oh leone, oh serpente! / Come un devastatore tu distruggerai / Sii potente al nostro fianco!". 

The Seed of I

"The Seed of I" parte con l'impeto del main riff, forte di un incessante lavoro di doppia cassa sul quale si solleva il ritmico tintinnare dei piatti, mentre il rullante scandisce un ritmo lento, reso poderoso dal basso e dalle chitarre maestose. Un improvviso cannoneggiamento del drum-kit porta a un break con una musica più cadenzata, mentre si scatena un blast-beat feroce. Lo schema si ripete, portando a un ulteriore cambiamento, con la musica che rallenta notevolmente in un momento strumentale carico di inquietudine, dominato dalle malefiche melodie delle asce e impreziosito dagli arpeggi di una elegante chitarra acustica, unita a un sapiente uso dei piatti. La batteria scompare, lasciando il campo alle sole chitarre, con l'acustica che porta avanti il suo arpeggiare, laddove le elettriche proseguono con le loro glaciali linee melodiche, spandendo una calma opprimente. Tale quiete non è destinata a durare, ed è l'improvviso attacco di un nuovo riff a porvi fine, con ritmi rapidissimi e note cavernose; parte poi un velenoso assolo di chitarra, lungo e articolato, che termina con un'alta nota gemente, reintroducendo il riff principale. Dopo un nuovo break giunge un breve intermezzo strumentale, che ci riporta poi nuovamente sui binari del main riff, per poi terminare la traccia con un fragore di chitarre. "Dalla cima della montagna più alta / La mia Caduta a causa tua è precedente alla Discesa": il protagonista è ancora una volta Lucifero, la cui caduta precedette la discesa di Dio sulla Terra, e che in questo brano rimarca la sua individualità, e il fatto di essere slegato dalle regole divine. Egli ruggisce la sua brama vendetta, minacciando: "Io, portatore di luce, brucerò fino alla radice questo maledetto Eden!", ponendosi così come antitesi del Creatore. Egli è una tra le più antiche entità ("Osservate! Io mi ergo dal silenzio primordiale"), e vuole disfare la Creazione: "Dal fango della Terra / Indietro, nuovamente nel grembo di Babalon". Secondo la dottrina Thelemica Babalon corrisponde a Binah, una delle dieci Sephiroth (le emanazioni divine che rappresentano la creazione, e che formano l'Albero della Vita), in particolare quella legata alla comprensione e all'intelligenza, nonchè all'acqua (così come altre divinità femminili, le Grandi Madri, come Isis, Ma'at, Bhavani o Danu). Ella è la generatrice della Vita stessa, l'acqua intesa come il sangue che pulsa nelle vene del Mondo, così come in quelle dell'Uomo, rappresentando un filo conduttore che unisce il macrocosmo e il microcosmo. Ritornare nel grembo di Babalon simboleggia quindi un ritorno a prima della Creazione, che Lucifero vede tiranneggiata da Dio. Giunge quindi il ritornello: "Affonda nel fiume di dolore / Acheron! / Sollevati al di sopra degli occhi di Dio / Necromanteion!"; l'Acheron, il cui nome significa appunto "fiume del dolore" o semplicemente "Afflizione", è un fiume che scorre in Epiro e secondo la leggenda si incontrava con il Piriflegeton, poi chiamato Flegeton ("fiume di fuoco", o "Ardente") e con il Cocytos ("Lamento"), per poi fluire nello Styx ("Odio"), il fiume dell'Ade. Sulle sue correnti, Caronte trasporta le anime nel mondo sotterraneo, facendosi pagare con un obolo, che gli antichi Greci mettevano sotto la lingua dei defunti. Nel luogo in cui questi fiumi si incontravano sorgeva un tempio di necromanzia, dedicato ad Ade e a Persefone, sovrani dell'oltretomba: il Necromanteion ("Oracolo della Morte"), ritenuto la porta del Regno dei Morti, presso la quale i pellegrini giungevano per parlare con i defunti mediante l'oracolo. Secondo Omero fu qui che Odisseo discese nell'oltretomba, per consultare l'indovino Tiresia riguardo la possibilità di tornare a Itaca. Il brano prosegue con Lucifero che si presenta rimarcando la sua maestà e la sua potenza, rimarcando in ogni frase la parola "Io": "Io sono l'oracolo (in quanto conoscitore del futuro degli uomini, possessore della Conoscenza) / Io sono la grazia di Dio (egli era il primo e il più potente tra gli angeli, avvicinato solo da Michele) / Io sono il fiume del dolore (il che può riferirsi al suo ruolo di sovrano degli Inferi, nonché al dolore provato per essere stato tradito da Dio, torturato e scacciato) / Io sono l'ira celeste (come già spiegato, egli era uno tra gli esseri celestiali di massima magnificenza, ora decaduto e bruciante d'ira)". Il Caduto si ricollega ai simbolismi e alle figure della religione greco-romana e della dottrina thelemica, affermando di essere "Sorto dal reame di Nettuno", vale a dire il mare o l'acqua in generale, il che crea un collegamento con l'acqua come origine della Vita, quando afferma: "Ho onorato Babalon la Grande". La sua ira viene associata a quella di Marte ("Io discesi come Marte furioso"), ed egli sottolinea nuovamente la sua opposizione a Dio, dicendo: "Nell'assenza della Luce / Io diverrò Infinito".

Alas, Lord is Upon Me

Ecco ora "Alas, Lord is Upon Me", che inizia con un arpeggio glaciale, presto sommerso da un violento scatto di batteria e chitarre, che muta velocemente in un cadenzato lavoro ritmico delle pelli, sul quale si innesta un maestoso riff, una marcia trionfale dal sapore mediorientale, trasudante antichità. Il pezzo procede con una potenza epica, fino a spezzarsi bruscamente col ritorno dell'arpeggio iniziale, le cui note sinistre impongono il silenzio agli altri strumenti. Voci soffocate si affollano in sottofondo, per poi mutare in un ringhio sommesso che si intreccia con la voce bestiale del cantante. Con l'arrivo del ritornello, due cannonate della batteria riportano alla luce il riff principale in tutta la sua magnificenza, che prosegue per qualche battuta, prima che il coro di chitarre si fermi, e la batteria muti la sua potente marcia in un incedere marziale scandito da granitiche note di basso; le asce si aggregano a questa ossatura ritmica e aggiungono il loro suono lacerante a formare un coro con gli altri, in un picco epico devastante. Il pezzo procede imperioso per poi bloccarsi per un istante, nel quale viene concentrata tutta la tensione accumulata fino a ora, tutta la brutalità che per adesso è stata trattenuta in favore della maestosa marcia, e che esplode un attimo dopo con una violenza incontenibile, riprendendo le note del coro precedente ma velocizzando il tutto in una carica inarrestabile di note, in un outro travolgente che porta il pezzo al suo termine. "Osservate! Come Roma brucia, così anche io... / Non sarà l'ultimo impero a sgretolarsi / Ho testimoniato l'ascesa e la caduta delle tribù di Adonai / E mi è venuta a mancare la gloria di Dio": Lucifero ribadisce la sua antichità, lui che vide imperi sollevarsi e cadere e la nascita e lo sgretolarsi delle tribù del Dio di Israele. Vi è poi un'invocazione dell'Uomo al "Signore delle Armate" (attributo riferito a Dio e a Lucifero) e alla "Prostituta della Salvazione" (Babalon), così che infondano in lui la Sapienza Occulta ("Tutte le afflizioni e gli abomini conosciuti dall'Uomo"). 

Defiling Morality ov Black God

 "Defiling Morality ov Black God" è una delle tracce più brutali di tutto l'album, nonchè la più breve, ed è dominata da un lavoro di batteria che lascia increduli: un blast-beat che martella il cervello e che annichilisce la capacità di intendere e di volere, sommergendola con ondate di violenza pura. Le chitarre e il basso gareggiano col drum-kit, cercando di tenere il passo con la sua carica, unendosi in un energico riff molto ritmato, dalle nere venature mediorientali, quasi fosse il canto di guerra di una civiltà scomparsa tra le sabbie di un deserto e dimenticata dalla Storia, covo del Male allo stato puro che attende di riversarsi sul mondo. Verso la metà la traccia rallenta un po', divenendo (se possibile) più pesante, con le pelli che si lanciano in boati cadenzati, seguite a ruota dagli strumenti a corde. Un assolo scivola sinuoso in questa foresta di note brutali, un flusso di note velenose che contrasta con la ferocia primordiale del riffing e al contempo lo arricchisce, rendendo il pezzo più oscuro e malvagio; raggiunge il suo culmine con note acute e prolungate, che improvvisamente creano il silenzio, calmando con la loro eleganza la bestialità degli altri strumenti, fatta eccezione per una chitarra dai toni cupi e maestosi, che sorregge questa melodia sinistra intrecciandosi con essa, creando una sensazione di antichità e mistero. Presto sarà proprio questa chitarra a emergere, lasciando in secondo piano il feedback rimanente dall'assolo precedente, lasciandosi andare a una danza lenta e magica. Ma tale pace non può durare, ed ecco infatti che un ruggito risveglia la batteria dormiente, che si risveglia come se fosse furiosa di essere stata quietata, e decide di riprendere il lavoro da dove l'aveva lasciato, facendo riesplodere un blast-beat spaventoso. La chitarra prova a contrastarla con la sua bellissima melodia, ma vedendosi oppressa decide di scatenarsi nuovamente, ridando vita al riff principale per qualche battuta, prima che il pezzo finisca bruscamente così come è iniziato. Il testo inizia con un'invocazione a Isis, "Madre di tutto", perchè conceda al protagonista un "bacio profano", lei che è patrona dei peccatori, guaritrice e dea della magia; "Questo cosmo è davvero troppo limitato" lamenta il narratore, "Scendi sulla Terra, diffondi la Lieta Novella!". Egli si trova solo in un mondo asservito al suo Dio oppressore, dove l'Umanità ha dimenticato i poteri che giacciono latenti e la profonda sapienza seppellita sotto eoni di ignoranza forzata. Si ha quindi una ricerca spasmodica del Sapere: "Musa affascinante / Rapisci il mio spirito / E seppellisci il mio volere / Nello Spazio che sta al di là"; in una frase che richiama l'invocazione di un aedo greco, si richiede l'intercessione di una musa, che porti ispirazione e conoscenza. I versi successivi mettono in luce la natura del protagonista, quando lui si definisce "Arcangelo dell'Ira", un attributo proprio di Samahel, il "Veleno di Dio", il più potente degli Angeli della Morte: un'entità sia buona che malvagia, spietata, che la Qabbalah considera il Serpente che tentò Eva, con la quale generò Caino. Egli è , secondo la dottrina Gnostica, una delle tre manifestazioni del Demiurgo, già analizzato precedentemente; qui la sua figura è presentata però come staccata da quella di Yaldabaoth, in quanto afferma: "Con una sola parola, la Spada Profana / Io ho dominato ogni immagine di Dio!". La "Spada Profana" potrebbe essere un riferimento alla sua unione con Lilith, demone-vampiro e prima moglie di Adamo, con la quale procreò una moltitudine di demoni, tra i quali Ashmedai, definito "Spada di Samahel". Egli si presenta come un conquistatore , dicendo: "Giungo nello splendore e nella gloria dorata / Cercando trofei di guerra [?] Per scagliare via la croce marcescente", e ponendosi quindi in aperto contrasto con Dio. Si ha un ulteriore collegamento con lo Gnosticismo e con l'Apocrifo di Giovanni, un vangelo apocrifo attribuito all'apostolo Giovanni, quando viene nominata la "Morale profanata del Dio Cieco / Morale profanatrice del Dio Oscuro": "Dio Cieco" è infatti uno degli epiteti a lui riferiti, in contrapposizione con L'Ascensione di Mosè, libro appartenente al Giudaismo, che lo presenta come un gigante talmente alto che "sarebbero stati necessari cinquecento anni per coprire una pari distanza", e coperto da capo a piedi di occhi spalancati e fissi. Il nome "Dio Oscuro" si collega inoltre alla figura di Chernobog, demone della cultura slava il cui nome significa "Dio Nero". Egli è il protagonista del poema sinfonico Noc' na lysoi goreUna Notte sul Monte Calvo, del compositore russo Modest Petrovic Musorgskij: il poema ripercorre lo svolgimento di un sabba sul Monte Calvo (il monte Lysa Hora in Ucraina, che in passato aveva la fama di essere un luogo di ritrovo per le streghe), dove alla fine viene evocato il demone. Nel suo insieme il testo presenta una figura antitetica a Dio, associandola a Lucifero per la sua sete di conoscenza e potere, e conscia dell'esistenza di altre entità oltre a quelle presenti nel Giudaismo, che chiama in suo aiuto per raggiungere la perfezione.

Lucifer

 Ed eccoci a un vero capolavoro in un album di capolavori: "Lucifer". La traccia, con il suo incedere lento ma onnipotente e inarrestabile, cattura l'essenza stessa del demonio: è sfuggente, insinuante, spande una nera atmosfera orrorifica che si sposa con l'eleganza e la maestà di un predatore, tali da lasciare ammutoliti e attirare irresistibilmente l'ascoltatore, che preda di questa magnetica oscurità ignora la sensazione di pericolo che urla in un angolo remoto del suo cervello. Un quieto tamburellare tribale sostiene dei cori angoscianti, sostenuti da strumenti a fiato; l'atmosfera è soffocante, ed è presto arricchita da cupi archi, che con il loro ondeggiare risvegliano le tenebre dormienti: la batteria si solleva con calma, mentre le chitarre danno vita a una melodia sui generis, lenta e poderosa, creata dal susseguirsi di tre note malefiche, alle quali risponde poi una quarta nota, più profonda e prolungata. Il riff prosegue fino a che, con un ruggito bestiale, l'entità si risveglia, con la batteria che si scatena unendo un cadenzato lavoro di piatti e tamburi a un uso chirurgico della doppia cassa, mentre le chitarre artigliano i timpani con più forza sorrette da un basso essenziale ma energico. La melodia prosegue, con un coro di ottoni che si solleva imperioso ad impreziosirla, e la batteria muta il suo ritmo rendendolo una sorta di danza tribale, giocando su tom e timpano con maestria, finchè le chitarre non scandiscono con foga le tre note iniziali del riff, lasciandole poi sfumare nell'oscurità, terminando quest'introduzione magistrale. Nell'atmosfera nervosa che segue risuonano cori sinistri, mentre cresce una sensazione di oppressione insostenibile dalla quale prende vita una vibrante nota di chitarra, che parte soffusa per poi sollevarsi sempre più, fino a far esplodere nuovamente il main riff. Quest'ultimo sostiene ora la voce bestiale, e prosegue come un mantra fino all'attacco di un assolo in tapping, semplice ma perfettamente incastonato, che porta il pezzo a un intermezzo strumentale meraviglioso, con un calmo arpeggio ascendente che si stempera in profonde raffiche di note, formando una lenta e solenne melodia. Alla terza ripetizione si allacciano due cupe note prolungate, alle quali segue un rapido cannoneggiare della batteria che reintroduce il main riff, creando una base sulla quale si innesta un assolo gemente, poi zittito dal ritorno della voce. Allo spegnersi di quest'ultima ritorna l'assolo in tapping, che porta a sua volta al lento intermezzo precedente, ora sovrastato da un lungo discorso sussurrato da una voce calma e insinuante, che assume a volte una sfumatura bestiale. Con il termine di questo intermezzo torna la quiete, dove una chitarra soffusa porta avanti una tetra linea ritmica, con un flebile feedback di sottofondo che si solleva e si acuisce, col sopraggiungere di un outro nel quale le note dell'intermezzo, con il suo arpeggiare ipnotico, vengono sorrette da una batteria che incede con potenza e sicurezza, mentre un'altra chitarra unisce la sua voce malinconica al coro e il basso martella senza sosta, per una chiusura epica all'inverosimile, che spegne il brano con dolcezza. Il testo del brano è in polacco, e la lingua slava si sposa magnificamente con le tenebre evocate dalla musica, con le sue consonanti dure che lo fanno somigliare a un qualche dialetto infernale. Come deducibile dal titolo, il brano è un'apologia di Lucifero, cantata dalla sua stessa voce ruggente: "Sono una nera fiamma divina che si spande con i venti / Volo gemendo in lontananza". Egli si qualifica come il Portatore di Luce, personificazione del pianeta Venere (l'astro più luminoso, nonché antichissima dea della feritilità) asserendo: "Accendo il rossore dell'aurora nelle tenebre delle montagne / Con la scintilla delle mie pene, la stella della mia debolezza"; il mondo, scuro e gelido in sua assenza, torna alla vita in sua presenza, così come l'Umanità oppressa da Dio trova nuovo vigore nel suo esempio, insieme alla volontà di ribellione. Egli si presenta come la scintilla, l'energia primordiale che si trova dietro la Natura, ma al contempo come malinconico e solitario, disprezzato e frainteso: "Io, un abisso di arcobaleni- eppure vorrei piangere per me / Sono un vento freddo sulle canne secche di uno stagno / Un lampeggiare di vulcani -ma in pianure paludose". Egli si trascina attraverso un mondo crepuscolare, ultimo combattente in una guerra infinita, viaggiando senza sosta fino al sorgere del Sole, suo nemico, che ne nasconde la luce e "Sorge lodando Dio".

Conclusioni

Termina così un altro capitolo della discografia dei Behemoth, nel quale emerge una volta di più l'incredibile passione che i polacchi infondono in ogni singolo aspetto delle loro opere, un'energia primordiale che riesce a catturare l'ascoltatore tanto in studio quanto in sede live. La perizia maniacale e le altissime aspettative della band fanno sì che questo lavoro sia un altro centro: un album vivo, aggressivo e imponente, da ascoltare a cuore e a mente aperti per potersi meglio beare della sua magia. Il mixaggio impeccabile di Colin Richardson (Cannibal Corpse, Carcass, Machine Head e Kreator), garantisce una profondità di suono che va ad unirsi con quella dei testi e degli intenti, creando un'entità sonora avvolgente, impreziosendo ogni singola e ragionatissima nota di questo full-length. I polacchi ci hanno sempre viziati, migliorando di album in album sotto ogni punto di vista, riuscendo sempre a rinnovarsi, a esplorare nuovi percorsi e a plasmare opere raffinate ed estremamente elaborate; la cosa è evidente sopratutto per quanto riguarda i testi, che trattano temi filosofici estremamente complessi sfruttando in maniera superba i simbolismi di innumerevoli filosofie e religioni, intrecciando miti, opere, personaggi, autori e idee, in un arabesco multidimensionale che lascia sbalorditi. Dopo quest'album inizierà un periodo difficile per il frontman, che nel Marzo del 2010 sarà chiamato in tribunale per aver pubblicamente infamato la religione cristiana nel suo stesso paese, la cattolicissima Polonia, arrivando a strappare una bibbia sul palco, per poi lanciarla al pubblico. La difesa risponderà alle accuse affermando che è un diritto poter spettacolarizzare i live facendo una cosa del genere, e Nergal si scaglierà contro il bigottismo e l'ipocrisia dello Stato e della Chiesa, rivendicando il diritto alla libertà di espressione. Il rischio di affrontare ben due anni di prigione svanirà con il ritiro delle accuse, ma l'intera faccenda sarà solo il preludio per un vero e proprio calvario. Infatti, nell'Agosto 2010, il frontman si vedrà diagnosticata una leucemia in stadio avanzato, che lo debiliterà per i mesi seguenti, durante i quali non rinuncerà comunque a gettare le basi del lavoro successivo. In seguito affermerà che la prospettiva di un altro album l'abbia aiutato a superare una tale tragedia (anche se il merito principale credo vada al trapianto di midollo osseo), terminata felicemente nel 2011, dopo una parziale ricaduta seguita da una lenta ma costante ripresa. In seguito a questo avvenimento, i polacchi non perderanno tempo e si getteranno anima e corpo nella creazione del loro decimo album, lavorando per anni e imponendosi degli standard sempre più elevati, fino all'uscita di The Satanist, dimostrando così che la musica - quella ragionata, sentita, sofferta e amata - non è ancora morta.

1) Daimonos
2) Shemhamforash
3) Ov Fire and the Void
4) Transmigrating Beyond Realms ov Amenti
5) He Who Breeds Pestilence
6) The Seed of I
7) Alas, Lord is Upon Me
8) Defiling Morality ov Black God
9) Lucifer
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