BATHORY
Under the Sign of the Black Mark
1987 - Under One Flag
FEDERICO PIZZILEO
28/01/2020
Introduzione recensione
Ovunque, da sempre e in ogni ambito, sono esistiti attori e comparse, ma sul finire degli anni ottanta di atti in scena nel mondo della musica estrema ce n'erano davvero tanti di qualità, basti pensare a Death e Possessed con i rispettivi "Scream Bloody Gore" e "The Eyes of Horror". Questi erano anni fertili, come ce ne sono stati pochi, anzi pochissimi altri in questo settore, ed è proprio qui che Bathory iniziò a diventare un vero e proprio protagonista della più ampia opera che da lì a poco era pronta a scoppiare: il black metal. Nelle cuffie consunte messe a disposizione dai vecchi negozianti di discografie degli anni '80 risuonavano già da qualche anno gli arpeggi del loro lavoro, in particolare di "Bathory", primo originale capitolo della band svedese. All'epoca dell'uscita di quest'ultimo album, Thomas Borje Forsberg era appena un adolescente, eppure ciò non rappresentava un limite, anzi, sembrava come se la mente del giovane "Ace" (lo pseudonimo con cui amava farsi conoscere) avesse trovato il proprio habitat naturale per vivere ed evolversi, costruendo e piantando i semi che da lì a poco sarebbero germogliati ulteriormente. Nel 1987, Thomas era ormai un ragazzo di ben 21 anni, che a differenza dei suoi coetanei amanti della mondanità, preferì prendersi giusto due anni di pausa dall'ultimo lavoro licenziato "The Return?" e prepararsi all'epifania del genere, ovvero al disco celebre in tutto il mondo che risponde al nome di "Under The Sign Of The Black Mark". Ace era catturato dall'orrido e crudeltà raccontata anche oltreoceano di mondi e racconti talvolta lontani seppur vicini, ma non fece nessun passo indietro per paura di cadere, piuttosto si propose agli occhi del globo in tutta la scintillezza delle sue idee, divenute più mature, cupe e inarrestabili. Questo l'etichetta Under One Flag lo aveva notato, anche perché da qualche anno aveva indirizzato il suo occhio attento anche verso Nord e quindi colse al balzo l'opportunità di far entrare nei propri ranghi Bathory, che da lì a poco avrebbe regalato tre capitolo di straordinaria importanza non solo per la musica estrema scandinava. Pensare che tutto era iniziato da un piccolo garage di Stoccolma, e che nel giro di poco si stava trasformando in qualcosa di più di una semplice passione, permise a Quorthon di iniziare a riscrivere la storia, iniziando ad accendere la candela nera che catturò l'attenzione anche degli Slayer. Questi lo reputavano un'evoluzione del metal estremo, che allora non vantava i numerosi sottogeneri a cui siamo abituati oggigiorno, e che invece si racchiudeva tutti sotto il nome di "thrash metal". Insomma, Bathory si stava facendo conoscere sia nel proprio ambiente, sia all'estero dai grandi nomi del mondo delle sette note più sferzanti, perciò tutto questo è bene sottolinearlo, perché rappresenta proprio un trampolino di lancio che senza uno dei due fattori non avrebbe molto senso. Il lavoro di Quorthon è dunque un vero e proprio atto in scena, uno di quelli più sublimi, e questa sua essenza la sottolinea lui stesso optando per una fotografia significativa come artwork di "Under The Sign Of The Black Mark" - il disco di cui state leggendo. In particolare, si tratta di un fotogramma di un'opera di Gunnar Silins, accolta al tempo alla Royal Swedish Opera di Stoccolma, e ritrae il modello Leif Ehrnborg (un bodybuilder di fama mondiale) in vesti più primitive e caprine. Questo è il messaggio visivo che dà il primo vero impatto contro questo disco, e che ha concorso a trasformare il terzo album di Bathory in una sorta di manifesto più violento, diversificato, profondo e quindi anche più oscuro. I colori caldi e quasi pastello del fotogramma, la scarsa risoluzione dell'immagine che in realtà nel 1987 era quasi il massimo che si poteva ottenere, ma anche la scena e l'atmosfera che si era creato Thomas attorno al suo personaggio e alla sua musica, sono un vero e proprio simbolo di ritorno al marcio, ma non a quello putrescente, piuttosto a qualcosa di dettagliatamente argomentato da riff vulcanici e rabbia di ferro, dalla voglia di andare contro una modernità e il celebrare le ombre che si celano in ognuno di noi. L'etichetta allora ha visto più che giusto, facendo entrare nelle sue fila uno degli interpreti e protagonisti che probabilmente diventerà nel corso degli anni uno di quelli che anche se non si apprezza il genere musicale, lo si conosce per forza. Ancora una volta, prima di procedere all'ascolto e all'analisi di questo capolavoro, reputo fondamentale sottolineare che in realtà Bathory non è nient'altro che Quorthon, il quale si destreggia tra i vari strumenti come chitarra, sintetizzatore, basso e batteria, con talvolta l'aiuto prezioso di altri interpreti come Christer Sandström. Con le dovute premesse e mai sprecate introduzioni, bando alle ciance e, se siete giunti fin qui, allora addentriamoci insieme nel battaglione rinnovato sotto il segno del marchio nero.
Nocturnal Obeisance
Facciamo capolino fuori dalla grotta. C'è vento ed è ancora buio, probabilmente ci vorrà ancora qualche ora affinché il sole sorga e possa darci una mano a identificare ogni profilo che si trova di fronte a noi. L'aria è tersa e si respira a malapena, e sembra come essere stati incubati per tutto questo tempo, almeno fino a quando, una volta svegli, la curiosità ha preso possesso di noi e ci ha spinti fuori da questo foro nella montagna. Ecco allora che da lontano si ascoltano flebili note di sintetizzatore, che cadenzate in maniera melodica riescono a sottolineare l'assurdità del momento e un fenomeno che da qui a un attimo sta per accadere. Anche se poi, purtroppo, non accade nulla nell'immediato. Questa è l'intro dell'album, questa traccia dal nome Nocturnal Obeisance - meglio tradotta in "Obbedienza Notturna" - è un fiume che, non ancora in piena, ci prende il corpo catturando l'attenzione e ci trasporta come una barca lungo la sua corrente. Non c'è scampo, anche perché è proprio ciò che vogliamo, no? Capita a volte di essere troppo presi dalla vita di tutti e giorni, e l'unico metodo davvero funzionante per sfuggirvi è quello di lanciarsi in mondi paralleli che, qui lo affermo e lo nego, non sono sempre di fantasia. Obbedire alla notte è seguire quanto di più ancestrale abbiamo in noi, o meglio nel nostro inconscio. Thomas questo probabilmente lo sa perché è un uomo di cultura, nonostante venga etichettato come il classico satanista nazistello da chi vive di pregiudizi e pareri non richiesti. Rendere cosciente l'ombra aiuta ad assumere un atteggiamento più completo verso la vita, e questo non lo dico né io e né lo afferma Bathory, ma è Jung (uno dei più importanti psicoanalisti del secolo scorso). Non a caso le note concepite per questa intro non sono nette, ma bensì sfumate...proprio come i contorni di un volto nel pieno buio notturno. Ecco allora che questo incipit totalmente strumentale altro non serve che a canalizzare qualcosa che dal di dentro vuole uscire, a cui ogni vero artista con la sua Arte riesce a dare forma. Quanto può impaure allontanarsi dalla città e perdersi con coscienza nel bosco? E se fosse invece la caverna il simbolo per eccellenza di quello che in pochi anni dopo verrà chiamato con l'appellativo di "black metal"?
Massacre
Eco di cavalli e di uomini giunge da lontano, sferzando quella calma apparente che era riuscita a creare la traccia precedente. Il cielo si sta facendo più chiaro finalmente, eppure è come se fuori da quella caverna esista solo la più becera oscurità. La voce di Thomas non tarda all'appuntamento, infatti fin dai primi secondi di questo brano nominato Massacre (Massacro) ecco la furente accoppiata delle linee vocali e strumentali. Mentre Quorthon accompagna nel viaggio immaginifico, diamo uno sguardo alle pendici delle colline, scrutando l'orizzonte la singolare pace delle prime luci dell'alba. Ma in questo mondo non si può dare troppo credito alla contemplazione, perché ormai quel gruppo di destrieri e di uomini è sempre più vicino: duemila stalloni carichi di odio, intenzionati a trasportare i loro padroni verso il destino che è stato filato per ognuno di loro. Nel suo insieme la musica sottolinea questi aspetti emotivi, grazie alla grancassa, al rullante e a blast beat prepotenti che quasi sovrastano la voce in low-fi di Quorthon, infervorato come non mai. Questi uomini sono tuttavia troppo giovani, e ciò che ce lo suggerisce è la loro pelle liscia che, con un po' di immaginazione, si nota anche dalla cima di quella piccola sporgenza della montagna, in cui ci siamo trovati una volta svegli e usciti dalla caverna. Si dirigono senza mai fermarsi, correndo come il vento verso una battaglia di cui ovviamente non conoscono l'esito. In tutto ciò, gli intermezzi in cui la voce scompare lasciando il posto sul palco solo agli strumenti vivificano questa atmosfera, aggiungendo anche più pathos a un'esperienza che, come avrete capito, cattura fin da subito e porta la mente al suo interno, tra le sue architetture. A ritmo incalzante, i fraseggi di chitarra irrompono con un assolo tipico degli arrangiamenti più caprini, regalandoci qualche minuto per fissare bene in mente l'immagine che Thomas ha voluto ricreare grazie alla sua voce stridente. Il testo, poi, continua a mostrarci lo scontro, non uno dei tanti, ma un vero e proprio massacro, in cui da tutte le parti convogliano legioni di uomini a cavallo che si fronteggiano in una mischia centrale coperta da nuvole di polvere. "Non c'è via di scampo" dice Quorthon, rimarcando l'ormai perduta tranquillità che quella valle vantava fino a poco tempo prima. Il cielo si tinge di rosso, come il sole che sorge colora le nubi, e tra corpi morti che ora trovano pace e giovani sofferenti, quel campo di battaglia è ormai fatto di puro rubino. Ecco quindi ciò che vuol dire "carneficina": una parola sulla bocca di molti ma capita veramente da pochi, o almeno fintanto che non si è costretti a impugnare le armi. Sappiamo che l'approccio del metal estremo è a cavallo tra una critica pungente e una rivivificazione di scene cruente quasi fini a se stesse, ma in tutto ciò, da amante del genere, amo guardare tra le righe, quindi, trovandoci sul finire degli anni '80, il clima freddo della guerra sottesa tra Russia e USA era ormai alla portata di tutti, la si conosce e la si teme, quindi la musica è l'unico metodo che, anche inconsciamente, diventa strumento di demonizzazione, nonostante l'apparenza data da sonorità più crude.
Woman Of Dark Desires
Forse non tutti lo sanno, perché solo nel formato del disco in vinile è presente questa particolarità, ma le tracce che compongono "Under The Sign Of The Black Mark" sono suddivise in due facce diverse: una è denominata "Darkness", ovvero "Oscurità", mentre l'altra è "Evil", tradotto in "Male". Proprio nella prima parte compare uno dei brani più acclamati dagli amatori del black metal, le cui sonorità sono entrate nelle cuffie centinaia se non migliaia di volte grazie all'andamento incalzante e la tematica tanto cara al genere estremo; sto proprio parlando di Woman Of Dark Derises, un titolo il cui significato si traduce pressoché in "Donna dai Desideri Oscuri". Una volta venuti a conoscenza di questo, se è la prima volta che sentite degli accordi simili tra parole e musica, cosa vi fa venire in mente? Qual è il personaggio che vive a cavallo tra finzione e realtà e che ha resistito alla memoria collettiva per secoli in virtù del fascino che provoca? Ovviamente è Erzsébet Báthory, la celebre contessa serial killer ungherese. Quindi, è ormai abbastanza palese che ci allontaniamo per un attimo dalla storia portante dell'opera, o almeno quella che i nostri hanno scelto di svelare fin dalle prime due canzoni. Questa volta si giunge su lidi più singolari, in cui il battito di rullante cadenza una descrizione essenziale ed eterea di Elisabetta, in questo caso vestita con abiti colore oro e porpora, in attesa che cali la notte e che quindi sia dia il via alle danze che la porteranno al ringiovanimento. Tra l'altro, la scelta dei colori non è casuale, perché entrambi, insieme, suggeriscono una certa regalità, il potere, ma anche un attaccamento alle cose materiali, come quando Apollonio di Tiana, spiegando l'episodio in cui Ercole si trova a cavallo tra Volontà e Voluttà, descrive quest'ultimo termine usando un'allegoria, ovvero come una donna vestita di un abito color porpora. Del resto, questo descrive perfettamente l'immagine che Quorthon decide di mostrarci, intimando su riff ambivalenti, cioè eterei e corposi al tempo stesso, che il pensiero della contessa, ogni giorno, è riserbato verso quel giovane sangue della vergine che verrà sacrificata la sera, e che servirà per allungare la vita della contessa. Un approccio certamente oscuro, non trovate? Tra l'altro tipico di un vivere magico ancestrale in cui gli opposti creano un equilibrio: la vecchiaia viene colmata dalla giovinezza, ma per farlo è necessario uno scambio equo, perciò la morte di una vergine per la vita della contessa. Dopo poco, il tempo è giunto, e il pronostico dice che, per l'arrivo dell'alba, i corpi privi di vita e dissanguati saranno 60, perché ogni goccia diventa elisir dell'immortalità per chi nella notte si sceglie le dolci prede che ucciderà. La batteria martellante e i riff taglienti rimangono invariati per tutta la durata del brano, e già dopo qualche minuto di ascolto quel suono ricorda le povere vittime che battono sulla porta di ferro dei sotterranei, speranzose che qualcuno le senta e le salvi. Ma chiaramente, in conclusione della traccia, giunge un piccolo exploit, che ricorda che se c'è una cosa nella vita di ognuno di noi che è sicura, be' quella è la morte...e infatti non risparmia nemmeno la contessa. La donna dai desideri oscuri, così sanguinaria e prepotente, continua tuttavia a vivere nella memoria, anche se ha perso ormai il respiro, benché le leggende e le storie che richiamano tetri segreti rimasti nel sottosuolo e chiusi tra gelide mura, lasciano spazio solo alla fine ultima, in cui non ci sono segreti della giovinezza o dell'immortalità, ma solo un ultimo abbraccio della signora incappucciata.
Call From The Grave
Un altro capolavoro degno di rappresentare il mondo che Bathory è riuscito a costruire è proprio questo brano, che inizia con piccoli rumori poco identificabili, ma che grazie al titolo Call From The Grave - ovvero "Chiamata dalla Tomba" - divengono più comprensibili. Forse si tratta di piccoli graffi che dal di dentro di una bara cercano di scoperchiarla, e mano a mano che i secondi passano, questo incipit ci trasporta proprio nella funerea e putrescente immagine del corpo di un uomo (o magari di un giovane - esattamente come state pensando, forse come uno di quelli che sono morti nella battaglia raccontata nella traccia precedente) in cui le ossa sono ormai scarne sia dai muscoli, sia dalla pelle. Lentamente la polvere che si era posata sulla tomba si sposta, e lascia spazio all'apertura della bara che, come il vaso di Pandora, rilascerà immediatamente quel morto che inizia persino a chiedere ascolto al Dio dei Cieli, implorandolo di ascoltare le sue urla angosciose, il suo totale dolore che è rimasto vivido nelle ossa nel momento della dipartita. Qui la batteria è più potente e sembra quasi battere all'unisono di quel cuore che ha sofferto innumerevoli morti, ma che ogni volta vive in vano. Thomas allora aggiunge anche un riffing pietrificante, che come alcuni sprazzi delle colonne sonore dei film horror sul finire degli anni '80, creano un amalgama perfetta tra musica e racconto o immagini, avvolgendo nella tenebra la mente dell'ascoltatore e creando una sinergia empatica propedeutica alla vera e propria immedesimazione. Il grido disperato sopraggiunge a saltelli, come se il morto/non-vivente prenda un bel respiro prima di pronunciare altre parole, e in un sussulto prosegue la richiesta di ascolto, sottolineando come sarebbe stupendo se la Morte lo richiamasse accogliendolo in un vero sonno eterno, rilasciando in pace la sua anima cessando la vita terrena. Gli sembrava giunto il momento del resto, eppure nessuno ha dato credito a quanto chiedeva, ai suoi motivi, donandogli nuovamento il respiro. In effetti, come potremmo contraddirlo? Lui stesso continua sottolineando come in quel terreno freddo e umido, al buio più oscuro e nell'eterna notte dei vivi, il suo cuore continua purtroppo a battere, ma non a ritmo di gioia, piuttosto seguendo l'incedere del dolore che si fa pressante e che gli strappa gli arti e l'anima. Un nuovo urlo si leva, ma la musica non cambia - come potrebbe cambiare, non credete? In fondo riprende proprio questi attimi di sadismo di quel Dio in cui lui credeva, ma è grazie a Quorthon che tutto questo prende paradossalmente vita, perché diviene egregio interprete di quelle sensazioni, di quelle emozioni. Ancora e ancora il grido di pietà, di angoscia, di solitudine, e la richiesta di non essere abbandonato in questo modo proprio da colui che apparentemente può tutto e che riuscirebbe a dargli il vero eterno riposo, se solo vorrebbe. Sopraggiunge il battito dei piatti, che come campane in lontananza aggiungono pathos al battito del cuore sofferente di questa povera vittima del destino, accrescendo la tensione con il suono più acuto. Come se fosse rassegnato, l'uomo sepolto e dimenticato anche da Dio dice "strappo via il coperchio - sto soffrendo - di questa gelida e sconosciuta tomba" e poi continua "che se è l'Inferno [lì fuori] che mi aspetta, allora non ho più nessuna paura)", proseguendo fino alla fine del brano ripetendo a cantilena la sua accusa velata di non essere stato ascoltato e, anzi, aggiunge nuovamente di tener conto della sua chiamata dalla tomba. L'assolo che arriva un po' più tardi rispetto a quando si credeva scatena e accentua ancora la situazione ansiogena e le emozioni che si sono risvegliate assieme al morto, e con suoni ancora più acuti, dati dall'utilizzo della tastiera, il brano inizia a sfumare poco dopo, lasciandoci senza preavviso in quelle finali urla di dolore che chiedono pietà.
Equimanthorn
Da alcuni considerato il brano più thrash del disco, da altri invece è valutato ancora troppo poco, ma Equimanthorn è una traccia carismatica e potente, che abbraccia alcune sonorità che successivamente verranno catalogate sotto il nome di "viking metal". Un embrione che deve ancora formarsi, certo, ma nonostante questo voglio osare anche sottolineare l'alta qualità intrinseca che emerge fin dai primi minuti e che trasporta considerevolmente l'ascoltatore, mettendo in secondo piano lo scorrere del tempo. La tastiera infatti irrompe con un passo felpato, e come fumo che esce dal basso su un palco inizia a prendere la sua posizione nell'atto scenico di questa traccia. Segue un ripetersi netto di qualche nota di chitarra elettrica, che al terzo rintocco si potenzia senza paura, mentre la porta della linea vocale viene spalancata da un grido mozzato che fa da spartiacque tra la calma sincopata che c'era prima e la furia che avviene dopo. Forse quell'uomo ancestrale e primitivo che fa capolino sulla copertina si presenta nuovamente, e questa volta per chiedere il potere, ma soprattutto la spada forgiata dal fuoco dell'Inferno. Probabilmente è invece il cadere che dalla traccia successiva è ritornato in vita, e come un guerriero vuole riprendere possesso delle sue facoltà dopo una lunga astinenza dal mondo bellico. Quindi incita gli Dèi a donargli lo stallone nero dalle otto zampe che possiede Odino - Sleipnir per intenderci - così la sua vendetta potrà finalmente avere pace. "Oh, ucciderò con piacere" sottolinea, e infatti il ritmo mozzafiato prende il sopravvento come una delle migliori tracce degli Slayer, così da dare il punto di partenza a quella vendetta che scorrerà dalle sue vene. La notte è prevista come di fuoco, verrà colorata di rosso scarlatto dal sangue delle battaglie che il cavaliere è pronto ad affrontare, guardando in faccia la Morte e ridendo e gridando a mo' di sfregio verso qualcosa che ancora non l'ha vinto. Per lui la gloria è questa: cavalcare indenne contro ciò che lo uccide e che tuttavia non può avere la meglio, perché tanto è già scampato. La voce di Ace è più acuta e stridente, tanto che sembra quasi vicino a noi, intendo a dichiarare guerra contro chi ha di fronte, intimandolo a guardare i suoi occhi infuocati, a percepire il respiro pesante sulla sua nuca, a godere dell'ultima luce che vedrà prima che dalle sue mani la vendetta venga consumata. "Il momento è giunto" dice, e prepara innalzando la spada di tuono e di fiamme forgiata negli abissi dell'inferno, intenzionato con una rara certezza di far provare al suo nemico l'oscurità che l'ha temprato. Equimanthorn è un po' una certezza fin dal primo ascolto, carica di pathos e di rabbia, ma anche di dolore che dalle note basse e dalla furia degli strumenti che hanno il loro apice nell'assolo. Si tratta di una traccia che spinge all'immagine di un vendicatore, di un punisher che ha il compito con se stesso di rendere tutto equo tra gli uomini, attraverso quindi la spina rappresentata dalla spada. Infatti, una volta consumata la battaglia, lascia che la terra assorba il sangue, e abbandona quei corpi in maniera vergognosa a se stessi, senza curarsi di fare in modo che abbiano almeno una sepoltura. Forse è lo spirito della Morte che parla, che sconfigge se stessa e che riappacifica le sorti del destino sul terreno di gioco dei guerrieri, chissà.
Enter The Eternal Fire
Ecco sopraggiungere quel fuoco imperituro che dalle viscere della terra accoglie i morenti: Enter The Eternal Fire, ha inizio e con lei anche la seconda parte del disco che, come accennato nell'introduzione, prende il nome di "male". Sembra come se fossimo stati catapultati dall'altro punto di vista, ovvero di quelli che ormai hanno perso il respiro per mano di quella spada vendicatrice della traccia precedente, e che si mostrano inermi di fronte la grandezza degli Inferi. Con qualche giro di batteria e di chitarra, accompagnate da rintocchi creati ad hoc con l'ausilio della tastiera a mo' di campane che suonano a un funerale, il brano comincia la sua ridda, presentandosi in modo saliente con accordi il cui ritmo e suono avvolgono immediatamente. Dopo poco Quorthon entra in scena, e in pieno stile dantesco sembra prima narrare la discesa delle anime all'Inferno: "Lascia il mondo dei mortali, per avviarti poi attraverso la nebbia raggiungendo l'altra sponda". Pianure altere e vuoto assoluto sono due caratteristiche che Ace ci spiega appartenere a quel mondo in cui il tempo è collassato e la luce e l'ombra sono indefinibili. Bisogna quindi guadare il fiume della morte dalle fredde acque, e oltrepassare lentamente il ponte che lo sovrasta, il cui splendore è dato dai gioielli che lo impreziosiscono e che lo fanno luccicare durante la notte. Dall'altra parte c'è solo la sponda da cui nessuno può far ritorno una volta approdato, e il protagonista di questa storia lo sa, costretto, tra l'altro, a non distogliere lo sguardo infuocato di chi già lo attende di fronte. Ormai è troppo tardi, e forse questo alone mistico, triste e vagabondo viene espressamente definito ancora di più dal comparto ritmico, che come forconi ardenti ogni tanto punge l'orecchio con plettrate disarmanti. Ma l'attenzione alla tecnica strumentale è subito distorta, perché in lontananza si percepisce il richiamo di chi attende questa povera anima, che prima sussurrando e poi gridando la richiama a sé, in attesa di accompagnarlo lungo l'altro tratto di strada che lo porterà a entrare nel fuoco imperituro. In questa notte infinita le uniche luci sono gli occhi di questa specie di traghettatore, il quale ancora e ancora ripete il suo nome, mentre si avvicinano entrambi al suo dominio attraverso una fitta nebbia scarlatta e voci e grida di sofferenza e agonia. L'immagine è quindi apocalittica, qualcosa che nessuno vorrebbe mai provare, eppure non è ancora finita qui, nonostante l'assolo lascia spazio alle più varie considerazioni. Da lì a breve le porte dell'Inferno si aprono, e nella notte così cupa, l'unica via da percorrere è tracciata solamente dalla voce sussurrante, che piano piano giunge in secondo piano, sopraffatta da qualcosa di più immenso agli occhi dell'anima appena giunta negli Inferi: colui ch'è eretto nelle fiamme, al quale dovrà tenere conto per pagare le pene che si è guadagnato con atti nefasti, e desideri lussuriosi, di vittoria, di oro e di vanità mentre era in vita. Eccolo che infatti, colui il cui nome non si riesce a pronunciare, si alza e si avvicina, reclamando l'anima, chiamando il suo nome, incitandolo prima piano e poi urlando a cadere e a entrare nell'eterna fiamma. La sua anima corporea viene quindi lanciata nella fossa, e qui il caldo è tremendo, tanto da ardere la carne, mentre cade inesorabilmente verso abissi più reconditi. I capelli cadono bruciandosi, gli occhi sono chiusi un po' per paura e un po' per il troppo calore, e piano piano le fiamme fanno a brandelli la sua anima, gustandola come uno dei piatti preferiti. Il dolore è atroce, strappa via ogni altro pensiero dalla mente, anche se l'ultima preghiera è verso il Signore, e gridando chiede appunto perdono, ma forse non sarà mai ascoltato. Qualche minuto prima della fine della traccia, in modo geniale e degno di un film dell'orrore, Quorthon opta per inserire una melodia più pacata, che però precede la finale sfuriata che serve a sottolineare il disagio, l'angoscia, il dolore endogeno ed esogeno che questa anima in pena sta provando. Il brano termina quindi con urla intrise di una speranza ormai vana, ma ciò che mi colpisce è la capacità con cui Ace è riuscito a descrivere in modo coinvolgente queste scene così tremende, senza lasciar prevaricare un tema simile intriso di cristianesimo sulla scelta ritmica e sulle linee vocali. Si tratta quindi di una traccia equilibrata, quasi perfetta, soprattutto perché permette di godere dei cambiamenti stilistici e di pensiero che lo stesso Thomas potrebbe affrontare.
Chariots Of Fire
Introduzione temeraria, molto simile a qualche colonna sonora di un film di Dario Argento, animata soprattutto dall'utilizzo di una tastiera e di suoni alti che, assieme a un sottofondo più ambientale e minimale, ci accompagna diritti verso Chariots Of Fire, anche chiamata in italiano "Cocchi di Fuoco". Un incipit a dir poco epico, tagliato da una cavalcata veemente che subito ci riporta sul piano astrale pensato per noi da Quorthon: c'è una terra maledetta che si muove sotto il cielo stellato, mentre il suono della distruzione accresce le lingue di fuoco che strappano e lanciano via nuvole nere che si mescolano alle fredde correnti del Nord. Le mandibole della bocca dell'Inferno sono spalancate, e in un sospiro si può godere della vista di migliaia di carri infuocati che volteggiano nel cielo illuminato dalle stelle. Il brano ha un andamento veloce e perentorio, non vuole lasciare spazio al riposo, pertanto il suono marziale degli strumenti finisce quasi per occultare la voce sgraziata di Thomas, ma ogni tanto alcune parole si riescono ad ascoltare, talvolta sussurrate, talvolta invece gridare al vento. Questi cocchi infuocato portano l'Inferno in Terra, emergono dal basso, cavalcano sull'acqua, e inceneriscono tutto ciò che respira su questo suolo. Vaste colline, animali, uomini, alberi, fiori e piante sembrano non avere scampo di fronte la possenza di mostri del genere, che come se fossero incaricati di distruggere e redimere le anime afflitte che ancora non avevano trovato il loro posto scendendo negli abissi, rimanevano a galla, sopra il suolo. L'aria si fa pesante, il brano incalza con una maniacale sintesi della forza di queste bestie infernali che cavalcano cocchi di fuoco, e il mondo inizia a essere coperto da una fitta coltre di nebbie oscure e di cenere. In lontananza si alzano lingue infuocate verso il cielo, che mentre prima ricadevano radendo al suolo ogni essere vivente e non, questa volta colorano la volta notturna stellata di rosso e di fuoco, e ancora, migliaia di carri di fuoco persistono nella ridda, scivolando nell'aria come magma liquido che cade da un vulcano. Il brano quindi, dopo una continua e persistente marcia che ci accompagna per tutta la sua durata, cessa l'attività verso la fine, ma solo dopo un ultimo grido di dolore, una decisiva e imperante marcia di doppia cassa che invece cerca di sfondare il muro del suono. Ace sembra cavalcare quei cocchi infernali, permettendoci di vivere un'esperienza apocalittica in così pochi minuti. A mio avviso, si tratta di una di quelle tracce più rappresentative di un certo assetto tematico portato avanto dal metallo pesante; quasi un manifesto che nella sua semplicità riesce comunque a catturare grazie a un ingrediente segreto che non lo rende mai uguale: l'immaginazione. In questo caso quella di Thomas.
13 Candles
Incomincia con delle parole sussurrate, che accarezza l'idea di qualche entità che suggerisce i giusti gesti rituali. L'atmosfera è eterea, ma la tensione è invece palpabile, e questo lo dobbiamo innanzitutto alla scelta delle note di piano che, come una barca nel mare, trasportano la voce di Quorthon verso altre sponde, magari più suggestive. 13 Candles (13 Candele) non tarda a catturare fin dal primo ascolto, nonostante per molti non sia una traccia così piacevole, mentre per tanti altri è sottovalutata. Ma scendiamo nell'abisso dell'immagine e riappropriamoci di un racconto che lo stesso Thomas ci vuole offrire; immergiamo la mente in un buio profondo, in cui la sola flebile luce di una candela accesa può far da ponte tra la paura dell'ignoto e la razionalità. Un uomo incappucciato, che nella penombra si diletta a preparare gli ingredienti di fronte un telo nero disposto per terra, e nel mentre cerca di ascoltare ciò che quella voce cerca di suggerirgli. "Ora la notte è buia e fredda, e vige su un mondo è ormai dormiente. Da una parte all'altra passa una leggera foschia cremisi [e ora è certo che] il sigillo della Vergine è spezzato. Il rito per la fertilità è compiuto. Il seme è ora seminato nel luogo santo": così esordisce Quorthon, che veste perfettamente l'idea di quell'ambientazione che ci eravamo fatti, e richiama quasi antiche usanze che a causa del Cristianesimo sono state un po' dimenticate dal collettivo - tutto ciò accade sopra note temerarie, voraci di batteria e di basso, e di altre più cattive e avvolgenti generate dalle sei corde della chitarra in un riff pauroso e reiterato. Ora, con una voce più oscura e ingannevole, Thomas annuncia che il figlio dell'Oltretomba è nato, e seguiranno fuoco e fiamme, desiderio e dolore, finché il Male non prevarrà sul Mondo, ma questo è solo un ritornello, o meglio un aspetto del rito che poiché ripetuto permette di caricare l'intero atto magico. Infatti, passa solo qualche minuto e poi torna incessante quel riff così cattivo e pungente che aliena già alla seconda ripetizione. Il grido stridulo, e di nuovo parte la seconda parte del rito, in cui la strega ricorda: "Ora che il giorno lentamente va via, lascia il posto alla dodicesima notte. Prepara - presto! - che la vergine dovrà partorire il figlio di Satana, il bambino dell'Inferno. Fa sì che tutti nell'Universo sappiano questa nuova!". ecco il motivo per il quale la notte era la più buia e la più fredda, e in un gesto di antitesi al cristianesimo, in puro stile metallo pesante ed estremo, Quorthon annuncia che il bambino infernale è venuto al mondo, generato da un utero puro e intoccato, esattamente come accade secondo le storie mediorientali al Gesù Cristo, invece figlio di Dio. Questo atto di totale antinomia è quindi voluto e sperimentato dallo stesso Thomas, che quindi vivifica l'immaginario del collettivo in cui è chiaro che il metal come il suo è cattivo, oscuro e aberrante. Ma questo gioco di ruoli sono fondamentali, non credete? A differenza di quanto vogliono farci credere con la favola del cattolicesimo e del cristianesimo, in cui la Luce deve prevalere sul Male. Ma è chiaro che un discorso simile non è nel contesto giusto, quindi ritorniamo nel mondo fantastico, spalanchiamo nuovamente la porta, addentriamoci nella selva delle tredici candele accese in onore di questo concepimento. "Tutto l'Inferno deve gioire, perché il bambino battezzato nel sangue sacro degli angeli e nel fuoco è ora stato messo al mondo, e permetterà al Male di crescere e di vincere su questa Terra", così prosegue la canzone, e subentrano piccoli cori che fasciano il background della traccia, mentre la voce graffiata, le grida, il riff prepotente e la doppia cassa che batte a festa prendono il loro spazio in tutta la scena e per la durata di tutto il brano. Ora, prima di lasciarci, la strega - che non si comprende se serva o meno di Satana - incita ad accendere 13 candele, in un rituale che è ripreso più dalle fette wiccan, celebre gruppo neopagano che ama fare accorpamenti e sincretismi di ogni Tradizione, allontanando - a mio avviso - l'essenza e la bellezza della diversità. Tutto ciò, sebbene apparentemente semplice, richiama atti magici più ancestrali, e che forse Quorthon ha interpretato per vie traverse, ma meglio lasciare il beneficio del dubbio, non credete?
Of Doom
Ci avviciniamo al termine del brano, e la band ci propone un inno al titolo di questo lavoro, che si allontana per tematica (anche se non più di tanto) dalle altre tracce contenute nel disco. Sto parlando proprio di Of Doom, il cui significato della traduzione in italiano si riferisce al destino, lasciando intendere che sia qualcosa relativo alla sorte, ma non è chiaramente specificato. Tutt'al più è occultato probabilmente sotto quei punti di sospensione, che invece lasciando intendere tutto e niente, suggerendo quasi di aggiungere noi stessi la seconda parte del titolo. La traccia è praticamente thrash, ma una di quelli veementi, che sradicano da terra anche gli alberi più forti, perché come potete ascoltare voi stessi premendo il tasto play, non c'è alcun incipit più lento, cadenzato e ambientale, ma parte senza attendere nessuno con un riffing portentoso, a dir poco degno dei lavori di altri mostri sacri del metal estremo come gli Slayer. Certo, questi ultimi sono stati senza dubbio ispirazione di Quorthon, soprattutto a livello compositivo, ma rimane il fatto che lui ama l'originalità, infatti la connessione tra le due realtà non è poi così immediata. Nel 1987 non esistevano brutte copie di altri che potessero raggiungere il pubblico ed essere acclamati come capolavori. Ecco allora che Thomas quasi preannuncia qualcosa che succederà da lì a breve, perché forse l'ha percepito nell'aria fin dalla prima uscita di qualche anno prima: incita a portare in alto lo stendardo nero, caratterizzato da tre fiamme rosse. Bisogna di coraggio chi vuole percorrere questo sentiero così nero, perciò Ace chiama tutti colori che osano addentrarsi nella foresta nera come "fratelli" e "sorelle", motivandoli ad alzare le mani con orgoglio, perché, forse, la strada che si percorre nel metal estremo è impervia e ricca di pericoli. "Attraverso voi" dice Quorthon "abbiamo raggiunto ogni Nazione, tenendo in vita con la dedizione e l'amore l'Orda di Bathory, che è un'unica forza, formata da uomini nati da un unico utero", quindi è più un ringraziamento a chi, prima di chi verrà, ha creduto nella band, e sottolinea che è accaduto solo perché sono nel profondo accomunati da un unico amore, che è probabilmente il metal estremo, o più semplicemente la musica. L'orda è la più possente, perché forgiata dalla fede, e in tutto ciò, il gruppo procede con la parte strumentale che quasi ricorda la marcia velocissima di migliaia di individui che si apprestano a muoversi da una parte all'altra, spinti dalla dedizione per la causa, volenterosi quindi di portare il verbo Bathory ovunque. Ecco quindi che il titolo prende più senso, perché Thomas incita i suoi cavalieri del metallo pesante: "Onorate il Segno del Marchio Oscuro e del Destino??!", in cui la vera sorte deve ancora compiersi, e a ragion veduta è completamente a favore di chi ha riposto fiducia nel progetto. La traccia che vuole iniziare a concludere questo capolavoro è un decisamente un onore nei confronti di chi ha diffuso il nome del gruppo e i suoi lavori in tutto il globo, di chi ha creduto e sostenuto Bathory fin dall'inizio, sottolineando che questa è vera devozione. Ecco allora che la batteria si depotenzia per un attimo, almeno nella velocità perché è giunto il momento di spiegare brevemente il simbolo scelto da Quorthon per rappresentare il gruppo: la creatura [il caprone] con gli occhi rossi, che guida i fratelli e le sorelle fedeli al gruppo, promettendo di portare nelle loro mani sempre la vittoria. Conclude infine, tra suoni metallici di doppia cassa e di basso, ma anche delle infuocate stringhe della chitarra: "Indossando il nostro nome B.A.T.H.O.R.Y su maglie ed emblemi, noi ti onoriamo. Per sempre vivrai nei cuori di questi brutti folli...Onore all'Alto Segno! Salute al Marchio Oscuro!"
Outro
Pochi secondi, che però durano il giusto per chiudere in grande un lavoro come questo. Outro è una traccia puramente strumentale, e non poteva essere altrimenti considerando che nelle corde di Thomas c'è del sangue scandinavo, ovvero di un popolo amante dei racconti e delle saghe, delle storie e della musica in tutta la sua essenza. A mio avviso, anche se questa traccia è stata aggiunta postuma - e più precisamente nel 2003, con la versione masterizzata - ciò nonostante la vogliamo trattare, perché facente parte dell'opera, rendendo quest'ultima un gioiello per collezionisti e un primo tassello per chi vuole davvero avvicinarsi al mondo del metal estremo. Si tratta, come già detto, di un brano brevissimo, appena 25 secondi, in cui Quorthon crea degli effetti distorti ed enigmatici a suon di tastiera e di qualche colpo di tamburo, e sembra che faccia da sottofondo all'uscita delle forze del male dalla scena, almeno fino al prossimo album. Questo tipo di brani, tanti cari a ciò che diventerà poi il genere Black Metal, è un rispettoso anello che congiunge tutte le tracce fino alla fine, perché altrimenti resterebbero senza una giusta fine e con le porte aperte. Invece, le tracce strumentali, sia all'inizio e sia alla fine di un disco, sono una chiosa pazzesca, e aiutano anche a immedesimarsi di nuovo, lasciando un brivido che corre lungo la schiena ed è a tratti inquietante. Insomma, questo outro è una brevissima traccia a tratti solenne, che concentra tutta la paura, l'angoscia e il movimento ritmico che si era creato con i precedenti brani in maniera vorticosa, e come un imbuto li identifica e li fa entrare nella testa uno alla volta, centellinando nel giro di qualche secondo tutte le attese, le speranze, le idee, le immagini, le emozioni e le sensazioni che sono emerse dall'ascolto di "Under The Sign Of The Black Mark". Non tutti sono capace di fare questo, perché spesso si perdono uno studio intuitivo della mente dell'essere umano, ciò nonostante Thomas ci è riuscito, e come pochi altri ha potuto mostrare al mondo intero quello che significa onorare il marchio oscuro.
Conclusioni
Cosa dicevo nell'introduzione alla monografia di questo capolavoro? Ah sì, che esistono pressoché attori e Attori, giusto? Be', dopo una disamina simile, in cui abbiamo potuto assaporare qualche traccia di essenza di Bathory rilasciata nell'aere del tempo, posso affermare che anche a distanza di anni non ci si può ricredere riguardo la magnificenza di certe opere. Thomas è un genio, ma forse questo è appurato; tuttavia lo è ancora di più, perché anche da lui sono nate le idee e le strutture che hanno permesso un'evoluzione successiva di tutto ciò che è il metal estremo, e senza questi stillicidi di giochi di paure e di oscurità, oggi forse non avremmo la fetta più tetra della musica per antonomasia, ovvero la Fiamma Nera. Al tempo solo alcuni erano i gruppi che potevano competere in termini di potenza stilistica sotto tutti i fronti, e ricordiamo tra questi anche i Sodom, ma è la critica che negli anni ha consacrato definitivamente Bathory alla memoria collettiva dei gruppi più significativi. Non posso non citare quanto detto da Eduardo Rivadavia di AllMusic, che scrisse "In breve, come opera di chiara transizione (ma quale dei loro album non lo era?), Under the Sign of the Black Mark rimane un punto culminante nella carriera dei Bathory e un LP crudele per tutti gli amanti del metal estremo", oppure quanto dichiarato nell'intervista del 2012 di Daniel Ekorth - autore del libro Swedish Death Metal, che sottolinea quanto questo disco sia stato un vero e proprio capolavoro, al pari di Reign In Blood. Per molti contemporanei di Quorthon, fino ad allora non avevano mai potuto godere di un disco come questo, talmente malvagio, sporco, oscuro e profondo che in effetti divenne alla base della seconda ondata del black metal, e che oggi rientra in numerosissime classifiche come uno dei dischi più significativi della storia della musica. Ma "Under The Sign Of The Black Mark" è un album maturo, anche se non ancora perfettamente evoluto, eppure rispecchia perfettamente l'immagine di Quorthon, il suo spirito da leader e creatore di Bathory, la sua voglia di andare contro stilemi classici, onorando il segno del marchio oscuro e avvicinandosi a un'essenza come quella della musica estrema. Ace è diventato praticamente un padre fondatore, una guida spirituale a cui anche altri gruppi assoluti come Darkthrone hanno preso ispirazione, e questo ci viene suggerito non solo dalle loro sonorità di lavori come Panzerfaust, ma anche dallo stesso Fenriz che definì questo album come la "quintessenza dell'album black metal". Non dimentichiamoci neppure che alcuni brani divennero parte di colonne sonore di film altrettanto particolari come "Equimanthorn" in Gummo, oppure di videogiochi quali GTA IV nel caso di "Call from the Grave". Molti hanno definito questo terzo lavoro di Bathory come ancora rozzo o dozzinale, praticamente in antitesi a quanto espresso da altri, ma personalmente non riesco a vedere cosa ci sia di talmente sbagliato da non poterlo definire un capolavoro del genere estremo, che tra l'altro lo ha consacrato al grande mondo delle sette note a livello mondiale, senza mezzi termini o discussioni futili che ritardavano la contemplazione di questo disco. Prima di Bathory non c'erano misure adatte a catalogare un lavoro come questo, perché anche se erano già usciti dischi come quelli di Helhammer, comunque non era abbastanza uguale da poterli definire fratelli. "Under The Sign Of The Black Mark" è diventato un vero emblema che riassume un periodo storico, praticamente un vettore di idee e di sonorità che altrimenti sarebbero rimaste inespresse per molto tempo, perché è riuscito a portare in auge qualcosa di più profondo anche solo con la copertina e con quell'uomo dai tratti primitivi e dalla testa animale. Il metal estremo, di cui fa parte anche il thrash e il death, è un punto che permette il movimento, che incita allo scardinamento degli ideali, delle credenze e delle paure e delle certezze, senza alcuna misura di parte che invece acceca la vista. Seppur semplici nella loro costruzione, le tracce di questo album sono altrettanto dense e cariche di emotività, e donano un quid all'esperienza di ascolto, giostrandosi tra tematiche di varia natura e musiche avvolgenti dai toni talvolta freddi e talvolta caldi. Le immagini, anche quelle che nel giocoforza di questo album emergono grazie all'immaginazione, sono coerenti e ciò presuppone un fine ultimo comune che, sebbene non ancora ampiamente espresso in maniera plateale, accarezza l'idea di qualcosa che da questo album in poi prenderà piede, e che modificherà il mondo musicale per sempre. In questo disco Quorthon mette la sua giovinezza con tutti i suoi timori, e inizia a sussurrare tematiche che diventerà parte portante del progetto Bathory, come la mitologia nordica che viene sottesa quando parla del cavallo di Odino con otto zampe. Ma il mito non è ancora puro di quella sporcizia sincretica creata dal cristianesimo e dal cattolicesimo in epoche remote, perciò non voglio dare il massimo a questo album, che tuttavia si merita le prime posizioni a mani basse. "Under The Sign Of The Black Mark", ricordiamoci che, ancora dopo più di 20 anni dalla sua uscita, è un vessillo di potenza, un emblema da portare con coraggio e onore sul petto, un marchio oscuro da tracciare sulla pelle, è fuoco e fiamme divoratrici e fondamenta del futuro.
2) Massacre
3) Woman Of Dark Desires
4) Call From The Grave
5) Equimanthorn
6) Enter The Eternal Fire
7) Chariots Of Fire
8) 13 Candles
9) Of Doom
10) Outro