BATHORY
Nordland
2002 - Black Mark Production
MARCO PALMACCI
10/09/2013
Recensione
I Vichinghi: uomini forti, fieri e valorosi, ma anche coraggiosi esploratori, uomini di fede, padri e madri di famiglie solide. Abitanti legittimi e rispettosi di un mondo magico, dove il tempo sembra tutt'oggi fermo, incapace di scorrere. Come cantare la bellezza sfuggente ed impalpabile di un mondo che ormai sembra essere dimenticato, come ricordare la nobiltà d'animo di quegli uomini? Semplicemente, affidandosi al genio e alla creatività di un ragazzo tranquillo e taciturno. Un colosso della Musica Metal che con la mondanità e le celebrazioni non ha mai voluto avere nulla a che fare, men che meno con la fama ed il successo. Un ragazzo che crea la propria arte per vivere d'essa, senza ricercare ossessivamente contratti e guadagni facili. In una parola, Quorthon. Quel ragazzo divenuto uomo troppo in fretta, quell'uomo costretto a lasciare questa terra troppo presto. Un fulmine, la sua esistenza. Un lampo di luce abbagliante seguito da un fragoroso tuono la cui eco echeggia ancora, negli anni, nell'eternità. Perché nel cuore di chiunque ami il Metal, Quorthon è presente, in ogni sfaccettatura, in ogni "versione", in ogni modo o maniera. Il ragazzo appassionato di Horror, Punk Rock ed Heavy Metal, che volle portare all'estremo della velocità e della potenza il sound delle sue band preferite, tramutandosi in uno degli artisti di maggior influenza nella storia del Black Metal. Quel ragazzo che non volle imprigionare la sua arte nella monotematicità, sia essa sonora sia essa concettuale. Quando demoni e oscurità non gli bastarono più, quando l'impulso di tentare altre vie, di cercare nuovi stimoli e fonti di ispirazione divenne irrefrenabile, Quorthon decise di tramutare in musica quei tempi che furono, i secoli dominati dai suoi Avi. Nacque così quello che dal pubblico è conosciuto come Viking Metal, un genere ad oggi musicalmente eterogeneo ma concettualmente tenuto ben saldo dal fascino che le lontane terre del Nord sanno ancora suscitare, in chi le sa guardare. Una storia che vede in Quorthon il suo narratore principale, un discorso che trova nel duo "Hammerheart" (1990) e "Twilight of the Gods" (1991) la sua concretizzazione definitiva. Al fortunato combo succedettero poi altri episodi discografici molto più vicini al Black Metal iniziale, seguiti da un ritorno alle tematiche epico/vichinghe, cinque anni dopo "Hammerheart", con "Blood on Ice" (1995). Ma è con "Nordland" che si ha l'importante e definitiva conferma dell'anima Viking di Quorthon e dei Bathory. Primo album di una tetralogia a tema Vichingo/nordica, lasciata poi incompiuta (dei quattro Nordland ne varranno realizzati solamente due) causa la prematura scomparsa del musicista, Nordland I è un album che trasporta l'ascoltatore nelle lande della bellezza naturale e del mistero. Un viaggio che per essere intrapreso non richiede biglietti aerei o mezzi di trasporto: quel che bisogna fare è solamente chiudere gli occhi e lasciarsi accompagnare dal Quorthon Virgilio, che ci condurrà tenendoci per mano nelle sconfinate Foreste, dominate gelo perenne.
Si comincia con "Prelude", pregiato episodio strumentale che con i suoi maestosi cori e con i suoi tonanti fiati ci catapulta a bordo di un Drakkar in procinto di sbarcare. Vediamo alzarsi dinnanzi a noi fieri ghiacciai e sconfinate montagne, un fioco raggio di luce scalda appena il nostro volto e l'infrangersi delle onde danza all'unisono col rumore del vento, regalandoci emozioni indescrivibili.. ma è con la seconda traccia, "Nordland", che i nostri sensi vengono definitivamente sopraffatti dalla maestosità del luogo: cori possenti, tamburi dal ritmo preciso ed incalzante, una chitarra dura e tagliente, la voce da bardo di Quorthon. Elementi che fondendosi narrano della Terra dell'Inverno eterno, dei cieli sempre grigi capaci d'esser squarciati unicamente da un sole dorato. Laghi maestosi e profondi, custodi d'arcani segreti. Corvi ed Aquile che spiegano le loro ali su foreste fitte ed impenetrabili, dimora di lupi dall'argentato pelo. Le alte cime innevate, custodi del sonno dei giganti. Una terra benedetta dal benevolo e sempiterno sguardo del Padre con un occhio solo, Odin, padre degli Dei e degli Uomini, signore di Asgard. Misteriosi riti di sacralità e propiziazione divengono protagonisti del terzo brano, "Vinterblot", composto per narrarci il più importante degli antichi rituali nordici: il Blòt invernale, il sacrificio, l'offerta di bestiame e vite umane elargita agli Dei per ottenere la loro benevolenza nella notte del solstizio di Inverno, la notte più lunga dell'anno. Cori salmodianti riproducono antiche preghiere, una chitarra marziale ed ossessiva coadiuvata da una batteria rombante e precisa genera un clima di ineluttabilità, sostenendo il fiero stoicismo con il quale due gruppi di nove uomini ciascuno decidono di sacrificarsi per il bene della loro comunità tutta. Accompagnati da altri doni sacrificali come Buoi, capre e cavalli, i sacerdoti si radunano attorno ad un Frassino, albero sacro agli Dei, dove il sacrificio dei prescelti verrà consumato. La cenere delle torce si mescola alla neve tingendo il paesaggio di una lieve sfumatura grigiastra. I corpi dei diciotto uomini giacciono penzolanti dai rami del Frassino sacro, la cui corteccia ne assorbe il sangue. La lettura delle rune da parte dei sacerdoti e il propiziatorio abbeverarsi del divino idromele al sorgere del sole chiudono la solenne cerimonia, grazie alla quale L'Inverno potrà essere affrontato con la garantita protezione degli Dei. Neanche il tempo di riprendersi che un'inquietante intro ci catapulta immediatamente in un'oscura caverna, profonda e mal illuminata. Ad accoglierci, un gigantesco drago nero dalle mascelle enormi e dagli artigli affilati come lame. Siamo giunti al quarto brano, "Dragon's Breath", ove Quorthon abbandona il tono da bardo narratore per assumerne uno decisamente più aggressivo e brutale, intervallato sempre dai cori (i quali assurgono, ora più che mai, a tratto distintivo del disco) ma comunque diverso da quello sentito sino ad ora. Il pezzo risulta a tratti un miscuglio delle due anime dei Bathory: la violenta e veloce band di metal estremo degli esordi e la più riflessiva e calma del periodo Viking. Il sound della chitarra risulta anch'esso risentire di questo mix, con un Quorthon particolarmente abile a destreggiarsi fra i due fuochi. Le lyrics si tingono di epicità: una spada leggendaria forgiata dagli Dei in tempi ancor più che remoti viene custodita dall'enorme Drago Nero, intento ad incenerire col suo respiro infuocato chiunque oserà anche solo sfiorarla. Miti e leggende d'altri tempi trovano la loro degna collocazione in un contesto che diviene, di pari passo con lo scorrere delle tracce, sempre più simile ad un poema epico che ad un disco. Giungiamo così alla quinta traccia, episodio atipico ma incredibilmente affascinante. "Ring of Gold" abbandona le chitarre aggressive per proporre un delicato sound acustico, accompagnato unicamente dalla voce di Quorthon, questa volta melodica ed accomodante. Un brano a tratti baroccheggiante che depone aggressività e batterie dal ritmo spaccaroccia, che lascia da parte Draghi e Sacrifici per narrarci i propositi di un giovane guerriero intento, con l'arrivo della primavera, a lasciare il quieto villaggio di Asa Bay (villaggio fittizzio protagonista del brano forse più famoso dei Bathory, "One Rode To Asa Bay", presente in "Hammerheart") per far si che il destino da guerriero al quale ha consacrato la sua vita faccia il suo corso. Prima di andare, però, decide di rassicurare la sua compagna sul suo ritorno a casa sano e salvo: un anello d'oro lasciato alla sua bella come pegno rende indistruttibile la promessa fatta di tornare da lei. Dopo quest'episodio sui generis i toni tornano a farsi epici e decisamente più conformi a quelli dei brani precedenti. Giungiamo così alla sesta traccia, "Foreverdark Woods", che dopo un'intro composta da rumori naturali (cinguettio di uccelli, cavalli al galoppo, ruscelli che scorrono) ed il suono ipnotico di uno scacciapensieri, re introduce riff evocativi, ritmica possente e cori salmodianti. Il brano ha un'attitudine folk, quasi a richiamare gli antichi canti Vichinghi in onore degli alberi e delle creature dei boschi. Lì, nelle foreste sempre buie, antichi spiriti di combattenti caduti sorvegliano le loro tombe, pronti ad assalire ignari visitatori o profanatori malintenzionati. La Foresta diviene quasi un microcosmo, un ambiente distaccato dagli altri, dove vigono regole precise ed esclusive: meglio non avventurarvisi al tramonto, per non incappare in chissà quali pericoli. Una Foresta spaventosa che tuttavia affascina l'uomo, con la sua maestà e le leggende che assieme al vento rimangono sospese fra gli alberi erti a titani e custodi della terra. Neanche il tempo di distogliere la nostra attenzione dal fascino di quel mistico ambiente che subito una chitarra acustica ed un corno rapiscono il nostro udito, spianando il terreno per un riff ossessivamente veloce e per una martellante doppiacassa. Nella settima traccia, "Broken Sword", Quorthon vira decisamente sullo stile che ha reso famosa la sua band ad inizio carriera, riducendo al minimo i cori. La sua voce rimane melodica ed evocativa, risultando comunque perfettamente inserita nel un contesto aggressivo e diretto. Siamo quindi catapultati all'interno di una falange: soldati che marciano spalla a spalla verso il nemico, nella nebbia mattutina, consci del fatto che quello può essere o sicuramente sarà il loro ultimo giorno di vita. Si giunge così all'ottavo brano, "Great Hall awaits a Fallen Brother", collegato per tematiche al precedente. Questa volta assistiamo ad una scena epica e al contempo commovente: un soldato assiste al funerale del suo migliore amico caduto in battaglia, ricordando le mille battaglie combattute assieme, i mille viaggi intrapresi, le esplorazioni. La tristezza domina l'animo del soldato, che comunque riesce a trovare un minimo di consolazione nel fatto che il suo amico è ormai in viaggio verso il Valhalla, dove presto lo reincontrerà per combattere di nuovo al suo fianco. Il brano risulta essere un alternarsi di atmosfere e stili: velocità ed aggressione sino alla metà, prontamente sostituite, in seguito, da un ritmo cadenzato e decisamente più lento. Ritmo cadenzato e possente che spadroneggia a tutto campo nella penultima traccia, "Mother Heart Father Thunder", l'episodio più toccante del disco. Voci all'unisono cantano per introdurre un maestoso riff che richiama molto i brani iniziali, torna il coro antico e salmodiante, la voce di Quorthon acquisisce un tono ancor più potente, un che di sacro avvolge il suo cantato: come se fosse la madre terra a cantare per suo figlio, unendo in coro tutte le meraviglie che la compongono, Quorthon si lancia in uno splendido panegirico in onore di tutto ciò che fu e di tutto ciò che è: gli Dei che un tempo presiedevano il cuore dei suoi avi, l'immensità del cielo, l'innocenza cristallina dei ruscelli, dei laghi e dei fiumi, la tiepida luce della primavera, la foschia dell'alba invernale. Non dimenticandosi di Padre Tuono e della forza, della risolutezza, della purezza d'animo che questi ha saputo infondere a suo figlio. Dopo questa splendida lauda, arriva il momento della conclusione. Dopo aver ammirato tanta bellezza naturale e dopo esserci immersi in un mondo così arcano, è tempo di risalire a bordo del nostro Drakkar, per tornare nella nostra, di Terra. "Heimfard", l'outro a chiusura dell'opera, culla il nostro ritorno facendoci udire le stesse onde del nostro arrivo, quell'acqua che si infrange contro la prua, quegli uccelli che cantano in lontananza... ormai la nebbia avvolge le Terre del Nord, quelle terre che grazie a Quorthon abbiamo potuto ammirare ed assaporare lentamente ed inesorabilmente. La nostra avventura è giunta al termine.
E' difficile rimanere indifferenti e tornare immediatamente alla propria quotidianità dopo l'ascolto di un album come Nordland. E' difficile perché raramente ci si trova davanti ad un'opera d'arte di così alta fattura, ove a dominare non è certo la convenzionalità o una qualche regola prestabilita. Quorthon odiava i prodotti "confezionati" e ha sempre voluto ascoltare più il suo cuore che i produttori o il suo portafogli. Quel cuore che gli ha permesso di dare vita ad un mix di musica e genialità, un lavoro di grande spessore tecnico dove comunque emozioni e sensazioni forti non mancano. Anzi , dominano. E' come se ci avesse spiegato, a parole... o meglio, a note sue, cose che non avremmo mai potuto capire leggendo nessun trattato, nessun libro di storia. Cos'era, cos'è stato, cosa fu? Domande che non possono trovare risposta nella sterilità di un paragrafo o in una pagina di internet... del resto, si sa, il modo migliore per imparare la Storia è farsela narrare da chi l'ha vissuta. E Nordland equivale al lungo racconto di un nonno, un nonno che narra ai suoi nipoti seduti in semicerchio le gesta di un grande popolo. Un popolo nei secoli bistrattato ed umiliato, ma sempre portatore e conservatore di un animo tonante come il Mjollnir. Prima ancora della carta stampata vi erano l'udito, la parola, la memoria. Non ci resta altro da fare che recuperare tutto questo, sederci accanto ad un fuoco scoppiettante e lasciare che il saggio Quorthon cominci a raccontarci la Storia. Dopo averla udita, guarderemo al tutto con occhi diversi, lieti e grati d'aver per un momento fermato la corsa frenetica di una vita che, con la sua fretta, spesso e volentieri ci occulta tante, troppe meraviglie.
1) Prelude
2) Nordland
3) Vinterblot
4) Dragon's Breath
5) Ring of Gold
6) Foreverdark Woods
7) Broken Sword
8) Great Hall Awaits a fallen Brother
9) Mother Heart Father Thunder
10) Heimfard