BATHORY

Hammerheart

1990 - Noise Records

A CURA DI
FABIO MALAVOLTI
29/07/2012
TEMPO DI LETTURA:
9,5

Recensione

Trasmettere la pace attraverso la guerra? E' questo il primo pensiero che scaturisce nella mia testa quando penso alle antiche vicende del culto cristiano. A partire dal dodicesimo secolo il cristianesimo iniziò ad espandersi dall'Europa meridionale sino alle gelide terre del Nord, le quali costituivano una vera e propria culla per il paganesimo. Malgrado il messaggio di pace che questo nuovo culto religioso intendeva trasmettere (fra l'altro attraverso contrastanti ideologie), l'obiettivo di ampliare la propria schiera di seguaci ebbe sviluppo attraverso opprimenti atti di violenza che sfociarono spesso in autentiche battaglie, un fatto alquanto paradossale considerando il contesto religioso che faceva da sfondo (anche se nel mondo contemporaneo non lo è quasi nemmeno più, purtroppo). Persecuzioni, torture e quantità inimmaginabili di sangue causate da ciò sono ancora oggi al centro di discussioni nella Scandinavia (talvolta anche attraverso episodi sgradevoli), ma non solo nel mondo dei media. A partire dalla fine degli anni ottanta infatti, queste orribili vicende cominciarono ad essere narrate anche attraverso il modo più semplice e diretto per trasmettere concetti, la musica. Come probabilmente avrete intuito, stiamo parlando proprio di  Ace Börje Thomas Forsberg, meglio conosciuto come Quorthon, e la sua creatura, i Bathory. Fino ad allora, accompagnato a braccetto da Celtic Frost, Mercyful Fate ed ancora prima i Venom, la prima ondata black metal aveva sempre incentrato i propri orizzonti tematici verso occultismo e satanismo. Non facevano eccezione nemmeno i Bathory, che avevano sfornato tre dischi di ottima qualità nei quali però la ricercatezza compositiva/lirica era a livelli decisamente bassi. Qualcosa cambiò a partire dal 1988, anno di uscita del capolavoro “Blood Fire Death”, un vero e proprio must del metal estremo nel quale, a discapito delle sonorità thrasheggianti dei lavori precedenti, veniva emergendo una componente epica, onirica grazie alle quali aveva iniziato a muovere i primi passi quello che verrà definito come viking metal. Non una miscela di black e thrash metal, ma uno stile musicale ricco di sfaccettature e soprattutto molto più ricercato a livello di tematiche. Non più tenebre ed  occultismo, ma uno spirito battagliero e marziale avvincente e di gtande impatto sonoro, che raggiungerà la summa con “Hammerheart”, quinto capitolo discografico che sancì la definitiva svolta verso uno stile ancora più personale. Che trova fra i suoi punti cardine l'inserimento di molte parti acustiche, già impiegate considerevolmente nel predecessore. Dovendosi fare narratore di quelle antiche ma indimenticate ed indimenticabili vicende che hanno indelebilmente segnato la storia del suo paese, Quorthon rende il lavoro ancora più unico, aggiungendo un pizzico di melodia e drammaticità al suo cantato, non più fatto da acidi e gracchianti vocalizzi in screaming, ma uno stile più pulito, naturale ed ideale per raccontarci la storia e la tradizione della sua amata terra. Anche a livello strutturale Hammerheart riprende soluzioni già utilizzate in Blood Fire Death, abbiamo quindi brani dal minutaggio elevato, in alcuni casi (“Shores in Flames” e “One Rode to Asa Bay”) superano i dieci minuti, mentre in passato i brani avevano una durata molto più esigua, anche se va detto che nei primi dischi venivano mischiati meno elementi provenienti da ancora meno influenze stilistiche, come già detto in precedenza, oltre ad un larghissimo impiego di chorus vocals (a volte in backing) che conferiscono al disco un elevato respiro epico/ultraterreno che ci fa assaporare la vera essenza della gloria, come se ci stessimo incamminando verso l'Yggdrasil.

Già l'opening track “Shores in Flames” è un immenso capolavoro di epicità, poesia e drammaticità. Il rumore delle onde del Mare del Nord che si abbatte sulle coste della penisola scandinava ci introduce in questo brano dalla durata molto consistente ma mai stucchevole. Una desolata e malinconica chitarra clean fa il suo ingresso dopo non molti secondi dando il via ad una parentesi ricca di pathos nella quale Quorthon comincia a posare delicatamente le sue strofe come fossero oniriche onde che si infrangono sugli scogli, poi si ritirano e poi ritornano. Già nei primi minuti, da queste caretteristiche, si intuisce la ricercatezza della composizione di Quorthon, che instaura immediatamente un vortice di poesia e melodia praticamente inesistente nei lavori passati. Dopo qualche minuto, mentre il pathos si immola verso l'apice della sua essenza, il brano esplode ed in primi precisi interventi di Quorthon alla batteria danno ufficialmente il via al pezzo vero e proprio. Mentre un bellissimo duetto riffaggio-pattern ci accompagna a suon di potenza ed epicità, Quorthon inizia un sentitissimo omaggio alla sua terra raccontandoci dei primi scontri contro le forze cristiane, proprio mentre l'inverno stava per lasciare le terre con il suo gelido mantello, e di come abbia cercato di avvertire la popolazione dell'imcombenza di un pericolo imminente. La strofa successiva è invece incentrata su una sorta di preghiera rivolta alle selvagge onde del Mare del Nord, forse l'unica via per il popolo in cerca di nuove terre più sicure da abitare. Musicalmente il picco di evocatività lo si raggiunge nell'assolo, un concentrato di melodia, drammaticità ed energia che ci riporta alla mente la più bella parentesi solistica mai scritta da Quorthon, quella di “A Fine Day to Die”. Gli oltre undici minuti trascorrono così togliendoci il fiato, in un battibaleno, nonostante durante il cammino ci siano passate davanti agli occhi tante scene appassionanti e drammatiche. Con la mente ancora rapita da Shores in Flames, ci immergiamo in “Valhalla” e siamo a cospetto di quello che si può ritenere come il pezzo forte del disco. Ad aprire le danze troviamo un altro intro di chitarra clean, dalle tonalità leggermente più aspre. Queste prime impressioni ci vengono confermate dai minuti successivi, con sonorità più abrasive e marmoree. Come lascia intuire il titolo, questa volta Quorthon omaggia non più la storia ma si concentra sulle tradizioni culturali della sua terra natìa, costruendo un brano esemplare sotto tutti i punti di vista, a partire da quello compositivo, realizzando un pezzo praticamente esente da difetti, con all'interno parentesi massiccie e imponenti ed altre più aperte alla melodia, alla marzialità ed alla poesia (memorabile il chorus protagonista nella parte iniziale del refrain, nella quale viene ripetuto più volte il titolo del brano con una sorta di canto solenne). Il perfetto omaggio alle divinità precristiane, un capolavoro assoluto ed inarrivabile. Giungiamo alla terza track, “Baptized in Fire and Ice”, e ci imbattiamo in un altro brano che difficilmente uscirà dalla nostra mente sin dal primo ascolto. Il riff portante è macchinoso ed incessante, procede inarrestabile nel suo cammino, e sembra veramente scolpito nel più cristallino ghiaccio svedese. Nonostante ciò, l'atmosfera che si viene a creare è davvero ustionante, a causa dell'enorme pathos generato dal contrasto fra le potenti, ruggenti strofe e l'ennesimo refrain più incentrato su tonalità oniriche e melodiche. Lo stesso è diviso fra la potente, granitica voce di Quorthon e poetici chorus che creano un contrasto molto forzato ma eseguito magistralmente. In questo brano ci narra i ricordi di un ragazzo svedese, che parla della sua infanzia come una fotografia, ed intanto descrive uno scenario di vita che ha per protagonista lui stesso e suo padre mentre lo accompagnava per la prima volta alla scoperta della cittadina, evidentemente situata in prossimità del mare. Mentre lo guida alla scoperta delle cose più importanti della vita e del pianeta, lo innalza al cielo facendo sembrare la scena proprio come un battesimo, ma ben diverso da quello inteso dalla religione cristiana, come lascia facilmente intuire il titolo del brano. In quel glorioso momento, nel mezzo di una tempesta, si sente come in un altro mondo, dove le divinità vichinghe regnano con tutto il loro splendore e la loro potenza. Il legame affettivo che fa da contesto a Baptized in Fire and Ice viene ripreso anche nella successiva “From Father to Son”, brano che ci permette di apprezzare il fortissimo amore di un giovanissimo Quorthon verso gli affetti famigliari. Musicalmente il pezzo raggiunge livelli onirici elevatissimi, pur sempre giocando sul contrasto fra parti in stile viking metal ed altre più armoniose. Nonostante il brano sia incentrato su tematiche delicate, su un episodio negativo della storia scandinava, su una certa freddezza, insomma, riesce a scaturire quel dolce tepore che solo le braccia di un padre o di una madre riuscirebbero ad evocare: si parla infatti di come un padre cerchi di trasmettere i valori essenziali della tradizione vichinga sin da quando il figlio è ancora molto piccolo, di come ciò che importa è la gloria, il patriottismo e l'onore, non bisogna temere nessuna forma di nemico ed essere pronto a dare l'anima per combattere in nome di Odino. I due minuti di “Song to Hall Up High” fanno da spartiacque fra esso ed il brano successivo colmando l'atmosfera di un intenso mood imperiale, prima di catapultarci nella meravigliosa “Home of Once Brave”. Mentre le ultime note dell'intermezzo fluiscono nelle nostre orecchie, un bellissimo e dinamico riff di chitarra apre le danze seguito di lì a poco dal basso ed infine dalla batteria, sfociando nella più bella sezione viking di tutto l'album (almeno per quanto mi riguarda). Quorthon attutisce un po' la sua performance canora per rendere il tutto più poetico e dolce per descriverci un meraviglioso paesaggio nordico, fra le meraviglie della natura e le temibili intemperie della sua terra. Il melodioso suono di uno scacciapensieri apre “One Rode to Asa Bay”, indiscutibilmente il brano più celebre del platter, dedicato allo scrittore statunitense C. Dean Andersson, noto autore di romanzi a metà fra il fantasy e l'horror, una sorta di Howard P. Lovecraft (per altro, scrittore omaggiato da moltissime band nel panorama metal come ad esempio Nile e Septic Flesh) dei giorni nostri, e proprio il nome Asa Bay deriva dallo pseudonimo dello scrittore, Asa Drake. Questo tributo da parte di Quorthon è una sorta di ringraziamento nei confronti dello scrittore, che in precedenza lo aveva a sua volta “omaggiato” facendogli reperire alcuni dei suoi testi. Asa Bay è invece una cittadina immaginaria della Scandinavia teatro dell'invasione da parte delle forze cristiane, che prenderanno presto il sopravvento a livello civile e culturale. Mentre il suono dello scacciapensieri va man mano assottigliandosi, un melodioso arpeggio di chitarra clean si fa strada, seguito a ruota dalla batteria che svia il pezzo verso lidi viking metal nei quali però non viene mai perso di vista l'aspetto evocativo, grazie agli ormai noti backing chorus che ci fanno puntualmente compagnia in ogni brano. Quorthon è protagonista, dietro al microfono, di una prestazione tanto discutibile (in più di un'occasione ai limiti della stonatura) quanto tremendamente realistica e drammatica, anzi, proprio il difettare della sua performance rende il tutto più naturale, evidenziando come per lui non importasse il modo attraverso cui vengono trasmesse le informazioni, ma il fatto che  il messaggio giungesse al destinatario, in un modo o nell'altro. La chitarra è protagonista di una cavalcata che si snoda fra parentesi energiche e possenti, ed altre più incentrate sulla melodia, ma l'apice del coinvolgimento lo si raggiunge nel tagliente assolo che spezza in due il brano e ci lascia letteralmente senza parole, per quanto rappresenti la pura essenza di cosa vissero gli scandinavi in quei momenti drammatici, e dandoci l'impressione di trovarci lì in mezzo a loro nel tentativo di difenderci dagli invasori. Per One Rode to Asa Bay venne anche realizzato un video (girato proprio nelle terre nordiche e finanziato dallo stesso Quorthon, tanto per ribadire quanto amasse la sua musica e la sua buona riuscita) che per un po' di tempo venne anche trasmesso su mtv, quando ancora era un'emittente di tutto rispetto non incentrata solo su fini commerciali. Questo brano è tutt'oggi anche uno dei brani più gettonati nel metal estremo, basti pensare alle cover realizzate da numerose band, fra quali Opera IX, Fearbringer e Mystic Circle. Da sola vale l'acquisto del disco. Come era accaduto in tutti i full precedenti, la chiusura è affidata ad un brevissimo outro che torna a riempire l'atmosfera con la sua evocatività e chiudendo con il giusto mood un disco veramente irripetibile.

Otto brani scolpiti nel più possente e solido ghiaccio scandinavo, otto brani con i quali rivoluzionare, anzi, riscrivere i dogmi della musica, nati da passione, amore e talento mai così puri e semplici, e grazie ai quali di lì a poco Quorthon diventerà un modello ispiratore per miriadi di formazioni e di stili differenti. Scegliere un disco migliore degli altri nella discografia dei Bathory è un'impresa assai ardua, ma se proprio devo sceglierne uno al quale sono più legato, un disco che mi ha trasmesso sensazioni più pure e sincere, la mia scelta ricade proprio su questo disco, che dato alle stampe via Noise Records, è sin dal 1990 ritenuto come uno dei dischi più influenti della storia nonché un must-have di qualsiasi appassionato di metal estremo.


1) Shores in Flames
2) Valhalla 
3) Baptized in Fire and Ice
4) Father to Son
5) Song to Hall Up High 
6) Home of Once Brave
7) One Rode to Asa Bay 
8) Outro 

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