BATHORY

Blood On Ice

1996 - Black Mark

A CURA DI
ANDREA ORTU
10/01/2019
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Premessa & Prologo

Questa non è una recensione, né un articolo monografico. Almeno, non solo. Questa è commemorazione. Omaggio a una band e a un artista che hanno profondamente segnato la musica dura contemporanea. Blood On Ice è la saga che Quorthon ha voluto donare ai suoi amati fans, un percorso umano e divino fatto di dolore, freddo, sangue e vendetta. Un viaggio a metà strada fra mito e tradizione che noi abbiamo voluto far vivere in forma di prosa, di racconto pienamente e formalmente strutturato, traendo dalle strofe del cantante come il cercatore d'oro dal letto del fiume. Qui troverete la poetica del cantante dei Bathory, il rigetto della contaminazione cristiana e l'abbraccio dei miti germano-scandinavi, descritti uno a uno nella nostra analisi dell'opera. Troverete anche tanta farina del mio sacco, una farina che serve da collante e che gioca coi personaggi, che concretizza, o tenta di concretizzare, tutti quegli ingredienti che Quorthon affida alla musica e alla sensibilità dell'ascoltatore. Ma è una farina, ve l'assicuro, che non va mai a snaturare l'impasto originale, fonte inesauribile d'emozioni, di epica, di oscurità e di luce. 

Un ringraziamento speciale a Federico Pizzileo, studioso di filologia germano-scandinava e nostro caporedattore, il cui aiuto è stato fondamentale per scavare a fondo nell'opera dei Bathory. 

(Andrea Ortu) 


Di mio padre e di mia madre ho ricordi della stessa consistenza della nebbia, frammenti  di una memoria cancellata dalla furia del metallo e dai sospiri della foresta. Una delle immagini più vivide che ho di loro, risale alla nostra ultima festa: il giorno precedente quella mattinata di nero acciaio perlato di rosso. La schiena possente di lui, china sulla pietra levigata e ricolma di fiori ed essenze profumate, il suo abito cerimoniale magnificamente decorato; la figura statuaria di lei, i capelli di sole decorati degli stessi fiori e delle medesime essenze della grande pietra, l'espressione indecifrabile. E il sangue del maiale, che dall'altare si getta sulla neve dipingendola di cremisi. Un tributo alla magnificenza di Freyr, mi spiegano, ben conoscendo l'effimera memoria dei bambini. E bambino lo ero fino all'anno prima, ma ora che d'inverni ne ho dieci, già mi dico uomo e m'atteggio da guerriero, incoraggiato dai sorrisi degli anziani, dai risolini delle fanciulle, dallo sguardo ricolmo d'orgoglio di quel padre di cui non ricordo neanche i lineamenti. Al suono dei corni hanno inizio i festeggiamenti, così prendiamo parte al rituale: vestiamo gli stessi abiti dei padri dei nostri padri e tracciamo i loro stessi gesti, pronunciando le stesse parole. Come facciamo da millenni.

Tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei novanta, i Bathory hanno già scritto una pagina rilevante di musica contemporanea. La band di Thomas Börje Forsberg, noto sia agli estimatori che ai detrattori col nome di Quorthon, ha contribuito sensibilmente ad allargare i confini del metal estremo, delineando i tratti di quello che oggi chiamiamo "Black Metal": due album tanto acerbi quanto maledettamente seminali, e un terzo che da una parte chiude il cerchio già iniziato, dall'altra, lascia intravedere le prime nubi in lontananza. Nubi cariche di presagi. I Bathory vengono immediatamente definiti "satanisti", disprezzati dall'opinione pubblica e venerati da una nicchia in piena espansione, ragazzi che da quell'odio perbenista sanno trarre nutrimento, e perché no?, anche alcuni importanti vantaggi per così dire... imprenditoriali. Dopotutto, l'accostamento al Male è un gioco al rialzo che va avanti da più di mezzo secolo, ed è assai redditizio, ma per Quorthon tutto quel teatrino di diavoli e messe nere non è mai stato mera apparenza, stanca retorica di un rock 'n roll in fase terminale, ma una vera e propria dimostrazione d'intenti. In quegli anni il musicista svedese è un giovane patriota, poeta e intellettuale, figlio di una generazione che ha visto il blocco orientale a un passo dal giardino di casa, erede di un popolo sul bordo di un futuro incerto, insieme sfavillante e turbolento. Fra gli artisti suoi contemporanei è tra i primi a riscoprire, valorizzare ed esaltare le tradizioni germano-scandinave in chiave post-modernista, senza però scadere nell'ambiguità intrinsecamente pop del fantasy anglo-americano. Per Thomas il "satanismo" è solo un mezzo come un altro, il più tradizionale, per mettere in luce l'ipocrisia di ciò che ha di fatto segnato la fine del pantheon norreno, "inquinato" e "corrotto" la purezza di un folk millenario: il cristianesimo. Resosi conto della contraddizione insita nell'esaltazione della figura biblica di satana in contrasto all'immaginario mitologico abramitico, Quorthon e i Bathory cambiano registro e sfornano il Capolavoro: "Blood Fire Death", un album che riparte da un sound già di per sé nuovo di zecca, il black metal, riprende la più consolidata energia del thrash e fa sue le sensazioni dell'epic metal, arrivando infine a qualcosa di totalmente inedito: il "viking metal". Il termine è semplicistico, ma decisamente funzionale ad un immaginario collettivo limitato, solitamente fermo al vichingo con l'elmo cornuto e amenità simili. Quorthon lo sa e gli sta bene: è la sua stessa opera a parlare per lui, ad andare contro gli stereotipi e a recuperare, con programmatica lucidità, la mitologia scandinava e la storia che c'è dietro. La realizzazione di Blood On Ice ha inizio proprio in questo periodo, nel 1989. Nel frattempo escono "Hammerheart" e "Twilight of the Gods", album che codificano definitivamente il "sound vichingo", poi "Requiem" e "Octagon", che sanciscono il ritorno alla radice thrash metal. Infine, dopo sette travagliati anni, "Blood On Ice" esce nel 1996 ed è subito capolavoro. Acclamato da pubblico e critica, il disco è un ritorno ai fasti norreni che hanno portato i Bathory al di fuori della loro nicchia, consacrandoli per la seconda volta alle pagine di storia contemporanea della musica. Dell'antico sapore black, l'opera conserva il suono sporco, la registrazione economica e la post-produzione inesistente, elementi che non solo non ne minano l'efficacia, ma che addirittura l'amplificano. Le sonorità sono epiche ed oscure al tempo stesso, la perfezione formale di quanto delineato negli anni d'oro, ma è l'impianto lirico a fare la differenza: Blood On Ice, infatti, è un concept. Quorthon narra le vicende di un ragazzo, della sua caduta, la sua vendetta e infine l'ascesa, una storia apparentemente semplice che tuttavia, nell'arco di dieci tracce memorabili, mette in luce alcune tra le più importanti figure della mitologia norrena, aprendo uno squarcio, sonoro e immaginifico, attraverso cui l'ascoltatore è testimone di una terra antica, gelida, terribile e meravigliosa, dove il destino di uomini e divinità è ancora una cosa sola.

La luce che avvolge la vasta piana è quella del sole che s'appresta al tramonto: bluastra, sonnolenta, irreale. Grandi fuochi sono stati accesi in tutto il villaggio, a rischiarare la notte che incombe. Alcuni uomini sono tornati al lavoro, altri indugiano alle loro coppe, all'ipnotico ritmo dei tamburi, alle assordanti risate, ammucchiati intorno a musicisti e focolari. Stanco, sudato, un sorriso soddisfatto stampato sul viso, ascolto i miei discutere tra loro: la moglie di Ulf aspetta il suo secondogenito, e suo fratello, Jon, sta già costruendo una magnifica culla; due delle pecore di Eric sono scappate la notte scorsa, sono due giorni che il ragazzo le cerca, ma si sa: la foresta è piena di lupi. I primi ad accorgersi che nell'aria c'è qualcosa di diverso sono i cacciatori, avvezzi ad ascoltare la neve, e gli alberi, e gli uccelli, ma nessuno li ascolta, nessuno dà l'allarme... che poi, non sarebbe neanche servito a nulla. Decido d'ignorarli anch'io, di scacciare dalla mente una sensazione che non so decifrare, unendomi agli ultimi festeggiamenti di questo giorno così speciale. Alla fine, mi addormento proprio come il bambino che pretendo di non essere.

Intro

Le ombre tentacolari della foresta che circonda il villaggio sussurrano parole d'avvertimento, ma il rumore degli zoccoli è lontano e la melodia degli skáldar lo sovrasta, e noi siamo troppo felici, o troppo sciocchi, per dare ascolto alla saggezza dei rami e degli uccelli. Ci esibiamo in antichi canti al suono dei bukkehorn, in danze vigorose e virili al boato dei tamburi, ma non prestiamo attenzione al belare, all'abbaiare, al muggire tutt'intorno, sempre più allarmato, né all'eco metallico che rimbomba dalla stessa terra, o dai neri lampi nel fitto del bosco, tra albero e albero, intrico selvaggio di rami e di radici. Le giovani donne sorridono tra loro, snudano denti bianchissimi. Un carpentiere, la schiena muscolosa imperlata di sudore, batte il suo martello sul legno. Un infante piange inconsolabile, aggrappato al seno della madre. L'ultimo tramonto, poi l'ultima notte e infine l'alba. E poi, la pace che avevo conosciuto nei primi dieci anni della mia vita scompare in un lampo. Un ombra di metallo nero si getta su di noi e su tutto ciò che credevamo eterno. 

Capitolo primo - Blood On Ice

A svegliarmi è un grido lacerante e terribile, inumano. Un corvo. Il suo lamento giunge dall'alto pino a guardia dei confini del bosco, ma è diverso, è... come un pianto. Il mondo è un fulmine bianco, azzurro e verde, copro i miei occhi con la mano, le prime luci dell'alba mi accecano. Mentre la mia vista si abitua al giorno, le orecchie indagano l'ambiente circostante: ascolto le bestie belare, muggire, latrare, il tamburo di uno skáld che ancora riempie l'aria; ascolto il rumore delle fronde, squarciate da migliaia di ali, il volo d'innumerevoli creature scacciate dai loro ripari. Ascolto un frastuono che mi è sconosciuto, di zoccoli e di metallo, sempre più vicino, sempre più assordante. La prima a urlare è Thyra, la figlia del fabbro, poi sua sorella Inga. In un attimo, l'aria è squarciata dal grido acuto delle donne e dal latrato dei cani, dalle minacce degli uomini e dallo stridere del metallo sul metallo. Sento una mano vigorosa scansarmi di peso, apro gli occhi: è mio padre, con l'altra mano sorregge la scure. Sussurra qualcosa all'orecchio di mia madre, poi si unisce ad altri uomini, i più possenti, ognuno armato e determinato; io lo guardo correre verso quella massa nera e venirne inghiottito assieme agli altri. Osservo la sua testa cadere dal corpo, il volto sulla neve, il rosso risplendere sul bianco. Penso "ora urlo", ma dalla mia bocca non esce niente, alzo gli occhi verso mia madre, una statua di ghiaccio, e oltre di lei li scorgo chiaramente: cinque cavalieri ricoperti di metallo scurissimo, su di loro uno stendardo ancora più nero, innominabile Bestia a due teste. Non ricordo esattamente quando abbiamo iniziato a correre, ma ricordo mia madre spingermi verso il fitto del bosco, a ridosso di un albero immenso. Protetto dall'oscurità di infinite radici, e foglie, e detriti, chiudo gli occhi e aspetto che l'incubo abbia fine.

Una breve intro di sole sonorità ambientali, prima placide, poi drammatiche, anticipa il vero inizio della saga di Quorthon, brano che dà il nome all'intera opera e al suo protagonista. Blood On Ice, "sangue sul ghiaccio", è un tripudio di vocalità corale in totale sinergia con un assordante sottofondo strumentale, violenta oscurità esemplificata in primo luogo dal basso di Kothaar, poi, dalla chitarra dello stesso Quorthon, mai invasiva e del tutto al servizio dell'opera e del suo significante. Prima c'è la solennità del bosco, poi la minaccia dei cavalieri, una marcia greve e terribile descritta dalla batteria di Vvornth. Ovviamente, sia il nome del batterista che quello del bassista sono semplici pseudonimi, nomi d'antichi spiriti maligni di tradizione scandinava usati, a più riprese, dai vari musicisti che hanno preso parte al progetto di Quorthon. Dal punto di vista lirico, l'inglese di Thomas è imperfetto, a volte pretestuoso o inopportuno, modellato sulle esigenze e la sensibilità di un ragazzo svedese dalla cultura vasta ma incompleta. Eppure, nonostante tale deviata sensibilità, o proprio grazie ad essa, le sue liriche sono potenti e pregnanti, cariche d'atmosfera, e soprattutto: in perfetta armonia col significante dell'opera. Opera, è evidente, che richiama le premesse del Conan di Howard e di tanta letteratura fantastica moderna, ma che nel suo svolgimento, traccia per traccia, riesce a fare suoi il misticismo, la mitologia e la storia europea, delineando un concept come mai s'era visto prima. Il primo capitolo non è la nascita dell'eroe, ma della bestia che s'annida dentro l'uomo, sete di vendetta incarnata che porta il nome di Sangue sul Ghiaccio, a eterna memoria del trauma subito. Così tra distorsioni, bassi monolitici e una voce che pare provenire dal vento in lontananza, figlia tanto dell'ispirazione quanto di una rozzissima registrazione, il brano si conclude con una violenta smitragliata sonora, sulla quale, neanche a dirlo, sembra di vivere in prima persona le orrende immagini di morte e distruzione dinanzi gli occhi del protagonista.

Quattro volte li sento galoppare da un lato all'altro della vallata, due per ognuna delle principali vie del villaggio. La prima volta le urla sono assordanti, la seconda, meno. La terza odo solo poche grida sparse, la quarta, soltanto lamenti infantili e pianti di donna. Dal mio ristretto campo visivo riesco finalmente a vederli: se ne vanno, luccicanti ombre di Náströnd, donne e bambini al seguito fra gemiti e singhiozzi. Lascio che il gelo mi penetri nelle ossa fino all'impallidire del giorno, infine esco dal mio nascondiglio. Sangue sul ghiaccio, ovunque. Le dimore bruciate, uomini e animali trucidati, neanche un singolo movimento. Cerco i miei genitori, non un sospiro né un gemito. Li trovo. Rimango lì fino al calare del sole a contemplare i corpi dei caduti, alti e snelli, bellissimi nonostante le gole squarciate e gli arti mutilati. Ricordo il nome di ognuno di loro. Poi, un richiamo oscuro mi spinge ad inoltrarmi nel fitto della foresta, ad abbracciare bestie, alberi e neve come una nuova madre, ad accettare la natura selvaggia come un secondo utero. Quindici anni, tale è il tempo che ho dovuto attendere per nascere di nuovo. L'antico nome non lo ricordo più, poiché ora ne ho un altro: Blood On Ice.

Capitolo secondo - Man of Iron

Per lungo tempo ho vagato in queste foreste, tanto a lungo da nutrire il dubbio se sia io un uomo, o piuttosto, se io sia una bestia. Penso al desiderio di vendetta che porto con me da allora, nel profondo dell'anima, e se penso, dopotutto, allora devo essere un uomo. Ho imparato a parlare la lingua degli animali, a leggere i segnali celati nei latrati e nella neve, ma porto ancora con me lo spirito dei miei padri, e con loro, d'innumerevoli inverni di usanze e tradizioni. In tutto questo tempo, lontano dalla mia antica dimora, io sono divenuto un Uomo di Ferro. Una parte di questi stessi, eterni boschi. La sera porta con sé l'oscurità, e l'oscurità il momento del riposo. Il mio campo non è distante: il tempo di osservare il sole ricongiungersi alle montagne ad ovest, e sono arrivato. Nel mezzo di tre imponenti tronchi scorgo un bagliore, mi avvicino: Il fuoco è acceso e vicino ad esso c'è un uomo, un vecchio privo dell'occhio sinistro, la sua lunga barba come filamenti d'oro. I segni sul mantello e sul suo cappuccio mi sono familiari: l'aspetto del vecchio-senza-occhio corrisponde alla descrizione d'un seiðmaðr, un veggente, così come la mistica figura mi è stata raccontata molto tempo fa, intorno ad un altro fuoco, quando avevo ancora un padre e una madre. Senza un attimo d'esitazione, senza una parola d'identificazione o di minaccia, mi siedo accanto a lui, pregandolo d'interpretare i sogni che da tempo mi tormentano.

Il titolo del secondo brano dell'opera, intro esclusa, riflette il profondo cambiamento del giovane protagonista, ora divenuto un Man of Iron, un "Uomo di ferro". Quello dipinto da Quorthon è uno dei momenti più delicati dell'album, e uno dei più mistici, una fase che richiede adeguata consapevolezza in termini sia sonori che poetici. Così, i Bathory danno vita ad una delle migliori ballad della loro carriera, un brano acustico aperto - vuole la leggenda - dal gracchiare del tagliaerba del vicino di Thomas. E non è che la cosa fosse voluta, semplicemente, è indicativa dell'assoluta naturalezza con cui si è voluto realizzare il disco: non trascuratezza, bensì immediatezza estrema, senza mezze misure. La voce del cantante e la chitarra acustica si direbbero registrate in presa diretta, mentre i cori maschili, elemento d'epica mistica e solenne, realizzati in seguito. La canzone va avanti sempre e solo su questi tre pilastri fondamentali, senza cercare un climax che tradirebbe inevitabilmente il significante del testo, ma solo l'immersione in un'atmosfera a metà fra sogno ed avventura. Se "Blood On Ice" faceva uso di riferimenti più astratti alla mitologia, come ad esempio il pino, sempreverde simbolo di vita, o il corvo, emissario di morte ma anche di rinascita, "Man of Iron" palesa il suo legame con la tradizione norrena nella figura del vecchio orbo, una delle forme mortali preferite dal padre del Pantheon vichingo: Óðinn, Odino. La conclusione ambientale del brano è invece pura prefigurazione: il canto degli uccelli è un addio, il saluto di quella foresta che per il giovane protagonista è stata come un secondo grembo materno; le campane, invece, la chiamata dell'eroe all'avventura che lo attende.

Sogno me stesso compiere azioni che non comprendo - racconto all'anziano veggente - di venti che accarezzano le mie spalle sussurrando parole che non capisco. L'indovino mi narra allora dei cicli delle stelle, dell'eterna e ineluttabile scia del fato, delle valli in cui tempo e spazio cessano d'esistere, laddove il suo mondo finisce e le ombre hanno inizio. Il suo sguardo, prima smarrito verso orizzonti invisibili agli uomini, si fa ora improvvisamente diretto, gli occhi come tizzoni ardenti: «Sei stato scelto per interferire con l'Altro Mondo, la perturbazione ha già avuto luogo... le figlie dei quattro venti si sono vendute all'ombra, distorcendo l'equilibrio dell'Universo».

Capitolo terzo - One-Eyed Old Man

Non comprendo appieno le parole del vecchio, non ancora, ma lui, con voce di caverna, continua ineluttabile la sua profezia; dice che per mille anni sono stato al centro delle sue visioni, che gli Antichi Dei in persona l'hanno incaricato d'insegnarmi ogni segreto, ogni astuzia di cui egli sia a conoscenza. E che deve prepararmi. Prepararmi per il viaggio attraverso il suo mondo e le ombre che lo abitano, non come semplice mortale, ma come campione degli Dei, e ripristinare infine l'equilibrio perduto. Mi sarà data una spada forgiata quando il mondo era giovane, afferma ancora il vecchio, due corvi saranno la mia guardia e la mia guida, cavalcherò il possente stallone a otto zampe del suo Padre divino e incontrerò la Dama di Legno, trovando infine le mie risposte sulle mistiche rive del Lago. Un vero fiume di parole che l'indovino riversa su di me in questa notte immobile nel tempo, eppure, nel profondo del mio cuore, non v'è traccia di dubbio o di paura. Accetto il mio Destino e seguo il vecchio con un solo occhio: cento giorni e cento notti d'addestramento mi attendono, ma nessuna prova al mondo può far vacillare un Uomo di Ferro.

Se "Man of Iron" fa della sintesi vocale l'essenza del sua poetica, e dell'epica strumentale il baricentro del suo sound, la traccia successiva fa invece l'esatto contrario. One Eyed Old Man, letteralmente "Vecchio con un occhio solo", è quasi antitetica allo slancio epico e deliberatamente didascalica: una canzone dalla natura non già di catarsi, ma di preparazione alla catarsi. In parte, a trionfare sono le derive tradizionali del "sound Bathory": la brutalità del thrash e la ruvida oscurità del black, ritmiche estremamente rapide alternate da altre più cadenzate, mentre non mancano i cori maschili, a dare ad un quadro altrimenti grezzo l'alone delle solennità. A mantenere il brano sul registro scelto da Quorthon sono le clean vocals, caratteristica fondamentale del periodo Viking, e altri elementi più o meno classici tra cui un solo di chitarra squisitamente vecchia scuola. Due minuti di grande potenza che tuttavia non vuole raggiungere alcun climax, una molla portata al massimo della sua tensione che si stempera sul lungo monologo del Vecchio, incarnazione di Odino e fondamentale figura retorica. L'anziano mistico è in effetti non solo un riferimento basilare alla mitologia norrena, ma anche un elemento fondamentale della narrazione epica, dal Merlino di Artù al Morpheus di Matrix, passando per Obi-Wan Kenobi e tanti, tanti altri: una figura paterna indispensabile alla maturazione dell'Eroe. Quasi altri due minuti di solo monologo in cui le parole dell'anziano ammaliano e crescono, all'unisono di suoni ambientali e sonorità d'organo, facendosi misterica rivelazione divina. Poi, un finale che esplode sull'ascoltatore rilasciando tutta la potenza accumulata finora, e che sancisce definitivamente l'inizio dell'avventura.

Dopo il nostro primo incontro al calore del fuoco, io e il Vecchio camminiamo a lungo per i boschi che m'hanno cresciuto. Il passo dell'uomo è veloce, ma la mia lingua è ancora più rapida e le domande non cessano mai: «quale sarà il mio destino?», chiedo a colui ch'esisteva quando cielo e terra erano una cosa sola; «riuscirò a salvare coloro che sono stati rapiti dall'Ombra?», e ancora domande su domande, ma l'anziano mistico non offre risposte a buon mercato, la sua voce è tuono, e la sua profezia ineluttabile. 

Capitolo quarto - The Sword

Al morire della notte, giunti ai piedi d'una montagna, il vecchio ed io ci fermiamo ai bordi del piccolo mondo che ho conosciuto fino ad oggi, a una caverna di ghiaccio rischiarata dalle prime luci dell'alba. Quindi, a un cenno dell'anziano saggio prendo la torcia ed entro senza alcuna esitazione, cercando, perdendo la strada, ritrovandola, cercando ancora e infine, dopo un lungo vagare tra cunicoli ghiacciati, recuperando ciò che mi è stato detto di portare indietro: Il contenuto di una semplice, antica scatola di legno, un oggetto lungo circa cinque piedi avvolto in una vecchia pelle d'orso. Tornato dinanzi la mia guida, non mi servono parole per capire quel che devo fare: tolgo la ruvida pelle e snudo la Spada, lunga e affilatissima. La lama cattura i raggi del sole nascente, e un singhiozzo riempie i cieli... La Spada è stata a me concessa.

The Sword, "La Spada", riporta l'opera alla sua natura più epica e concitata. Il sound è figlio delle più disparate sonorità ottantiane, e si sente: punk, thrash, proto-black, e soprattutto epic metal, ma del genere più seminale in assoluto. In particolare, dominano le influenze di due dei grandi maestri del genere, i Manowar e gli Heavy Load, con la differenza che all'immaginario autoreferenziale dei primi, Quorthorn sostituisce un significante ed un'estetica ben precisi, e alla scomposta attitudine heavy dei secondi, una consapevolezza più vicina alla sua contemporaneità. L'incedere marziale del brano è minacciosamente rimarcato da rimbombi metallici acuti e regolari, la strumentale più pulita del solito, e la voce del cantante calda e ricca di trasporto, come fosse quella d'un bardo che narra un'antica leggenda. Quasi doom, nella sua ricerca di tinte oscure, la canzone si mantiene su velocità contenute che da una parte stemperano la corsa, ma dall'altra, amplificano la possanza dell'intera opera conferendole sostanza. Fra le righe, Quorthon è un tripudio di simboli e riferimenti: in primis la caverna, la cui traversata è simbolo di rinascita, del passaggio da comune mortale ad eroe, poi la spada, che dell'Eroe è la consacrazione ufficiale... una specie di laurea divina che ogni eroe che si rispetti deve possedere, si tratti di Excalibur o di una lightsaber. La spada cui fanno riferimento i Bathory, in particolare, è ispirata alla leggendaria arma di Sigfrido, o Sigurðr in norreno, conosciuta coi nomi di Gramr, Nothung e Balmung, la cui storia fu d'ispirazione per l'arturiana spada nella roccia: conficcata in un ceppo d'albero da Odino stesso, Gramr viene estratta dal padre di Sigfrido, Sigmund, il prescelto per l'impresa. Anche stavolta, e di certo non è un caso, l'uomo guidato da Odino brandisce una spada forgiata nella leggenda, trasformandosi in Eroe.

Fisso la spada in silenzio, come perduto in uno strano sortilegio, poi parlo ad alta voce: «l'arma d'acciaio che stringo nel mio pugno, frammento di questa montagna, spada di questa terra, è stata forgiata per un Re quando gli Antichi erano giovani, per fare da guardia e da guida in un'epoca ormai finita. Una spada creata  per mantenere la pace, una lama fatta per impadronirsi della vita. Oh, percepisco il suo potere, io e questa spada saremo una cosa sola, anima e corpo. Ora so di essere pronto... pronto a far cantare ancora una volta quest'antica lama».

Capitolo quinto - The Stallion

Le ferite sulla mano che brandisce la spada ancora non si sono fatte duri calli quando, un giorno, io e l'Anziano Saggio decidiamo d'accamparci sulla cima d'una grande collina innevata, il nostro sguardo perduto verso il sole rosso ad occidente. È il vecchio a spezzare il silenzio. D'improvviso, i suoi strani sussurri riempiono l'aria, trasportati dal vento come una misteriosa litania. In un battito di ciglia, una foschia innaturale s'innalza ai miei piedi e in tutta la vallata circostante, mentre un vento poderoso piega i grandi alberi e spazza le vette delle montagne, generando immense nubi nel cielo viola e blu del crepuscolo. La voce dell'anziano si fa sempre più forte, le sue parole sempre più veloci, come chiamasse a sé qualcuno... o qualcosa. Ebbene, osservo la nebbia farsi sagoma indistinta, e la sagoma farsi figura tangibile, scintillante e fiera al ruggito del vento, vento essa stessa. Un cavallo, bianco come la neve. Galoppando nella la nebbia, i suoi otto zoccoli saettano come fulmini. Osservo la scena come in trance, quando l'urlo del vecchio con un occhio solo mi riporta alla realtà: «afferra le sue redini e non mollarle per nessun motivo!», mi dice, e così faccio.

The Stallion, brano dedicato al leggendario Stallone che fu di Odino, prosegue sull'epica scia di "The Sword", riproponendo soluzioni tipiche del metallo di scuola anni '80. Il ritmo è ancora cadenzato e piuttosto contenuto, sebbene movimentato da frequenti fills di batteria, e tuttavia mancano l'anima thrash e le sfumature punk del pezzo precedente, sostituite da una più pulita base solidamente heavy, rigorosamente ottantina, più adeguata alla solenne possanza di un mitologico cavallo da guerra. Quel che non manca, ancora una volta, è l'influenza dell'epic metal anni '80 e fine 70, pregnante e maestosa, perfetta per la parte più centrale dell'opera. La voce di Quorthon è un eco che pare provenire dalla stessa foschia di cui parla la canzone, rimarcata e irrobustita dai cori maschili prima, e da una splendida performance chitarristica, dopo. La chitarra solista fa infatti la sua comparsa al centro del brano, prima come un assolo, poi come vera e propria narrazione epica fatta musica, partecipando assieme ad ogni singolo elemento sonoro a una lunga ed appagante catarsi finale. Il soggetto dell'opera qui è Sleipnir, "il dormiente" in antico norreno, ovvero il leggendario cavallo del dio Odino, dotato di otto zampe, capace di galoppare su terra, aria e acqua, e soprattutto, di viaggiare tra i mondi che costituiscono la metafisica dell'immaginario scandinavo. La sua leggenda si perde tra le fonti ancestrali che hanno ispirato opere come il Codex Regius, oppure l'Edda di Snorri Sturluson, e il suo potere, quello di viaggiare tra i molteplici piani dell'esistenza, è esattamente ciò che occorre al nostro Blood On Ice per ottenere la sua vendetta.

Un'intera notte m'occorre, per dominare il possente animale. Il fiero stallone mostra tendini e muscoli d'acciaio, gli occhi come fiamme ardenti, il manto bianco come la neve che ricopre la collina. Le sue redini, alfine, appartengono a me. Una spada e un cavallo d'origina divina, tuttavia, non sono doni che s'ottengono senza pagare un prezzo assai salato: i miei occhi ed il mio cuore, questo già lo so, sebbene non sia ancora giunto il momento di tale sacrificio. Dinanzi al vecchio saggio, ora esausto e silenzioso, recido il mio braccio lasciando sgorgare rivoli di sangue, e con quella calda linfa vitale dipingo il candido manto dello Stallone, tratteggiando stelle che ricordano antiche origini ormai perdute. Quando la foschia si dirada del tutto ci rimettiamo subito in marcia, diretti verso i mistici Boschi Eterni. A mezzanotte d'un altro giorno interminabile siamo io e il Vecchio intorno al fuoco, nel mezzo d'un radura persa nel fitto della foresta. È il quel momento che riceviamo la visita della Dama Lignea. 

Capitolo sesto - The Woodwoman

Il mio sguardo è fisso sulle fiamme, oltre le fiamme, perduto negli spazi neri fra radici e cespugli. La mia mente è altrove, lontana da questo mondo, ma la sensazione d'essere osservato riporta i miei sensi alla realtà. L'istinto come quello d'un animale, mi giro di scatto sollevando sassi e terriccio, ma solo per rimanere paralizzato dall'orrore: dinanzi a me c'è l'essere  più ributtante ch'io abbia mai visto. E ne ho viste, di cose ributtanti. Una donna s'erge ripugnante al centro della radura, ombra fra le ombre, puntando il suo miserabile dito verso di me con un miserabile sorriso. Quando infine parla, sembra quasi non pronunci parola da millenni, ma la sua richiesta è semplice: se è la magia, quel che desidero, devo seguirla fino al suo territorio. E così faccio. I suoi piedi non lasciano impronta alcuna sulla soffice neve, e tuttavia, la seguo senza indugio fino alla più oscura e dimenticata delle radure. Un bagliore strano e minaccioso pare emanare dal terreno stesso, quando la Dama Lignea parla nuovamente: Mi osserva da lungo tempo, sa cosa sono chiamato a compiere e desidera aiutarmi. Ella vuole donarmi l'invulnerabilità. Nessuna arma mortale, né lancia né spada, potrà ferirmi, afferma la Dama, giacché ogni colpo sarà assorbito dal suo grembo d'arcano legno. Un dono inestimabile che richiede un prezzo altissimo: il mio cuore.

Il sound dei Bathory vira improvvisamente verso sonorità e sensazioni più contemporanee, figlie di una moltitudine d'influenze differenti, dai Coven ai Black Sabbath, passando ancora una volta dai Manowar ma soffermandosi sui Cure. Il brano è The Woodwoman, letteralmente "la donna di legno", cui personalmente ho preferito il titolo di Dama Lignea. È un pezzo estremamente melodioso, evocativo, cui tuttavia non mancano né potenza né epicità, aperto da morbidi arpeggi di chitarra ma subito indurito da un attacco rovente, quasi disperato, seguito da un'esecuzione vocale che diviene il fulcro dell'intera composizione. La performance di Quorthon è meravigliosamente contraddittoria: da una parte mette in luce tutti i limiti del vocalist in termini squisitamente canori, tutti i suoi difetti; dall'altra è semplicemente pregnante, vera, emozionante, possiede quella totale assenza di patinatura cui non siamo più abituati, e di quell'assenza fa suggestione, turbamento e gloria. Sei minuti d'emozioni ripetute e reiterate, malinconia ed epicità, gelida oscurità e luce incandescente, fino ad un climax chitarristico memorabile, grezzo e potentissimo. Fra le righe, Quorhotn torna ancora una volta al mito di Sigfrido, eroe invulnerabile ripreso da Wagner nell'opera omonima, abbozzando riferimenti al folklore scandinavo ma ricamandoci sopra elementi di fantasia, oscuri e fascinosi. L'ideale della Skogsrå, o Huldra, una sorta di bellissima ninfa dei boschi dai tratti vegetali o animali, pare fondersi con la natura grottesca della donna troll di "Herr Mannelig", tradizionale canzone scandinava. La prima era solita attirare i viandanti, spesso cacciatori, e ottenere da loro l'anima in cambio di capacità sorprendenti; la seconda è invece un'entità ingannevole e grottesca, interessata al "cuore" inteso come legame sentimentale e divino. Quanto al dettaglio del serpente, spesso simbolo di conoscenza, è forse metafora della nuova consapevolezza dell'Eroe. Il resto, ovviamente, è semplice farina del sacco di Quorthon.

Alla fine solo echi misteriosi, e il richiamo dei corvi in lontananza.

Ho una sola, breve incertezza, la prima e l'ultima, ma con o senza cuore so che la mia vita non finirà qui, dunque gliene faccio volentieri dono. Osservo la donna mischiare il suo terribile intruglio: ali di pipistrello e occhi di lucertola, polvere di stella caduta, lacrime di vergine e sperma divino, tredici gocce di sangue d'infante e altri ingredienti innominabili. Con le sue mani terribili, ella spalma il suo veleno sul mio petto laddove il battito è più forte, poi, con quelle stesse mani, penetra la mia carne fino a raggiungere il cuore, estraendolo senza alcun dolore dal mio corpo gelato. Il mio cuore, una volta parte di me, è ora riposto nella tana del serpente, proprietà della Dama Lignea per tutti gli anni a venire, fino al giorno della mia morte.

Quando finalmente ritorno al campo, il vecchio è là che m'aspetta, lo sguardo fisso al mio petto ormai vuoto. 

Capitolo settimo - The Lake

Senza indugio, né riferimento alcuno alla Dama Lignea, l'anziano mistico m'informa che il sacrificio del mio cuore non basta, l'invulnerabilità non è sufficiente. Il volto che vedrò, terribile e assoluto, ha già paralizzato mille uomini coraggiosi, e se il mio sguardo indugerà su di esso il mio corpo si tramuterà in ghiaccio. Devo quindi sacrificare i miei occhi, ed in cambio ottenere la vera Vista, quella interiore. Giunge così per me il momento di conoscere la storia del vecchio: una vicenda ch'ebbe luogo eoni fa, quando sia il mondo che l'uomo erano giovani. Egli, racconta, stava nascosto dietro un albero con l'intento d'udire la conversazione tra due divinità, discorsi su di un misterioso lago nel cuore dei Boschi Eterni. Questo lago, dissero gli dèi, custodirebbe tutta la conoscenza di questo mondo, passata e futura. Bramoso di quella saggezza, il giovane mago evocò un vortice incantato e attraverso di esso raggiunse le sponde del lago. In quelle acque nere egli gettò il suo occhio sinistro, ottenendo in cambio non solo la conoscenza di tutti i Mondi, ma anche la capacità di scrutare attraverso il futuro.

 Ascoltato il suo racconto, saluto il vecchio con un cenno del capo e salto in sella al mio Stallone, allorché veloce come il vento, né la terra né l'acqua né l'aria a farmi da ostacolo, scorgo ben presto lo scintillio di acque carezzate dal sole.

"The Woodwoman", coi suoi sei minuti di durata, fa coppia con un altro brano particolarmente lungo, forse il migliore dell'opera, da molti considerato il capolavoro di "Blood On Ice": The Lake, "il lago". Al calmo suono delle acque mosse dal vento segue un delicato arpeggio di chitarra acustica, ma l'idillio è subito spezzato da un improvviso culmine sonoro, elettrico e possente. La catarsi diviene marcia e la marcia una cavalcata, poi ancora climax, e marcia, e cavalcata, ancora e ancora; pare di stare su montagne russe che a ogni giro diventano più estreme e pericolose, tra cori virili, ritmica incalzante, distorsioni chitarristiche, bassi pregnanti e naturalmente la voce di Quorthon, eroe che racconta in prima persona il sacrificio dei suoi occhi in cambio dell'Onniscienza. Veniamo finalmente a conoscenza del passato del "Vecchio con un occhio solo", personaggio ispirato a una delle forme preferite da Odino, Gágnraðr, e proprio come il Dio scandinavo, detentore della conoscenza più assoluta grazie al sacrificio dell'occhio sinistro. Quanto al Lago, essendo fisiologicamente un "contenitore", è già di per sé ideale richiamo immaginifico all'acquisizione di beni materiali e astratti. Non solo: in quanto specchio naturale, il lago è anche porta verso altri mondi e stati di coscienza. A ben vedere, sulle fonti d'acqua rituali della mitologia norrena si potrebbe aprire un capitolo a parte, basti dunque citare gli esempi più famosi; quello più legato alle influenze di Quorthon è senz'altro il mito della fonte di sapienza del gigante Mìmir, presso la quale Odino avrebbe lasciato il suo occhio in cambio del permesso di abbeverarsi alle sacre acque. La fonte, secondo il mito, avrebbe donato al Dio non solo la più totale conoscenza dei Nove Mondi, ma anche la capacità di scrutare il destino degli uomini e del creato tutto. Poi c'è la Battaglia sul ghiaccio del lago Vänern, citata sul celebre Beowulf, tradizionale saga anglosassone d'ambientazione scandinava. Un'altra fonte d'ispirazione potrebbe essere ancora più antica, legata al culto dei Vani e nello specifico alla dea Nerthus, figura assai misteriosa connessa alla fertilità, confusa spesso con Njörðr o con successive divinità indoeuropee, soprattutto Hel. Pare che la dèa, infatti, risiedesse a volte su di un'isola ricoperta da un fitto bosco, e che qui si immergesse in un lago insieme al suo carro e al drappo che solitamente lo ricopre. Gli schiavi che accompagnavano il rito venivano in seguito affogati, in modo che l'aspetto della dèa e i misteri ch'essa celava potessero appartenere unicamente ai morti. 

 È proprio il Lago che cerco, lo sento, lo percepisco: luogo d'incontro tra questo mondo e la fine dell'universo, dal suo fondale non vi è ritorno. E in questo Lago io getto i miei occhi, e cieco, vedo ciò che non può essere visto. Ora ch'essi giacciono nelle sue profondità infinite, la mia visione è suprema, la Bestia non ha più alcun potere. Oh sì, posso scrutare ogni cosa si celi all'occhio umano, e tuttavia non vedo la mia stessa mano di fronte a me. Un gesto secco alle redini e m'allontano, immaginando i miei occhi brillare nel profondo delle acque. Ora vedo ogni cosa, lontana o vicina non fa alcuna differenza. Così quando raggiungo le Highlands non ho bisogno di vedere la luce, per capire che sono i primi raggi di un nuovo giorno. 

Capitolo ottavo - Gods of Thunder, of Wind and of Rain

In sella al mio maestoso stallone, la spada assicurata alla mia schiena, dirigo verso nord ad incredibile velocità. Sopra di me, a distanza indefinita, percepisco i miei nuovi compagni di viaggio e lo sbattere delle loro ali; vedo ciò ch'essi vedono, sento ciò ch'essi sentono. Cavalcando nel mezzo d'una fitta nebbia i miei sensi d'improvviso s'allertano, mentre voci distorte sussurrano dall'ombra alle mie orecchie. Mi chiamano. Mi attirano. Ma io rammento bene la mia missione e conosco il potere della Magia che porto con me, così cavalco attraverso la vallate della morte, laddove tempo e spazio non hanno alcun significato. Gli occhi del Non-visto mi scrutano attentamente, ne avverto la presenza ed il potere, ma gli spiriti dei miei padri cavalcano a fianco a me. «Oh, Dèi del tuono, del vento e della pioggia...

La trama dell'opera di Quorthon sublima verso la totale astrazione con un brano liricamente denso, a metà fra il più classico epic metal e il punk più stradaiolo, senza troppe mezze misure: Gods of Thunder, of Wind and of Rain, ovvero "dèi del tuono, del vento e della pioggia". Al cavalcare placido dell'eroe e al rumore del vento seguono poche note distorte alla chitarra, rinforzate da effettistica minimale e atmosferica, poi l'attacco infuocato, perfino spietato. Rullate feroci, peripezie chitarristiche ed epici cori baritoni definiscono l'epica del brano, ma è la costante voce del cantante a dare sostanza all'opera, a descriverne le fasi con una fitta, metodica variazione delle medesime strofe. La ritmica serratissima, densa di fills, rapida senza scadere nel parossismo, ricorda quell'"Achille's Last Stand" che per molti ha inaugurato il metallo epico, perfino la tematica è affine; tuttavia, il sentire è contemporaneo agli anni dei Bathory, sia nella possanza dei bassi che nei molti traguardi raggiunti in quegli anni dal metal estremo. Fra le righe l'Eroe, ora vicinissimo al momento del riscatto, si addentra in territori le cui regole vanno oltre l'umana comprensione, luoghi a metà fra due mondi in cui i concetti di tempo e di spazio hanno da tempo cessato di esistere. Qui, egli invoca gli "dèi del tuono, del vento e della pioggia", le valchirie e infine i corvi di Odino, Huginn e Muninn, cui è dedicato un breve intermezzo narrativo prima del brano conclusivo. Nonostante il fitto muro di parole, il brano è di gran lunga meno didascalico dei precedenti, e il più poetico. "Gods of Thunder, of Wind and of Rain" è di fatto un'accorata preghiera che anticipa lo scontro finale, una richiesta d'aiuto rivolta a specifiche entità superiori, e una giusta pretesa di dignità in caso di sconfitta: se Sangue-Sul-Ghiaccio dovesse fallire, il suo desiderio è di raggiungere i suoi padri nel Valhalla, laddove le anime dei nordici caduti in combattimento si ritrovano dopo la morte.

...proteggetemi, oh dèi e valchirie, la mia anima è vostra se dovessi perire. Lasciate che il mio corpo sfigurato e decapitato giaccia, e portatemi laddove vanno gli uomini del nord quando vengono uccisi». Le parole escono da sole dalle mie labbra congelate, fino a quando non percepisco i corvi volare sopra la mia testa. Allora, con un gesto, fermo il cavallo e prendo un ampio respiro, tradendo un attimo - solo un attimo - d'umana esitazione. Il vento gelido sulla mia pelle, la neve sulle gote come lacrime di ghiaccio: ogni cosa  pare volermi rammentare la mia origine mortale... ricordarmi che il mio corpo è sangue e carne e che io, scelto dal Destino, non appartengo a questo luogo. Ma è solo un attimo. La mia fiducia, anzi, la mia fede, è incrollabile. Grazie a questa Spada forgiata tra ghiaccio e fiamme, a questo Stallone nato dal vento, alla magia della Dama Lignea e ai due corvi che m'indicano il cammino, la mia risolutezza non vacillerà mai. Giunto fin qui, laddove le montagne sono così alte da unirsi al cielo, tornare indietro non avrebbe alcun senso, pertanto lascio ogn'indugio alle mie spalle e seguo i due uccelli, neri accompagnatori alla mia sfida finale. 

Capitolo nono - The Ravens

Questo mio corpo fragile, mortale... lo stento attraversare un confine invisibile che le mie orbite vuote possono solo percepire. Un vortice di ghiaccio e fuoco e sangue, infinite vallate, montagne, luoghi della mente che agli uomini è dato visitare solo nei loro sogni. Io li attraverso tutti. Sopra di me, avanti a me, il costante sbattere d'ali di Huginn e Muninn, guida fedele e costante. Piume nere contro il cielo in fiamme, allargano le ali e cavalcano il vento, lo sguardo dei loro neri occhi fisso su di me.

The Ravens, "i corvi", è un breve pezzo acustico di circa un minuto, preludio alla battaglia finale tra l'Eroe e la sua nemesi, entità senza volto più astratta che reale. Unici elementi di questo brano sono la voce di Quorthon e la sua chitarra acustica, gli onnipresenti cori e il suono dei corvi. Il cantante, con voce inimmaginabile e dolcissima, veste i panni di un bardo contemporaneo e imbastisce una ballata lieve, malinconica e rassegnata, ma di una rassegnazione votata non già alla sconfitta, bensì all'accettazione delle imperscrutabili trame del destino, qualsiasi esse siano. Protagonisti della canzone sono i già citati corvi di Odino, Huginn e Muninn, unica guida e rassicurante presenza divina. Secondo il mito, i due uccelli volano ogni giorno intorno a Midgard, il mondo degli uomini, per tornare la sera a posarsi sulla spalla di Odino e riferire al dio ogni avvenimento, ogni singolo dettaglio riguardante le vicende terrene. Proprio come nell'opera dei Bathory, Huginn e Muninn sono spesso emissari del Padre degli dèi, e nel caso di Sangue-Sul-Ghiaccio, anche una sorta di angelo custode: due paia d'occhi neri e profondi, al posto di quelli sacrificati alle acque infinite del Lago nei Boschi Eterni.

«Volate, oh miei corvi, volate. Sopra le montagne e il cielo infinito. Volate dinanzi a me, lasciatevi guidare dai venti. Volate, oh miei corvi... è tempo di volare, e forse, per me, di morire»

Eccomi dunque nel cuore della Valle della Morte, nei più oscuri recessi della Terra del Non ritorno. È il momento della gloria, oppure della morte. 

Capitolo decimo - The Revenge of Blood On Ice

Quindici anni sono passati. Quindici, lunghi anni in cui i boschi hanno pianto ogni giorno parole di rivalsa e vendetta. Ora so che in tutto questo tempo gli dèi mi hanno osservato crescere e diventare sempre più forte, proteggendomi da lassù, dalle scintillanti stelle del nord. Gli occhi sostituiti da braci ardenti, brandisco la mia spada da sopra il bianco manto del mio cavallo, i capelli sconvolti dal vento. «Guidatemi, oh miei corvi, lasciate che i vostri occhi siano i miei occhi, e indicatemi la giusta via in questo labirinto di boschi e ghiaccio, ché sento già il fiato della Bestia a due teste incombere su di me! Lasciate che le vostre ali siano il mio cuore, sotto questo cielo nero come la pece, ché l'acciaio è al mio fianco e gli dèi sono dalla mia parte!» Così urlo a squarciagola le mie preghiere, la mia paura e la mia eccitazione. Ho fede nei miei Corvi: scuri come la notte, rapidi come il fulmine ed eleganti come colombe. Ho fede nel mio Stallone: nato dal vento, coraggioso al punto da portarmi fin laddove il mondo finisce e le ombre hanno inizio. Ho fede nella mia spada: forgiata nel fuoco e nel ghiaccio, la sua lama affilata sarà battezzata nel sangue, quand'ella finalmente si prenderà la vita della Bestia.

The Revenge of Blood On Ice, letteralmente "la vendetta di Sangue-Sul-Ghiaccio", è l'ultimo capitolo di quest'oscura epopea musicale, compendio insieme di creatività, mitologia norrena, e di oltre un decennio di sperimentazione e crescita artistica. Con i suoi quasi dieci minuti di durata, "The Revenge..." non solo si attesta come brano più lungo dell'opera, ma rappresenta di fatto tre distinte canzoni in piena e totale sinergia sia tra loro stesse, sia con la narrazione epica di Quorthon. L'inizio riprende lo stesso identico attacco del primo brano, vero e proprio inno dell'Eroe: Blood On Ice. Poi, la narrazione del cantante prende il sopravvento accompagnata da distorsioni tiratissime, spasmodiche. Thomas, costantemente affiancato dai cori maschili che caratterizzano e riempiono l'intero album, descrive da solo l'andamento del brano su di una ritmica piuttosto regolare, mai eccessiva. Qui il protagonista fa il punto della sua esistenza e si affida ai suoi nuovi compagni, abbandonandosi ai ricordi di quanto perduto e alla sete di vendetta. Anche il basso si tiene sulle righe, lasciando al suono lacerante della chitarra il compito di definire tutta la tensione prima della battaglia finale. Battaglia, tuttavia, che non corrisponde alla parte finale del brano, ma a quella centrale, anch'essa descritta soprattutto dalla prova vocale di Quorthon, così meravigliosamente imperfetta: un'angosciante alternanza di strofe ariose ad altre serratissime, concitate come l'azione mortale che vi è implicita. Blood On Ice, l'uomo di ferro, lotta finalmente all'ultimo sangue con la Bestia a due teste che quindici anni fa ha inviato i cavalieri al suo villaggio, distruggendolo, uccidendo i suoi genitori, rapendo donne e bambini per portarli nel suo regno oscuro. A cosa si riferisca tale creatura, più astratta che reale e molto probabilmente simbolica, non è del tutto chiaro, giacché di creature bicefale abbonda la mitologia non solo norrena, ma di tutto il mondo, oltre all'immaginario popolare e post-moderno. Viene inoltre citata Hel, dea e guardiana del più triste dei Nove Mondi, laddove vanno le anime di coloro che sono morti senza onore. Nel finale dell'opera la tensione stempera su pochi accordi di chitarra e suoni ambientali, simili agli echi di una cripta o di un'immane caverna. La battaglia è finita. A definire i momenti conclusivi dell'epopea, stavolta, è soprattutto la strumentale, ora caratterizzata da un sound possente ma non più minaccioso, malinconico, decisamente tendente al doom, pur senza rinunciare alle sue usuali tinte epiche. La voce di Quorthon, ridotta a considerazioni minimali più poetiche che narrative, è invece perfetta al gran finale della sua personalissima saga.

«Vieni fuori, esci dall'oscurità oh bestia infernale e affrontami!», urlo, continuando a insultare e minacciare quell'essere immondo,  forse più per vincere la paura che non per mera smargiasseria.  È buio, sia fuori che dentro di me, i sensi che mi rimangono e i corvi sono il mio unico sostegno... ma ecco che d'improvviso avverto una sorta di malsano calore e un tanfo indefinibile, come di sangue ed animale selvatico. Il mio istinto, forgiato da anni di solitudine nel fitto della foresta, s'attiva prima della ragione, muovendo le redini e il cavallo nella giusta direzione, dandomi così tutto il tempo di riprendere il controllo sui miei nervi. I miei occhi sono in fondo al Lago, certo, ma quelli dei Corvi valgono la vista di mille mortali, ed è grazie a loro che percepisco lo scintillio di quattro occhi malefici riflettersi sulla fredda lama della sia spada. Ora so dove si trova la Bestia. Rincorsa ne ho presa a sufficienza, quindi alzo la spada, grido il mio urlo di guerra e lancio lo Stallone al galoppo, mirando alle gole del mostro in arrivo. Adesso è il riflesso della luna, ad infrangersi sulla mia spada, in questo momento che pare eternamente scolpito nella pietra, come se la tensione ch'esiste fra la vita e la morte sia destinata a  durare per sempre. Avverto il mio braccio ruotare la spada nell'aria gelida, come se appartenesse a qualcun altro, mentre ascolto le mie labbra raccomandare la mia vita agli dèi. Ora La Bestia è così vicina che mi pare di sentirne il sangue pulsare dalle vene. «Gloria, o morte!», urlo per l'ultima volta, poi il dolore, terribile e lancinante. 

Epilogo

Il mio Stallone, il manto bianco zuppo di sangue, il passo deciso e poderoso, cavalca fiero attraverso i portali del regno di Hel, ed io, Blood On Ice, altrettanto lordo di sangue e fiero e poderoso, brandisco alta la mia spada con una mano, mentre con l'altra sorreggo una lancia, le due orride teste conficcate su di essa.

Il sangue non vuole smettere di uscire...

Dopo aver liberato coloro che quindici anni fa, nel giorno più nefasto, furono rapiti e portati all'estremo nord, la mia mente inizia a viaggiare a ritroso ripercorrendo le sfide che gli dèi hanno voluto mettermi dinanzi, una ad una: L'incontro con Huginn e Muninn, emissari di Odino; il sacrificio dei miei occhi, in cambio della saggezza custodita nel Lago; il patto rituale con la Dama Lignea, la cui invulnerabilità ha preteso il mio cuore, salvandomi tuttavia la vita nello scontro finale; il ritrovamento della Spada leggendaria, forgiata dal ghiaccio e dal fuoco, con la quale ho ferito a morte la Bestia; l'incontro col misterioso veggente, il Vecchio con un sol occhio, la cui guida mi ha liberato dall'esilio e mi ha permesso di arrivare fin qui, ben oltre il mondo dei mortali, a compiere la mia vendetta e ristabilire l'equilibrio dell'Universo.

Il sangue non vuole smettere di uscire...

 Poi, la mia memoria va ancora più indietro, a quel giorno di quindici anni prima in cui metallo e sangue sconvolsero la mia giovane esistenza... e ancora prima, al giorno della festa, alla musica degli skàlder e alle parole di mio padre. Come una nebbia che d'improvviso si diradi, rammento finalmente i volti dei miei genitori, il profumo della vallata e le canzoni intorno al fuoco.

Il sangue non vuole smettere di uscire...

Quella notte, mentre beato giacevo sul grembo di mia madre, mio padre  mi narrò di un luogo oltre le nuvole, di un palazzo maestoso le cui grandi porte sono sempre spalancate, per chi muore con la propria spada in pugno.

La saga di Blood On Ice si chiude così con un lieto fine ambiguo, profondamente spirituale, cui personalmente ho voluto aggiungere il mio piccolo carico di malinconia. Oggi, questa saga è storia della musica contemporanea. Per capire come l'album abbia avuto non solo grande successo, ma come abbia superato praticamente indenne gli ultimi vent'anni, si potrebbe discutere a lungo sul talento di Quorthon sia come musicista, sia come creativo in senso stretto; o magari si potrebbe parlare della ruvidezza della musica, della potenza dei riff e di altre soluzioni strumentali; oppure si potrebbe accennare alla perfezione formale dell'opera dal punto di vista compositivo, o al fascino di una scrittura multiforme, ora prosa narrativa, ora poesia pura, a seconda del sentire dell'autore e del significante dei singoli brani. La verità però è che sebbene "Blood On Ice" sia un'opera notevole e un vero gioiellino nel suo genere, il motivo per cui ad oltre vent'anni di distanza sia considerato un oggetto di culto, idolatrato e conosciuto perfino al di fuori della sua nicchia, non è per le qualità intrinseche dell'album, né per quelle tecniche del suo autore. In fondo, tutto ciò che il cosiddetto "Viking Metal" aveva da dire era già stato detto dalla sacra triade dei Bathory: "Blood Fire Death", "Hammerheart" e "Twilight of the Gods". Per non parlare delle migliaia di band che negli anni successivi quel discorso l'hanno ulteriormente proseguito e articolato: dagli Enslaved agli Amon Amarth, dai Falkenbach a Burzum, passando per una schiera di gruppi autodefinitasi "neopagani" e uscendo ben presto dai ristretti confini germano-scandinavi. Ovviamente, parlando de facto di un "non genere", molti di questi artisti sono ascrivibili, o sono partiti, da posizioni differenti e ben definite, solitamente legate al black metal e alla riscoperta culturale che è propria di tale movimento... proprio come gli stessi Bathory. Insomma, nel 1996 un album "vichingo" non era più quel che si dice una "novità", ma un'operazione nostalgia a uso e consumo di un pubblico formalmente rimasto agli anni '80. Tuttavia, Quorthon poteva vantare due qualità decisive: la prima consiste nell'essere un avido fruitore di musica e letteratura, nonché un musicista poliedrico e ricco di sfumature; la seconda, nel saper individuale i sentimenti e i desideri del suo pubblico, intercettandone immediatamente le necessità. In primo luogo bisogna considerare tutte le influenze e i progetti di Thomas dal 1991 in poi: non solo due dischi fondamentalmente death-thrash con i Bathory, ma anche altri due album e un EP sotto il semplice moniker di Quorthon: "Album", "Purity of Essence" e "When Our Day is Through". Questi ultimi, in particolare, sono dischi rock dall'anima squisitamente classica, segnati tuttavia da una contemporaneità che nella prima metà dei novanta significava due cose: punk e grunge. Di questi movimenti "Blood On Ice" conserva sensazioni ed influenze, pur tenendosene distante in termini culturali. Bisogna infatti tenere a mente che sebbene le tracce che compongono l'album risalgano al 1989, una gran parte del lavoro risale agli anni successivi e in particolare a quelli tra il 1994 e il '96: chitarra solista, cori, effettistica atmosferica, varie soluzioni sparse per l'intera opera con astuzia e maestria. Quest'insieme di elementi dalla sensibilità così eterogenea concede a "Blood On Ice" un respiro che non appartiene a nessun altro album dei Bathory, e che nel tempo ha sancito il perdurare dell'opera nell'immaginario collettivo. In secondo luogo vi è poi un velato sottotesto che è puro amore, e ovviamente tutta la faccenda legata all'hype. Gli appassionati veri, zoccolo duro del metal estremo, erano perfettamente a conoscenza di queste "tracce perdute" di cui giravano voci, cassette fasulle e registrazioni rubate, e da anni attendevano che i loro idoli ne facessero un lavoro compiuto e definito. Dopo sette anni d'attesa, Quorthon presentò l'opera come un dono ai suoi fans, premiati per la pazienza e per la fedeltà cristallina, spiegando come la vicenda di Sangue-Sul-Ghiaccio sia una metafora per parlare di loro, amanti dei Bathory, che proprio come il protagonista dell'opera hanno saputo aspettare pazienti il momento del riscatto. Insomma, un po' amore, un po' paraculata, senz'altro genialità pura. A tutto questo naturalmente aggiungiamo l'epica e l'oscurità, l'amalgama incredibile tra mitologia norrena, opera wagneriana e cultura pop, e infine, il manifesto culturale intrinseco nella narrazione stessa. Dopotutto nessuno quanto Quorthon, prima dei Bathory, aveva saputo mettere in dubbio la retorica anti-cristiana nella musica estrema, né proporre una valida alternativa con tale programmatica lucidità. I cavalieri dalla nera armatura e la bestia a due teste - figure ambigue e violente, annichilenti e rapitrici - sono una metafora palese del dilagare del cristianesimo, mentre la vicenda di Blood On Ice, la figura del vecchio saggio e tutti gli altri elementi mitologici, rappresentano il culmine del rigetto delle contaminazioni abramitiche, e abbraccio totale delle antiche tradizioni politeiste. Quando parliamo di "Blood On Ice" non parliamo quindi di un album imprescindibile dal punto di vista musicale, perché non lo è: è ruvido, epico, solenne e potentissimo, ma non è un capolavoro, un'opera che sostiene su di sé il peso della Storia. Quando parliamo di "Blood On Ice", parliamo piuttosto di un manifesto generazionale preciso e compiuto, di una lucida manifestazione d'intenti, e soprattutto, della celebrazione d'una vetta personale: quella di Quorthon e di tutti coloro che hanno amato i Bathory.

Blood on Ice è una vera e propria leggenda, tra coloro che ci hanno seguiti per tutto questo tempo. Grazie alle migliaia di lettere ricevute dai fans nel corso degli anni, non mi sarei mai potuto permettere di dimenticare la sua esistenza... Ora che Blood On Ice è finalmente arrivato, le nostre speranze sono che possiate conservare questo piccolo souvenir nel vostro cuore. Perché è esattamente questo, ciò che l'album vuole rappresentare: un regalo a tutti quei fans che hanno continuato a seguirci in questi anni, scrivendoci e pregandoci di pubblicarlo. Sebbene possa suonare senz'altro antiquato ai più attenti alle tendenze, questo disco meritava comunque di essere pubblicato... esso incarna tutto ciò che ha rappresentato la band nella sua fase a metà degli anni '80, quella dei cosiddetti album "Viking". Quest'opera è stata scritta e registrata tra l'88 e l'89, completata nel '95, ed infine missata e masterizzata nel '96. Tutto sommato, credo che catturi piuttosto bene ciò che i Bathory hanno realizzato fin'ora e che già figura tra i vostri dischi, i vostri vinili e le vostre collezioni.

Questa saga è per voi tutti...

Quorthon, Stoccolma 1996

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1) Premessa & Prologo
2) Intro
3) Capitolo primo - Blood On Ice
4) Capitolo secondo - Man of Iron
5) Capitolo terzo - One-Eyed Old Man
6) Capitolo quarto - The Sword
7) Capitolo quinto - The Stallion
8) Capitolo sesto - The Woodwoman
9) Capitolo settimo - The Lake
10) Capitolo ottavo - Gods of Thunder, of Wind and of Rain
11) Capitolo nono - The Ravens
12) Capitolo decimo - The Revenge of Blood On Ice
13) Epilogo
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