BAD BONES
Demolition Derby
2016 - Sliptrick Records
MICHELE MET ALLUIGI
19/01/2017
Introduzione recensione
Quella dei nostrani Bad Bones è una storia che si potrebbe benissimo leggere all'interno di un copione cinematografico, solo che come ambientazione troviamo la cittadina piemontese di Ceva al posto di una qualunque metropoli degli States, i protagonisti sono dei rocker originari del Piemonte e la passione per la musica funge da faro guida per un viaggio che dalle rudimentali sale prove nei garage giunge fino ai palchi dei locali e dei festival italiani ed esteri. L'avventura inizia nel 2007, quando Stefano Balocco, in arte "Steve Bone", decide di formare una nuova band dopo la sua uscita dai White Skull (con i quali registrò l'album "The Ring Of The Ancient" l'anno precedente). I Bones nascono in principio come trio, e a Steve si uniscono il fratello Raffaele "Lele" Balocco e Domenico "Meku" Borra in qualità di chitarrista e cantante. Il sound di riferimento del gruppo è l'Hard n'Heavy con il quale i tre sono cresciuti (come probabilmente tutti noi), consumando ascolto dopo ascolto dischi di artisti immortali come Motorhead, Thin Lizzy, Kiss, Ac/Dc, Black Sabbath, Iron Maiden e via dicendo; insomma, quella musica cruda, secca e diretta ma al tempo stesso energica e vibrante, quella che ti scuote l'intestino dal momento in cui partono le prime note e la cui immensa semplicità si può riassumere con la frase di jaggeriana memoria "It's Only Rock n' Roll, but I like it" ("E' solo Rock N' Roll, ma mi piace"). Dopo appena un anno di attività, i tre registrano il loro primo lavoro autoprodotto, il debut "Smalltown Brawlers", che in poco tempo riscuote recensioni e pareri molto positivi, registrando inoltre il sold out delle prime 500 copie stampate in appena tre mesi. Ma il 2008 è anche l'anno della prima grande esperienza on the road per i Bad Bones, i tre infatti si imbarcano per un tour di due mesi negli Stati Uniti, durante il quale calcheranno i palchi di locali tempio del Rock, come il famigerato Whisky a Go Go di Los Angeles, e partecipando inoltre alla Hollywood Rock Convention; ma come ogni "saga" che si rispetti, questa incredibile trasferta non è stata compiuta con limousine o tour bus mastodontici ma è stata vissuta direttamente sulla pelle, come un vero e proprio salto nel buio, prendendosi l'aspettativa dal lavoro, caricando gli strumenti sul furgone e sperando che Dio fosse dalla loro parte. Del resto, non puoi dire che il Rock sia la tua vita fino a quando non hai dormito sul tuo mezzo di trasporto tra un concerto e l'altro, ma inconvenienti e scomodità aparte, questa prima avventura servì come battesimo del fuoco per i Bones, che a partire dal 2009 non solo continuarono ad esibirsi in tutta Italia ma varcarono anche i confini di Francia, Svizzera, Repubblica Ceca e Germania. La musica del gruppo piemontese continua quindi a riscuotere consensi sempre più ampi, tanto che oltre alla nuova uscita, quello che sarà il successivo disco "A Family Affair" del 2010, vengono inoltre pubblicati una ristampa del debut album e l'EP "Dead Boy", che oltre a delle tracce bonus inedite contiene anche la cover di "We Want Live With R'n'R" dei Vanadium registrata con Pino Scotto alla voce. Con il nuovo lavoro sugli scaffali, i Band Bones continuano la loro attività live aprendo a nomi come Elvenking, Hardcore Superstar, Entombed e Crucified Barbara, passando poi da trio a quartetto con l'ingresso in formazione del cantante Max Malmerenda e pubblicando il terzo album "Snakes And Bones" nel 2012. Come ogni storia rock che si rispetti però, purtroppo presto o tardi arriva anche il momento del congedo da un membro storico: nel 2014 infatti il chitarrista Meku lascerà la band dopo aver concluso un tour promozionale di oltre cinquanta date in tutta Europa e gli Stati Uniti e come nuovo chitarrista viene reclutato Sergio Aschieris, già chitarrista dei The Rocker, nel cui curriculum spiccano le collaborazione con gli storici batteristi degli Ac/Dc Simon Wright e Chris Slade. Forti di questo nuovo arruolamento, nell'anno appena passato i Bones registrano il loro quarto album, "Demolition Derby", pubblicato per l'etichetta americana Sliptrick Records, che mantiene viva la principale matrice hard rock del sound della band e si riallaccia ai lavori precedenti grazie ad un artwork diretto e di forte impatto che si richiama molto allo stile old school dei tatuaggi: su un terreno appena disastrato da un'esplosione ci piomba letteralmente addosso uno scheletro, intento a pilotare un mezzo da corsa durante una delle tipiche gare americane omonime al disco, all'interno delle quali i veicoli si distruggono vicendevolmente senza esclusione di colpi. Questo raccapricciante pilota, vestito con giacca di pelle e casco da aviatore, non sta guardando frontalmente noi osservatori con l'unico occhio che gli resta nell'orbita del cranio, ma sta osservando qualcosa alla nostra sinistra, probabilmente un'auto verso cui puntarsi in vista del prossimo devastante schianto, un altro knockout tecnico in un combattimento meccanico affrontato sempre con le mani sul volante ed il piede sull'acceleratore. Non resta quindi che scendere in pista ed ascoltarci il rombo della tracklist di "Demolition Derby".
Me Against Myself
Come primo pezzo troviamo "Me Against Myself" ("Io Contro Me Stesso"), brano che è stato scelto anche come singolo promozionale di lancio del lavoro e di cui è stato realizzato un lyric video. In apertura della traccia sentiamo immediatamente il suono dei motori di alcune auto in corsa, e subito siamo gettati nel mezzo di un autodromo con i bolidi che ci sfrecciano affianco sfiorandoci dall'alto delle loro velocità alcaline. Il tenore viene tenuto sempre alto grazie al riff di chitarra, la sei corde di Sergio infatti parte immediatamente energica con una sequenza di note in pieno stile eighties, una ventata di anni Ottanta che soffia violenta fra i capelli (di chi ancora li ha) riportando in auge l'eco di band come Motley Crue e Guns N' Roses degli anni d'oro. Sotto di essa, la batteria di Lele avanza spedita in quattro quarti, fedelmente accompagnata dal basso di Steve, il cui sound si presenta subito caldo e corposo. Il tema del viaggio vieni qui tradotto in una folle corsa sull'autostrada dell'esistenza, l'atto di vivere è infatti un continuo sfrecciare tra le insidie quotidiane giorno dopo giorno, sempre combattendo la sfida contro il peggiore avversario che ognuno di noi possa avere: se stesso. Ogni volta che sorge il sole infatti, siamo pienamente coscienti del fatto che si debba trovare la forza di essere sempre il numero uno, di essere dei veri e propri guerrieri sempre pronti ad affrontare gli ostacoli che ci si parano davanti senza mai soccombere agli eventi; tutte le delusioni e le sconfitte ricevute si può dire che ci abbiano forgiati in maniera più che idonea, ma la nostra discesa fino ai cancelli dell'Inferno quotidiano che è la nostra realtà continua sempre frenetica e pericolosa quanto una folle corsa in auto. La struttura del brano resta nel complesso abbastanza standard, alternando la linearità della strofa alla salita tonale del ritornello attraverso un crescendo incentrato sul groove; siamo quindi di fronte ad una composizione semplice ma al tempo stesso trascinante e coinvolgente. Del resto, è risaputo che per farci scuotere la testa non servano necessariamente cose complicate, ma semplicemente quell'energia che solo il Rock ti sa regalare. In tal senso, la voce di Max si rivela particolarmente efficace, il pathos e le ottime doti del vocalist milanese riescono infatti a trasmetterci tutta la grinta con cui i Bad Bones raccontano questa eterna sfida verso se stessi, che al di là della metafora del singolo li coinvolge anche come band dovendosi sempre rinnovare album dopo album. Si può quindi dire che ad ogni ingresso in studio i Bones sfidino sempre i Bones per tirare fuori il meglio dai loro strumenti e dalla loro creatività, alzando ogni volta la proverbiale asticella che fissa il confine del "buon risultato": più in alto sarà l'arrivo, più si sarà spronati a raggiungerlo. A spezzare la regolarità del susseguirsi di strofa e ritornello troviamo l'assolo di chitarra di Sergio, che ci trafigge con una serie di note profonde in bending taglienti quanto la lama di un coltello prima dell'ultima ripresa, un passaggio costituito su una serie di stop and go che interrompono volutamente la fluidità fin qui mantenuta: il pezzo infatti si arresta improvvisamente, quasi a voler rendere metaforicamente un'inchiodata del nostro bolide, Lele scandisce il tempo con una serie di accenti sui fusti del proprio set, puntualmente ricalcati dalle plettrate del quattrocorde di Steve, dimezzando quindi la propria parte rispetto ai powerchord della chitarra e lasciando lo spazio per l'ultimo colpo di coda: in campo siamo solo noi, qui e ora, guidando sempre all'impazzata verso il nucleo del nostro campo di battaglia quotidiano, il nostro avversario è là, di fronte a noi, che ci guarda con fare di sfida, siamo noi contro noi stessi.
Endless Road
Di seguito troviamo "Endless Road" ("Strada Senza Fine"), il cui titolo sembra lasciare intuire che il tema del viaggio, ed in particolar modo della corsa a velocità folli, resti il tema collante con il brano precedente. Il pezzo prende forma attraverso una lunga esitation, dove a scandire il tempo sono il charleston e gli accenti di Lele insieme alle note serrate del basso di Steve; la chitarra infatti si muove su una serie di powerchord tenuti, creando così un avvincente contrasto tra parte serrata e parte distesa di questo primo sviluppo. La tensione però continua a crescere, ed una volta giunti all'apice di questa introduzione ecco che un potente "Let's go" ("Andiamo!") urlato da Max lancia la strofa in maniera vibrante e decisa. L'atmosfera resta quella dell'Hard Rock di stampo ottantiano, inevitabile qui pensare a gruppi come i già citati Guns N' Roses, agli Skid Row e ai Poison; a spingere il tutto è la batteria con un quattro quarti bello pompato, ottima base per uno sviluppo sincopato del basso e della chitarra, i quali creano una soluzione azzeccata per amalgamarsi con il successivo ritornello, dove la struttura si fa assolutamente catchy ed orecchiabile. Proprio l'Hard Rock, ed in particolare la passione per esso (che più che un semplice piacere d'ascolto è un vero e proprio stile di vita) rappresenta il fulcro tematico di questa lirica: la monotonia delle nostre giornate traccia una metaforica linea grigia che altro non fa che incupire la nostra concezione della quotidianità, ma per fortuna c'è la musica dalla nostra parte, sempre pronta a scaldare il nostro animo con le sue vibrazioni anche quando l'umore è gelido come una stalattite di ghiaccio. Proprio la musica è quell'elemento che ci penetra e dà voce alle nostre sensazioni e ai nostri pensieri, come una scarica elettrica che percorre il nostro corpo facendo raggiungere il massimo voltaggio a tutto ciò che abbiamo dentro; la linea grigia diventa ora una strada asfaltata senza fine, una lunga highway verso l'infinito dei nostri sogni sulla quale lanciarsi, ovviamente sempre a velocità elevata, per un viaggio immenso che riprende traccia dopo traccia ogni volta che accendiamo lo stereo. Del resto, la musica per noi rocker è proprio questo, una chiave con la quale aprire i lucchetti delle catene che ci tengono inchiodati ad un lavoro sfibrante, agli attriti con chi proprio non riusciamo a sopportare e alla sfiga perenne, che di questi tempi sembra non mollarci un attimo. Non ci resta che cogliere l'occasione di vivere quello che è il nostro sogno, qualunque esso sia, non importa se quello che desideriamo sia irrealizzabile o meno, la musica ci aiuterà ad ottenerlo sempre e comunque. Che si tratti di diventare la rockstar più affermata del pianeta oppure, più semplicemente, di poter vivere una vita tranquilla in armonia con gli amici e i nostri cari, il Rock sarà sempre li e non morirà mai, a diffferenza delle tante cose vane ed illusorie che incontriamo durante la vita. A livello strumentale, questo brano dei Bad Bones si mantiene su una struttura abbastanza lineare, puntando tutto sul groove e sull'energia che la voce di Max riesce a trasmetterci: in questa particolare lirica infatti, dove emerge lampante l'invito a vivere la nostra passione e a godersela fino in fondo, il vocalist lombardo sembra quasi diventare un mental coach del Rock, solo che l'obbiettivo principale lo abbiamo già raggiunto: ad esso infatti siamo già appassionati, ergo, i Bad Bones non fanno altro che regalarci un pezzo diretto e graffiante con il quale ci invitano a non disintossicarci mai da quella che è l'assuefazione più sana di tutte, quella per la musica.
Some Kind Of Blues
Proseguendo nella tracklist, in terza posizione troviamo "Some Kind Of Blues" ("Una Specie Di Malinconia"), composizione che, come lascia intendere il titolo, si discosta provvisoriamente dalle sonorità hard rock per virare verso orizzonti decisamente più blueseggianti. A condurre il tutto adesso è la chitarra di Sergio, che sfodera un riff caldo e pregno di pathos modellato su una serie di note che sembra uscita direttamente dalle mani di Stevie Ray Vaughan; la batteria ed il basso entrano a sostenere la sei corde con un tempo dispari cadenzato e sincopato, rompendo così la regolarità delle tracce fin qui ascoltate. Il Blues è infatti il genere musicale "sbagliato" per eccellenza se giudicato con l'occhio critico del musicista accdemico puro ed oltranziasta: i passaggi cromatici ed i tempi irregolari infatti lo rendono metricamente errato a livello di spartito, ma come è noto, stiamo parlando di un tipo di sonorità nate nel profondo degli Stati Uniti, suonate da musicisti guidati non da una chiave di violino bensì dalla rabbia, dalla rassegnazione e dalla tristezza che gli incendiava il cuore e le cui mani erano mosse unicamente dalla sfera emotiva. La profondità del pezzo è data appunto dal tocco delle note tenute della chitarra (alternando bending ed accordi), dalle pennate calde ed avvolgenti del basso di Steve e, soprattutto, dall'energia di Max, che ci trasmette tutta la rassegnazione ed il senso di sconfitta che avvolgono un viandante ormai abbandonato al proprio destino. È una notte fredda e piovosa, ed il protagonista avanza incerto nella tempesta malamente avvolto dal suo cappotto, con la testa incassata nelle spalle e le mani in tesca nel tentativo di scaldarsi; alzando lo sguardo nella pioggia fitta ecco apparire all'orizzonte un bar, un faro di speranza ed erroneo rifugio per un viaggiatore perso nella solitudine di una città ormai morta. Appena varcata la soglia, egli sente immediatamente quella vecchia sensazione che ormai lo accompagna da tempo, quella cupa malinconia unita al senso di delusione che gli infestano l'anima come una serpe in un giardino. Fortunatamente, il fastidio del freddo è stato risolto, il clima rigido lascia ora l'esclusiva della tortura ai demoni interni del nostro viadante per martoriargli l'esistenza; per scaldarsi si siede al bancone ed ordina immediatamente qualcosa da bere, non qualcosa di caldo ma qualcosa di forte, alcolico, che come un balsamo possa anestetizzare quel dolore interiore che ormai è diventato parte di lui. Nell'attesa del cicchetto, primo di una lunga serie, i pensieri scorrono frenetici nella testa di questo personaggio a metà tra il dandy ed il noir: la vita non è semplice, non lo è mai stata e non lo sarà mai, e tutto l'amore provato per le svariate donne gli si è sempre ritorto contro, tornandogli dritto in faccia come un pugno; persino il bar in cui si trova, che all'inizio sembrava un posto sicuro, altro non è ora che un angolo buio del mondo, schifoso e disperso come gli altri; non c'è più un lido luminoso in cui potersi accampare, anche solo per sognare una vita migliore, esistono solo cantucci tenebrosi nei quali potersi fermare un momento unicamente per ricordarsi quanto sia dura. Si è soli contro il mondo e ad accompagnarci nel cammino resta sempre quella sorta di malinconia, vaga ed indefinita, che non esiterà a stringerci il cuore come in una morsa, raccontata qui attraverso questa ballad blues oriented del gruppo piemontese.
Stronger
Chiusa questa parentesi estemporanea, i Bad Bones tornano sui loro binari principali con "Stronger" ("Più Forte"), facendo salire il tachimetro con un'altra sferzata di puro Hard Rock. Il main riff di chitarra si fa decisamente più dinamico ed immediatamente Lele entra deciso con il suo set a condurre il tutto con un quattro quarti suonato solo con charleston, rullante e cassa, un disegno ritmico semplice che lascia parlare direttamente il tiro del drummer. L'atmosfera generale resta sempre quella degli eighties, anni d'oro del genere del resto, e le muse ispiratrici restano sempre i nomi più noti del genere come Guns, Bon Jovi, Thin Lizzy e Kiss; anche a livello strutturale, i Bones mirano a colpire duro e diretto senza troppi fronzoli, grande talento di questi quattro rocker è infatti quello di riuscire a creare canzoni gradevoli, orecchiabili e di impatto attraverso soluzioni non certo complesse che però ci fanno scuotere la testa proprio grazie all'energia che le mani di questi musicisti (e le corde vocali nel caso di Max) riescono a sprigionare. La strofa infatti si muove semplicemente su una serie di accordi stoppati, intervallati da alcuni rapidi fraseggi posti a mò di inciso dai quali traspaiono tutto il talento e lo stile di Sergio, per poi farsi più dinamica nel ritornello; a conferire la proverbiale "pacca" alla traccia però è la sezione ritmica, il basso di Steve e la batteria di Lele, che oltre al talento appena citato dei due rocker gode anche di una definizione di post produzione limpida e ad hoc per questo tipo sound; essi infatti offrono un'ottima base per le fnamboliche scalate canore compiute da Max, il quale si rivela un ottimo cantante anche quando si tratta di toccare vette vocali più elevate. Il vocalist lombardo, per questa canzone, si rende protagonista di una narrazione che pone l'individuo in contrasto con la collettività che lo circonda, un singolo, un outsider, un reietto per certi aspetti, che proprio per la sua singolarità viene ecluso dal resto della massa ed abbandonato in balia di sé stesso. L'immagine in apertura di lirica è molto eloquente in questo senso: il protagonista si trova inchiodato al muro, con le mani appoggiate alla parete quasi come se stesse per subire una perquisizione da parte delle forze dell'ordine già ostili in partenza: egli è un'identità nascosta all'interno del mondo, nessuno sembra conoscerlo o curarsi di lui perchè il resto dell'umanità vive la propria imbelle esistenza in maniera solitaria e noncurante di ciò che la circonda, egli si sente infatti come una foglia ormai secca, trasportata via dal mondo grazie al vento autunnale e la vita stessa ritorna sulla scena in qualità di avversario imbattibile: essa infatti è più forte di noi e della nostra forza di volontà ed il nostro stesso destino è il burattinaio che si nasconde dietro la trama di quel tessuto che è la nostra esistenza. La trama è sempre la stessa, come un'ipotetica saga di cui vengono girate le puntate unicamente per riciclare denaro, anche quando ormai gli spunti narrativi sembrano essersi esauriti: i giorni si susseguono monotoni e privi di colore come se fossero fatti di vetro, e il nostro personaggio continua a vivere nell'ombra di una società frenetica, gli orologi continuano a tickettare scandendo un tempo che non passa, l'unica cosa che segnano quelle lancette è la monotonia di una vita vissuta alba dopo alba all'interno del nostro inferno di tutti i giorni. L'intero mondo ormai è andato perduto, tutti i sani principi di lealtà, condivisione e solidarietà tra gli uomini sono rimasti ormai belle immagini raccontate nelle opere letterarie; anche la percezione della splendida solitudine dell'età dell'oro di cui raccontava Virgilio nelle sue Bucoliche è al giorno d'oggi distorta: la solitudine ci piace non perchè riscopriamo il valore del rapporto con la natura ma perchè siamo menefreghisti e non vogliamo che il nostro orticello venga contaminato dai problemi altrui, come se ormai ci fossimo rassegnati all'impossibilità di un cambiamento, perchè "tanto è sempre così" e la vita sarà sempre più forte della nostra volontà.
Rambling Heart
Passiamo ora a "Rambling Heart" ("Cuore Vagante"), con cui i Bad Bones si cimentano in sonorità più morbide e delicate, costruendo così una ballad maggiormente orientata sull'influezza di artisti come Whitesnake, Extreme e Winger. Nelle tracce precedenti, la componente hard rock e quella blues della band erano rimaste separate e ben definite, in questa canzone invece, i quattro mescolano sapientemente questi due aspetti del loro sound dando risalto al loro lato più melodico. Il pezzo si apre con un campionamento di un soffio di vento di background atmosferico, che ricrea nella nostra testa una strada assolata nel pieno del deserto del Nevada, lasciandoci quasi intravedere il calore emergere dall'asfalto ad ondulare la nostra percezione visiva. In lontananza sentiamo prima delle percussioni rapide e sfumate, come se uno sciamano pellerossa introducesse una visione esoterica, poi, la timida risata di un bambino che come una premonizione lascia intendere che presto ci sarà una svolta nella nostra vita. A spezzare questa scena è il rullante della batteria, che con un colpo secco e scandito lancia un accompagnamento in quattro quarti lineare. Gradualmente si aggiungono la chitarra, intenta a suonare un arpeggio incentrato sulle note alte, ed il basso di Steve, a tenere il tempo in ottavi. Nella parte introduttiva della composizione, dopo un'iniziale progressione, il gruppo si arresta su una esitation, la voce di Max è stracaricata di gain in modo da renderla come se ci giungesse da un telefono: immaginiamoci qundi di ricevere una telefonata da un nostro amico che ci arriva dall'altra parte del globo: egli ha mollato tutto per poter girare il mondo, vedere posti nuovi e ritrovare se stesso dopo essere stato rinchiuso in una cella di monotonia esistenziale. Questa prima porzione di strofa viene accompagnata dalle note in slide di chitarra, le quali conferiscono al tutto un'atmosfera decisamente country. Dall'altro capo della cornetta, il nostro amico, dopo una nuova tappa del suo lungo viaggio, si ferma un momento per chiedersi quante miglia abbia percorso e quante strade abbia attraversato, portando le sue ossa stanche e rotte per il cammino fino alle roventi sabbie desertiche. Sulla ripartenza del tempo, la voce narrante inizia un crescendo metaforico, iniziando a constatare di essere un dado che rotola dopo un lancio d'azzardo del destino, un perdente che dopo l'ennesima delusione della vita ha finalmente il sorriso spavaldo che lo ha reso il bastardo che la sua donna ha rifiutato. Il pezzo intanto procede nella propria avanzata fino alla prima apertura, la chitarra allarga il respiro della parte con una serie di accordi aperti e la voce di Max torna ad essere limpida e potente, conferendo così un maggior senso di ampliamento a questo primo ritornello, concluso il quale viene ripreso l'arpeggio principale. Adesso il protagonista ci parla di nuovo "dal telefono", constatando che proprio il suo cuore vagante lo ha salvato dallo smarrimento all'interno della vastità del mondo. Quando si decide di intraprendere un lungo viaggio alla ricerca della propria esistenza, i dubbi e le incertezze sono tanti, eppure, è proprio quello spirito avventuriero e selvaggio che ci aiuta a prendere la decisione definitiva, quella di mandare tutto a quel paese e vivere davvero, lasciandoci semplicemente trasportare dal cuore verso una meta che solo il cosmo conosce. La filosofia di questo pensiero è proprio quella di non porsi destinazioni fisse, ma semplicemente di imbracciare uno zaino e farsi portare via dal soffio del vento come un granello di polvere; non è follia, non è depressione, è semplicemente voglia di percorrere l'esistenza prendendo una via diversa da quella intrapresa da tutti gli altri. La ballad si chude con un fade out, dove la batteria di Lele continua a tenere il tempo sostenendo il basso energico di Steve e l'arpeggio di Sergio, mentre la voce di Max si abbandona a dei vocalizzi con il quale il nostro viandante si congeda da noi svanendo all'orizzonte.
Rusty Broken Song
Su questa dissolvenza in uscita, dove il volume si abbassa dolcemete irrompe energicamente la seguente "Rusty Broken Song" ("Canzone Arrugginita Ed Infranta") dove a dare fuoco alla miccia questa volta è l'influenza suprema dei grandissimi Motorhead. Il main riff infatti è una pura rivisitazione del groove rock n'roll degli anni Cinquanta, sfoderato ora attraverso la sei corde distorta di Sergio; per darvi un'ulteriore direttiva, prendete una sequenza di note simile a quella di "Bomber" o "Don't Touch" della band inglese; la matrice è la stessa così come l'obiettivo, quello di farci scuotre la testa. La differenza sostanziale, come è immaginabile, è che la voce di Max sia ben diversa da quella del mai troppo compianto Lemmy, ma l'attitudine e la grinta con cui i Bad Bones suonano questa canzone di poco più di tre minuti di durata è figlia della lezione impartita da mister Kilmister. La batteria apre la propria avanzata con un'esplosiva rullata, la sei corde lancia il tutto con un riff catchy e di facile presa e a rendere il tutto ancora più "grosso" a livello di impatto è il basso di Steve, che regala alla parte una maggiore ampiezza di resa. Strutturalmente parlando, anche questa composizione possiede pochi e semplici elementi che la rendono una canzone da far andare più volte del lettore. A discostarsi totalmente dalla vena motorheadiana interviene poi il ritornello del pezzo, frangente in cui il gruppo intraprende una strada più melodica e, per certi versi, più commerciale: la chitarra dilata la sua parte aprendosi in un arpeggio di note melodico, la voce di Max si lancia su una linea vocale di facile presa, ideale per imprimersi immediatamente nella nostra testa supportata dai cori armonizzati in sottofondo. Con la ripresa del main riff iniziale, il pezzo ritorna a calcare la propria vena stradaiola, ma si tratta di un rapido ultimo colpo di coda prima dellla fulminea chiusura. Nel complesso la canzone è trascinante e non sarà difficile agli amanti delle sonorità hard rock più morbide alzare le corna al cielo, c'è però da dire che anche una soluzione alternativa orietata verso una "grezzura" più sostenuta dell'insieme avrebbe reso altrettanto bene, portando la traccia su binari maggiormente crudi e sporchi, ma a conti fatti anche la strada intrapresa dai piemontesi si rivela comunque efficace. Il testo si presenta come un malinconico ricordo di un viaggio ormai conclusosi: Max, in qualità di voce narrante, ricalca il ruolo di chi è intento a passeggiare in un panorama nebbioso di primo mattino; la città è avvolta dal consueto grigiore della monotonia quotidiana e a spezzare la fumosità della nebbia ci sono solo gli alberi le cui chiome ondeggiano mosse dal vento. Questo scenario si rivela l'incipit di un flashback con il quale Max ritorna immediatamente alle spiagge assolate, al blu intenso dell'oceano e alle scintillanti luci di una notte di Las Vegas; come chi ha vissuto quell'esperienza fino in fondo, egli è in grado di ricordare ogni singolo particolare sentendo nuovamente il calore del sole californiano sulla propria pelle pur indossando il cappotto per via delle basse temperature invernali. Le emozioni che un bel ricordo è in grado di regalare le conosciamo tutti, figuriamoci poi se quella stessa esperienza diventa l'ispirazione per un canzone, ma del resto, a questi quattro musicisti non chiedete dove siano stati, perchè in un attimo saranno subito da voi con gli strumenti alla mano, pronti a cantarvi una semplice canzone "arrugginita".
Red Sun
Proseguendo oltre troviamo "Red Sun" ("Sole Rosso"), brano la cui atmosfera country e "pellerossa" ritorna ad impregnare l'aria. Il sole, reso rosso intenso nella fase del suo calare al tramonto, era considerato dai nativi americani un dio al quale rivolgere le preghiere più introspettive, e così sembra fare anche Max in qualità di devoto sacerdote della stella più luminosa del nostro sistema. Il tiro hard rock lascia ora il posto ad una ballad blues oriented, dove oltre alla chitarra, al basso e alla batteria, si aggiungono inoltre le tastiere a fornire il loro supporto, seguendo lo sviluppo della struttura con una serie di accordi profondi atti a fare di questa base strumentale un vero e proprio inno alla vita e alla libertà in pieno stile easy rider. Il tempo principale resta infatti un quattro quarti, suonato da Lele con una cadenza precisa ed un tocco energico che rendono ogni colpo di cassa, rullante e charleston dei veri e propri rintocchi: le quattro corde di Steve invece mantengono il centro tonale del pezzo con delle note calde e profonde, controbilanciandosi perfettamente con la limpidezza e le alte tonalità toccate dalla chitarra di Sergio, la quale, sfodera delle incisive note arpeggiate accostate a dei rapidi accordi in palm muting. Il tutto comunque è caratterizzato dall'ampio respiro della composizione, che dall'iniziale introspezione della strofa passa poi all'apertura del ritornello, in cui viene recitata quella che è la preghiera vera e propria contenuta nel testo. Il protagonista è ancora un viandante intento a compiere il metaforico viaggio alla ricerca di se stesso, andando a toccare i diversi angoli del mondo, quand'ecco che un ben definito momento di questa marcia si rende particolarmente toccante e suggestivo: scendendo da una collina, sentendo aumentare la libertà ad ogni passo, lo sguardo di questo viaggiatore cade sul sole che sta tramontando ed immediatamente un fiume di emozioni inizia a scorrere dentro di lui. Sono sentimenti dolcissimi, che scaldano il cuore con la semplicità di un ricordo di infanzia, e nell'avanzare sulle sabbie di un deserto rovente ecco che quelle emozioni iniziano a camminare con lui, sostenendolo nell'impresa come un amico fraterno. Gli orizzonti cognitivi sono definitivamente spalancati ed ecco che il cuore si fa prontamente la sede di un mondo molto più vasto, puro ed incontaminato, allietato solo dal desiderio di potersi finalmente ritrovare nella felicità e nella limpidezza dei ricordi passati; ma il mondo reale comunque è ben diverso, decisamente più duro ed inquinato dal male delle avversità e delle delusioni, la cosa migliore da fare quindi è fermare momentaneamente il proprio cammino, lasciarsi cadere con le ginocchia sulla arida sabbia lungo la strada sfaltata ed implorare l'aiuto di quel magnifico sole rosso: riesci a sentirci? Puoi tu, bellissimo essere creato dalla superiorità del cosmo salvarci da questo inferno facendoci dono dell'amore e della felicità che solo tu puoi darci? Donandoci quell'immensa gioia che si può manifestare attraverso la nascita di un figlio o di un amore che germoglia?. L'amore diventa quindi la chiave per superare gli ostacoli, oltre che ad essere il fuoco che fa ardere il sole illuminandoci il nostro cammino tenebroso. A livello strumentale, la regolarità strutturale si intervalla, come accennato, a delle efficacissime aperture tonali, dove Max riesce a raggiungere vette davvero elevate a livello canoro lasciandoci giungere dritto alle corde dell'anima tutta la devozione con cui il viandante si affida a questo supremo ed onnipotente dio del cielo.
A Perfect Alibi
La seguente "A Perfect Alibi" ("Un Alibi Perfetto") ci ricatapulta nuovamente nelle atmosfere hard rock e glam degli anni Ottanta, facendoci quasi camminare sul Sunset Boulevard mentre affianco a noi passano Tommy Lee, Vince Neil, Nikki Six e Mick Mars con le loro Harley Davidson. La traccia inizia subito a gettare le basi per quello che è un brano ottantiano fatto e finito: la chitarra avvia le danze attraverso delle pennate rapide in palm muting, dopo le quali inizia subito la strofa. La composizione si rivela immediatmente catchy ed orecchiabile, lasciando che sia la melodia e la qualità dell'arrangiamento a mantenere desta la nostra attenzione. Gli accordi stoppati della chitarra, uniti invece alla linearità del tempo di batteria, creano quell'unione di opposti che nel complesso funziona molto bene, anche se ci troviamo di fronte ad una composizione che, a livello puramente di spunto, non presenta grandi variazione al tema rispetto a quanto già fatto dai grandi gruppi della scena americana. Nonostante questo comunque, i Bad Bones si riconfermano degli ottimi musicisti, la canzone infatti, pur non apparendo come la più efficace del loro repertorio, scorre dinamica e coinvolgente, riscuotendo il nostro apprezzamento grazie al rimando diretto che essa fa con i gradi classici dei già citati Motley Crue e Poison, passando poi per Twisted Sister, White Lion, L.A. Guns, Warrant e via dicendo. L'incedere della canzone punta infatti a farci saltare e scatenare fin dall'inizio, l'efficacia della strofa, volutamente interrotta da alcune esitations per poi ripartire alla carica, ci consente infatti di farci scuotere la testa ad ogni ripartenza per poi lanciarci a seguire con il nostro coro la melodia del ritornello. Possiamo quindi considerare questa ottava composizione del disco come un metaforico tributo da parte dei Bad Bones a tutto quell'immenso filone che ne ha costituito la formazione musicale, brano quindi piacevole, ma comunque abbastanza nella norma e che per gli amanti di questo tipo di sonorità si presenterà come un delizioso dejavue. Alla "schematicità" strutturale di fondo che caratterizza il pezzo fa da contraltare un'interessante trattazione lirica, uno sguardo diverso e molto più diretto verso il tema della schizofrenia e della doppia personalità, che seppur presente in molte altre canzoni rock non cessa mai di catturare il nostro interesse. Il tutto ruota infatti intorno a due personalità rinchiuse nello stesso corpo, perennemente in contrasto tra l'apollineo ed il dionisiaco dell'anima; la parte "buona" sembra essere la componente predominante, che rende il soggetto disponibile, pacato e moderato agli occhi degli altri, anzi, lo rende alle volte un vero e proprio zerbino sopra il quale chiunque può pulirsi i piedi in qualsiasi momento. Alle spalle di questo muro di gentilezza si trova invece il lato "cattivo", quello che non è assolutamente in grado di scendere a patti e che non esita un istante a prendere ciò che gli spetta di diritto, anche quando per raggiungere questo fine sono necessari metodi poco ordtodossi. A parlare è proprio questa seconda faccia della medaglia, che vessa la prima ricordandogli perennemente che un possibile rovescio dei ruoli è sempre dietro l'angolo; il protagonista si trova dunque a convivere sempre con questo senso d'ansia addosso, timorato del fatto che quel Mr. Hyde può venir fuori da un momento all'altro disintegrando la maschera di bontà che porta in volto, causandogli anche un attacco di cuore. Come una serpe che striscia all'interno di un giardino rigoglioso infestandolo silenziosamente (metafora peraltro già apparsa nel testo di "Some Kind Of Blues"), questa malvagità avvelena un animo gentile per natura, presentando sulla sua limpida immagine un marchio di malvagità che come un vistoso foruncolo ne rovinerà sempre la bellezza: l'immagine molto efficace usata dai Bad Bones è quella della ballerina avvenente tatuata sulla pelle del personaggio, una figura aggraziata e seducente che come una femme fatale presto lo pugnalerà alle spalle con un pugnale dorato. È dura da digerire, ma questo malvagio è parte della persona e non c'è via di fuga, sono due lati della stessa moneta ed appena la parte malvagia prenderà il sopravvento si compierà il proverbiale crimine perfetto: non vi sarà alcuna prova o indizio di sorta per risalire ad un colpevole che fondamentalmente non c'è perchè già integrato e mescolato all'interno di una stessa psiche, Mr. Hyde potrà colpire in ogni momento avendo sempre l'alibi perfetto, perchè non appena sarà compiuto il misfatto egli riscomparirà dietro il volto del Dr. Jeckyll.
Shoot You Down
Il ritmo viene dimezzato nella seguente "Shoot You Down" ("Abbatterti"), dove a prendere le redini del condottiero questa volta è il basso di Steve con le sue note cadenzate ed incalzanti; la batteria di Lele intraprende una nuova marcia in quattro quarti e la chitarra di Sergio entra sulla scena attraverso una serie di accordi tenuti che conferiscono al tutto un tocco decisamente heavy; in questo primo inizio, i Bones virano quindi verso le coordinate dell'Heavy Metal più classico, rendendo questo incipit del brano una vera e propria marcia che riporta alla mente sia la trionfale "Warriors Of The World" dei Manowar, sia anche il brano "Primal Scream" dei Motley Crue: l'unica differenza, in questa prima sessione, tra il brano dei piemontesi e quelli degli americani è la differenza di bpm, in questo caso decisamente più elevati, ma l'intento marziale è raggiunto alla perfezione. Con l'ingresso della voce, dopo una serie di acuti davvero ben piazzati di Max, viene poi ammorbidita una situazione iniziale resa abbastanza ruvida grazie alle distorsioni. Conclusa la prima porzione di strofa, la composizione si apre in un bridge maggiormente disteso, in cui il diaframma della band si espande per poi tornare a contrarsi sugli accordi in palm muting per continuare nella porzione successiva, il ritornello, vero e proprio momento di presa, dove Max si lancia in una linea vocale che non farà certo fatica a fare presa nella nostra testa grazie alla elevata orecchiabilità del tutto. La linea vocale adesso è diventata la vera protagonista, intenta ad eseguire delle imprese funamboliche su una base ritmica sostenuta e di impatto, dimostrando nuovamente come con pochi e semplici elementi i Bad Bones riescano a seguire la lezione del Rock come degli alunni modello. Dopo il secondo ritornello troviamo un'esitation, la marcia infatti si sospende per lasciare lo spazio alla batteria di Lele, che con una serie di accenti sui fusti ha così modo di lanciare l'assolo di Sergio per poi riallacciarsi all'insieme per un ultima ed energica ripresa del ritornello, accompagnata da una serie di cori ancora più sostenuti. A livello lirico ci troviamo ora in un vero e proprio film d'azione: il protagonista del racconto infatti è un fuggiasco braccato dai sicari che lo vogliono morto; chi sia e quale sia la sua colpa non è dato saperlo, l'unica certezza è che egli sente le malvagie vibrazioni del pericolo perennemente su di sè e quegli uomini non si fermeranno finchè non avranno portato a termine il lavoro. Il fuggitivo ha provato a nascondersi in luoghi sempre diversi, ma ogni volta quegli individui sono riusciti a trovarlo, alle volte arrivando addirittura al contatto ravvicinato: quel viandante sul suo cammino sembrava un semplice musicista intento ad andare nel locale in cui esibirsi, ma nella sua custodia per chitarra nascondeva una pistola pronta a sparare. La fuga continua, ma non potrà essere così per sempre, bisognerà trovare prima o poi la forza di alzarsi e trovare il coraggio per combattere, magari trovando anch'egli un'arma con cui poter abbattere i sicari prima che lo spediscano all'altro mondo; quei killer stanno arrivando pronti a compiere la missione per cui saranno profumatamente pagati, che abbia commesso una colpa ignobile oppure che, a causa di un malinteso, sia solo l'uomo sbagliato, al posto sbagliato e nel momento sbagliato poco importa, prima o poi dovrà ergersi in piedi ed abbattere ogni ostacolo.
The Race
Di seguito troviamo poi "The Race" ("La Corsa"), brano che fin dal suo incipit sembra riprendere le radici old school dell'Hard Rock di stampo americano. Ad aprire le danze sono la chitarra ed il basso, che iniziano a sfoderare un main riff semplice ma al tempo stesso diretto, ideale per far salire l'adrenalina prima della botta vera e propria: il suono per il momento è particolarmente compresso, in modo da farcelo sentire ovattato e chiuso come se ci arrivasse da una vecchia radio contenuta a sua volta in una scatola ma questo effetto, ottenuto grazie anche ad una equalizzazione incentrata sulle basse frequenze, è funzionale per farci arrivare dritto in faccia con ancora più potenza lo start vero e proprio della canzone. Con l'ingresso della batteria infatti percepiamo una vera e propria "esplosione", i volumi infatti tornano al canonico range di soglia e dopo questo primo impatto i Bones hanno così messo subito in chiaro le cose; come accennato in partenza siamo di fronte ad un brano crudo e scarno che risente dell'influenza della vecchia scuola, e infatti i quattro marciano imperterriti sulla stessa soluzione stilistica, che vede il main riff sostenuto da un incalzante tempo di batteria, del resto, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, non bisogna stupire con complicati moduli ritmici ma bisogna fare in modo che gli ascoltatori scuotano la testa ed inizino a saltare come se non ci fosse un domani. Il dinamismo in questa traccia è dato dall'altenanza di accordi aperti e parti più serrate in palm muting, oltre che dai diversi cambi di tonalità che regalano alla composizione un maggior colore ed un carattere deciso, il tutto sempre sostenuto dal tocco preciso e potente di Lele, che da degno allievo di Phil Rudd continua per la sua strada dritto come un treno inarrestabile. Ad animare il testo è nuovamente una sfida verso se stessi, ma a differenza della opener dell'album, l'ottica ora si fa maggiormente più cruda, osservando questo conflitto da una prospettiva più rocker e stradaiola. Combattere verso ciò che siamo alla fine è semplicmente un gioco; perverso, malsano ma comunque divertente e malleabile, dato che le regole di questa attività ludica si possono stravolgere a nostro piacimento per rendere il tutto sempre interessante. Alla fine fare i conti con quella che è la realtà del nostro essere è un lavoro sporco, un dovere ignobile che in quanto tale va fatto non tanto per un qualche strano dovere etico, ma perchè una volta toltisi il dente ci si libera del dolore. Vincere questa corsa però non è affatto semplice, bisogna confrontarsi con la nostra cruda attitudine e seppure tagliare per primi il traguardo sia una cosa desiderata da tutti, essa si trova dietro un ostacolo insormontabile, vale a dire la solitudine con cui ognuno di noi affronta la propria vita pur essendo immersi in un pianeta popolato da sette miliardi di persone. Per quanto si possano avere amici fidati ai quali poter confidare tutti, ma proprio tutti, quelli che sono i nostri segreti, ci sarà sempre uno 0,1% di parte recondita che spetta combatere faccia a faccia solo a noi, quel diavolo che ci vive sotto la pelle e non ci abbandona mai; è sempre lì e vincerà ogni volta, anche se vendessimo l'anima pur di ottenere la vittoria in cambio; ecco che abbiamo nuovamente perso la sfida: pur avendo cambiato le carte in tavola, il nostro io si è rivelato più astuto di noi e con una semplice contromossa è riuscito a lasciarci indietro, facendoci arrivare ultimi al traguardo e perdendo così la corsa per l'ennesima volta.
Demolition Derby
L'album si chiude con la titletrack "Demolition Derby" ("Derby Di Demolizione", dal nome delle gare automobilistiche in voga negli States di cui si è accennato in apertura di recensione); la tensione inizia ad aumentare appena schiacciato il tasto play, come se fossimo sulla nostra auto e scaldassimo il motore con una serie di rapide accelerate date in folle. La chitarra di Sergio si lancia in un main riff tagliente e sostenuto, nel quale le dita dell'axeman viaggiano vigorose sullo strumento accompagnate dagli accenti di batteria. L'inizio strutturato sugli stoppati si rivela efficace per creare la giusta base di lancio per la strofa, nella quale Lele avvierà un tempo dinamico e pieno di groove; ad alzare il tiro troviamo inoltre i cori che sostengono la voce di Max, un riuscito contrasto tra voce solista melodica e voce d'insieme energica e "guerriera"; fulcro di questo primo sviluppo però è il basso di Steve, che calca i quarti delle varie battute con delle plettrate decise sulle sue corde dal suono leggermente distorto. Di tutte le tracce del disco, "Demolition Derby" è forse quella più innovativa a livello compositivo, i Bones infatti si discostano dalle coordinate più canoniche dell'Hard Rock per sperimentare un disegno ritmico che fa dell'orecchiabilità il suo ingrediente principale, non escludendo nemmeno una vena funky che lo rende particolarmente interessante. La velocità viene quindi diminuita in favore di una maggiore ricerca di fino di quella che è l'imprimibilità del pezzo: con questa canzone infatti i quattro rockers vanno a colpo sicuro, privi di ogni dubbio sul segno che questa loro titletrack lascerà nelle orecchie e nei cuori degli ascoltatori del loro lavoro. Indubbiamente a far sì che il pezzo ci rimanga in testa è senz'altro l'ottima performance vocale di Max, la cui linea melodica possiede tutti gli elementi necessari per mantenerci sempre desti e coinvolti nell'ascolto, come la voce leggermente sporca e contratta nelle strofe in grado di passare successivamente ad un registro più alto e pulito nelle aperture del bridge e del ritornello, il tutto ben inserito nell'insieme del contesto strumentale, dove coesistono passaggi più chiusi a livello di tonalità per poi dilatarsi anch'essi grazie alle aperture eseguite soprattutto dalla chitarra. Con questa tappa conclusiva della tracklist i Bad Bones si riallacciano a quello che, a conti fatti, è forse il tema principale delle liriche: la sfida che ognuno di noi vive ogni giorno facendo i conti con sé stesso e con le difficoltà che ci attanagliano in ogni momento; l'ottica questa volta si fa decisamente più violenta, paragonando l'esistenza ad un demolition derby dove siamo solo noi con la nostra macchina scassata a doverci scontrare con chi magari viaggia su un mezzo corazzato. Il testo si apre subito con un invettiva diretta a noi ascoltatori presi singolarmente, ai quali Max si rivolge energicamente dandoci del tu: "che cosa vuoi tu (ascoltatore)? Che cos'è che desideri più di tutto? Un demolition derby, quindi un'occasione in cui potrai finalmente farti valere e dimostrare al mondo che non sei lo sfigato che tutti pensano, ma bada bene, prima di scendere nell'arena con l'animo infiammato dalla sete di rivalsa sappi che in questo genere di sfide non c'è posto per il secondo classificato; o gareggi per vincere oppure è meglio che te ne stai a casa con la copertina addosso e le babbucce ai piedi. Si tratta di una lotta all'ultimo sangue e le regole sono spietate, vince solo il più forte ed astuto, senza alcun compromesso di sorta; la vita può essere dura e pericolosa alle volte ma in questo derby bisogna essere dei cannibali spietati, pronti ad azzannare alla gola anche l'avversario meno temibile ed innocuo che si possa incontrare. Nella pista tutti ti verranno addosso, si schianteranno contro di te, ma tu devi andare avanti con il piede sempre premuto sull'acceleratore, la tua macchina deve essere una meteora che disintegra gli altri veicoli, solo così potrai spazzarli via tutti e mantenere vivo il tuo orgoglio.
Conclusioni
Tirando le somme di questo disco, si può affermare che "Demolition Derby" dei Bad Bones è un album valido e consigliato per diversi aspetti: innanzitutto perchè è suonato da quattro ottimi musicisti che oltre ad avere le competenze espressamente tecniche (che, ricordiamolo, non sono tutto per fare della buona musica) possiedono anche una passione sincera per quello che fanno, ben radicata nelle loro anime dagli anni vissuti ascoltando dischi e vivendo la musica non come un semplice passatempo, ma come componente fondamentale delle loro esistenze. Inoltre, questo lavoro non è ipertecnico, pacchianamente "sperimentale" o definibile con altri aggettivi che purtroppo, al giorno d'oggi, sanno solo di aria fritta fatta e finita, ma è un disco sincero, che parla chiaro a chi lo ascolta fiero del proprio messaggio e volutamente noncurante di eventuali snobbismi dei tuttologi di turno: in queste undici tracce non c'è "nulla di nuovo", vale a dire che i rimandi ai gruppi citati nel corso della recensione sono marcati e balzano immediatamente all'orecchio, ma i Bad Bones vogliono questo e questo hanno creato. Il loro è un Hard Rock che, pur avendo una forte matrice personale data dall'entusiasmo e dall'energia dei quattro, vive, respira e si nutre grazie alla devozione con cui hanno consumato i dischi dei loro idoli. Del resto, i buoni musicisti fanno questo, esprimono ciò che sentono in prima persona per poi farci successivamente entrare in empatia con loro ed molto meglio un qualcosa di "già sentito" ma sincero piuttosto di qualcosa che tenta inutilmente di farsi strada in una serlva oscura di sonorità complesse nelle quali non si riesce nemmeno a compiere il primo passo. "Demolition Derby" ha quindi il pregio di farci vivere le emozioni dei suoi autori come se fossimo in sala prove con loro, senza fingere inutilmente di essere qualcosa che non si è, ed è proprio questa schietta sincerità che compensa la "poca innovazione" a livello puramente compositivo. Infine, un'altra caratteristica di pregio del lavoro è quella di possedere un'ottima post produzione: le varie fasi di lavoro, svoltesi al Domination Studio della Repubblica di San Marino e al Gianlupo's Lair Studio di Genova, sono state tutte calibrate al dettaglio per fare in modo che queste canzoni suonino pulite, nitide e di impatto una dopo l'altra. Se siete amanti dell'Hard Rock, questo lavoro dei Bad Bones fa sicuramente al caso vostro, se invece viaggiate su orizzonti diversi è più "intricati", il disco fa al caso vostro comunque, perchè in fondo un ritorno alle radici ogni tanto fa sempre bene ai propri ascolti.
2) Endless Road
3) Some Kind Of Blues
4) Stronger
5) Rambling Heart
6) Rusty Broken Song
7) Red Sun
8) A Perfect Alibi
9) Shoot You Down
10) The Race
11) Demolition Derby