AUDIOSLAVE
The Civilian Project
2001 - Bootleg
ANDREA ORTU
18/10/2017
Introduzione Recensione
I primi anni '90 hanno visto il rock stratificarsi e dividersi ulteriormente, rispetto alla già complessa canonizzazione e relativa etichettatura di quei sottogeneri - dal glam all'hair, dal death al thrash - che avevano dominato il decennio precedente. Da una parte, i Nirvana erano la punta di diamante di un movimento nuovo, vicino al sentire di una nuova generazione di ascoltatori; dall'altra, band come i Pantera ripartivano dalle radici degli 80's per poi riuscire a rinnovare, con carattere e potenza, un genere la cui componente prettamente commerciale andava oramai morendo. Intorno a queste dinamiche ruotava un universo complesso, che vedeva vecchie glorie reinventarsi e altre declinare, nuove scommesse incidere il proprio nome nella roccia e altre, tante di più, salire rapidamente fino in cima e altrettanto rapidamente scendere, cadendo inevitabilmente nel dimenticatoio. E poi naturalmente produttori, circuiti commerciali, labels, una critica sempre più spaesata e gli stessi fans, tutti al centro d'un ciclone artistico destinato a culminare agli inizi del nuovo millennio, fino al relativo manierismo d'età contemporanea. Alla base di tutta questa retorica, sulla quale sono stati scritti articoli e saggi in abbondanza, c'erano però gli stessi protagonisti di sempre: ragazzi pieni di problemi, di rabbia, di passione e con un sogno chiamato musica. Il resto è oziosa antropologia culturale. La band di cui parliamo viene da quel grande calderone, e in certa misura ne riunisce gli antipodi. Chiaro, non è stato certo come unire, per assurdo, i Judas Priest con i Linkin Park, ma il sodalizio che nacque dalle ceneri di Soundgarden e Rage Against the Machine, due gruppi di germinale importanza, ha comunque rappresentato uno dei più intriganti esperimenti del rock contemporaneo. Se si fosse abbandonata ogni prudenza e velleità commerciale - peraltro inutile, visti i nomi coinvolti - ne sarebbe potuto nascere qualcosa di veramente memorabile. Tutto ciò che c'è da sapere sugli Audioslave, vita, morte e miracoli, lo trovate nell'analisi del sottoscritto dei loro tre album in studio, oltre a quella dell magnifico concerto all'Avana, e senz'altro mi troverò a farne un sunto anche fra queste righe; stavolta, tuttavia, faremo un balzo indietro e andremo e conoscere il progetto da cui tutto ebbe inizio, sotto il provvisorio moniker chiamato The Civilian Project. Per farlo, voglio partire ancora una volta dalla mia personale esperienza, che mi vede un adolescente musicalmente acerbo e affamato di rock duro. Essendo dell'87, sono troppo giovane per aver potuto vivere determinate realtà musicali nel loro contesto: il grunge l'ho conosciuto che era morto e sepolto almeno quanto Kurt Cobain, e ho cominciato ad apprezzare i Rage Against the Machine ancora prima di sapere che s'erano già sciolti da un paio d'anni. Tuttavia, il peso di certa musica, sia a livello d'immaginario che economico, era ancora tale da indurre i media a riproporne a rotazione le opere principali. Nei miei primi anni di liceo, caratterizzati da una maniacale riscoperta dei classici del rock, ricordo come il grunge si fosse trasformato da movimento generazionale a fenomeno di nicchia, appannaggio di pochi alternativi e irriducibili delle camicie di flanella, e di come i protagonisti principali di quel genere si fossero trasformati invece in consolidata cultura popolare: tutti conoscevano i Nirvana, ma pochi erano interessati al loro messaggio. A me, che riscoprivo gruppi come Led Zeppelin e Deep Purple, ben più conformi alla mia solare personalità, il grunge piaceva fino a un certo punto. Una band in particolare, però, si ergeva anche oltre le disilluse grida di Cobain: erano i Soundgarden, sorretti da una voce intrinsecamente soul e oramai scomparsa, quella di Chris Cornell. Questi ragazzi di Seattle, ovviamente, avevano numerosi elementi in comune col resto del movimento grunge, ma la loro musica trasudava heavy metal nella sua più classica e dura accezione, e contrariamente a quanto avveniva altrove, il sarcasmo e l'energia del rock 'n roll erano di casa. Non ero un fan, ma non disdegnavo affatto ascoltare "Spoonman" o "Black Hole Sun", magari mentre mi accostavo alla pittura, e lo facevo senza minimamente preoccuparmi di sapere che i Soundgarden s'erano sciolti nel 1997. Per i Rage Against the Machine era tutta un'altra faccenda. Frequentavo il liceo artistico, un ambiente fisiologicamente orientato a sinistra sia da parte di docenti che di studenti, e la band di De La Rocha e Tom Morello era, per così dire... di casa. In generale, nonostante i RATM si fossero sciolti nel 2000, il gruppo godeva ancora di notevole prestigio grazie a diversi fattori: da una parte l'allora recente, enorme successo della saga di Matrix, la cui colonna sonora vedeva diversi brani della band, dall'altra, un paio d'anni dopo, l'avvento di un presidente repubblicano alla Casa Bianca, l'11 settembre e, di lì a poco, le guerre in Afghanistan e Iraq. Insomma, terreno fertile per le tematiche e l'energia del gruppo californiano. Ma i Rage Against erano anche molto teen friendly, se vogliamo, e non capendone i testi, né interessandomi più di tanto alle tematiche trattate, a me piacevano per la carica adrenalinica dei loro pezzi, per quel tiro insito nei giri di basso che mi faceva venir voglia di menare le mani. Abbiamo così due band apparentemente agli antipodi. I Soundgarden erano parte di un movimento caratterizzato da una poetica intimista, spesso nichilista e dall'estetica relativamente cupa, sebbene spesso carica di rabbia; i Rage Against the Machine erano energia e voglia di vivere che sposava la retorica politica, la lotta sociale e di classe, ma non inquadrateli come un gruppo di bianchi furbetti: De La Rocha è un ispanico, e Tom Morello un meticcio italo-keniota, loro, certe realtà ai margini, le conoscevano eccome. Le due band avevano tuttavia un'importantissima caratteristica in comune: entrambe avevano un sound intrinsecamente legato - e limitato - ad un preciso contesto storico e culturale. Il rap, utilizzato dai Rage Against the Machine come nuovo linguaggio di dissidenza, descritto dallo stesso Bruce Springsteen (non uno qualunque, insomma) come erede dello spirito del rock 'n roll nella sua accezione ribelle e sociale, era cambiato e divenuto altro. Non so se lo spartiacque sia stato Tupac, Dr. Dre o magari Eminem, giunto a canonizzare il rap tra i bianchi perfino in Italia, con "The Real Slim Shady" e una clamorosa partecipazione a Sanremo, fatto sta che oramai l'hip hop era parte del background popolare di tutti, un po' come i tatuaggi, e non rappresentava più alcuna dissidenza o ribellione, ma solo una tendenza alla moda. La band di Morello aveva così perso, in un certo senso, parte della sua potenza comunicativa, e lo stesso era avvenuto con i Soundgarden, le cui tematiche e sonorità erano ormai entrate nel DNA collettivo rimanendone appiattite, inglobate e infine snaturate, in un meccanismo inesorabile di assimilazione di massa. Fu così che Chris Cornell e i Rage Against the Machine, a esclusione di Zack De La Rocha, guardarono a quella che per dei musicisti ormai arrivati è l'opzione più credibile e sensata: rivedere la loro musica in una chiave più classicista, un hard rock ormai talmente radicato nel tessuto sociale da essere universale, slegato da un preciso contesto storico, capace di comunicare con la stessa intensità di oggi anche fra cent'anni. Fu su queste basi che nacquero gli Audioslave, oltre che per l'intercessione del famoso produttore della band, Rick Rubin, e delle labels coinvolte nella distribuzione, Epic Records e Interscope Records. I musicisti erano, per così dire, in stand by e pronti all'azione, mentre Chris Cornell usciva da un periodo di durissima riabilitazione dall'abuso di alcol e droga. Il cantante era appena entrato nella sua fase solista con "Euphoria Morning", ma l'idea di collaborare con musicisti del calibro del già citato Tom Morello, Brad Wilk e Tim Commerford, fu evidentemente troppo stimolante. I problemi, tuttavia, non mancarono fin dall'inizio. Nonostante la nuova band non avesse ancora ufficializzato un nome, i musicisti erano attesi alla settima edizione del celebre Ozzfest, dove avrebbero potuto non solo ufficializzare la collaborazione, ma anche farsi non poca pubblicità presso un pubblico adeguato. Purtroppo, invece, la loro partecipazione saltò in seguito all'abbandono prematuro di Chris Cornell per motivi ignoti, e solo dinamiche sconosciute riportarono, pochissimo tempo dopo, alla rinascita del progetto. Nonostante voci e testimonianze discordanti, pare che all'epoca il materiale collegato alla band si trovasse sotto il nome di "Civilian", o "The Civilian Project", e nel maggio del 2002, quasi sei mesi prima l'uscita dell'eponimo debutto degli Audioslave, veniva a galla - attraverso sharing illegale - un anticipo del loro repertorio, con tanto di raffazzonata copertina raffigurante la sagoma tremolante di un'aquila, e ben tredici pezzi, quasi tutti parte della scaletta del futuro debut della band. Le canzoni sono tutte una versione ancora acerba della loro futura incarnazione, differenti, pur attraverso pochi dettagli, nella composizione, nella registrazione e perfino in alcune strofe. Non ci sarebbe motivo di recensire quello che a conti fatti è solamente un bootleg, se non per un motivo ben preciso: se è vero che alcuni brani sono solo una bozza, è vero anche che altri, invece, hanno quella frescehzza che manca nella versione definitiva, la stessa che avrebbe potuto dare all'intero "progetto Audioslave" quella marcia in più per divenire veramente memorabile, e non l'esperimento tanto bello quanto dimenticabile che s'è dimostrato.
Save Yourself (Cochise)
Priva ancora del suo nome ufficiale, Cochise, titolo tratto da un famoso capo Apache e dalla sua lotta contro il governo americano, la traccia d'apertura viene indicata come "Save Yourself" (Salva Te Stesso), espressione presa direttamente dal suo catartico ritornello. L'inizio è meno caricato, rispetto a quello della canzone originale, si sente distintamente la batteria scandire il tempo e il batterista contare, mentre manca parte degli effetti sonori che definiscono l'atmosfera. Per il resto, l'insieme è pressoché identico al brano che tutti conosciamo. Il rumore di un motore acceso scandisce l'attesa fino all'incedere lento, quasi minaccioso della grancassa. Il ritmo sale in un crescendo che va ad includere prima il basso e poi la chitarra ritmica, dando forma ad un sottofondo che è chiaro preludio all'esplosione. Il boato avviene poco dopo, quando Morello fa la sua entrata trionfale sullo scenario, immortalata in quello che sarà il futuro videoclip della canzone in un turbinio di fuochi d'artificio. Le due chitarre, quella di Morello e quella ritmica di Chris Cornell, concorrono a creare un muro di suono intorno al basso di Commerford, sul quale pesa tutto l'immane tiro di un riff memorabile, degno simbolo di un messaggio chiarissimo: questi siamo i "nuovi noi", questi sono gli Audioslave. Il cantante lacera l'aria con note alte e roche, si ferma, sembra quasi voler sussurrare qualcosa all'orecchio dell'ascoltatore e poi riparte, urlando a perdifiato solo per tornare all'impostazione iniziale. Sono proprio gli stacchi e l'interpretazione del cantante, a definire la tensione del brano, mentre la strumentale prosegue imperterrita nel tiratissimo e iconico riff, pulito e rotondo, circolare quanto la canzone stessa: quattro minuti che sembrano due, per quanto filano via bene. La festa, infine, si chiude proprio come dovrebbe: con un'esplosione - sonora nel brano, visiva nel futuro video. Fra le righe, Cornell delinea una tematica dai contorni piuttosto personali. Alcuni hanno voluto vederci un collegamento col titolo della canzone, Cochise, forzando il senso delle liriche verso un significato di stampo politico, dando per scontato che gli Audioslave fossero una sorta di "Rage Against the Machine 2.0". In realtà il cantante sta parlando a coloro che, attraverso proprie azioni, tendono a distruggere loro stessi. Li ha osservati, e mentre "tossivano" lui ha "bevuto la vita"... ha "brindato alla salute" mentre loro "si uccidevano". L'impressione è che il testo celi un senso autobiografico nemmeno troppo velato, relativo al periodo di riabilitazione di Cornell da una vita di alcol e droghe. Lui "non è né un martire né un profeta", non fermerà la tua mano né ti farà la predica: go and salve yourself, "vai e salvati da solo"; questo il suo unico consiglio. Perché, e questo lo aggiungo io, nessun altro può salvarti da te stesso. Alla fine si preferì intitolare il pezzo così come lo conosciamo, come il leader degli Apache Chihuicahui che si distinse durante le guerre Apache, muovendo guerra contro la sopraffazione statunitense. Secondo Tom Morello, la canzone doveva suonare proprio come "Cochise the Avenger": indomito, senza paura di lanciarsi contro qualsiasi nemico con furia implacabile. Allo stesso modo, gli Audioslave si sarebbero ben presto lanciati contro le critiche e contro i fans più integralisti, intenzionati come l'antico capo indiano a ritagliarsi la loro fetta di territorio. Tuttavia, quel "vai e salva te stesso" rimmarrà il leitmotiv di una gran parte di repertorio della band, definendo fin da subito un background ben più intimista, che non politico.
I'll Wait There for You (Like a Stone)
Like a Stone (Come una Pietra) è un caposaldo degli Audioslave, forse il pezzo più bello di tutto il loro repertorio, e anche questa "bozza", proprio come quella di Cochise, ruba il titolo a una strofa del testo: I'll Wait There for You (Ti aspetterò lì). Compositivamente, il pezzo è identico alla versione definitiva, ma la resa complessiva è di gran lunga peggiore. La voce risalta fin troppo, rispetto alla strumentale, e l'andamento più ritmato rende poca giustizia all'atmosfera intimista della poetica. Like a Stone fu il secondo singolo estratto dall'album di debutto, dopo Cochise: una sapiente scelta di mercato che contrapponeva due brani completamente differenti tra loro. Il videoclip, in seguito, sarà diretto da Maiert Avis e sarà uno dei più belli dell'anno, evocativo e privo di fronzoli. Anche in questa versione primigenia è la chitarra di Morello, a delineare i primi passi e lo svolgimento del brano, ma lo fa su sonorità più deboli e in secondo piano. Il chitarrista insinua un sottofondo velatamente malinconico sul quale s'inserisce Chris Cornell, la cui voce si fa preponderante e vive in simbiosi con la ritmica del batterista, fin troppo secca e marcata. Il basso è meno incisivo, rispetto alla canzone cui siamo abituati, ma è comunque sui suoi giri che il brano scivola verso il ritornello. La performance di Cornell è sempre emozionante e straziata, sebbene di gran lunga più povera di sfumature, ma la catarsi è in parte rovinata da un assolo troppo acuto e squillante, dissonante fino al fastidio, in contrapposizione alla versione definitiva che, senza mezzi termini, è un capolavoro di scuola morelliana. Dopotutto, parliamo di un bootleg. Il pezzo ritorna a pesare sull'ugola del singer, ma la catarsi che sappiamo doverci aspettare è invece assente, tradita da una riproposizione fin troppo piatta del ritornello. Nondimeno, la natura profondamente soul della voce di Cornell è ancora affascinante, ancora capace di regalare emozioni perfino in virtù di un'evidente mancanza di raffinazione. E il testo, ancora una volta, rappresenta un valore aggiunto. Per lungo tempo le liriche del brano sono state oggetto di pettegolezzi: si diceva infatti che fossero dedicate alla morte di Layne Staley, cantante degli Alice in Chains, ma a tal riguardo Chris Cornell ha sempre affermato che Like a Stone è stata scritta ben prima della morte di Staley, aggiungendo, giustamente alterato, di non essere il tipo incline a mangiare sulle tragedie, dedicando a esse canzoni a pochi giorni di distanza. L'ex cantante dei Soundgarden spiega il testo in questo modo: la canzone riguarda il costante pensiero ad un possibile aldilà, alla speranza di una sua esistenza, pur differentemente rispetto al normale approccio delle religioni monoteiste: lavori duramente tutta la vita per essere una persona buona, attenta all'etica, generosa, e poi... vai all'inferno in ogni caso. Una matrice profondamente spirituale, in linea con molti altri lavori di Cornell, e che ormai riporta tristemente alla memoria quel pezzo dei Led Zeppelin con cui, pare, il cantante abbia voluto accomiatarsi dal mondo: In My Time of Dying, un capolavoro il cui protagonista, in punto di morte, rivive i suoi ricordi alla ricerca di quel che di buono è riuscito a fare. Timore della morte, solitudine, preghiera, smarrimento e speranza: tutto questo è Like a Stone, un'attesa quasi trepidante di un destino ineluttabile ed incerto, immobile, passiva "come una pietra".
Shadow On the Sun
La terza traccia è la settima dell'album di debutto, quella che sarà destinata a fare da perno centrale all'intera opera. In questo caso, naturalmente, è solamente messa a casaccio, non avendo questo "The Civilian Project" una struttura logica pensata per il mercato. Ad ogni modo, parliamo di Shadow On the Sun (Ombra sul Sole). Ecco, questo è un brano davvero interessante, capace di tirar fuori qualcosa... non so, uno "spirito" che la versione corretta, rivista e raffinata, in qualche modo ha finito per smarrire. Che sia una canzone rilevante è fuor di dubbio: la composizione e la poetica sono entrambe di ottimo livello, e non è un caso che Tom Morello ne abbia parafrasato il testo per salutare Chris Cornell, in un commovente post su Facebook. Di questo brano scrivevo, in conclusione alla mia analisi, che "è, in definitiva, un pezzo con qualche buona idea e un paio di punti deboli, fin troppo privo di pathos per una durata di oltre cinque minuti, e tuttavia innalzato oltre la mediocrità da un testo allegoricamente incisivo e drammatico, portato avanti se non con originalità, senz'altro con grande convinzione e mestiere". Ecco, lasciate i commenti positivi e levate quelli negativi, ed avrete la versione primordiale di Shawon On the Sun. L'unico elemento "raffazzonato" è dato da un rumore di fondo su di una voce molto definita, ancora eccessivamente in primo piano, ma più che normale, trattandosi di una bozza. Per il resto abbiamo una chitarra e un basso capaci di costruire una melodia assolutamente d'effetto, triste e oscura quanto l'immagine mortuaria suggerita dal titolo. La voce di Chris Cornell delinea la catarsi iniziale, ma solo come passaggio ideale al vero culmine dell'opera: un assolo di Morello classico e potente, echeggiante ed evocativo, nemmeno paragonabile a quel pretenzioso exploit sperimentale della versione definitiva, fastidiosamente simile al suono d'un elicottero o roba simile. Il chitarrista è inoltre seguito dalle grida furibonde del cantante, assolutamente sopra le righe, ben più aggressive delle urla controllate, visibilmente studiate che caratterizzeranno lo stile degli Audioslave. Il brano torna sui suoi binari, regalando ancora immersioni oscure ed evocative, avviandosi pian piano verso la terza e conclusiva catarsi, delineata da possenti fills di batteria e da un Chris Cornell totalmente fuori controllo, quasi oltre misura, ma - proprio per questo - di gran lunga più accattivante della controparte "ufficiale". Incredibile a dirsi, conoscendo il resto della discografia, non solo il pezzo si chiude con improvvisa prepotenza, ma con un'ossessiva ripetizione della parola "sun" talmente urlata e talmente roca da sembrare in growl, giuro. Quanto al testo, ha quel sapore intimamente cupo che contraddistingue gran parte dell'opera di Cornell. Le strofe sono alquanto criptiche, e come molte altre canzoni degli Audioslave, anche questa ha lasciato aperto il dibattito sul suo significato. Stavolta, l'ipotesi più diffusa verte sulla fine di una relazione, e dunque su un'incolmabile senso di vuoto. Esatto, quello che dovrebbe essere un polpettone romantico, Cornell lo trasforma in un affascinante mosaico di versi accattivanti, magnetici proprio nella misura in cui poco intellegibili. Tuttavia, alla lettura per così dire "romantica", può facilmente sovrapporsi una visione più individuale e soggettiva. Così, quando il cantante afferma di sapere perché "la gente muore da sola", possiamo trarne il profondo pessimismo riguardo l'intrinseca solitudine dell'essere umano, tornando alla lacerante paura del protagonista di Like a Stone. Oppure, ancora, quando egli accenna a "colui che vive sotto la sua pelle", abbiamo sia uno scorcio di un antico e profondissimo legame, sia il suggerimento di una più intima e personale dualità, di un Io irriconoscibile, del terrore e della desolazione di guardare a sé stessi e non riconoscersi. E' lui, Chris Cornell, ad essere "ombra sul sole", potentissima allegoria di un animo invaso da una morte che si contrappone alla vita tutt'intorno.
Turn to Gold
Il quarto brano della nostra scaletta non ufficiale è Turn to Gold (Trasformarsi in Oro), uno dei pochi pezzi del bootleg ad essere rimasto, infine, fuori dall'album ufficiale. Trattasi di un pezzo alquanto peculiare, forse scartato perché troppo palesemente legato alle precedenti esperienze dei musicisti. Il brano, infatti, appare come una fusione vagamente forzata di elementi caratteristici dei Rage Against the Machine, particolarmente evidenti nel potente groove del ritornello, ed altri tipici di Cornell, soprattutto riguardo la poetica. Sull'approccio prettamente canoro, invece, siamo ancora dalle parti della band di Morello, sebbene il vocalist non cerchi - saggiamente - di scimmiottare l'hip hop di De La Rocha. Potremmo definire Turn to Gold un groove metal tendente al funky rock più duro, ritmato ma caratterizzato dall'esigenza di momenti più morbidi, necessari alla forma didascalica del testo. La canzone trova il suo tiro in una certa ridondanza degli elementi più strettamente figli dei Rage Against the Machine, arrivando al culmine su di un assolo squillante e alieno, tipico dello stile di Morello ma carico di influenze più classiche, derivative dell'hard rock ottantiano e anni '90. Il chitarrista confeziona una catarsi niente male, sebbene non originalissima, sorretto egregiamente da un cantante che sa dosare toni quasi melliflui a grida roche e rabbiose. Il testo, tutt'oggi non facilissimo da reperire, fa ampio uso di allegorie e ripetizioni, catalogandosi fra le opere di Cornell di stampo più criptico, leggibili a seconda dell'umore o del carattere dell'ascoltatore. Alcune strofe tendono a indebolire l'ipotesi che possa trattarsi di un testo romantico, come potrebbe sembrare a un primo ascolto, suggerendo piuttosto che il cantante si stia rivolgendo, molto semplicemente, a un possibile ascoltatore del tutto neutro, forse brutto, senz'altro insicuro. A quest'indefinita figura, ideale contenitore di una certa fetta di mercato, Cornell augura di poter trasformare tutte le sue visioni - o sogni - in oro, sprecandosi in allegorie e figure retoriche per esprimere più o meno lo stesso concetto. Tra l'altro, non è chiaro che se vi sia un certo sarcasmo di fondo, elemento che non mancava dai testi dei Soundgarden. Insomma, un testo un po' deboluccio, ma non così malvagio se inquadrato nella sua particolare poetica, leggibile in chiave abbastanza soggettiva o non leggibile affatto, ideale più come sottofondo, che non come soggetto in primo piano. Questa relativa leggerezza, slegata dall'univoca personalità che lega sottilmente tutte le tracce del primo album, e un sound ancora troppo simile alle pregresse esperienze, hanno evidentemente valso la scelta di tenere questa Turn to Gold fuori dal disco ufficiale; comprensibile, in fondo, sebbene sia più incisiva e interessante di molti brani presenti sul debut.
Live in Silence (Bring 'Em Back Alive)
Tutta la vena settantiana della band si fa più che evidente in Bring 'Em Back Alive, qui semplicemente intitolata Live in Silence (Vivere in Silenzio). L'eredità dei Black Sabbath si fa preponderante nella baritona possanza di basso e batteria, il cui passo rabbioso e guardingo costringe il cantante a ripercorrere le stesse soluzioni di Ozzy. Pian piano l'insieme si arricchisce di sonorità ampiamente derivative, prima ottantiane, poi funky, groove e infine sperimentali, su di un culmine chitarristico assolutamente morelliano, pericolosamente sul filo dell'insostenibile dissonanza ma proprio per questo affascinante, intrigante e catartico. L'insieme, in realtà, non è molto diverso dalla versione ufficiale, ma sono poche e sostanziali sfumature, a fare la differenza. E che differenza. Citando nuovamente me stesso, di "Bring 'Em Back Alive" scrivevo che "è dunque un brano potenzialmente sopra le righe, sia musicalmente che liricamente, e tuttavia gli manca qualcosa, quel colpo di coda che potrebbe innalzare l'intera opera e che invece viene a mancare, lasciando una canzone complessivamente buona su sponde derivative e null'altro". Ecco, la versione "brutta" della traccia esprime proprio quel colpo di coda che manca alla versione ufficiale. Il groove alla base è pressoché identico ma più fresco, secco e tagliente, nella sua grezza natura, mentre il cantante esce spesso e volentieri dalle righe, cosa che nella traccia ufficiale, anzi, nell'intera discografia ufficiale, non fa praticamente mai. Infine, Tom Morello si esibisce, è vero, in un assolo dei suoi, ma riuscendo a dosare il suo masturbatorio edonismo, regalando così quelle sfumature e quelle emozioni che mancano all'assolo ufficiale, esaltante e graffiante ma freddo, un mero esercizio di tecnica e di stile. Quanto al testo, esso non abbassa di un millimetro l'intensità e la qualità dell'opera. Intelligenti allegorie e riferimenti culturali, come quello al mito di Icaro, descrivono la crisi profondamente spirituale di un uomo, forse religiosa, o forse più semplicemente ideologica, perdita dell'innocenza che diviene pessimistica sfiducia nell'umano. Soprattutto, Chris Cornell descrive la disillusione che viene attraverso la vita stessa, la presa di coscienza di meccaniche crudeli che si trasforma, paradossalmente, nella ricerca dell'incoscienza, dell'obnubilazione, unica alternativa all'idea perenne della morte e al costante, ripetitivo pensiero espresso dal singer: io sono un virus. Non è semplicemente di difficile interpretazione, la poetica di questo brano, ma anche terribilmente intima, frutto del più personale e radicato disagio dello scomparso cantante. A chi si riferisce il titolo, chi sono coloro da "riportare in vita", rimane un mistero; forse sono i lebbrosi di biblica memoria cui fanno riferimento alcune strofe, o forse le aspettative, i sogni, le illusioni e le antiche certezze che la vita reale, con la sua terribile presa di coscienza, ci toglie per sempre. Un gioiellino, questa traccia, che nella sua versione grezza riacquista la freschezza perduta con la seguente patinatura.
Never Fear (Exploder)
Sul debutto ufficiale, Exploder aveva il compito di offrire un certo carico di adrenalina, specialmente dopo una carrellata di tracce più intime e riflessive. Considerata la semplicità intrinseca di un brano come questo, peraltro relativamente breve, non sorprende più di tanto che la versione definitiva sia pressoché identica alla bozza in esame, chiamata Never Fear (Mai Paura). L'unica differenza è che sull'album vero e proprio, questa canzone ha un senso strettamente legato alla fisiologia dell'intera opera, mentre qui è buttata a casaccio. Un sound di chitarra minimale ed ossessivo, unito a una ritmica calma e possente, traccia le basi di un percorso infuocato dalla voce di Cornell prima, e da un ruggente riff di basso poi. Come ogni buon pezzo di sano rock veramente duro, Never Fear ripone la sua essenza sulla sinergia del comparto ritmico. La premiata ditta "Commerford&Wilk" impacchetta a dovere tutta l'energia di cui il brano ha bisogno, relegando - ma si fa per dire - la performanche del cantante nel ritornello a mero sfondo, e la pur convincente chitarra di Morello a puro e semplice contorno. Nonostante tutto però, la struttura perfettamente quadrata della composizione, nella sua semplicità, regala il giusto equilibrio alla canzone, dando sia a Cornell che a Morello lo spazio che meritano, e di cui spesso e volentieri tendono anche ad abusare. Il respiro del brano, semplice e regolare, rende abbastanza facile alternare tiro e catarsi, lasciando alla creatività dei due principali frontman le pur prevedibili divagazioni dell'opera. Uno schema che raggiunge il suo culmine sul finale, dando definitivamente senso al titolo ufficiale della canzone, traducibile come "detonatore". Le differenze tra le due versioni della traccia, puramente marginali, risiedono in trascurabili sfumature vocali, e in un sound di basso curiosamente più pulito nella bozza, molto vagamente tendente al funk. Quel che incuriosisce, di un pezzo godibile ma in fondo banale e riempitivo, è l'inaspettato spessore delle liriche. Chris Cornell fa magistralmente uso di allegorie e figure retoriche per descrivere una tematica dai contorni esistenziali, individualista ma d'ampio respiro, facilmente assimilabile da chiunque possieda la minima introspezione necessaria. Il protagonista del brano osserva un uomo intrappolato dalle sue stesse catene, "incarcerato benché innocente". La quotidianità che in qualche modo imprigiona tutti noi, con i suoi schemi e le sue regole sociali, infonde apparentemente tanto saggezza quanto scarsità di vedute: Se sei libero non puoi vedere le catene. Se la tua mente è sgombera, non potrai mai lasciarti cadere. Se hai ragione non avrai mai paura dell'errore. Se la tua mente non è lucida, non avrai mai paura di nulla. La narrazione prosegue attraverso l'uso delle consuete figure retoriche, dipingendo un'umanità che in vari modi si rende artefice della sua stessa sofferenza, dei suoi insani circoli viziosi. Ma com'è ovvio, quello di Chris Cornell è come sempre un racconto autobiografico, purtroppo più reale oggi di quanto non fosse ieri: C'era un uomo che aveva una faccia molto rassomigliante la mia. L'ho visto nello specchio e l'ho seguito per la strada. E quando si è girato, gli ho sparato in testa. In seguito, realizzai di aver ucciso me stesso.
Get Yourself a Car (Getaway Car)
Il pezzo ufficiale si chiama Getaway Car, termine "poliziesco" che indica un'automobile necessaria alla fuga, mentre la nostra versione grezza s'intitola semplicemente Get Yourself a Car, ossia "procurati un'automobile". Stavolta l'analisi si fa più complicata: il pezzo è stupendo in entrambe le versioni, ma in modi differenti. O meglio, per esser più precisi, attraverso differenti punti di forza. Dal punto di vista compositivo, ad ogni modo, le due canzoni sono pressoché identiche, come pure il background di vecchia scuola blues. Sull'album di debutto vero e proprio, infatti, Getaway Car è solo l'ultima di una serie di tracce a sfondo "automobilistico", tema ricorrente che il genere ha riempito, in decenni di uso e abuso, di una moltitudine di metafore e chiavi di lettura. In questo caso l'automobile diviene simbolo e metafora dell'umana riscoperta, di libertà, di una fuga dalla società che è soprattutto fuga da se stessi. Una base concettuale che richiede particolare attenzione e ricercatezza stilistica, trovandone in abbondanza nel bellissimo lavoro di Morello, il quale - per una volta - abbandona ogni antitetica velleità sperimentale per concentrarsi sulla reale personalità dell'opera. Considerata la delicatezza di un background così radicato, inoltre, anche la sezione ritmica fa un lavoro eccellente, dimostrandosi capace di dosare estro e sintesi nella misura più adeguata. Chris Cornell ci mette la giusta dose di mestiere, senza necessariamente dare i meglio perché, dopotutto, non ce n'è nemmeno bisogno: è lo stesso brano a tirare fuori il meglio dal cantante. Questa canzone mette in scena sonorità fortemente derivative di un certo tipo di scuola blues, un'impostazione classica nell'ispirazione ma moderna nella ricerca sonora, assolutamente perfetta a mettere in luce l'essenza profondamente soul della voce di Cornell. Proprio come tanti altri brani del debut ufficiale anche questa canzone, in entrambe le sue versioni, appare priva di sorprese o "colpi di coda", solo che stavolta non è un problema, anzi: tutto quello di cui ha bisogno un pezzo del genere è solidità, rispetto formale e un'atmosfera semplice ma emotivamente penetrante, qualità che di certo non mancano né a Getaway Car, né alla sua versione "grezza". L'anima del brano risiede negli essenziali accordi del chitarrista, semplici ma d'effetto, mentre il resto è lasciato al singer. Come da copione, alle parti più malinconiche ed acustiche si contrappone l'esecuzione di Chris Cornell, in un'efficace contrapposizione che definisce tutta la morbida tensione di quest'opera. Anche se il brano offre particolare rilievo alla naturale predisposizione blues del cantante, intrinsecamente soul e devota a decenni di musica nera, è tuttavia il chitarrista a delineare ogni elemento di forza. A predominare l'ascolto rimane infatti la stupenda atmosfera creata da Morello, culminante in una prevedibile quanto paradossalmente inattesa esibizione solista, breve ma splendida, nella sia classicità, quadrata e priva di inutili, fastidiosi fronzoli elettronici. Il finale è lasciato a un Cornell improvvisamente riflessivo, insieme carico di energia e malinconia, in perfetta simbiosi con il significante di un testo leggero ma non superficiale, improntato su due diverse chiavi di lettura: una classica, cara al genere di riferimento, l'altra più introspettiva, tipica dello stile del cantante. Così, la "fuga" in auto è sia la determinazione a fuggire relazioni inique e stantie, sia personale ricerca di una propria strada, un approccio al mondo unico e personale. Allo stesso modo, l'allontanamento da determinate dinamiche di coppia, e da un'idea di donna "fatale" tipica della scuola blues, diviene allontanamento dagli aspetti più reconditi e inquietanti del proprio animo; una fuga tanto liberatoria quanto, presto o tardi, completamente inutile. Ora, per me Gateway Car è un gioiellino già nella versione che tutti conosciamo, quella "ufficiale", ma questa "Get Yourself a Car" si fa forte di un'interpretazione di Cornell più sentita, emozionante e sopra le righe. Di contro, la versione definitiva possiede un'intrigante sottofondo delineato da elementi atmosferici, figli di quella patinatura che rovina in parte l'intera discografia degli Audioslave, è vero, ma assolutamente perfetta per questo caso specifico. L'assolo di Morello, curiosamente, è invece quasi uguale in entrambe le due versioni. Personalmente rimango fedele alla canzone dell'album ufficiale, ma la mia è una preferenza puramente soggettiva.
I Am the Highway
Dopo Gateway Car, ecco un altro brano caratterizzato da un background che fa sua la metafora della strada, dell'automobile, e più in generale del viaggio: I Am the Highway (Io Sono l'Autostrada). È abbastanza facile intuire quando un brano è ancora nella sua fase abbozzata, come nel caso di "Cochise", e quando invece è stato già sviluppato quasi a livello definitivo, come in questo caso. La versione di "I Am the Highway" presente sul bootleg è praticamente identica a quella ufficiale, salvo poche e trascurabilissime sfumature, caratteristica che d'altra parte non modifica di una virgola l'opera, né in meglio né in peggio, giacché di tale brano scrivevo che "è uno di quelli capaci d'innalzarsi, almeno in certa misura, oltre la mancanza di pathos che penalizza l'intero album". Tecnicamente siamo di fronte a una ballatona rock vecchio stile, classicheggiante anche in quel romanticismo on the road evidente fin dal titolo stesso, ma, di fatto, la canzone vive d'un respiro più ampio e naturalmente assai intimista, un'eredità dei Soundgarden che ben si sposa con in riferimenti storici degli Audioslave. Concettualmente, infatti, la traccia lega fortemente con altre dello stesso disco, usando il viaggio come metafora non solo della vita, come sarebbe ovvio, ma anche e soprattutto come fuga da una relazione avvelenata, da un amore la cui fine è dannazione e liberazione al tempo stesso. Tom Morello ben interpreta il significato della poetica, aprendo il brano attraverso distorsioni dolci e cupe, simili al suono di un organo. Poi, un riff quasi acustico e un Brad Wilk decisamente sulle righe, più morbido del solito, aprono alla performance del cantante, soffice e velata di malinconia, ma caratterizzata da una netta sfumatura di rivalsa; parola chiave dell'intera poetica di Cornell. In tal modo il singer definisce la volontà di andare oltre un amore a senso unico, di rifuggire una donna dai tratti poetici tipici del blues, e lo fa attraverso metafore che richiamano tutti gli elementi topici dell'immaginario "On the road": la strada, l'automobile, il percorso insieme fisico ed umano. Io sono le tue rombanti ruote. Io sono l'autostrada. Io sono il tuo tappeto rosso. Io sono il cielo. Tim Commerford è il valore aggiunto dietro l'intima interpretazione di Morello, dando sempre più corpo e incisività al sound della canzone, ma riuscendo a mantenere l'atmosfera cadenzata e malinconica. Amici e bugiardi non mi attendono. Io faccio tutto da solo. Faccio milioni di miglia, sotto i miei tacchi. Ma (mi sento) ancora troppo vicino a te. Ecco che, ancora una volta, Cornell descrive una tematica a sfondo romantico piegandola alle sue esigenze più intimiste, intrinsecamente individualiste. Il viaggio e l'autostrada divengono così l'allegoria di una grande autodeterminazione, un percorso già in parte tracciato fra le righe di Cochise con quel go and save yourself, quell'esortazione a prendere in mano la propria vita senza incolpare gli altri degli errori fatti, facendo prima di tutto affidamento su se stessi. Il corpo poetico della canzone si esaurisce tutto qui, il resto è lasciato alla riproposizione del ritornello e, soprattutto, all'abilità dei musicisti. Morello e il bassista costruiscono una sinergia da cui prende forma il respiro del brano, descrivendo abilmente la contrapposizione fra morbidezza e tensione emotiva. Anche la catarsi finale, tratteggiata da appassionanti sonorità acustiche, è identica in entrambe le versioni del brano. Ad ogni modo, a determinare il buon funzionamento di un quadro generale fin troppo privo di scossoni, è come sempre la voce di Chris Cornell. Il cantante non pare nemmeno particolarmente preso dalla narrazione, in entrambe le versioni in esame, e tuttavia vuoi il mestiere, vuoi quella voce soul così adatta al contesto, ancora una volta il culmine emotivo è affidato alla sua interpretazione. Forse, un'impostazione decisa a tavolino fin dalla formazione degli Audioslave.
The Last Remaining Light
Per me questa canzone, la nona della nostra scaletta improvvisata e casuale, è un gioiello d'intensità ed interpretazione, forse l'unico vero Capolavoro degli Audioslave: parliamo di The Last Remaining Light (L'ultima Luce Rimasta). C'è poco da dire: la versione definitiva è già così perfetta che questa - peraltro quasi completa e molto simile al suo alter ego ufficiale - non potrebbe aggiungere nulla di positivo. Semmai, la mancanza di rifiniture fa sì che si perda non tanto l'atmosfera soffusa, di cui il brano si nutre, ma l'incisività che ne rende intrigante lo spessore emotivo per ben cinque minuti di durata. L'esecuzione "perfetta e incredibilmente sentita del cantante", come la descrivevo sulla recensione del debut, è qui altrettanto professionale ma meno marcata, mentre la "bravura dei musicisti" resta inalterata, anzi, sebbene non sempre al servizio della composizione, Brad Wilk sforna un paio di trucchetti sopra le righe degni di nota. Gran parte dei pregi del brano rimangono comunque inalterati: l'intera opera è valorizzata da un sound essenziale e pulito, privo di futili orpelli, e tuttavia risulta ricca di finezze ed eccellenti improvvisazioni. Una piacevole ricercatezza resa completa dallo spessore del testo, splendida e ideale chiusura di quel filo conduttore che lega, concettualmente parlando, quasi tutte le canzoni firmate da Cornell. In realtà, tutto il brano trasuda dell'eredità dei Soundgarden, anche restando conforme ad un'impostazione di base assolutamente classicista. La traccia si apre con acuti colpi di plettro da parte di Morello, abilmente contrapposti a un giro di basso grave e riflessivo; un insieme che delinea subito un'atmosfera in parte solenne, in parte intima e personale. La voce di Cornell si aggiunge ben presto al quadro, impostando così una melodia quasi funerea, mortuaria, senz'altro terribilmente malinconica. Unico elemento luminoso, come a rappresentare quell'ultima luce di cui parla il titolo, è sempre e comunque lo squillante sound del chitarrista, alle cui sonorità piacevolmente minimali si aggiungono, man mano, effetti così leggeri da sembrare quasi invisibili, ma allo stesso tempo enormemente incisivi sul risultato complessivo. Variazioni espressive ed interpretative da parte di Cornell definiscono le sensazioni del brano e della sua narrazione, sebbene nella versione "grezza" in esame, tale peculiarità sia leggermente più piatta rispetto a quella ufficiale, mentre mancano quelle sonorità fiabesche e sognanti che completano il quadro sulla traccia definitiva. Un risultato complessivo comunque più che riuscito, in cui ogni elemento trova la sua catarsi nell'assolo di Morello: classicissimo, ispirato e totalmente al servizio della narrazione, pressoché identico in entrambe le versioni del brano. Chris Cornell, sebbene meno incisivo rispetto a come sarà sulla versione definitiva, riesce comunque a far alzare più di un pelo sull'avambraccio, tanto la sua voce è penetrante e catartica, andando a chiudere l'opera in un culmine canoro ed emotivo solenne, disperato e rabbioso, fino a quell'eco finale che sancirà la conclusione della prima fatica degli Audioslave. Riguardo la poetica di The Last Remaining Light, è possibile affermare che nonostante le tante strofe criptiche, questo è uno dei testi più intimi, forti e oscuri del cantante, oggi molto più che allora. Il cantante delinea figure retoriche ed immagini evocative, delineando un fascino dato più dal suono che dal significante delle parole, aggirando così la difficile interpretazione del testo. Tuttavia, il significato di fondo rimane chiaro: siamo ancora di fronte all'uomo terrorizzato all'idea della morte protagonista di Like a Stone, al moribondo di quel vecchio gospel interpretato dai Led Zeppelin e citato da Cornell prima del suicidio. Su Chris Cornell si sono da sempre sprecate ipotesi sulla sua supposta fede cristiana, in barba a tutte le dichiarazioni del cantante riguardo l'aspetto religioso. Non di certo una stranezza, perché al di là di quale che fosse la spiritualità del vocalist, il background cristiano è un qualcosa che chiunque sia nato in un paese occidentale non più permettersi d'ignorare. Ma Cornell non si rivolge a santi o vergini, e nemmeno a Dio o a suo figlio; egli si rivolge a se stesso, sempre e comunque, al suo terrore della morte che è anche fatale attrazione, alla paura di una fine che rende vane e inutili le azioni compiute in vita, buone o cattive che siano. Siamo oltre Like a Stone, oltre l'attesa, ma all'inevitabile appuntamento con la morte e la sua domanda più terribile: la mia vita ha avuto un senso? The Last Remaining Light può essere letta come un malinconico inno alla speranza, un invito a credere non già nell'aldilà dopo la morte, come ritenuto da molti, ma soprattutto nel valore di se stessi, del proprio lavoro e delle proprie azioni; in qualsiasi cosa possa infondere significato alla propria esistenza a questo mondo. Un invito, tuttavia, che suona come una guerra persa in partenza, così come il senno di poi ha dato macabra conferma.
Light My Way
Light My Way (Illumina la Mia Strada) è praticamente uguale in entrambe le sue versioni, quella del bootleg e quella definitiva. La differenza più grossa sta all'inizio, delineato in tutte e due le canzoni da suoni elettronici vagamente spaziali, alieni e dissonanti. Stavolta ho dovuto gettare via le cuffie, tanto il suono era oltremisura, stridente come mille gessetti sulla lavagna del mio cervello. E non è un complimento. L'altra differenza più o meno evidente è il basso, qui leggermente più ponderato, sebbene ugualmente possente. Il resto sono mere sfumature, il cui peso finisce però per fare la differenza sul finale. Light My Way è una traccia insieme dolce e rabbiosa, tendente all'ennesima ode all'autodeterminazione che caratterizza il primo periodo degli Audioslave. Infatti, benché il brano si apra con arpeggi di chitarra ritmati da un leggero campanaccio, quel riff di basso presente fin dal principio e inizialmente solo subliminale esplode, in seguito, assieme agli accorati appelli del cantante, lasciando pieno spazio ad un solido e aggressivo muro sonoro. Fra le righe, Cornell invoca la "luce" nell'aiuto e nella guida di un'altra persona, e qui esistono due interpretazioni: quella spirituale e religiosa e quella, più banalmente, romantica. Da una parte, infatti, la canzone è leggibile come l'appello di un uomo alla persona amata, una classica "donna angelicata" cui far carico delle proprie sofferenza. Dall'altra, tuttavia, la poetica del singer assume connotati più astratti e individualisti, assumendo i connotati di una vera e propria preghiera e collocandosi, di conseguenza, in quella sofferta poetica spiritualista che ha delineato l'opera di Cornell fin dai suoi esordi. D'altronde tuttavia, nel periodo in cui è stata composta questa canzone, il matrimonio fra il cantante e il suo ex manager, Susan Silver, arrivava alla sua sofferta conclusione; di contro, la sua relazione con Vicky Karayiannis era già alle porte, sebbene non ancora presente o ufficializzata. Inizialmente, quando scrissi di questo pezzo per la prima volta, pensai che la spiegazione "intimista" fosse quella più probabile, oggi, invece, penso piuttosto che sia un racconto autobiografico che raccoglie insieme sia la nuova relazione di Cornell, sia elementi topici della poetica e della spiritualità del singer. D'altronde, se c'è un elemento che traspare dal secondo album degli Audioslave, è come Karayiannis abbia rappresentato un faro, nella vita di Chris Cornell. La carica rabbiosa del brano, però, è ancora una volta autodeterminazione pura, ancora una volta il nostro sacrosanto, onnipresente leitmotiv: go and save yourself. Di Light My Way scrivevo che, "nonostante il riff efficace e la poetica di un certo livello, la canzone appare quasi del tutto trascurabile, dimenticabile... cinque minuti buoni più che orecchiabili che passano come fossero due, ma senza lasciare il segno, senza proporre alcun guizzo che non sia un annunciatissimo solo di chitarra. L'exploit di Morello è bello, per carità, e senz'altro stilisticamente unico, ma non salva la monotonia di un pezzo che alterna la tensione fra il solito groove di basso, e le catarsi vocali di un Cornell all'apparenza nemmeno particolarmente ispirato". Ecco, tutto questo è in parte vero anche stavolta, solo che se qui manca anche il bel guizzo di Morello, abbiamo però un Cornell enormemente più ispirato, la cui performance da sola innalza di un paio di tacche l'asticella qualitativa. Anche la performance dei musicisti appare a tratti più incisiva, anche se potrebbe essere solo una sensazione, dettata magari da una più grezza registrazione. In generale pezzo non memorabile, ma decisamente godibile.
We Got the Better Bomb
Questa non è una canzone degli Audioslave, questa è una canzone dei Rage Against the Machine con Chris Cornell alla voce, e suppongo sia il principale motivo per cui We Got the Better Bomb sia rimasta, infine, al di fuori della scaletta ufficiale. Il titolo è traducibile letteralmente in "Abbiamo la Bomba Migliore", sebbene in giro si trovi anche come "We Got the Whip", ovvero "Abbiamo la Frusta". Immaginate di prendere un groove elettrizzante di quelli dei RATM, di rallentarlo e d'incollarci la voce di un brano a caso di Cornell, e otterrete questa canzone: il risultato è abbastanza insignificante, ma non sgradevole, ed è comunque un peccato perché, dopotutto, alcuni elementi del brano sono validi e intriganti, se presi singolarmente. Uno di questi è il riff portante di basso, e in generale l'intera performance di Commerford, con qualche semplice ma solida intuizione da parte del batterista. Insomma, l'anima dei Rage Against the Machine si comporta bene, è il resto a suonare o forzato, o fuori luogo. Cornell è costretto a forzare la sua voce su una ritmica e un tiro che funzionerebbero da Dio con un Zack De La Rocha, o un Jonathan Davis, o un Mike Shinoda, o un qualsivoglia artista legato al nu metal o all'hip hop, ma non con l'ex cantante dei Soundgarden, mentre Morello sembra sempre sottotono, persino inutile, scialbo anche al momento dell'assolo finale, né classico, né morelliano; né carne, né pesce. Inutile aggiungere che se questo brano fosse stato perfezionato, allo stesso modo di tante altre tracce sulla nostra scaletta, sarebbe divenuto tutta un'altra cosa? non so, magari l'assolo sarebbe stato fico, magari il cantante si sarebbe immedesimato o la base ritmica avrebbe ripiegato leggermente su qualcosa di più consono, ma anche così, "We Got the Perfect Bomb" sarebbe rimasta esattamente come già descritta: gradevole e insignificante. Anche il testo è impersonale e derivativo: una smargiassata nello stile di certe correnti hip hop, non dissimile da tanto materiale degli stessi RATM, sebbene non manchi della vena più vanitosa di Cornell, capace qualche volta di abbandonare intimismo e quant'altro per abbandonarsi, con risultanti altalenanti, in opere auto-celebrative come questa. Di base, il singer si rivolge a un potenziale ascoltatore descrivendone - con pochissime strofe - la vita basata su ipocrisia e accettazione, mettendo in mezzo al discorso vaghissimi riferimenti politici e sociali, lasciando intendere che l'interlocutore è l'antitesi di ciò che loro, la band, vorrebbero rappresentare. Gran parte del brano è riproposizione delle stesse strofe, volte a celebrare con vanità e sarcasmo il nuovo super gruppo: dobbiamo vincere, abbiamo una bomba migliore, dobbiamo vincere, abbiamo La bomba migliore, e ancora: we've got balls man, "abbiamo le palle, amico". Preso sul lato politico, sparato con tutte queste reminescenze dei Rage Against the Machine, il brano finisce per vaporizzarsi in un impossibile confronto con la poetica di De La Rocha, mentre sul piano auto-celebrativo funzionerebbe se durasse un paio di minuti, anziché i canonici quattro su cui gli Audioslave decisero di forzare la loro intera discografia. Alla fine, la canzone non corre rischi, senza sbilanciarsi troppo nemmeno sul versante della smargiasseria. Un brano anemico, rimasto fortunatamente e comprensibilmente fuori dai futuri lavori degli Audioslave.
Gasoline
Ennesimo brano dalle evidenti allegorie automobilistiche, Gasoline indica non a caso, in gergo americano, la comune benzina. Quello ufficiale è un pezzo per certi versi riempitivo, ma anche potente e soddisfacente, e la "bozza" non fa eccezione, essendo pressoché identica all'originale se non per pochi, marginali elementi di registrazione. Principalmente, la voce di Cornell è più pulita e in evidenza, elemento che ne valorizza maggiormente lo spessore in certi casi, ma che ne indebolisce la potenza in altri. Anche la componente strumentale appare generalmente più ricca di sfumature, ma non è un vantaggio, e già da un primo ascolto comparato s'intuisce il valore della sintesi apportata, in seguito, sulla versione definitiva di Gasoline. Per il resto il brano è identico a quello che conosciamo, sia a livello compositivo che di singole performance. Gasoline fu rilasciato come pezzo per le radio quasi due anni dopo l'uscita del disco, a riprova che più che la spettacolarità, le qualità di questa canzone sono solidità e facile godibilità. Il modus operandi è quello di sempre: un poderoso riff sui cui bassi fa leva l'intera catarsi dell'opera. Tuttavia, Gasoline si distingue per la tendenza ad inspessire e pompare le sonorità di riff e ritornello, in modo da esaltare le morbidissime parti vocali di Cornell. Una trovata semplicistica e finanche un po' ruffiana, eppure tutto sommato di comprovato effetto, e che tende peraltro a valorizzare - finalmente - le qualità del batterista Brad Wilk, capace di esprimere sia un tiro d'enorme potenza, sia un respiro cadenzato e pregno di tensione, ideale a far esplodere la canzone nei suoi momenti culminanti. Ad impreziosire l'opera pensa Morello, che in un pezzo relativamente debole sul piano della creatività fa uso, saggiamente e con oculata moderazione, di tutti quei trucchetti elettrici che hanno reso famosa la sua chitarra, lavorando in perfetta simbiosi con il compagno alle pelli. Chris Cornell resta nei canoni di una dualità canora prevedibile ma funzionale all'insieme, delineando fra le righe il desiderio d'evasione dell'uomo comune; di colui che, intrappolato fra le quattro mura di una "casa stregata", vorrebbe uscire e farsi una liberatoria corsa in automobile. Volendo forzare la lettura del testo sul piano biografico, non è difficile immaginare il legame fra alcune strofe ed il passato del cantante, caratterizzato da interminabili giornate passate chiuso in casa, preda di una depressione che - come ormai ben sappiamo - non l'avrebbe mai abbandonato. Tuttavia, il rigetto per la monotonia della quotidianità, l'appello per una liberazione che definirei spirituale, così come l'uso dell'automobile come forma e metafora di tale liberazione, son - e sono sempre state - caratteristiche di quell'hard rock che gli Audioslave celebrano con devozione quasi eccessiva, a tratti perfino barocca. Il risultato finale è Gasoline, un pezzo che ricalca stilemi prevedibili ed abusati, ma capace comunque di esaltare a dovere l'ascoltatore e magari perché no, farlo uscire di casa a farsi una bella e liberatoria corsa in macchina.
Show Me How to Live
Non è male chiudere il disco con un pezzo come questo, visto l'intrinseco spessore qualitativo, poetico e musicale di Show Me How to Live (Mostrami Come Vivere). Parliamo di un brano simbolo del primo album della band, e le due versioni, quella ufficiale e quella in esame, seppure simili presentano differenze sostanziali. La maggior pulizia e granitica potenza di quella definitiva, contro le sfumature e i timidi tentativi d'osare di più di questa bozza. Ma andiamo con ordine. Il titolo dell'opera mi riporta alla mente un pezzo dei Soundgarden, "The Day I Tried to Live", e in un certo qual modo ne riporta a galla tematiche e sensazioni. Se la canzone della band di Seattle parlava dell'esigenza di uscire dal proprio guscio, dal proprio torpore fisico e soprattutto intellettuale, Show Me How To Live mette del tutto a nudo l'anima del suo compositore, andando a ricercare il senso e il modo migliore di stare al mondo su un piano più astratto, quasi trascendentale. Il bellissimo videoclip, diretto dall'A.V. Club e filmato nei pressi di Los Angeles, California, mette in scena lo spirito libertario dell'America on the road in puro stile anni '70, proprio come il sound degli Audioslave. I Nostri sfrecciano su strade senza fine, sotto il sole cocente, su un'automobile guidata da un Chris Cornell tanto abbronzato quanto risoluto. Non un semplice mezzo di trasporto, ma una replica della Dodge Challenger 1970 del film "Vanishing Point", un vero gioiellino su quattro ruote, simbolo della più classica american way. Gare clandestine, rocamboleschi inseguimenti e romantiche pause di contemplazione, sempre con la polizia alle calcagna, sempiterno braccio armato di una società che non ammette spiriti liberi. Poi, al termine, l'esplosione finale in quel suicidio collettivo che oggi tende a un sapore amaro, ma che quindici anni fa significava che "saper vivere", come dice il titolo della canzone, significa probabilmente anche saper morire. L'andazzo generale è inizialmente molto simile a quello che conosciamo, salvo la voce fin troppo in primo piano di Cornell, elemento tipico di una registrazione ancora in fase embrionale. Lo schema è simile a quello di Cochise: bassista e batterista iniziano per primi a porre le fondamenta del riff portante, sul quale andrà a reggere l'intera struttura del brano. Il groove di basso segue i canoni del più classico rock americano, Grand Funk Railroad in testa, ma con un gusto influenzato da sensazioni più recenti, tipiche di quel groove metal portato alle sue estreme conseguenze da band come i Pantera. Sempre come da schema, l'entrata in scena di Morello comincia a caricare la tensione, e tuttavia, quando la situazione sembra dover esplodere da un momento all'altro, la voce calda e regolare di Chris Cornell la riporta ad un relativo stato di calma. La catarsi intrinseca nel ritornello tende a farsi aspettare, ma quando arriva la sua energia risulta più vera e genuina, forse non strabordante, ma possente e decisa. Chris Cornell passa con facilità da un cantato "discorsivo", caratterizzato da tutte quelle peculiarità vocali cui siamo abituati, a momenti di vera concitazione in cui però, a risaltare, è il grande controllo della forma e l'attenzione a non strafare, come se si volesse mantenere a tutti i costi una certa pulizia formale. Quello che cambia e in parte sorprende, vista la rarità della cosa, è la presenza di un controcanto sul ritornello a dare più colore all'interpretazione di Cornell, quasi certamente ad opera di Tim Commerford. Sebbene il canto ne risulti valorizzato, tuttavia, l'apporto vocale del bassista è relativamente inutile se non deleterio, sul risultato complessivo. Altro elemento differente è il culmine del brano, classicamente a tre quarti dell'opera, poi chiusa da una riproposizione del chorus. L'esecuzione di Morello è infatti totalmente differente, più tirata, sofferta e lacerante, quasi in antitesi col morbido tappeto elettrico della versione ufficiale; non saprei dire qual è meglio, se questa - più coraggiosa ma anche fine a se stessa, o quella definitiva - che osa molto meno ma è più adeguata al contesto. In generale, la versione ufficiale è più solida, senz'altro più efficace a livello radiofonico. Il testo sembra avere alcune piccole differenze, rispetto a quello del brano che conosciamo, ma il tema di fondo non cambia d'una virgola: l'appello di un uomo nei confronti di un'entità astratta, forse Dio, forse la terra stessa; un uomo disumanizzato da una vita troppo normale, "costruito con parti rubate" e con "un telefono al posto del cuore", ma che vorrebbe gli fosse mostrato com'è - davvero - l'atto di Vivere. Il cantante pare suggerire che la ricerca di Dio, di se stessi e del proprio ruolo, sia come lasciar morire il proprio vecchio Io per far nascere un nuovo, più libero essere umano. Nel complesso, quello che abbiamo è una sintesi del background concettuale della nuova band: un'armonica fusione tra l'attenzione al sociale tipica dei Rage Against the Machine, ed una costante, quasi spasmodica ricerca interiore da parte di Chris Cornell.
Conclusioni
"Il fuoco originale è morto, andato", cantava Chris Cornell sul primo singolo estratto dal terzo album degli Audioslave, "Revelations", prima di aggiungere: "ma la sommossa interiore va avanti". Quelli di "Original Fire" erano quattro musicisti maturi che facevano i conti con la consapevolezza d'aver già dato il massimo, e di aver così esaurito l'energia primigenia alla base del loro successo, e tuttavia intenzionati ancora a crescere, a migliorare, ma soprattutto a portare avanti un messaggio intrinsecamente sovversivo: il rock. Credo che fosse questa, l'idea alla base del nome "Civilian Project", abbandonato in seguito per un moniker più accattivante e facile da ricordare. I Soundgarden e i Rage Against the Machine erano stati come soldati, militari giurati alla sacra missione di spaccare il mondo, riempire le piazze, guadagnare milioni di dollari e milioni di fan; specialisti di quella battaglia che è la musica impegnati a combattere i loro demoni personali, come nel caso di Chris Cornell, oppure quelli della società capitalista e guerrafondaia, come facevano Morello e compagni. Alla formazione degli Audioslave la missione era già finita con successo, ricompensata dall'oro delle medaglie e dal suono delle fanfare, ma la guerra era tutt'altro che vinta, e se c'era qualcosa che soldati esperti, com'erano tutti loro, avevano imparato, è che una guerra del genere semplicemente non può essere vinta. Ecco perché "the civilian project": il ritiro dalle armi e l'inizio della vita civile. È questo ciò che la nascita degli Audioslave ha significato per Chris Cornell, Tom Morello, Brad Wilk e Tim Commerford. Non più soldati, ragazzi pieni di fuoco convinti d'essere immortali, pronti a spendere la propria vita in nome della battaglia, ma uomini adulti in abiti civili, ognuno con la propria famiglia, ognuno con dei figli per i quali continuare a vivere, o una moglie, o la prospettiva di una vecchiaia serena. Penso che nel rock ci siano, da sempre, solo queste due scelte: morire in battaglia o indossare abiti civili. Ripenso a un artista come David Bowie, che dopo anni di dischi belli ma innoqui dà alla luce un album come Blackstar, così profondamente sovversivo, annichilente, impudico nei confronti della sensibilità del pubblico, e realizzo che quella era l'opera di un uomo che non aveva più nulla da perdere, al contrario degli Audioslave, qualcuno che sapeva di potersi permettere una fine gloriosa. Ripenso a band storiche ed affermate, come Rolling Stones e AC / DC, all'apparente energia, o smargiasseria - chiamatela come volete - che trapela dalle loro attuali esibizioni, mentre cercano di emulare le stesse mosse, gli stessi abiti e la stessa vitalità di quarant'anni fa, e realizzo che per quanto questi musicisti siano ancora pieni di grinta, di voglia di divertire e divertirsi, sono dei signori che sanno fare il loro mestiere e dare al pubblico ciò che il pubblico si aspetta di vedere; non c'è nulla di sovversivo, è una recita ben fatta, ma "il fuoco originale è morto, andato". Quello che apprezzo degli Audioslave è che la recita, loro, non hanno nemmeno provato a farla, ma si sono presentati al pubblico esattamente per quello che sono: musicisti ridefiniti e ridimensionati entro canoni più accettabili, ascoltabili e assimilabili, capaci proprio in virtù di tale ammissione di tirare fuori qualcosa di vero e di sincero, al di fuori della grande recita del rock contemporaneo. Ma questa sincerità, avulsa del coraggio di guardare oltre le esigenze più immediatamente commerciali, s'è rivelata anche la loro peggior debolezza. Ci furono bei casini, dopo il "furto" del materiale che conosciamo come "The Civilian Project", ma alla fine la band dovette accettare l'inevitabile; se la diffusione di materiale preliminare è da sempre un rischio, in ambito discografico, nell'era di internet è praticamente un fatto assodato, oggi talmente radicato che in molti casi sono gli stessi artisti, a giocare d'anticipo e scoprire le loro carte. Nel 2002 la faccenda era ancora lontana dall'essere così definita, ma alla fine il materiale circolò ugualmente e il gruppo non poté farci un bel niente, se non affermare tutto e il contrario di tutto per confondere le acque. "Audioslave", primo album omonimo della band, uscì quasi un anno dopo la diffusione di queste prime bozze, lasciando metà della critica tra l'estasiato e l'indifferente, tra il curioso e lo schifato, e l'altra metà su di una più cauta media del "7". Io, a quell'opera, ho dato sette e mezzo. Estasi e curiosità erano richiamate più dai nomi coinvolti nel progetto, che non dalla qualità oggettiva dei pezzi, mentre l'indifferenza era dovuta a una sorta di... maschera che sembra aleggiare sull'intero album, anzi!, sull'intera discografia degli Audioslave; una maschera che tutto abbellisce, che tutto ammanta di lucida patinatura, che tutto uniforma e rende vendibile. Una maschera che appiattisce un po' tutto. I commenti e le critiche più negative, tuttavia, furono il frutto di un "giornalismo" interessato a far parlare più di sé che di musica e musicisti, un pegno che i nomi più ingombranti devono sempre essere pronti a pagare, e che gli Audioslave, non c'è dubbio, hanno abbondantemente pagato. La stessa critica ha spesso guardato a "The Civilian Project" come alla grande occasione perduta, come al materiale grezzo che, proprio in virtù della sua mancanza di patinatura, riesce ad esprimere il vero potenziale di una band che s'è rovinata con le sue mani, proponendo materiale ampiamente vendibile ma poco memorabile, trascurabile sul lungo periodo. Ve lo dico in francese: al 70%, è una cazzata colossale. Ci sono due brani capaci d'infondere il dubbio, su quale versione preferire: "Light My Way" e "Bring 'Em Back Alive", mentre il vero capolavoro mancato - l'unico, in realtà - è "Shadow On the Sun". Non un dettaglio da poco, visto lo spessore di quest'ultima canzone, ne convengo, ma insufficiente a rendere questa raccolta un vero album, raccolta che rimane assolutamente imparagonabile al lavoro definitivo, patinatura o meno. L'unica cosa che posso consigliare è di prendere questa versione di "Shadow On the Sun", magari pure quella di "Bring 'Em Back Alive", e sostituirle a quelle ufficiali, nulla di più. Tuttavia, guardare a questo "Progetto Civile" è assai utile in una più ampia ottica delle cose. Dopo aver scalato le classifiche, e aver venduto milioni e milioni di copie con il loro album di debutto, gli Audioslave cominciano subito la loro prevedibile parabola discendente. Al tempo dello storico e memorabile concerto a l'Avana, la band è ancora sulla vetta del mondo, ma l'uscita di "Out of Exile", sebbene il disco sia ricompensato da ottime vendite, primi posti in classifica e recensioni più generose (tranne la mia), delinea un generale e progressivo abbassamento del tiro, non riuscendo quest'album non dico a emulare, ma nemmeno ad accostarsi al successo del predecessore. L'attestarsi di "Revelations" a metà classifica di un campionato ormai troppo difficile, per questa squadra, con vendite buone ma non eclatanti e recensioni titubanti, è la goccia che fa traboccare il vaso: gli Audioslave si sciolgono dopo appena tre album e una gloriosa serie di ottimi concerti, palesando tutti i limiti sul lungo periodo della loro politica artistica e commerciale. Il problema non era la mancanza di "fuoco", il problema era la mancanza di coraggio nel fare propria una ruffianeria che in questo caso si chiama "consapevolezza": la consapevolezza che bastano pochi elementi sopra le righe, a rendere un'opera quasi perfetta veramente memorabile, come fu per esempio Toxicity in quello stesso, identico periodo. Non è davvero sovversione o rivoluzione, è una recita sancita dal tacito accordo tra pubblico e musicisti, ma sarebbe stato quello il compromesso da accettare, e non quello con le classifiche mainstream, i contratti radiofonici e la patinatura di un bel video su Mtv. Quello che insegna The Civilian Project, seppure con una manciata di poche canzoni, è che certe volte si hanno tutte le carte necessarie a sbancare il lunario, e che decidere di non giocarle per paura di perdere le proprie fiche può rivelarsi molto, molto più deleterio che avere in mano una coppia di picche. Alla fine di quest'esperienza, al di là dell'età dei musicisti e della morte di Chris Cornell, quel che rimane è una manciata di gemme da tenere sempre con sé, come "Like a Stone", "The Last Remaining Light", "Cochise" e questa strabordante, meravigliosa versione primordiale di "Shadow On the Sun".
Ps: ultima riflessione, il voto è un mero vizio di forma. Non si può dare ad un bootleg un giudizio vero e proprio, e il "sette e mezzo" rimane come valutazione generale degli Audioslave all'esordio, ovvero bravi, interessanti, ma privi dell'antico fuoco.
2) I'll Wait There for You (Like a Stone)
3) Shadow On the Sun
4) Turn to Gold
5) Live in Silence (Bring 'Em Back Alive)
6) Never Fear (Exploder)
7) Get Yourself a Car (Getaway Car)
8) I Am the Highway
9) The Last Remaining Light
10) Light My Way
11) We Got the Better Bomb
12) Gasoline
13) Show Me How to Live