AUDIOSLAVE

Revelations

2006 - Epic / Interscope

A CURA DI
ANDREA ORTU
14/08/2017
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

Un titolo altisonante che richiama la Bibbia ed una copertina appariscente, quasi eccentrica: così si presenta all'ascoltatore il terzo album degli Audioslave, quello precedente lo scioglimento della band. Ovviamente non possiamo e non vogliamo generalizzare, ma quando un'opera si presenta con tali presupposti, la prima cosa che viene da chiedersi è se la superficie non sia migliore dei contenuti. Non è esattamente il caso di Revelations che, come ogni opera della band americana, conserva intatte notevoli maestranze e momenti divertenti, e tuttavia il dubbio rimane lecito. L'impressione è che Chris Cornell, Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk abbiamo tentato di offrire un'immagine vincente di loro stessi fin quasi a sfiorare il pacchiano, e che l'abbiano fatto per sopperire una mancanza di spessore quasi irreale, all'ascolto, intangibile eppure evidente. Perché Revelations, uscito nel 2006 ad appena un anno di distanza dal suo predecessore, è un album strano. Davvero. È pieno di spunti interessanti, è piacevolmente diverso dagli altri due e mette in evidenza, finalmente, le reali e più marcate attitudini dei musicisti; ed è anche potente, caratterizzato da formidabili giri di basso e da un chitarrista quanto mai dedito alla sperimentazione. Come gli altri due album è profondamente derivativo ma, tutto sommato, molto più personale ed incisivo nella scelta del sound: un mix di rock durissimo, piacevoli reminescenze dei Soundgarden e tanto, tanto funk, la migliore e più sincera eredità di Morello. Eppure, a Revelations manca qualcosa... qualcosa d'importante. È come se ogni pezzo avesse in sé gli elementi per divenire non dico un capolavoro, ma un lavoro solido e di gran pregio, senza però riuscire a concretizzare quella solidità e trasformare l'ottima fattura in un lavoro definito e compiuto. Quel che resta sono eccellenti prove strumentali, la bella ed evocativa voce di Cornell ed i suoi testi, sebbene questi ultimi siano minati da sporadiche velleità politiche, intelligenti e sentite, certo, ma inaccostabili alla rabbia pura e cruda dei Rage Against the Machine. Questo generale cambio di prospettive e di approccio al mercato è dovuto, in parte, al ritorno del produttore Brendan O'Brien, già in passato stretto collaboratore sia dei Soundgarden, sia dei Rage Against the Machine, nonché di artisti del calibro di Bruce Springsteen, Korn, AC/DC, Mastodon, Pearl Jam, Kansas, ed altri della medesima grandezza. Insomma, un vero e proprio monumento del mercato discografico, vicepresidente della Epic Records e musicista egli stesso, tanto da aver partecipato in prima persona al Mirror Ball tour assieme a Neil Youg e i Pearl Jam, ed essersi prestato all'organo Hammod per niente meno che Bob Dylan. O'Brien aveva già lavorato al "progetto Audioslave" per il mixing di Out of Exile, cosicché la scelta di metterlo al posto di Rick Rubin, altra imponente figura del mercato discografico, apparve la scelta più logica e naturale. Mentre il nuovo produttore lavorava alla realizzazione di Revelations, la band faceva la sua parte per far parlare di sé e del proprio lavoro. Tom Morello descrisse la sua terza fatica con gli Audioslave come "gli Earth, Wind and Fire incontrano i Led Zeppelin", dicendo praticamente tutto e niente, scomodando i soliti Nomi Grossi per motivi soprattutto pubblicitari. Ci sono i riff possenti ed elettrici dell'hard rock e le sonorità del funk, d'accordo, ma che chiunque faccia rock incappi negli stilemi creati dagli Zeps, e che chiunque faccia funk finisca per ritrovarsi a plagiare involontariamente gli EW&F, è un'evidenza fisiologica talmente ovvia da far sembrare l'affermazione di Morello perfino ridicola. Tra l'altro, spogliato dell'architettura esterna, di quella solitamente descritta come "sperimentazione elettronica", lo stile di Morello è talmente classico da ricordare direttamente Eddie Hazel dei Funkadelic, anzi, perfino un Jimmy Nolen, memorabile chitarrista di James Brown. Quanto agli Audioslave, il vizio di tirare continuamente in ballo il Dirigibile è storia vecchia, buona per far parlare la critica più impressionabile, non sono stati i primi né saranno gli ultimi a farlo, ma le loro influenze, le origini della loro eredità, erano radicate soprattutto nelle grandi Rock Bands americane: dai Creendence fino ai Red Hot Chili Peppers, passando naturalmente per i Grand Funk Railroad ed indugiando su Cranberries ed Aerosmith, tingendosi perfino del blando punk rock di Offspring e Green Day. Senza contare, naturalmente, gli stessi Soundgarden e la variegata esperienza grunge. Certo, non manca anche un'eredità dal respiro internazionale, con i Led Zeppelin al posto d'onore, ma oltre a Bonham e compagni spiccano i Black Sabbath e perfino gli Iron Maiden, fino ad arrivare alla palese influenza degli U2 su tutto Out of Exile. Insomma, non si può sintetizzare il bagaglio di musicisti tanto preparati nelle solite eclatanti, semplicistiche dichiarazioni. Ed a proposito di "dichiarazioni eclatanti", a luglio del 2006 era già nell'aria la voce di una probabile uscita di Cornell dalla band, illazione che il cantante descriveva come totalmente infondata, affermando: "ci giungono voci sullo scioglimento degli Audioslave tutto il tempo... io mi limito ad ignorarle ogni volta". Ma, nel frattempo, il cantante aveva parzialmente ripreso in mano il suo lavoro solista, realizzando la theme song di Casino Royale, "You Know My Name", mentre Morello pareva sempre più preso dai suoi progetti musicali e politici sotto il nome di The Nightwatchman. Nonostante le voci sempre più numerose riguardo un possibile scioglimento, o forse proprio in virtù di esse, la band e la sua produzione piazzò mosse di marketing decise, vincenti e soprattutto in gran quantità, portando gli Audioslave in radio, in tv, su giornali e riviste, sui videogiochi e chi più ne ha, più ne metta. Ma la mossa più eclatante fu quella legata alla copertina di Revelations, per la quale fu ripescata l'immagine della fiamma ideata dal grande Storm Thorgerson nel 2002, per il primo album del gruppo. In tale occasione fu possibile ammirare tutta l'abilità dell'ufficio marketing della band, capace di percepire in tempi non sospetti il potenziale di mezzi, all'epoca, ancora giovani ed inespressi. Nel caso specifico: Google Earth. La copertina di Revelations descrive una panoramica dall'orbita terrestre di un continente immaginario, battezzato senza spreco di fantasia "Audioslave Nation", la cui forma ricorda quella stessa fiamma, mistica e monolitica, rappresentata sull'album di debutto della band. Non ho idea quanti soldi sia costata tale operazione, ma per un po' di tempo - quello necessario alla campagna pubblicitaria dell'album - l'immagine del continente fittizio rimase visibile su Google Earth, proprio come fosse un posto reale, con vere città, vere montagne, veri laghi. E vere persone. Era nel bel mezzo del Pacifico, fra Australia ed America Latina, molto a sud, posizione politicamente non casuale. L'idea fu geniale e germinale, antesignana di un modo nuovo di intendere la promozione di qualsivoglia prodotto di consumo, arte compresa, e dava alla band la possibilità di esprimere una retorica già ampiamente radicata nell'immaginario collettivo: far parte di una "Grande Nazione" che andasse oltre i veri Stati, con i loro politici, la loro corruzione ed ipocrisia, le loro guerre. Era quella Grande Nazione del Rock già vagheggiata da tantissime band, da decenni a questa parte. Solo che, in questo caso, quella nazione aveva un nome: Audioslave. Una smargiasseria da vera rock star che sarebbe stata magnifica, se solo la band fosse sopravvissuta a sé stessa. 

Revelations

L'album si apre con la sua bella ed altisonante title track: Revelations (Rivelazioni). Stavolta, curiosamente, furono solo due i singoli licenziati dalla band per promuovere il disco: il primo fu Original Fire, il secondo proprio Revelations. Se in passato gli Audioslave avevano fatto dei videoclip il perno della loro immagine, affidandoli sempre a registi di comprovato talento, con la loro ultima fatica abbassano leggermente il tiro, realizzando video belli ma non eclatanti. Insomma, nulla che sia anche solo lontanamente memorabile quanto i videoclip di Cochise, Like a Stone o Doesn't Remind Me. Una scelta che in ogni caso mette in risalto la musica, troppo spesso sovrastata da immagini potenti ed evocative di per sé, specialmente quando, regista talentuoso o meno, la messa in scena vive per sé stessa e non per la canzone. Era il caso del video di Doesn't Remind Me, ad esempio, mentre quello di Like a Stone viveva in perfetta simbiosi col suo brano. Stavolta, la band di Cornell e compagni non mette in scena null'altro che sé stessa, mostrando solo e unicamente i musicisti e le loro naturali movenze; una libertà che gli Audioslave si erano guadagnati in quattro anni di musica live strepitosa, tale da far dimenticare totalmente le debolezze dei lavori in studio. Sul video di Revelations i Nostri sono ripresi principalmente mentre suonano, rigorosamente da soli e sempre sullo stesso sfondo: una scelta sapientemente minimale il cui spessore visivo è dato unicamente dagli stacchi di montaggio. Sullo schermo, Morello esibisce una Gibson Les Paul che riporta direttamente a Jimmy Page, adesivo di Budweiser a parte, avvalorando con tatto subliminale gli esagerati paragoni fra Audioslave e Led Zeppelin. È proprio Morello ad aprire le danze, con un arpeggio melodioso e sognante, antitetico di tutto il resto del brano. Poco dopo, infatti, la band esplode in tutta la sua potenza con un poderoso riff di basso e batteria, marchio di fabbrica dei Rage Against the Machine prima, e degli Audioslave poi. Non si fa attendere nemmeno la voce di un Cornell in gran forma, essenziale nella costruzione di un sound monolitico e compatto, privo di pause che non siano quelle d'ordinanza. Il ritornello della canzone, pensato e realizzato per essere catchy e rimanere fisso nel cervello, fa il suo lavoro con immancabile precisione, anche se finisce per ricordare da vicino il sound di mezza discografia degli U2. Comunque, nulla di tanto palese quanto già ascoltato su Out of Exile. Il resto della canzone sfoggia un tiro davvero rimarchevole, esemplificato dall'alternanza rabbiosa tra il riff di basso e gli stilemi di Morello - sempre gli stessi, ma di comprovato ed innegabile effetto. Revelations trova comunque il suo equilibrio nelle soluzione più classiche ed abusate, caratteristica di tutta la discografia della band, e così, all'assolo centrale del chitarrista segue una parte più cadenzata, la quale esplode in una riproposizione di quanto assaporato all'inizio, con poche ma incisive differenze. Il cantante è nella sua forma migliore, e lo dimostra facendo sua una tematica nemmeno troppo personale, esprimendo al massimo ogni singola virgola. Nonostante sia la title track, il senso della parola "revelations" in questo brano è diverso rispetto a quello della stessa, identica parola rapportata all'intero album. Il significato profondo del titolo del disco è più ampio e più astratto, mentre quello di questa canzone è semplicemente sarcastico. Sembra quasi che Cornell si diverta a smontare le pretese intrinseche in un titolo così altisonante, prendendo allegramente per il culo determinate persone e la loro retorica. Il protagonista della canzone è un uomo che non vede l'ora, ironicamente parlando, di conoscere le perle di saggezza che chi gli sta intorno non perde occasione di elargire. Sì, insomma, non vede l'ora di conoscere le loro senz'altro profonde ed interessantissime rivelazioni. La scelta di un termine d'uso religioso non è casuale, e serve da  iperbole per dare enfasi all'intrinseco sarcasmo del cantante, da questi espresso con tutto il meglio del suo repertorio vocale. La gente di cui parla Chris Cornell la conosciamo tutti. A volte, quella gente siamo stati noi stessi, ma per il cantante - colui che riguardo la propria Salvezza urlava "go and save yourself" - le rivelazioni venivano da tutte quelle persone che pretendevano di salvargli la vita con le solite banali frasi fatte, con la solita insopportabile retorica. E, spesso, anche con i soliti interessi personali di mezzo. 

One and the Same

La dinamica potenza dell'opener prosegue intatta nella seconda traccia del disco: One and the Same (L'Uno e il Medesimo). Parliamo di un bel pezzo il cui unico difetto è quello di durare troppo, nonostante che, con i suoi tre minuti e trentotto di durata, sia il secondo brano più corto dell'album. Fosse stata una svirgolata di due minuti avrebbe funzionato alla grande, ed invece One and the Same ripropone ad oltranza un wah wah semplice e ripetitivo, seppur piacevolmente dotato d'un certo tiro, innegabilmente schietto e graffiante. Il resto è canonicamente affidato alla sezione ritmica ed alla voce di Chris Cornell, il quale fa il suo compito con professionale ma distaccata solerzia, mentre Morello dosa la sua chitarra per le sfumature d'importanza strategica. Riproposizioni, controcanti ed urla ben modulate segnano la canzone fino all'assolo di Morello, elettrico e lacerato al punto giusto ma non certo eclatante, ed è ancora una volta ripetizione delle stesse sonorità, degli stessi stilemi. Poche le sfumature sul finale, nella ricerca di un culmine che pare quasi patetica, tanto e disperata, fra urla sempre più forti e quel riff che cerca d'imprimersi a forza nel cervello. Senza riuscirci. Il problema non è la canzone in sé, ma la ricerca di uno standard anche quando, chiaramente, quello standard è controproducente. In questo caso, ad essere controproducente è una durata che penalizza un lavoro troppo semplice, ideale per dare un bello schiaffo in faccia all'ascoltatore, ma non certo a torturarlo per più di tre minuti. Liricamente la storia si fa un pelo più interessante, benché quello di One and the Same sia uno dei testi più semplici e ripetitivi dell'album. Sostanzialmente, Cornell prosegue quanto iniziato sulla traccia d'apertura, passando dall'attaccare la facile retorica di chi dispensa facili consigli, fino ad arrivare ad una più generale, ampia e nichilista visione d'insieme. Ad ucciderti, avvisa il cantante, non saranno tanto coloro i quali ti odiano, ma quelli che ti amano. Non vorrebbero, ma lo faranno. "Potrebbe essere tua madre, potrebbe essere tuo padre o il tuo migliore amico al mondo", profetizza ancora Cornell, riferendosi al tentativo di chi abbiamo intorno di guidarci per una strada che non è - né mai potrà essere - la nostra strada, ma che sarà solo e unicamente la loro. In poche strofe, il singer sintetizza quell'incomunicabilità che trapela da tutta la sua opera, tanto presente da farsi spesso perfino opprimente, fino ad arrivare nuovamente a quell'autodeterminazione celebrata fin dall'esordio con Cochise, palpabile in buona parte del suo repertorio con gli Audioslave. "Va' e salva te stesso": se c'è una lezione che Cornell aveva imparato, grazie alla dipendenza dalla droga e la conseguente riabilitazione, era questa. "Scegli le tue battaglie ma non i tuoi soldati", perché "non potrai mai essere sicuro sul loro colore"; insomma, fai affidamento solo su te stesso, perché "proprio come il sangue e la pioggia, l'amore e il dolore sono l'uno e il medesimo". 

Sound of a Gun

Giunti oramai alla terza traccia dell'album, ci è possibile asserire in tutta sicurezza che una delle caratteristiche di Revelations è la ripetizione. Strofe, parole, intere frasi, riff... ogni elemento di una qualsiasi canzone è passibile di ripetizione ad oltranza, ossessiva e martellante, scelta artistica voluta in virtù del generale rafforzamento dei riff, ma anche per ottenere sonorità di più facile presa ed immediatezza. Naturalmente, è proprio il caso di Sound of a Gun (Suono di una Pistola). L'apertura del brano, ancora una volta, è pensata per contrapporsi al resto della composizione, e così a note dolci e squillanti si sostituisce ben presto un riff di basso e batteria granitico e possente, sul quale s'inserisce senza sorprese la voce di Chris Cornell. Una ritmica funky-rock, piacevole ed assai dura, accompagna l'ascoltatore fino al culmine centrale dell'opera, segnato come da contratto dall'assolo di un Morello col pilota automatico, senza scossoni che non siano quelli di rito. A rendere la pappa un pelo più interessante è l'interpretazione di Cornell, davvero energica, vetrina di un cantante capace di usare con sagacia un'altrimenti scontata contrapposizione vocale, fra bordate di grande durezza e momenti di più delicata riflessione. La tensione è determinata proprio dal significante delle strofe, oltre che dall'interpretazione che ne dà Cornell, ed il resto della band non fa altro che adeguarsi alle circostanze, seguendo le costanti ripetizioni che caratterizzano quasi ogni coda dell'album. Il testo stavolta ha carattere politico, cosa relativamente rara per l'ex cantante dei Soundgarden, ma che inizia ad evolversi proprio a partire da Revelations. Be', forse "carattere politico" è un'espressione un po' forte, se paragoniamo l'opera di Cornell a quella di gruppi dalla netta e dichiarata retorica politica, Rage Against the Machine in testa, e tuttavia "Sound of a Gun" rappresenta senz'altro un'alternativa stilistica piacevole e ben strutturata, molto più solida e matura rispetto ad alcuni tentativi ben più timidi fatti in passato, come per esempio "Hypnotize", pezzo potente ma dalla poetica piuttosto ingenua e puerile. Stavolta il testo di Chris Cornell si presta a molte interpretazioni, dalla guerra in Medio Oriente al famigerato Secondo Emendamento, ma l'ipotesi più concreta è anche quella più introspettiva e personale, assai più congeniale al caratteristico stile del cantante: una più vaga e generica critica sociale. Cornell parla di luoghi e città un tempo felici, in cui la gente viveva al sicuro, contrapponendo immagini idilliache a paesaggi desolanti, immersi in un presente vissuto con pessimismo e paura. In tale contesto, il "suono di una pistola" è un elemento tristemente familiare, simbolo di degrado più che critica alla legge americana, mentre espressioni ambigue quali, ad esempio, "innocenti sconosciuti sepolti nella sabbia", potenzialmente attribuibili alla guerra in Iraq, puri elementi immaginifici. L'ambiguità di lettura in cui molti sono caduti, comunque, non è ingiustificata, dal momento che Cornell e compagni si sono sempre dichiarati a sfavore delle politiche interventiste e guerrafondaie degli Stati Uniti, nonché favorevoli ad una revisione delle leggi che regolano il possesso di armi negli States. In definitiva, grazie ad un testo che funziona e ad una potenza non banale, Sound of a Gun diverte senza stancare, pur con tutti quei limiti che minano l'intero album. 

Until We Fall

Revelations rallenta la sua corsa con la prima ed unica ballad del suo repertorio: Until We Fall (Finché Cadiamo). Parliamo di  pezzo un po' strano, finalmente oltre gli opprimenti schemi della band eppure non eclatante, anzi, nemmeno molto interessante. Godibile, quello sì, e con i suoi momenti di puro spessore tecnico ed artistico. Fondamentalmente la canzone procede in un graduale ed inarrestabile crescendo, iniziando come qualsiasi canonica ballata e terminando in un tripudio di potenza vocale e strumentale. Direte: "be', più o meno come gli altri pezzi, allora". Vero, ma in maniera molto diversa. Until We Fall non si limita a riproporre lo stesso mood ad oltranza, potenziando il riff e dando libero sfogo alla voce del cantante, ma cambia la propria intera struttura attraverso soluzioni impercettibili ma sostanziali, il cui risultato è un crescendo di sonorità e di potenza che trova pieno sfogo nel roccioso finale. L'inizio acustico, oltre ad un chitarrista poliedrico, mette in scena la più delicata esecuzione di Chirs Cornell, visibilmente a suo agio su tempistiche lente e cadenzate, adatte a tirar fuori alcune delle migliori caratteristiche del singer. Come in ogni "lentone rock" che si rispetti, la batteria di Wilk regala alle parole di Cornell lo spessore che meritano, mentre enfasi vocale ed arpeggi offrono la componente prettamente emotiva dell'opera. Strutturalmente non casuale, il brano cambia registro esattamente a metà della sua durata, sia attraverso l'aggiunta di nuovi elementi che potenziando tutti gli altri. Al racconto didascalico di Chris Cornell si alterna l'energia di un muro di suono, ai contenuti si sostituisce la forma, in un'escalation sancita soprattutto dal graduale potenziamento di Commerford e Morello. Marcate reminescenze dell'eredità dei Soundgarden si fanno sempre più palesi, trasformando una ballata scontata e noiosetta in un pezzo di tutto rispetto, un po' diverso da quanto masticato fin'ora ma non difforme dalla natura della band, fino al solido culmine nel finale. Una caratteristica peculiare di Revelations, probabilmente figlia del mercato, è che il cantante sembra rifuggire la poetica che aveva caratterizzato l'album precedente, Out of Exile, ma Until We Fall rappresenta in tal senso la fantomatica eccezione che conferma la regola. In conformità con la natura del brano, infatti, il testo mette in scena strofe ed allegorie profondamente romantiche, mai sdolcinate ma certamente assai delicate ed evocative. Niente riferimenti alla compagna o ai figli, elementi che forse avevano fatto storcere il naso per la presunta banalità, anche se, per il sottoscritto, erano semplicemente argomentazioni troppo mature per il target della band. Il riferimento ad una compagna è molto più velato rispetto ad Out of Exile, ed esiste in relazione ad un sentire introspettivo che ruota completamente intorno all'autore; detto così sembra chi sa che, ma nei fatti è un approccio particolarmente congeniale ad un pubblico adolescenziale, e l'adolescente, com'è giusto che sia, pone sempre sé stesso al centro dell'universo. Niente di male, perché tutto è ben strutturato e funziona a dovere, offrendo potenti immagini allegoriche ed un significato semplice ma ben argomentato. E così, Chris Cornell delinea ancora una volta una visione del mondo ostile, dura da sopportare senza qualcuno cui aggrapparsi, qualcuno con il quale volare sopra ogni ostacolo ed orrore pur sapendo che, prima o poi, la caduta è inevitabile. Inevitabile ma sopportabile, "finché si cade" insieme. Di particolare interesse una strofa in cui il cantante pare rivolgersi direttamente all'ascoltatore: "cosa senti prima di pensare? Cosa vedi prima di sbattere le palpebre? Chi combatti nei tuoi sogni? Chi stringe le tue piume fino a farti urlare?".

Original Fire

Poco prima del baricentro dell'intera opera, a chiudere con energia la prima metà di Revelations è proprio il primo dei due singoli estratti dall'album: Original Fire (Fuoco Originale). Parliamo di un pezzo ideato e sviluppato per soddisfare le storiche esigenze della band, ovvero il non facile compito di compiacere sia il mercato mainstream, sia quello più difficile dello zoccolo duro, abituato alle sonorità heavy di Soundgarden e Rage Against the Machine. Obiettivo più che segnato, come dimostrano il quarto e terzo posto nelle classifiche americane Mainstream rock e Alternative songs, ma che segna anche un generale voltafaccia del mercato per il "supergruppo" statunitense. Infatti, vuoi l'annata particolarmente competitiva, vuoi la saturazione di un certo tipo di sonorità, il relativo successo di Original Fire non è nemmeno accostabile a quello di Cochise, di Like a Stone o di Be Yourself. Un risultato ambiguo che nemmeno l'ottimo video riesce a redimere, nonostante sia firmato dallo stesso regista di artisti quali Otep, Paul Simon e Mötley Crüe: l'americano Paul R. Brown, più un graphic designer che un regista vero e proprio, ed un professionista poliedrico e dalla grande capacità di adattamento, scelto, molto probabilmente, proprio in virtù del suo lavoro con i Mötley Crüe, la cui energia rappresenta il paragone ideale col generale indurimento dello stile degli Audioslave. Il videoclip mette in mostra tutta l'attitudine grafica del suo regista, favorendo un astrattismo dato da colori, filtri e sovrapposizioni d'immagini, piuttosto che da una semplice e quadrata messa in scena. Al centro dell'azione c'è sempre e comunque la band e la sua energia, ma a fare la differenza è la cornice sulla quale si muove: un collage d'immagini dei più disparati personaggi della musica e della politica, ognuno dei quali legato in qualche modo ad una cultura intrinsecamente contro: da Che Guevara a Martin Luther King, da Malcolm X a Mandela, passando per Janis Joplin, Ozzy Osbourne, Johnny Cash e tanti altri. Su queste immagini posa la base ideologica dei nostri musicisti, sulla quale incide profondamente lo storico live dell'anno precedente a Cuba, un evento la cui portata ed il cui valore travalica l'esistenza degli stessi Audioslave. Di Original Fire spicca nettamente la parte ritmica, artefice di un riff ancora più granitico degli altri, e da un gran tiro generale, risultato di una tensione ben studiata e ben eseguita, figlia di quelle sonorità funk che sono la vera particolarità dell'album. Chris Cornell diverte e si diverte, riuscendo a coinvolgere anche l'ascoltatore più difficile, mentre Morello si piazza laddove l'opprimente schematicità della band l'ha sempre piazzato: al centro, con un assolo tipico del suo stile che puzza d'obbligo contrattuale. Nonostante quest'ultima premessa, tuttavia, il chitarrista riesce a sfornare un lavoretto piuttosto particolare, persino più strano del suo solito modo d'intendere la chitarra: l'assolo monkey laughter, ovvero a "risata di scimmia", come battezzato dallo stesso Morello. Senza perdersi in tecnicismi, basti dire che questo solo ricorda veramente, ma veramente molto la risata di un primate, e nonostante il chitarrista l'abbia scherzosamente definito "atroce" - in virtù del senso d'assurdo che provoca - esso è un piccolo valore aggiunto che offre colore, sarcasmo e vitalità ad un pezzo bello ma, tutto sommato, pienamente entro le restrittive righe di tutto l'album. Il testo imbastito da Cornell è tutto al servizio dell'aggressiva semplicità della traccia, dando ampio spazio all'ossessiva ripetizione di strofe dal valore evocativo particolarmente forte e d'impatto. Il senso del titolo, nonché del brano stesso, è racchiuso fra le strofe del ritornello: "il fuoco originale è morto e sepolto, ma la sommossa interiore va avanti". Una tematica del genere, insieme smargiassa ed intimista, è materiale inedito nel pur vasto repertorio di Cornell, seppure i testi dei Soundgarden non mancassero talvolta di una certa... prepotenza. La band non manca di fare i conti con l'età e con la disillusione, ma anche se l'antico fuoco va spegnendosi, l'ideale di fondo sopravvive ed anzi prospera, celebrato "tuffandosi in un mare di mani in una città da tempo dimenticata". Il riferimento allo storico live a l'Avana è evidente, concerto memorabile sia per energia che per significato politico. Con Original Fire gli Audioslave celebrano loro stessi ed i loro fans, la loro musica ed i loro concerti, e benché la canzone rimanga pesantemente ancorata a stilemi terribilmente rigidi, la testa non può fare a meno di ondeggiare soddisfatta.

Broken City

Il Chris Cornell profondamente, anzi, intimamente Soul si appropria finalmente della scena fra le note di Broken City, il cui titolo è traducibile grossomodo come "città distrutta", o letteralmente "rotta", ma il cui senso indica un luogo avvinto al peggior degrado possibile. O meglio un "non luogo", se il cantante rimane fedele alla sua poetica di stampo intimista. Il brano si apre con un groove di basso e chitarra che riporta direttamente alla migliore musica nera anni '70 e '80, ancora pesantemente influenzata da stilemi blues vecchia scuola, quelli più cari tanto a Morello che al cantante. Brad Wilk pone una base classica senza rinunciare al suo tipico stile da rocker duro, ingigantendo lo scheletro di un'opera altrimenti molto più leggera e classicheggiante. Il chitarrista inventa tutta una serie di soluzioni in grado di unire tradizione e modernità, imbastendo un'atmosfera urbana e guardinga perfettamente in linea con le suggestioni di cui canta Chris Cornell. Non c'è da meravigliarsi che sia proprio quest'ultimo a dominare la scena, perché Broken City sembra un pezzo cucito per stargli a pennello, ideale a tirar fuori tutto il meglio di quello straordinario cantante. L'assolo centrale è piuttosto citofonato, ma potendo Morello contare su di una personalità chitarristica non comune, l'esecuzione del musicista risulta gradevole e pregna di suggestioni, coadiuvata da sfumature sonore e da perenni cori di fondo. Il finale vive di una catarsi descritta solo e unicamente da un Chirs Cornell sempre più scatenato, interprete appassionato e divertito di un genere per il quale prova visibilmente amore e gratitudine. In realtà è incredibile quanto sia profonda l'eredità dei Rage Against the Machine in un pezzo così retrò, le cui fondamenta sono il prodotto della sezione ritmica della storica band "rap metal"; invece, il fatto più che palese che Broken City possa avere due distinte chiavi di lettura, non mi stupisce più di tanto. Ascoltando distrattamente la canzone potrebbe sembrare che Chris Cornell si limiti a descrivere un paesaggio urbano divenuto col tempo lugubre e decadente, dando peso alla sua narrazione non già attraverso la pedanteria della denuncia quanto, piuttosto, avvalendosi d'un nichilismo ammantato di sarcasmo. Volendo tuttavia analizzare più a fondo la poetica del singer, ed entrando in merito alla politica della band ed al particolare periodo storico, il senso del brano verte facilmente sugli eventi successivi il famigerato Uragano Katrina. Sembra incredibile siano passati più di dieci anni, tanto vive sono nella memoria le immagini di New Orleans completamente sommersa dalle acque, ed è proprio di quella rinomata città della Louisiana che parla Chris Cornell, attraverso strofe più che chiare quali "l'inverno indossa un cappotto giallo", o "...la neve scende come se cadesse sull'oceano", e poi diversi riferimenti a morti, edifici crollati, devastazione. Una chiave di lettura non solo ovvia, ma in perfetta sintonia con la matrice profondamente blues della canzone, dal momento che certe sonorità sono nate proprio lì, accanto le fangose sponde del Mississippi. Eppure, fra tali argomentazioni di solido stampo sociologico, si nasconde un'ambiguità di fondo di cui Cornell pare non volersi privare in nessun caso, una sorta di approccio alternativo che piega ogni genere di tematica alle proprie intime esigenze. L'evidente sarcasmo nella voce del cantante diviene in tal modo non solo velata critica ad un sistema di prevenzione fallimentare, nonché di chiara natura neo-liberista, ma anche sprezzante autoironia su di un degrado che per lui è soprattutto personale, frutto di un passato fatto ormai, a quel punto, di "morti" e di "macerie". Alla fine, la solida semplicità di Broken City racchiude proprio tutto questo, nel suo "nichilismo ammantato di sarcasmo": retorica politica dalla forte attualità ed il solito, singolare intimismo di Chris Cornell. Ma in fondo questo è solo il mio personalissimo punto di vista.

Somedays

La corsa di un simile album, perfino troppo concitato per il suo genere, continua con Somedays (Certi Giorni). Ancora una volta il perno della canzone è un groove a metà fra graffianti soluzioni hard rock ed il tiro abrasivo caratteristico del funky, al quale si alternano sfumature vagamente punk rock e deviazioni di evidente natura pop, pensate a tavolino per porre al centro le caratteristiche più, diciamo, "vendibili" della voce di Chris Cornell. Il cantante inizia fin da subito ad urlare i suoi somedays, coadiuvato da tutta la potenza di fuoco dei compagni agli strumenti, finché Brad Wilk non rimane improvvisamente da solo a determinare una ritmica tipicamente funk, offrendo al brano una tensione che, purtroppo, non basterà a mantenere vivo l'interesse. Cornell fa piuttosto bene il suo lavoro, divertendosi ad uscire dai suoi soliti schemi vocali, mentre Morello dà vita a sfumature elettroniche minimali ma di relativo impatto. La riproposizione del ritornello si alterna così a momenti più ritmati, fino a sfociare nel baritono ruggito del basso che è il preludio alla solita, immancabile esibizione di Morello. Stavolta, più che un assolo, è una sorta d'interludio atmosferico offerto da chitarra, basso e batteria, alla cui pesantezza risponde la voce adesso pacata e dolce del cantante: un modo un po' furbetto di gestire la tensione del brano, ma che funzionerebbe alla grande se tutto non fosse così pulito e, soprattutto, non mancasse così palesemente di rabbia. Fa strano dirlo, perché è proprio la rabbia che Chris Cornell cerca subito dopo, rompendo il momento più soffice e pop della canzone con un finale al vetriolo, eseguito con carattere e professionalità. Nonostante la voce del singer sia onnipresente, Somedays è caratterizzata da poche strofe e dalla frequente riproposizione del ritornello, marchio di fabbrica dell'album ed ipotetico lasciapassare per le classifiche mainstream. Ne consegue giustamente un testo disarmante, per quant'è semplice, forse perfino puerile ma, tutto sommato, adatto ad una canzoncina di tre minuti e mezzo. Comunque troppi, va detto. Il cantante si limita a suggerire all'ascoltatore che può avere fortuna o sfortuna, che può perseverare nei suoi intenti oppure rinunciare, ma "certi giorni", somedays, non avrà vita facile. Insomma, a prescindere dalle tue azioni può dirti sfiga, se mi passate il termine. Il messaggio è questo. Alcune strofe suggeriscono un maggior spessore, specialmente quando cornell conclude affermando "non c'è bisogno che ti scusi per la sommossa nei tuoi occhi", scomodando ancora una volta questa parola dall'evidente uso politico: riot. Una conclusione che non cambia le carte in tavola, giacché non trova alcun reale approfondimento. Somedays non è un brutto pezzo, ma mette ancora in luce quella terribile rigidità che obbliga la band ad un formato-canzone preconfezionato, imprigionato dall'esigenza di durare di più o di meno di ciò che sarebbe lecito. Questa traccia, in particolare, benché più corta delle altre dovrebbe durare ancora meno, e magari spogliarsi di tutte quelle amenità pseudo-pop che ne minanto l'altrimenti genuina potenza strumentale. Così non è né carne, né pesce.

Shape of Things to Come

Pur cadenzando il suo passo, Revelations prosegue su sonorità decisamente heavy, perfettamente sintetizzate nelle soluzioni strumentali di Shape of Things to Come (La Forma delle Cose a Venire). Stavolta, l'uso di una tensione che fa perno sull'alternanza fra la voce del cantante e la potenza della strumentale, e che su tale presupposto pone le sue basi, centra completamente il bersaglio. Shape of Things to Come è un brano di ben quattro minuti e mezzo privo - o quasi - di dozzinali compromessi, e con un debito notevole nei confronti del caro, vecchio heavy metal anni '80, dalla cui eredità nasce un sound possente, duro e ricco di tensione. Il lato oscuro della faccenda, come vedremo, sta proprio nella personalità derivativa dell'opera, ma il risultato finale è comunque una delle tracce più convincenti dell'album. Il pezzo si apre come sempre attraverso un riff granitico e ritmato, cui risponde ben presto l'esecuzione sulle righe del cantante. Chris Cornell dà luogo ad una performance che ricorda molto da vicino alcuni pezzi dei Soundgarden, caratteristica dei migliori brani di questo Revelations, mentre Morello imbastisce uno sfondo atmosferico con sottile e professionale semplicità. Momenti di pura potenza heavy metal si alternano a queste reminescenze di evidente richiamo grunge, spezzate unicamente da esplosioni di ancor più granitica pesantezza. Tom Morello sancisce il culmine dell'opera attraverso un assolo finale breve ma decisamente classico, in antitesi con l'attitudine sperimentale palesata nel resto dell'album, coerente frutto di quella scuola ottantiana così amorevolmente omaggiata da questa canzone. Non ci sono veri momenti di caduta, né di fastidioso compromesso, perché le parti più delicate del brano sono totalmente al servizio della sua narrazione e, soprattutto, del suo storico background stilistico. Allo spessore musicale fa eco quello del testo, intimo, duro e ben confezionato, per certi versi affine a quanto sperimentato su Out of Exile ma, per la gioia dei fans dal cuore cinico, meno improntato alla celebrazione di una felicità momentaneamente ritrovata. In Shape of Things to Come ritroviamo il Cornell più spirituale, spaventato da dubbi ancestrali che ora coinvolgono anche l'amore per la famiglia, ossessionato dalla necessità di redimere un passato oscuro, e in ansia per il proprio futuro e quello dei propri cari. Il cantante sviscera una poetica lacerata a metà fra speranza e pessimismo, fatta di cupi presagi ed immagini ricolme del più tenero amore paterno. La "forma delle cose a venire" è quel futuro che non ci è permesso di conoscere, poiché il privilegio d'osservare il fato è dato unicamente a quell'universale essenza che permea, e in qualche modo ossessiona, tutta  la spiritualità del singer; probabilmente, lo stesso Dio di cui cantavano i Led Zeppelin su quella canzone omaggiata da Cornell il giorno della sua morte, In My Time of Dying. Tutto quello che possiamo fare, conclude il cantante, è cercare di redimerci delle colpe del passato ed affrontare il futuro come un soldato, e personalmente, nonostante l'esito finale della sua vicenda, sono d'accordo con lui. Se dovessi trovare dei difetti a questo brano, oltre ad un relativo anonimato, indicherei una natura talmente derivativa da eclissare ogni onesta velleità stilistica di questo album. Ma sono peccati veniali perché, pur senza gridare al capolavoro, Shape of Things to Come è uno dei pezzi più solidi e gradevoli del disco, se non dell'intera discografia degli Audioslave.

Jewel of the Summertime

L'andatura dell'opera rimane sui pesanti passi di una strumentale dal sound decisamente baritono, pur nel generale disimpegno di Jewel of the Summertime (Gioiello dell'Estate). Il pezzo si lascia ascoltare ed è forte di un paio di soluzioni davvero singolari, in grado di spezzare ulteriormente quella piattezza che ha fin'ora minato l'intera discografia degli Audioslave. Apre la gran cassa prima, ed il basso poi, ben presto coadiuvati da un sound di chitarra elettrica distorto ed ammiccante, quasi fusion, sottilissima reminescenza di quel funky che permea, in un modo o nell'altro, tutto Revelations. Cornell fa la parte del duro piuttosto bene, urlando un'interpretazione perfettamente in bilico fra hard rock e soluzioni soul, squisitamente virili e smargiasse per pura tradizione. Al culmine vocale del singer fa eco un assolo di Morello fin troppo tamarro, stridulo e pretenziosamente sperimentale. Il chitarrista è un genio della sei corde, ma come tanti altri colleghi la sua bravura lo porta spesso su derive smaccatamente masturbatore. Ed anche la masturbazione, bisogna dirlo, va saputa fare, ma Tom Morello per me è uno di quelli che danno il meglio solo quando alla forma riescono ad aggiungere un minino di sostanza. Purtroppo non è questo il caso, ma la performance dell'axeman non rovina un quadro complessivo che tutto sommato si presta bene a stranezze e tamarrate, tornando ben presto su di un passo regolare ma possente, elettrico e dissonante, fino alla prima coda sfumata di quest'album. Pur facendo uso costante di ripetizioni ed onomatopee, Cornell riesce ad imbastire un ottimo testo in pochissimo spazio, personale senza rimanere criptico, intimo senza voler essere patetico, anzi, alquanto sarcastico e disimpegnato, proprio come suggerisce il sound. Il tema è principalmente la crescita, ed il ricordo di una gioventù priva di problemi, di un tempo ormai lontano percepito come dorato, assolato, pur senza veri rimpianti perché, se c'è una cosa che abbiamo intuito attraverso l'intera poetica degli Audioslave, è che Chris Conrell coi ricordi e coi rimpianti voleva darci un taglio, farci pace e fare pace con sé stesso. Il cantante non ha paura di tornare col pensiero all'epoca successiva, quella intorno ai ventun anni, accennando un'oscurità che, come sappiamo, era legata a depressione ed abuso di stupefacenti, per poi ritornare al "presente" ed al ritrovato equilibrio personale. Era lui, in un tempo lontano ed assolato, il "gioiello dell'estate", ed oggi, dopo troppi anni passati nel buio,  quella luce la ritrova nella sua interlocutrice: la donna che ama, e la nuova vita che insieme hanno dato alla luce. 

Wide Awake

Le atmosfere disimpegnate di Jewel of the Summertime s'interrompono bruscamente con la drammatica attualità di Wide Awake (Completamente Sveglio). Ovviamente per "attualità" mi riferisco al 2006, giacché il soggetto del brano, ancora una volta, è l'uragano Katrina e l'immane devastazione che portò su New Orleans e l'intera Louisiana. Nonostante il tema di un certo spessore umano, gli Audioslave proseguono su binari duri e grintosi, avversi ad una solennità teoricamente più adatta al genere, e dunque a sonorità fisiologicamente più lente e malinconiche. E così, aprire tocca come sempre all'accoppiata Commerford&Wilk, al cui sound roccioso si alterna la voce lenta e malinconica di Chris Cornell, unico compromesso melodico di un pezzo da prendere con la dovuta e necessaria serietà. Gli elementi di tensione del brano pesano tutti sulle spalle del cantante, il quale dà luogo a momenti ora atmosferici, ora rabbiosi, tra malinconici sguardi al paesaggio e concitate rincorse fra rovine e indignazione. Cornell fa suo il baricentro dell'opera con invidiabile tecnica e convinzione, aprendo la strada al compagno alla sei corde che, facendo uso di rara pulizia formale, confezione una performance breve ma emotivamente incisiva, logica ed importante ai fini della lettura del brano. L'intera strumentale definisce il drammatico pathos che precende un finale lisergico, ancora una volta costruito, logicamente, sulla catartica interpretazione del singer: rabbioso, commosso, emotivamente accattivante. Fra le righe, Chris Cornell cerca di portare l'ascoltatore a stretto contatto col dramma umano attraverso immagini potentemente evocative, ponendo il pubblico di fronte all'occhio del ciclone e agli oltre milleduecento morti, per poi focalizzare l'attenzione sui responsabili umani di tanta calamità: i politici e la loro inettitudine o, piuttosto, cupidigia. Una scrittura assai consapevole, quella del cantante, che passa con abile intento comunicativo dai drammi ai supposti responsabili, ponendo il pubblico di fronte alla più ovvia e semplicistica associazione di idee. Cornell richiama alla necessità di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, poiché nonostante quanto visto - i soccorritori, i discorsi politici, la grande mobilitazione umanitaria di un intero paese - il potere è colpevole di aver dormito quando invece sarebbe dovuto essere "completamente sveglio", wide awake. Il cantante ne approfitta per estendere il discorso alla retorica politica cara alla sua band, visualizzando l'immagine di popolazioni povere ed innocenti lasciate a morire mentre, al sicuro, la classe al potere "baratta vite in cambio di petrolio". Un inno conto l'ipocrisia sociale alimentata dai mass media, dunque, forse un tantino semplicistico e chissà, magari pure furbetto, anche se personalmente credo nelle più oneste intenzioni della band, i cui membri sono sempre stati coerenti ad una certa visione dell'uomo e della società, artisticamente ed economicamente in prima linea nei confronti di tematiche sociali ed umanitarie. In definitiva, Wide Awake si rivela un pezzo più che discreto, costruito su performance solide ed interpretazioni sentite, e benché oggi sia difficile commuoversi su di un evento ormai lontano, il testo e la critica che c'è dietro rappresentano un interessante documento storico, segno indelebile di un momento drammatico della travagliata storia americana. 

Nothing Left to Say but Goodbye

Un sound strano e cantilenante, seguito da una sorta di marcetta militare: così s'apre Nothing Left to Say but Goodbye (Nient'altro da dire se non addio). Siamo nuovamente nell'orbita d'influenza dei Soundgarden, forse la più genuina e propositiva di Revelations, in barba a tutte le velleità "sperimentali" del terzo album. Il riff di base è parecchio più morbido e l'influenza della chitarra determinante. Coadiuvato da sonorità decisamente familiari, Cornell sforna tutti quegli stilemi che l'hanno reso ricco e famoso, definendo da solo praticamente ogni sensazione del brano, in un calderone che mescola suggestioni grottesche, ironiche, rabbiose, vagamente malinconiche.  Nulla di nuovo sul fronte compositivo, ma il pesantissimo finale riesce decisamente ad uscire dai canoni e tornare su reminescenze più classiche, ove l'influenza del Madman e dei suoi Black Sabbath si fa improvvisamente palpabile. Il finale sfumato e quella brevissima sequenza di note in chiusura rende il risultato finale... strano. Ecco, Nothing Left to Say but Goodbye è un pezzo un po' strano, per i canoni degli Audioslave, e questo non può far altro che bene ad un gruppo del genere. Certo, tolto il possente finale l'uniformità, nonché la ricerca di soluzioni vocali melodiche ed abusate , la fanno da padrone, ma nel caso della nostra canzone ogni elemento, anche il più preconfezionato, funziona in un quadro generale collaudato e dunque di sicuro effetto. Chris Cornell, nel definire la sua poetica, fa un uso fitto di iperboli ed allegorie dall'evidente e ricercato patetismo, perché patetico è per lui il ricordo di determinate situazioni, la sua visione di sé stesso in un ben preciso momento della vita. Apparentemente il cantante delinea la fine della sua prima, importante relazione sentimentale, nata all'inizio di un percorso personale disagiato e problematico e finita col divorzio, una conclusione che come ben sappiamo ha portato Cornell a ridefinire i contorni del suo mondo e a cercare la redenzione, a disintossicarsi e, infine, a ricominciare da capo. Il nuovo inizio viene descritto con l'evocativa immagine di un cane randagio solo e spaventato, ferito, salvato ed infine riportato alla vita. Quella vera. Personalmente trovo quasi fastidioso come il cantante cerchi in ogni modo di rendere meno esplicita una poetica palesemente romantica, traboccante di gratitudine, a causa delle sterili ed immature critiche ricevute per i testi di Out of Exile, ma a parte questa mia personalissima considerazione il brano funziona, così come funziona il suo testo. C'è anzi una strofa che mi colpisce oltremodo, se letta col senno di poi: I Killed myself, threw away my mental health but nobody was blinking an eye. Queste all'epoca erano solo immagini allegoriche, certo... eppure a volte, riascoltando o rileggendo il passato di Chris Cornell, sembra davvero di aprire una cupa finestra sul futuro. 

Moth

Moth significa "falena", un insetto insieme sgradevole e misterioso, avulso dell'aura di bellezza e nobiltà della farfalla, ma al tempo stesso forte di un fascino notturno, quasi oscuro. Un presupposto niente male per l'ultima traccia del disco. L'inizio del brano è scandito dall'arpeggio elettronico di Morello, cui fa seguito la potenza granitica di basso e batteria in quello che - come ormai è assodato - è lo schema che gli Audioslave hanno seguito pedissequamente per tutta la loro terza fatica. Sempre senza sorprese fa ben presto capolino la voce di Chris Cornell, prima morbida, poi via via sempre più energica, in una prevedibile alternanza che definisce l'intera canzone, se non addirittura tutto l'album. A funzionare davvero bene sono il riff di basso e batteria, le sonorità inventate da morello ed alcune sfumature, sia elettroniche che vocali. Non è il miglior Cornell quello di Moth, ma la sua interpretazione rimane perfetta, senza una sbavatura, a riprova di un ritrovato equilibrio come uomo e come artista. Fra numerosi momenti crescenti e decrescenti, perfettamente in equilibrio sulle solide fondamenta di Brad Wilk, quel che incuriosisce e affascina del brano è l'assenza di un vero e proprio momento culminante, sostituito da uno stacco di pura e semplice riflessione. Nonostante i limiti intrinseci di una composizione del genere, tutto funziona a dovere e soprattutto emoziona, toccando peraltro quasi tutti gli stilemi che hanno caratterizzato fin'ora Revelations: dal durissimo riff alle reminescenze dei Soundgarden, dagli influssi heavy metal a quell'arpeggio iniziale vagamente funky, magistralmente in antitesi col resto della canzone. Anche il testo sembra voler essere un perfetto esempio della sintesi apportata da Revelations allo stile degli Audioslave, caratterizzato com'è da strofe spezzate, ripetizioni frequenti e riflessioni di stampo intimista. Il cantante pare voler fare una sorta di autodafé, descrivendosi come un individuo che "pensava di essere differente, mentre a quanto pare è ancora lo stesso", e che "credeva di essere più intelligente, mentre volava dentro il sole", accorgendosi però di fare esattamente la fine di tutti gli altri. I don't fly around your fire anymore, "non volo più intorno al tuo fuoco", scandisce il ritornello, suggerendo che il riferimento al fuoco sia una metafora nei confronti di una persona, magari una classica femme fatale, lasciando all'ascoltatore la facoltà di decidere quale sia la reale natura della canzone. La falena, moth appunto, è chiaramente Chirs Cornell, ma chi o cosa è il fuoco? L'ex manager Rick Rubin? Improbabile. L'ex moglie? Forse; ma perché parlarne in questi termini e perché proprio adesso, anziché su Out of Exile? Magari, il senso è ancora più astratto, forse parla di sé stesso e del suo lato oscuro ma, dopotutto, il fascino e la potenza di queste strofe stanno proprio nella loro capacità di adattarsi al pubblico, lasciando che il fuoco di cui parla il cantante sia lo stesso fuoco con cui, a un certo punto della vita, ognuno di noi ha finito col bruciarsi, ripetendo lo stesso errore ancora e ancora, proprio come una falena farebbe con le vere fiamme. E se è vero - e lo è - che siamo noi stessi la causa dei nostri problemi, che siamo noi stessi a non imparare dai nostri errori e a "gettarci nel fuoco", allora è vero il contrario: solo noi possiamo salvare noi stessi. A volte quella salvezza è un lavoro di squadra - per Cornell lo è stato, per lungo tempo - ma parte necessariamente da noi e dalla nostra volontà. Ecco allora rispuntare, subliminale, il leitmotiv di tutta la poetica di Chris Cornell e degli Audioslave, il mantra che in un modo o nell'altro ha condizionato ogni opera della band, da Cochise in poi: go and save yourself

Conclusioni

Quel che Revelations m'ha lasciato dentro, più di ogni altra cosa, è un gran senso di vuoto. Tutti gli album degli Audioslave sono stati una sorta d'occasione sprecata, per quanto forti di notevoli interpretazioni e qualche traccia davvero ottima, ma questo terzo ed ultimo disco è molto più difficile da definire, e perciò anche da accettare. Revelations sembra finalmente adempiere tutto ciò che la band s'era prefissata fin dalla fondazione, e tuttavia non riesce a decollare, ad andare oltre una solidità formale stretta e a tratti prolissa, mettendo paradossalmente in mostra tutti limiti dei suoi protagonisti attraverso le loro caratteristiche migliori. Eppure, i presupposti c'erano tutti. Il terzo album degli Audioslave, infatti, riesce a fare sua l'eredità dei lavori precedenti e a superarne alcuni limiti, non quelli inerenti le scelte di mercato, purtroppo, ma certamente quelli prettamente stilistici, mescolando nel suo calderone una più vasta gamma d'influenze e dando maggiore spazio e personalità ai musicisti. Così, ecco che la band riesce finalmente a concretizzare un sound perfettamente definito, fatto ancora di innumerevoli elementi profondamente derivativi ma, al contrario che in passato, non immediatamente riconducibili a diverse ed altrui esperienze. Per farvi capire, se su Out of Exile capitava di sentire un riff e pensare "hey, sono gli U2", su Revelations ne senti uno e ti dici "avverto l'influenza degli U2". C'è una differenza abnorme, credetemi. L'intrusione di sonorità derivative da certe correnti funk poteva rappresentare un rischio, e sul versante commerciale probabilmente qualche danno l'ha fatto davvero, ma dal punto di vista stilistico tali influenze si sono non soltanto perfettamente amalgamante all'insieme, ma hanno anche contribuito a far uscire alcune delle migliori caratteristiche dei nostri musicisti. In particolare, Tom Morello è libero di dare sfogo ad un background tanto classico quanto glorioso, libertà che si traduce in soluzioni artistiche più coraggiose, divertite e divertenti; Chris Cornell, dall'altra parte, riesce a tirar fuori l'anima profondamente soul intrinseca del suo stile e della sua voce, utilizzando determinati stilemi caratteristici di una musica originariamente nera, ma che nei decenni ha prodotto un'infinità di eccellenti prodotti derivativi. Un bagaglio veramente enorme. Date tali premesse, all'accoppiata ritmica della band è concesso finalmente di tornare del tutto all'antica durezza, quella che per oltre dieci anni aveva caratterizzato i Rage Against the Machine, e se funzionava bene per un sound a metà hip hop, funziona bene anche per un album in parte funk, antenato naturale di tutto quel genere di background. E allora cos'è che non funziona? Difficile esprimere la cosa nella sua astratta complessità, ma volendo azzardare una sentenza lapidaria direi che a non aver funzionato è stato il compromesso. Gli Audioslave hanno preteso di dare alla luce un album più diretto, arioso e duro, un'opera fresca e genuina sia dal punto di vista compositivo che concettuale, ma l'hanno preteso senza voler rinunciare a nulla della precedente politica, a quel pedante modus operandi che se da una parte aveva garantito alla band un immediato e momentaneo successo commerciale, dall'altra aveva trasformato un debutto potenzialmente epocale in un disco più che discreto e nient'altro, e la seconda prova in un album quasi anonimo, tanto indugiava nel suo tentativo di compiacere un po' tutti. Con mio sommo dispiacere, per una volta devo far mia la valutazione che Rolling Stone diede di Revelations: un album di dodici tracce, molte delle quali piene di grandi intuizioni compositive... e nessuna che si concretizzi in una canzone. Detesto dare ragione allo storico magazine, ma l'impressione è proprio quella: di godere di tante belle interpretazioni senza un vero obiettivo di fondo. Le eccezioni ci sono, a dire il vero, ma sono rappresentate dai pezzi più derivativi e tendenti al palese omaggio, mentre quelli più genuini non fanno altro che mettere in mostra tutti i limiti di artisti sì straordinari, ma in corsa sui binari sbagliati, limitati dall'esigenza di dare il contentino ai vecchi fans e di scalare le classifiche, imponendo il pilota automatico ad uno dei migliori chitarristi sulla scena. Perfino la scaletta appiattisce ogni genere di pretesa artistica, obbligando ogni traccia ad una durata superiore ai tre minuti e mezzo, ma sempre inferiore ai cinque minuti; un format "radiofonico" ad uso e consumo di un pubblico generalizzato e diseducato, ma che col tempo ha lasciato indifferenti tanto gli appassionati di rock duro, quanto quegli stessi ascoltatori occasionali, relegando gli Audioslave ad un oblio che sarebbe stato certo e definitivo, se non fosse per l'importanza dei nomi coinvolti. Personalmente, pur essendo un'impressione mia e mia soltanto, non ho amato nemmeno l'abbandono delle tematiche alla base di Out of Exile, ampiamente criticate all'epoca, ma riscoperte di recente a causa del rinnovato interesse mediatico nei confronti di Chirs Cornell. Io, contrariamente al grosso del pubblico, avevo apprezzato l'apertura del cantante a tematiche solari e romantiche, trovandovi non solo totale assenza di compromesso, ma la logica continuazione di una poetica intimista che, così come aveva scavato nei problemi del suo autore, allo stesso modo aveva reso grazie a coloro i quali l'avevano aiutato ad uscirne. Revelations sembra evitare accuratamente ogni genere di riflessione in tal senso, salvo tentare di nasconderle goffamente tra le righe, ottenendo come unico risultato un lavoro incompleto e spezzettato. Limitato da tali esigenze, Cornell ha dato vita ad una scrittura focalizzata su di una blanda introspezione e su tematiche politiche, in modo da compiacere un generico e disarticolato target adolescenziale. In pratica, una versione blanda dei Rage Against the Machine e dei Soundgarden, alla faccia della tanto decantata "identità" della band. A tal proposito, escludendo Original Fire e un paio d'altri brani, il fatto che i pezzi più solidi siano proprio quelli con la più evidente influenza dei Soundgarden la dice assai lunga. Infatti, nonostante l'inspessimento dei riff e l'aggancio ad influenze diverse, e per colpa della solita rigidità formale, alla fine a funzionare davvero sono i cari, vecchi schemi già collaudati, usati ed abusati, e se da una parte così ci ritroviamo pezzi assai godibili, dall'altra troviamo svilita ogni naturale esigenza identitaria, ogni onesto intento artistico. Ma forse, il peggior difetto di Revelations è che gli manca la rabbia. Oh, ne ostenta molta, in verità, ma la rabbia pura e cruda che era il pane quotidiano di un De La Rocha non è pane per i denti di Chris Cornell, autore di ben altro spessore compositivo ma inadatto a certe performance, e non sarà mai il più strano degli assoli, né il più duro dei riff a redimere una pulizia formale e un ordine strutturale che tutto possono tranne che suggerire rabbia, furore, sdegno o quant'altro. Purtroppo, agli Audioslave mancava anche la furberia di dar vita a pezzi facilmente melensi e strappalacrime, grande fortuna di tante "rock band" da primo posto in classifica, e il loro lavoro finì per divenire un vicolo cieco non solo a livello creativo, ma anche commerciale. Le vendite di Revelations andarono bene, naturalmente, ottenendo ottimi posti nelle classifiche di tutto il mondo, ed anche buone valutazioni perché, nonostante quanto detto fin'ora, parliamo di un album dignitoso suonato da musicisti eccezionali, piacevole a prescindere da ogni altra considerazione. Ma la band vendeva molto e costava moltissimo, ed ormai la barca iniziava ad imbarcare acqua da tutte le parti. Fu Cornell ad intuirlo per primo, stanco com'era, per sua stessa ammissione, di "dover sottostare a delle vere e proprie 'trattative politiche' per stabilire il percorso degli Audioslave, senza mai arrivare ad un risultato concreto". Il suo comunicato fu cordiale ma secco, impersonale, e per un po' di tempo lasciò serpeggiare il malcontento fra lui e Tom Morello, mentre voci di problemi finanziari riguardo l'iniquità dei crediti avvelenavano l'aria. Infine, ognuno tornò per la sua strada come se gli Audioslave non fossero mai esistiti: Morello, Wilk e Commerford si riunirono a Zack de la Rocha nei Rage Against the Machine, dando inizio ad una serie regolare di concerti che va avanti ancora adesso, offrendo naturalmente spazio anche ai propri progetti personali; Chirs Conrell tornò al suo lavoro solista e sfornò ben quattro dischi, alcuni dei quali vennero pesantemente criticati, e nel 2010 si riunì anche lui alla sua vecchia band, i Soundgarden, ai cui spettacoli dal vivo s'aggiunse un album nuovo di zecca dopo ben sedici anni di silenzio: l'ottimo King Animal, del 2012, accolto da pubblico e critica con un calore che Cornell non vedeva da tanto, troppo tempo. Nel frattempo la scacchiera mondiale cambiava, e la situazione interna degli Stati Uniti andava prendendo una piega alquanto sgradevole, almeno per quelle che erano - e sono - le idee politiche degli ex membri degli Audioslave. Fino ad arrivare ai giorni nostri. Dopo oltre dieci anni, Chris Cornell si riunì a Morello e compagni per un concerto di protesta all'insediamento del neo-presidente Donald Trump, assieme al nuovo supergruppo dei suoi colleghi, i Prophets of Rage, rievocando il clima di protesta ai tempi di Bush Jr., dell'uragano Katrina e dello storico concerto a l'Avana. Era il 20 gennaio 2017. Per i vecchi fans e per un pubblico giovane e tutto nuovo, curioso di riscoprire un passato percepito come glorioso, fu l'occasione di sospirare ad una possibile reunion degli Audioslave, possibilità che lo stesso Chirs Cornell pareva incoraggiare per il continuo peggioramento del clima politico. Ma Cornell fu trovato morto pochi mesi dopo, il diciotto maggio. Suicida. Svanì in tal modo ogni speranza di vedere riuniti gli Audioslave, e quindi di riascoltare pezzi come Original Fire, Like a Stone e Cochise, mentre familiari, amici e colleghi esprimevano un cordoglio allucinato, incredulo, come increduli rimasero i fans di un artista con trent'anni di sfolgorante carriera alle spalle. Me compreso. Oggi degli Audioslave si può dire tutto, ed io stesso mi sono obbligato a non essere morbido con il loro lavoro, ma la qualità tecnica ed artistica rimane, come rimane il tentativo disperato e terribilmente umano di lasciare un segno nella storia. Rimane lo spirito di rivalsa e tante canzoni a dir poco splendide, a prescindere da ogni pigra considerazione. Ma soprattutto rimane un pezzettino della storia personale di un autore che faremo fatica a dimenticare, nascosto fra le righe di ognuno dei suoi brani, proprio come un piccolo diario in versi. E quel suo leitmotiv che ancora mi risuona nel cervello: go and save yourself.

1) Revelations
2) One and the Same
3) Sound of a Gun
4) Until We Fall
5) Original Fire
6) Broken City
7) Somedays
8) Shape of Things to Come
9) Jewel of the Summertime
10) Wide Awake
11) Nothing Left to Say but Goodbye
12) Moth
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