AUDIOSLAVE

Out of Exile

2005 - Epic / Interscope

A CURA DI
ANDREA ORTU
20/07/2017
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

Audioslave the band has arrived. The first record was people from two other bands with history attached. I don't feel that with this record.

"Audioslave, la band, è arrivata. Il primo disco rappresentava persone di due distinte band con una storia affine. Non è ciò che percepisco con quest'album".

(Brad Wilk, drummer di Rage Against the Machine e Audioslave)


Con queste parole, il batterista Brad Wilk voleva porre l'accento su una retorica inequivocabile, rimarcata con insistenza da un po' tutta la critica di settore: mentre l'album di debutto degli Audioslave - la band formata dal singer dei Soundgarden, Chris Cornell, e dai musicisti dei Rage Against the Machine - suonava un misto fra le due storiche band di provenienza, il secondo disco del gruppo, Out of Exile, ha rappresentato invece il raggiungimento di un sound unico e definito, riconoscibile solo e unicamente come il suono degli Audioslave. Un approccio che, se da un lato non ha modificato i già ottimi equilibri commerciali, vincenti anche e soprattutto grazie all'immagine della band, ha però di certo ammorbidito la critica, buona parte della quale aveva valutato il precedente full length con malcelata sufficienza, quando non con aperta ostilità. Nel  parere di chi scrive, con tutto il rispetto per Wilk - o chiunque altro abbia posto la questione del sound come una sorta di valore aggiunto - queste sono solo sciocchezze commerciali, pura retorica di mercato. Metti insieme due esperienze di successo, le quali hanno definito l'hard rock di un intero decennio, poni determinati paletti artistici ed imponi che a spiccare debbano essere, sempre, gli elementi più caratteristici di quelle passate realtà musicali; e cosa pretendi che esca fuori? Ne esce fuori, ovviamente, un'opera definita da groove di basso belli ma alla lunga indistinguibili, in cui la voce di Cornell da una parte, e la chitarra di Tom Morello dall'altra, si ritrovano sempre e comunque al centro dell'attenzione. E non c'è nulla di male, sia chiaro. Ma la voce di Cornell, priva di un'impalcatura grunge e post-rock, era semplicemente la voce di un cantante estremamente talentuoso minata dall'abuso di alcol e droghe, intimamente soul ed emotivamente accattivante; non era già più "Soundgarden". La chitarra di Morello, senza il background hip hop, la retorica politica e la freschezza rabbiosa di un De la Rocha, era semplicemente la chitarra di un musicista estremamente preparato, virtuoso all'occorrenza e con una predisposizione non indifferente alla sperimentazione elettronica; ma non era già più "Rage Against the Machine". L'album di debutto era completamente diverso da queste due band: si poneva come vera, solida base solo e unicamente l'hard rock vecchia scuola, riuscendo ad unire stilemi classici, - spesso e volentieri smaccatamente blues - con soluzioni più pulite e moderniste. Nasceva già, insomma, come opera derivativa, ed Out of Exile non fa affatto differenza. L'impressione è che i musicisti, guidati ancora una volta dall'integerrimo Rick Rubin, abbiano cercato di rispondere alle accuse di piattezza del precedente disco in tutti i modi possibile: potenziando i riff, rendendo praticamente obbligatori certi assoli di chitarra, velocizzando l'impostazione generale e così via. Il che però non vuol dire che l'abbiano fatto con originalità. L'eredità del passato tende a sfumare non già grazie ad una più definita identità, ma occultandosi in un mare di stilemi che ricordano una decina di band diverse, tutte contemporanee, tutte già perfettamente inquadrate sul mercato: Red Hot Chili Peppers, Pearl Jam, U2 e Muse, solo per citarne alcune, con quella spruzzata di blando punk rock che nel 2005, anno d'uscita di Out of Exile, andava già tanto di moda. Con questo, però, voglio accusare solo l'incoerente retorica di fondo, utilizzata dall'ufficio stampa della band - nonché da parte della critica - per dare l'impressione di trovarsi di fronte ad un prodotto fresco e innovativo, intimamente diverso da quello precedente. Out of Exile non è nulla di tutto questo, ma non è un cattivo album, anzi. Penso che Chris Cornell e compari non fossero in grado di fare un disco brutto neanche volendo. Erano artisti che lottavano per dare il meglio di sé, musicisti troppo preparati per poter dare alla luce qualcosa che non fosse, quantomeno, più che dignitoso ed assolutamente godibile. Semplicemente, Out of Exile è un album che ripropone il format del disco precedente, arricchito da stilemi contemporanei abusati ma comunque d'effetto, e quanto più possibile distante da qualsiasi sonorità possa anche solo essere in odore di grunge o, "peggio ancora", di rap. Soprattutto, Out of Exile è un disco intimamente più commerciale, di più facile presa, ben confezionato e ben pubblicizzato, fattori che hanno determinato non solo l'ennesimo trionfo in termini di vendite, ma anche una più favorevole percezione da parte della critica, la quale ha finito per confondere una serie di fronzoli ben impacchettati con originalità ed identità. Al netto di tutto questo, l'album contiene senz'altro elementi che delineano meglio il "supergruppo", così com'è stato spesso impropriamente definito. In particolare, a mio parere, le liriche di Cornell. Già riguardo l'album di debutto, avevo ravvisato nei testi dello scomparso cantante un reale valore aggiunto, un elemento di spessore così intimista da raccontare veramente l'animo del suo fautore, le sue più profonde paure e la sua disperata voglia di rivalsa, soprattutto verso sé stesso. È proprio lo stesso Cornell, questa volta, a definire i testi di Out of Exile come l'apice di un processo di maturazione poetica, figli di un nuovo e più solare periodo nella vita del singer e, come tali, forti di una nuova e più chiara consapevolezza. Esattamente le qualità che hanno spinto parte della critica a demolirne lo spessore, definendoli addirittura "ridicoli". D'altra parte, si sa: tematiche oscure, depressive o aggressive fanno sempre miglior presa "sull' intellettuale", come se un'impostazione propositiva debba necessariamente essere blanda e priva di spessore. La "nuova" poetica di Cornell potrà certo apparire meno fascinosa ed accattivante, ma è solida, potente e soprattutto vera, intrinsecamente autobiografica, e non un palcoscenico costruito a tavolino, com'è uso comune di tanti altri artisti - nel bene e nel male. Essa rappresenta, insomma, l'ennesimo, immancabile tassello di quel grande puzzle che era Chris Cornell. Out of Exile uscì al termine di un lungo ed esaltante tour, una vera e propria "dimostrazione di potere" capace di mettere in luce il vero talento di musicisti d'eccezione, e tale da porre completamente in secondo piano ogni possibile limite compositivo. Il 23 maggio 2005, poche settimane dopo lo storico live a L'Avana, Cuba, il nuovo album degli Audioslave faceva il suo trionfale ingresso nel mercato discografico, forte di una copertina dal possente gusto espressionista. Il terzetto artistico composto da Robert Fisher, Antony Nagelmann e dal fotografo Ethan Russel non fa rimpiangere nemmeno il leggendario Storm Thorgerson, tanto il suo lavoro è monolitico: un mare grigio e scultoreo, in movimento eppure immobile, contrapposto ad un cielo pesante e plumbeo. Un quadro in cui la luce definisce sapientemente le forme, il difficile stacco fra soggetti monocromatici e, soprattutto, una drammaticità che sembra preludere ad una potenza inedita, a riff minacciosi e scultorei quanto quelle onde scure, ma anche a vasti orizzonti di riflessione, di malinconia e profondità. Vedremo, la musica, quanti di questi presupposti riesca davvero a rispettare e quanti, invece, verranno traditi. 

Your Time Has Come

Gli Audioslave preferirono portare il loro nuovo album al pubblico attraverso una soluzione inversa, rispetto al disco di debutto. L'opera precedente aveva fatto seguire un singolo grintoso e duro, Cochise, da un brano lento e di particolare spessore poetico, la splendida Like a Stone. Out of Exile fa esattamente il contrario, offrendo alle classifiche prima Be Yourself - una canzone riflessiva e profonda in assonanza proprio con Like a Stone, sia in termini di sound che di poetica -, per poi irrompere con una traccia forte degli stessi presupposti di Cochise: la rocciosa opener dell'album, Your Time Has Come (Il tuo tempo è giunto). Uscita una ventina di giorni prima dello stesso Out of Exile, la canzone gode di un videoclip che può dirsi parte della storia, e non solo della musica rock. Esso, infatti, mette in scena spezzoni tratti dal free live show della band a Cuba, in assoluto il primo concerto rock di un gruppo statunitense sull'isola di Fidel Castro. E vista la potenza e la bravura dei musicisti in sede live, è un vero piacere. Your Time Has Come inizia immediatamente con l'elettrico sound della chitarra di Morello, in un riff pompato ben presto da tutta la sezione ritmica. Una sonorità semplice ma d'effetto, facilmente in grado far di scuotere qualsiasi testa, ma anche problematica; secondo i Metallica, infatti, quel riff è fin troppo simile a quello di Bad Seed, una delle tracce del loro settimo album in studio: Reload. Tolta una leggera differenza nel tuning, i due riff si somigliano davvero, e come se non bastasse la canzone è stata paragonata anche a Get On the Snake, non a caso vecchio lavoro dello stesso Chris Cornell con i Soundgarden, ospitato sull'album Louder than Love. Se la somiglianza con un precedente pezzo del cantante non è cosa grave, né rara in ambito rock (basti pensare a tutto il materiale Yardbirds nella prima discografia dei Led Zeppelin), la questione con i Metallica è assai più spinosa, sebbene la band di Cornell e Morello si sia limitata, molto laconicamente, a non rispondere alle accuse. Ad ogni modo, "Your Time Has Come" fila liscia e divertente tutto il tempo, adeguatamente pesante sia in termini di sound che di poetica. Chris Cornell è in forma smagliante e la sua performance avvolgente, mentre il bassista fa quello che ha sempre saputo fare meglio ed il batterista pure, dando sfogo a classicismi ritmici che, con i Rage Against the Machine, non aveva mai potuto esplorare con tale completezza. Il pezzo scorre tanto bello quanto dimenticabile, fino ad un assolo di chitarra fantascientifico e personale, vero ed unico punto d'interesse di tutta la canzone. La riproposizione del riff, portato all'esasperazione da suoni "atmosferici" e velocissime rullate, finisce per chiudere Your Time Has Come in maniera lineare e ripetitiva, offrendo all'ascoltatore un pezzo di oltre quattro minuti che sembrano due, impeccabile e divertente ma anche trascurabile, ideale soprattutto per due scopi: fungere da introduzione ad un'opera - si spera - di maggior spessore, e mantenere saldo il gruppo nelle classifiche. Che sia una canzone assai vendibile sul breve periodo, infatti, nessuno lo mette in dubbio. Quanto alle liriche, pare che l'ispirazione provenga da People Who Died, una canzone del 1980 della Jim Carrol Band che poneva omaggio alle vittime della droga. Considerato che, nel periodo d'uscita di Out of Exile, Chris Cornell aveva appena concluso un ciclo di riabilitazione dall'uso di sostanze stupefacenti, abbiamo chiaramente a che fare con una scelta di carattere personale. Il cantante, tuttavia, preferisce deformare il senso del suo riferimento ad un significato più vasto, vertendo su un'indefinita e grottesca inutilità della morte. Ad influenzare il testo del brano è infatti l'esperienza del singer al "Vietnam Veterans Memorial", il monumento in memoria dei caduti americani in Vietnam. Cornell imbastisce abilmente l'alternanza fra leggere allegorie, caratteristiche della sua poetica, e brutali descrizioni di morti e ferite, citanto esplicitamente i "cinquantamila nomi scolpiti tutti sulla roccia". Per il cantante, la cui visione politica non doveva essere lontana da quella di De la Rocha e Morello, l'inutile morte di decine di migliaia di ragazzi era un "atto criminale". Ma nonostante l'origine del brano, o la pretesa di parlare di un argomento ampio come il Vietnam, il succo, il vero senso delle liriche, sta in quell'atavica paura di non riuscire a dare un senso alla propria esistenza, aspettando una Fine che non può fare a meno di porci di fronte al più grande - e terribile - dei dubbi. Siamo ancora di fronte all'uomo che attendeva immobile la morte su "Like a Stone", all'attonito protagonista di "The Last Remaining Light", a quel Chris Cornell che - ormai lo sappiamo - a tali paure non è mai riuscito a trovare rimedio.

Out of Exile

Ad un opener che funge da introduzione fa seguito, giustamente, la title track di questa seconda prova discografica: Out of Exile (Fuori dall'Esilio). Il titolo del brano, e di conseguenza quello dell'album, non è casuale, e come vedremo celebra e descrive le vicende personali di Chris Cornell. La traccia inizia con un pestare secco e legnoso da parte di Wilk, quasi una sorta di marcetta, accompagnato dal suono squillante di un Morello in fase di rodaggio. Naturalmente è solo il preambolo ad un'annunciata, quanto comunque soddisfacente, esplosione sonora: un granitico riff di quelli cui siamo stati abituati fin dal disco di debutto. Come di consueto è Commerford a sostenere il peso dell'esecuzione, in perfetta simbiosi con il collega alla batteria. Seguendo uno schema collaudato, alla potenza pura segue una narrazione che potremmo definire "didascalica"; il cantante, accompagnato come da programma dalle sonorità atmosferiche e quasi "aliene" di Morello, imbastisce una performance estremamente delicata, caratterizzata da frequenti - e piuttosto abili - sfumature in farsetto. Per quanto scontata, la continua alternanza fra parti delicate ad altre notevolmente aggressive funziona bene, dando modo al brano di arrivare in tutta serenità ad un assolo tipicamente morelliano, elettronico e dissonante. Il finale è pura e semplice deflagrazione, ma purtroppo privo di quel reale scossone che avrebbe potuto rendere il culmine dell'opera davvero memorabile, redimendola dalla sua fisiologica prevedibilità. Il testo, tuttavia, innalza l'asticella qualitativa dell'intera traccia, andando a toccare con abile poetica la vita privata del cantante. Sul DVD bonus di Revelations, terzo ed ultimo disco della band, Cornell spiega come le liriche di Out of Exile nascano dalla gioia, anzi, dalla trepidazione di diventare padre. Nel periodo in cui scrisse il testo del brano, infatti, la moglie del cantante era incinta, e per lui la sensazione era quella di uscire da un oscuro circolo vizioso durato anni ed anni - quelli dell'abuso di droga e alcol - e di essere finalmente fuori un umano, allegorico esilio: "Out of Exile", appunto. Chris Cornell descrive il suo lungo periodo di disagio come una sorta di placido, inerme abbandono in cui "le ore si accumulavano vuote", e la salvezza con l'arrivo di una donna dai tratti angelicati, quasi "stilnoveschi". Questa donna era la seconda moglie di Cornell: Vicky Karayiannis, madre della seconda figlia e del primo figlio maschio del cantante, nati rispettivamente nel 2004 e nel 2005. Per l'ex singer dei Soundgarden, che proprio nel 2004 aveva divorziato dalla sua prima moglie, Lillian Jean, la nuova relazione e la nuova nascitura rappresentarono come una sorta di ripartenza, qualcosa che desse nuovamente un senso all'alzarsi ogni mattina dal letto. E, per almeno dieci anni, pare che la cosa abbia funzionato. Le immagini retoriche del testo - il matrimonio fra le onde, la luce nel grembo della donna - sono dolci ma non stucchevoli, romantiche ma non puerili. A quello che scrive, il cantante crede con tutto il suo essere e si sente. Send my soul away, ripete l'echeggiante coro, ribadendo con rabbiosa gioia il desiderio di Cornell di volare via, così da liberarsi una volta per tutte dei suoi antichi demoni. 

Be Yourself

Se l'album di debutto degli Audioslave fu anticipato dall'uscita di un pezzo aggressivo e carico di potenza, Cochise, questa seconda fatica della band si lasciò invece pregustare da un brano dolce, malinconico e memorabile, ma anche di semplice fruizione: Be Yourself (Sii Te Stesso). L'esigenza di esser presi sul serio, specialmente dagli ascoltatori più giovani ed emotivi, appare subito evidente nella scelta di presentare il nuovo repertorio con una canzone del genere: melodica, ma pregna di tutte quelle soluzioni che definiscono il sound degli Audioslave, dalla centralità di Cornell e Morello ad una struttura che mette in contrapposizione, come già osservato in quasi tutto il repertorio della band, un ritornello potente e carico di sensazioni a parti più cadenzate, liricamente didascaliche. Il pezzo si apre con brevi arpeggi di chitarra acustica, morbidi e particolarmente malinconici, per poi ingranare su soluzioni di chitarra tipicamente morelliane. Il suono del chitarrista oppone alla malinconia di sottofondo una sfumatura totalmente diversa, viva e vitale, come a voler sottintendere una forza di volontà che si contrappone al dolore. Il sottofondo ideale per dare spazio ad un canto pulito e particolarmente "sulle righe", con un ritornello che ricorda da vicino gli stilemi dei migliori U2 d'inizio millennio, in una all togheter tanto catartica quanto scontata. Sembra fin'ora che "bello, ma banale e prevedibile", sia il motto dell'intero album. Come da canone, il culmine arriva a metà dell'opera in un exploit di Morello che definire "solo" fa quasi strano: la riproposizione assidua e maniacale di un wah wah elettricamente ruvido, quasi rabbioso, le cui impercettibili divagazioni e sfumature confluiscono in una catarsi di puro intuito chitarristico. Se il comparto ritmico si ritrova fisiologicamente a dover dosare la potenza, e Cornell a fare la sua parte con pulita professionalità, è Morello a definire la personalità della canzone, così come i suoi unici elementi di vera e genuina personalità. Il finale è comunque lasciato ad un Chris Cornell in grazia di Dio, nel pieno delle sue energie nonostante la relativa piattezza dell'esecuzione - piattezza, è bene specificarlo, dovuta a mere esigenze di copione. Tutto è pensato infatti per offrire un ruolo centrale alle liriche, parte integrante e valore aggiunto non già all'intrinseco spessore dell'opera, ma alla sua vendibilità. Come primo singolo tratto da un album che avrebbe dovuto definitivamente lanciare la band, e redimerla dalle pesanti accuse della critica, "Be Yourself" aveva la notevole responsabilità di dover essere sia vendibile sul mercato mainstream, sia ineccepibile come pezzo rock di un certo livello. Con quest'intento fisso in mente la produzione non badò a spese, e per il videoclip assoldò uno dei migliori registi sul mercato: Francis Lawrence, già noto per le sue collaborazioni con artisti del calibro di Jennifer Lopez, Avril Lavigne, Will Smith, Aerosmith, The Black Eyed Peas e Gwen Stefani - non a caso tutti artisti dall'invidiabile patinatura mainstream. Nello stesso anno Lawrence diresse "Constantine", con Keanu Reeves, e due anni dopo "Io Sono Leggenda"; due pellicole ad alto budget funestate da evidenti problemi di sceneggiatura, ma tenute insieme e portate al successo proprio dall'abilità del regista americano. Nonostante ciò, il videoclip di Lawrence non fa altro che riproporre gli stessi, identici canoni di quello di Like a Stone... e vi dirò, anche se il regista di quest'ultimo godeva di minor fama, il suo lavoro aveva meno faccia tosta ed una miglior fotografia. Lawrence si concentra sui primi piani, abusa di filtri sfocati e gioca di lens flare da far impallidire J.J. Abrams, ma fa anche abilissimo uso dei colori, la cui conoscenza e le cui sfumature definiscono, emotivamente, le varie fasi del video. Ad ogni modo, come dicevamo, ciò che conta è il testo, le cui basi sono caratterizzate da una certa vendibilità, prima che da un reale valore poetico. Valore che comunque non manca, e che come sempre affonda le sue radici nel vissuto e nella personalità di Chris Cornell, nei suoi demoni e nella sua spinta alla rivalsa. Il cantante non fa altro che descrivere vari personaggi, le loro azioni e le loro situazioni, le loro difficoltà, le vittorie e le sconfitte, solo per giungere alla più ovvia delle conclusioni: to be yourself is all that you can do, "essere te stesso è tutto ciò che puoi fare". Da una parte, una poetica del genera vezzeggia abilmente il pubblico più giovane, adolescente, quello che rappresenta  la più ampia fetta di mercato. Ogni ragazzo e ragazza che si approcci al rock, ed alla musica in generale, è infatti animato dalla stessa semplice, enorme esigenza: essere sé stesso, distaccandosi dall'immaginario della famiglia e della società per definire la propria unicità, la propria insostituibile personalità. Insomma, all'apparenza un testo furbetto... ed in parte lo è davvero. Tuttavia, il sottotesto dell'opera è un pelo più complesso, e descrive il tentativo di Chris Cornell di accettare sé stesso nonostante - parole sue - "le differenti tragedie e tutti gli errori orrendamente stupidi che ha fatto". Dopotutto ognuno di noi, ad un certo punto della vita, deve accettare sé stesso insieme agli errori - e talvolta agli orrori  - che questo comporta, ed è forse "l'unico, vero lato positivo d'invecchiare", afferma a tal proposito il cantante, aggiungendo: "...questo brano lo esprime con tale semplicità, in un modo che dieci anni fa mi sarei trovato in imbarazzo, ad inserirlo in una canzone... perché è così semplice. Ma è proprio così che dev'essere". 

Doesn't Remind Me

Il quarto brano in scaletta, Doesn't Remind Me, fu anche il terzo singolo scelto per rappresentare il nuovo album, forte anch'esso di un video qualitativamente superiore alla media e vincitore, non a caso, del premio come miglior music video del 2005. Il titolo è traducibile grosso modo come "non mi ricorda", lasciando sottinteso un soggetto che rappresenta, com'è ovvio, la base concettuale su cui poggia il testo del brano; testo, vista la natura dell'opera, d'importanza fondamentale sia per i contenuti, sia per una capacità di sintesi che ben si adatta a questo specifico sound. Cornell racconta principalmente dell'esigenza di gettarsi alle spalle il passato e di vivere il presente, lasciando in bocca all'ascoltatore un retrogusto d'amara malinconia. Infatti, ad essere lasciate indietro sono tutte quelle cose che "abbiamo amato", quelle che - usando l'iperbole del cantante - abbiamo addirittura "sacralizzato". I don't want to learn what I'll need to forget, "Non voglio imparare ciò che ho bisogno di dimenticare", e così si guarda al presente ed al futuro, godendo proprio di quegli istanti di pura, vitale immediatezza, istanti che "non ci ricordano nulla" e che, per tale motivo, non possono riportare a galla dolorosi ricordi del passato. Ascoltare gospel, indossare vestiti colorati sotto il sole, cantare o spaccare chitarre: sono questi alcuni dei tanti esempi che fa il cantante, un Chris Cornell sulla strada di una necessaria, per quanto difficile, riconciliazione con sé stesso. Il video prende a prestito la poetica della canzone piuttosto alla lontana, per quanto con indubbio gusto estetico e concettuale, mettendo in scena un vero e proprio racconto edificante, per certi versi perfino "pedagogico". Il protagonista è un ragazzino di circa otto o nove anni che, nonostante la giovanissima età, viene spinto ad allenarsi severamente per affrontare dei coetanei sul ring. Per quanto tali derive - sportivamente quantomeno opinabili - esistano davvero, il sottotesto del racconto non sta nell'inadeguatezza genitoriale, o nella crudeltà di una società rappresentata dalla platea, ma piuttosto nell'inseguimento, da parte del bambino, di una persona amata ma perduta da tempo: il padre. Fin dall'inizio, infatti, il protagonista gioca col modellino di un aereo militare - un F-15 Eagle - lasciando subito presupporre aspetti subliminali del suo pur breve passato. La canzone parte proprio durante queste scene di gioco, con la chitarra ritmica prima, e con la voce di Cornell subito dopo, caratterizzata da un'intonazione più alta del solito e, soprattutto, intrinsecamente leggera, costruita per contrapporsi con durezza al più turbolento ritornello. Brad Wilk costruisce velocità ed andatura attraverso fills tanto morbidi quanto articolati, definendo le prevedibili ma ben strutturate direzioni dei compagni. L'insieme, per quanto non rifugga da una generale mancanza di genuino pathos, delinea un quadro curioso: un'opera che nei suoi momenti più morbidi suona quasi come una filastrocca, una canzoncina per bambini, ma che in quelli più duri riporta l'ascoltatore a sonorità decisamente hard rock, palesemente anni '70 e '80, fino a sfociare in un assolo di chitarra di chiara scuola ottantiana, bello squillante e con quel piacevole retrogusto di metal vecchia scuola. Mentre Morello dà  sfogo alla catarsi del brano, il bambino del video si ritrova a combattere come un piccolo adulto, a perdere, a finire al tappeto. Il regista Chris Milk - uno fra i migliori professionisti del settore videoclip - mette in scena con estrema abilità il culmine della sua opera, trasformando la sconfitta del piccolo protagonista nell'esplosione di un velivolo militare, quello stesso F-15 Eagle che - ora lo sappiamo - fu la tomba del padre del bambino. Poi, così come Doesn't Remind Me si chiude su sonorità dolci e melliflue, simili alla quiete dopo la tempesta, allo stesso modo il notevole video finisce nel lieto fine di un bimbo restituito alla propria infanzia. Vederlo giocare, stavolta non col modellino dell'F-15 ma con quello di un aereo civile, è un simbolo dal duplice significato: lasciarsi alle spalle il passato - nel caso specifico, la morte di una persona cara - e promuovere una retorica profondamente pacifista, figlia del rock più classico, in linea con quelle che erano - e sono - le convinzioni politiche dei membri della band. I più attenti noteranno che, fra le riprese, saettano brevi flash di girato vero: un reale caccia militare fra le fiamme, ed un vero incontro di box con lo stesso bambino del video, Vinny Intrieri, in arte "Kid Vicious". Mentre le dichiarazioni di Morello nei confronti del video sono rimaste sul piano politico, quelle di Commerford richiamano al lato più umano, ed in particolare all'esistenza della Little League di pugilato, da lui definita "comprensibile, ma barbarica". Questo è anche l'unico video degli Audioslave in cui la band non viene mostrata mai, a riconferma che una bella storia, con belle immagini e notevoli maestranze, può innalzare di molto la percezione d'un opera agli occhi del pubblico; opera, questa Doesn't Remind Me, altrimenti destinata ad essere percepita per ciò che é: un pezzo discreto e godibile e nulla più.

Drown Me Slowly

Superata la fase "hit da classifica dell'album", approdiamo ad un pezzo in cui la poetica di Cornell ritorna alle antiche suggestioni, drammatiche e dall'evidente richiamo religioso: Drown Me Slowly (Affogami Dolcemente). Sonorità del più caratteristico Morello aprono ad un'introduzione che ricorda da vicino Like a Stone, evocativa e cadenzata, per poi cambiare repentinamente rotta e contrapporre, con inaspettato anticipo, la rabbiosa esplosione della band al completo. Evidente, fin da subito, è lo spessore e l'importanza della sezione ritmica: se infatti Brad Wilk dirige abilmente l'orchestra, orientando le direzioni dei compagni, Commerford definisce ogni sensazione del brano, da quelle più melliflue fino al tiro, notevole, delle parti più dure. La canzone accelera pur senza modificare i suoi tempi, solo aggiungendo elementi e sfumature fra le righe, in un intenso dialogo fra chitarra e batteria. Cornell rompe la supremazia della strumentale in un'ossessiva e catartica ripetizione, offrendo all'ascoltatore il matrimonio perfetto fra rock 'n roll vecchia scuola, stilemi rubati agli AC/DC e grunge, e senza minimamente suonare "sbagliato" al più severo degli orecchi. L'apice della sua esecuzione è solo il preludio al culmine dell'opera, curiosamente anticipato da uno scratching in linea con l'eredità dei Rage Against the Machine ma, in questo caso, giustificato principlamente dall'influenza dell'hip hop su tutta la   musica d'inizio millennio, troppo spesso abusato e messo lì a caso. La centralità del brano è comunque lasciata all'abile creatività di Morello, il quale dà forma ad una delle sue migliori esecuzioni: un assolo che mischia soluzioni del più tipico virtuosismo ottantiano, velocissimo e vanitoso, ad un caotico tripudio elettronico che solo il chitarrista degli Audioslave poteva concepire. Un simile exploit avrebbe potuto condurre ad un finale capace d'innalzare l'asticella qualitativa di diverse spanne, e tuttavia i Nostri optano - ancora una volta - per la più telefonata delle soluzioni: ritorno a note cadenzate e poi subito, ad incorniciare l'opera, il finale movimentato che ripropone la situazione iniziale, arricchito unicamente da qualche piccola variazione in chiave ritmica. Peccato. Fra le righe, invece, Chris Cornell costruisce uno dei suoi testi liricamente più semplici, caratterizzato da frequenti e schematiche ripetizione, riuscendo tuttavia ad imprimere al complesso un senso solido e compiuto. Attraverso richiami religiosi, immaginifici e metaforici, il cantante scrive di fatto un'ode alla volontà, un richiamo a quel go and save yourself con cui, tre anni prima, introduceva al pubblico le basi poetiche degli Audioslave. Per Cornell la Volontà è soprattutto qualcosa da contrapporre al giudizio altrui, ai consigli interessati come all'invito alla più becera autocommiserazione. Il dolore, "l'amaro in bocca", te lo porti e te lo porterai dietro sempre, e tuttavia, ripete ossessivamente il cantante, "non devi farti buttare giù". Quello che sembra un tema banale, Cornell lo definisce con mestiere ed emozione, credendoci davvero. Ancora una volta egli dà voce alle sue esperienze personali, alle semplici verità cui un essere umano necessita ogni giorno, senza preoccuparsi minimamente di ricamare sul suo lavoro un telo di leziosa, artefatta suggestione. No, il cantante mette semplicemente in mostra sé stesso, con tutte le umane miserie che questo comporta, accettando i suoi demoni, lasciandosi annegare, avvolgendosi in essi ma, proprio per questo, riuscendo pian piano ad affrontarli tutti. Insomma, il testo è un valore aggiunto non da poco, per una canzone, Drown Me Slowly, caratterizzata da belle intuizioni, ottime esecuzioni, e qualche immancabile occasione sprecata.

Heaven's Dead

Sesta di dodici tracce, Heaven's Dead (Il Paradiso è Morto) si pone fisiologicamente come lo spartiacque dell'intera opera, e non sorprende dunque che sia una lenta, intensa e drammatica ballata. Insomma, anche per quel che riguarda l'architettura del loro disco, gli Audioslave si limitano a soluzioni classiche e canoniche, ricercando pulizia e solidità con solerzia quasi maniacale. Brad Wilk definisce un percorso che dovrebbe essere semplicemente morbido, scegliendo invece di segnare la strada con una ritmica sì cadenzata, ma anche secca e decisa, tipica del suo stile di batteria. Un pezzo del genere è anche segnato, per sua intrinseca natura, dall'esigenza di sinergia fra basso e chitarra, e l'accoppiata Commerford-Morello non delude l'aspettativa, mai, nemmeno per un secondo, costruendo nota su nota una sorta di nebbia, un impalpabile velo che ricopre le parole del cantante ed il loro significato. Chris Cornell dà libero sfogo ad una delle sue migliori interpretazioni tornando su alcuni elementi che furono dei Soundgarden, ma con rinnovata maturità sia dal punto di vista canoro, sia da quello prettamente poetico e compositivo. La sua voce definisce ed accompagna l'intera canzone, e non potrebbe essere altrimenti perché, dopotutto, Heaven's Dead è intimamente, nel suo essere più profondo, un'appassionata ninnananna. Nell'immaginifico ed evocativo testo di Cornell c'è tutto, davvero: dalla depressione alla paura, dalla rivalsa alla salvezza, ma soprattutto c'è l'amore. L'amore per i suoi cari, per la nuova compagna, l'amore per sé stesso, e forse in particolar modo, l'amore per le sue figlie ed il piccolo nascituro. È a queste persone che pensava il cantante, quando scriveva strofe come "sono al tuo fianco, l'esercito di un singolo", o ancora, rimandando al titolo stesso: "quando sei triste, il Paradiso è Morto" - Heaven's dead when you get sad. Questa canzone è il canto di un padre che vive per i propri cari, un padre disposto a farsi carico di dolori e sofferenze - le frecce e le pistole di cui parla il testo - pur di proteggere le proprie figlie, lasciando così "volare i loro desideri". Un velatissimo effetto eco lascia risuonare nell'aria la dolce ninnananna, una nenia che, pur nella sua delicatezza, attraversa strofe d'aggressiva e convinta decisione. Sempre più carica di sonorità, la canzone raggiunge il culmine su poche note di chitarra abilmente snocciolate, tanto semplici quanto incisive sul piano emotivo. Il finale è lo show personale di un Cornell all'apice della forma e della professionalità, impeccabile ed emozionante, in perfetta simbiosi con quella sezione ritmica che è l'anima della catarsi. Una conclusione coi fiocchi per quella che, a mio parere, è fin'ora la traccia più solida dell'album, una lullaby che non risente minimamente né della natura derivativa della band, né della sua relativa mancanza d'originalità. Principalmente, perché non ne ha bisogno. Heaven's Dead è un brano la cui struttura, anzi, la cui essenza richiede il massimo del rispetto formale, un gioiellino per il quale compostezza ed uniformità sono valori aggiunti, e non limiti artistici e professionali. Inoltre, ancora una volta, esce fuori dalle liriche l'anima nuda di Chris Cornell, senza fronzoli nonostante il linguaggio aulico, privo di facile sensazionalismo nonostante le immagini evocative. Un fattore che, ascoltando gli Audioslave, non andrebbe mai sottovalutato.

The Worm

L'album torna piuttosto prepotentemente su sonorità hard rock - molto hard rock - con The Worm (Il Verme). Gli audioslave ritornano con decisione alle loro radici più classiche, a quegli anni '70 a metà fra rock americano e britannico, fra Deep Purple e Grand Funk Railroad, Boston e Led Zeppelin. Il migliore dei calderoni racchiuso in un riff che definisce l'intera canzone, un giro di chitarra così squillante da essere quasi acido, tondo e corposo, rimarcato con ciclica precisione da una sessione ritmica assolutamente basilare, carica di tutte le più incisive attenzioni che un simile sound necessita. In particolare, il bassista delinea un lavoro complesso che fa della fusione tra classico e moderno la sua colonna portante, riuscendo a mettere in scena sonorità sì classiche, ma dotate di una pulizia, una cura del dettaglio ed un gusto decisamente contemporanei, senza tuttavia risultare pacchiano o posticcio. Anzi. Chris Cornell, per quelle che sono le sue potenzialità, fa quello che definiremmo "il compitino"... solo che lo fa dannatamente bene, portando all'orecchio tutta una serie d'interpretazioni coi controfiocchi, arricchite da un'effettistica non invadente ma decisiva. In particolare, il delicato passaggio da una potenza vocale assolutamente hard rock, ad un'altrettanto rabbiosa ma intrinsecamente ponderata esecuzione blues, fanno della prova di Cornell una vera chicca, senza contare le sfumature soul, grunge e tutto quello che il background di un simile talento potrebbe offrire. La catarsi del brano è affidata come da contratto a Tom Morello, ed il chitarrista certo non delude, confezionando un assolo dei suoi: breve ed irripetibile, a seguire e precedere con caotica eleganza lo strapotere del compagno al microfono. Brad Wilk accelera, mentre l'esecuzione di Cornell si fa prima impalpabile e poi, con calcolata potenza, rabbiosa e decisiva, accompagnando il brano al suo più mite finale. Il testo messo insieme dal cantante, stavolta, si trova a metà fra autobiografia, pedagogia e, secondo alcuni, sarcasmo. In generale spicca l'aspetto personale, che parte dall'adolescenza e ripercorre in poche, evocative battute gli errori del singer, quei piccoli grandi sbagli che influenzano l'intera vita. Il lato più edulcorante risiede nell'intrinseca esortazione a non ascoltare i cattivi consigli ed i falsi amici, lasciando però spazio ad una velata presa in giro: la critica a coloro i quali con la fede si sentono improvvisamente puliti, rinati ed innocenti di ogni qual cosa commessa in passato. Una lettura del brano avvalorata dall'ossessiva ripetizione della frase "rimarrai lo stesso", e che non mi stupirebbe se si riferisse ad una critica di Cornell a sé medesimo. Dopotutto, nel superare le proprie paure e le miserie, i vizi e le debolezze, lo scomparso cantante aveva dovuto affrontare un percorso lungo e tortuoso, fatto di diversi "gradini", per usare un'espressione del brano. Tuttavia, memori del significato profondo di Drown Me Slowly, sappiamo che a quarant'anni Cornell aveva ormai accettato i propri demoni, senza la pretesa di cancellare il passato con un semplice colpo di spugna, e questo è forse il senso più intimo del brano. The Worm mostra finalmente le palle della band, se mi passate il francesismo, riuscendo ad andare oltre quell'eccessiva uniformità che caratterizza la prima metà del disco, ed ovviando anche quella tendenza a sonorità pop delle canzoni precedenti, pur senza la velleità di rifuggire da una base fortemente derivativa, tendente al palese omaggio alla tradizione. 

Man or Animal

Dallo spartiacque rappresentato da Heaven's Dead, passando per The Worm, è sempre più evidente che allontanandoci dalla prima metà dell'album - contenente tutte le canzoni scelte per scalare le classifiche mainstream - ci addentriamo finalmente fra opere che non hanno paura di mostrare un po' di carattere, oltre alla consueta qualità tecnica ed artistica; anche a costo di dare quasi fastidio, come nel caso di Man or Animal (Uomo o Animale). Non fraintendete, non intendo affatto dire che se un pezzo è concepito per il grosso del mercato, allora sia necessariamente piatto o privo di creatività, anche perché ci sarebbero decine di artisti fenomenali in grado di smentirmi; dico solo che per gli Audioslave è così. Non è il caso di questa canzone che, lontana dalle luci dei riflettori, mette in bella mostra sonorità piuttosto inaspettate, tendenti a quel punk rock che nel 2005 andava tanto di moda. Tuttavia, Man or Animal rischia di non piacere né al fan medio di Offspring e Blink 182, né - men che meno - a quello del punk vecchia maniera e dell'hardcore. E questo, dal punto di vista del sottoscritto, è il valore aggiunto del brano. Forse l'unico. Già l'attacco si differenzia dalla consuetudine della band, grattando l'orecchio dell'ascoltatore con un suono ambientale molto particolare: un motore che si avvia, quello di una motocicletta. Il rumore della levetta d'avviamento, seguito da quello rombante del motore, si fonde alla perfezione con l'attacco di una strumentale accuratamente disordinata, visibilmente studiata nel suo voler essere sporca e caotica. Anche troppo. Brad Wilk ripercorre, in certa misura, alcune derive che furono dei primissimi Rage Against the Machine, orientando così il baricentro dell'intero brano. Basso e chitarra lavorano in obbligata sinergia a costruire un muro sonoro piuttosto efficace, nella semplicità intrinseca al genere, mentre Chris Cornell è l'elemento alieno. La voce del singer rimane profondamente soul anche nei momenti più rapidi, ma questo a dire il vero non rovina l'ascolto, piuttosto lo rende singolare e curioso. Pur tendente a derive punk rock, dopotutto, Man or Animal rimane principalmente un pezzo hard rock, solo veloce e scompigliato, un po' come poteva essere per Communication Breakdown... solo che Communication Breakdown anticipava il punk di quasi dieci anni. Il background degli Audioslave si fa più evidente verso il culmine dell'opera, concretizzato come sempre nell'esibizione solista di Morello: un assolo che quasi non è un assolo, tanto è fulmineo e dissonante. Il finale è prima più lento e minaccioso, poi accelera nuovamente per chiudere in bellezza, sfumando solo negli ultimi istanti. Ecco, anche questa tendenza a chiudere i brani, sempre e comunque, con un finale sfumato, è indicativo dell'eccessiva leziosità nell'impacchettare il prodotto "Audioslave". Chris Cornell mette in scena un testo un po' diverso dal solito, aria fresca che consente di respirare qualcosa di diverso, rispetto alle consuete tematiche intimiste. Sarcasmo e sensualità concorrono a formare una canzone decisamente adatta al suo sound, un piccolo inno a gettare via vergogne e dignità e godersi l'amore nella sua interezza. Povero o ricco, felice o triste, freddo o caldo, e soprattutto uomo o animale, non fa alcuna differenza, in questo caso. Non ha importanza. Tutto quello che conta è ciò che Cornell sintetizza in una carrellata di allegorie ammiccanti e sensuali, a volte velate, altre volte più esplicite. Tutto quel che gli si può rimproverare è la tendenza a rimanere su una poetica tutto sommato edulcorata, quando un pezzo del genere si presterebbe a ben altra materia grezza; ma questo era il suo stile, e non aveva senso cercare di imitarne - magari malamente - un altro. Alla fine Man or Animal si dimostra una ventata d'aria fresca, convincente nella sua rombante semplicità, precludendosi alcune frange d'ascoltatori ma gustando tranquillamente ad altre. Gli Audioslave si son divertiti e si sente, ben più che all'ascolto dei pezzi più blasonati della stessa selezione. 

Yesterday to Tomorrow

Alla spudorata sensualità segue il più intimo romanticismo, grazie alle note dolci ma decise di Yesterday to Tomorrow, un pezzo il cui titolo preferisco tradurre nel suo contesto. Questa canzone è dedicata esplicitamente alla "nuova" compagna di Cornell, andando così a toccare alcuni dei concetti già espressi sulla title track; ma se Out of Exile guardava alla fine dell'umano esilio del cantante soprattutto attraverso l'immagine del piccolo nascituro, frutto dell'unione fra Cornell e Vicky Karayiannis, questa canzone si concentra invece sulla figura della donna. Dopotutto, è lei ad aver fatto dono al singer di un nuovo inizio, lei ad aver portato in grembo la promessa di un futuro diverso. E di lei, tanti fans di Chris Cornell sono venuti a conoscenza dopo la morte del cantante, in particolare attraverso le strazianti dichiarazioni della donna, o per quel messaggio d'amore da lui lasciato su Twitter pochi giorni prima, in cui, in occasione della festa della mamma, la ringraziava come marito e come padre, oltre che come uomo. Il testo affronta il difficile compito di essere romantico ma non zuccheroso, e lo fa attraverso soluzioni didascaliche ed articolate, lessicalmente più dense del solito. La poetica si articola fra  immagini retoriche, anche abusate, come "ho percepito il mondo girare solo per noi", ma anche fra derive più solide, come ad esempio "nessun rimpianto né rimorso, abbiamo più che ogni cosa", ma trova il suo culmine, il suo definitivo significante, nell'evocativa frase del chorus: "...and unlike the times before, from yesterday comes tomorrow" - "E nonostante i periodi precedenti, da ieri viene il domani"; ovvero, per dirla senza l'ingrata traduzione letterale, al passato segue sempre il futuro, ed alla depressione - eterna ombra del cantante - segue l'agognata serenità. Una serenità che, nel 2005, era incarnata da Vicky Karayiannis. L'attacco della strumentale è quasi in antitesi con le liriche: un giro di basso potente e corposo, rimarcato ben presto da colpi secchi e decisi alla batteria. L'atmosfera prende forma gradualmente attraverso le distorsioni di Morello, vibranti e leggere, definendosi del tutto grazie ad un'interpretazione di Cornell sentita ma professionale, precisa ed entro i canoni del genere. La componente emotiva, descritta da un amore che è soprattutto scelta e decisione, prende forma attraverso le infrequenti ma incisive deviazioni vocali e chitarristiche, fino a sfociare su derive atmosferiche dall'effettistica marcata, evidente prova del background di Morello. La catartica esecuzione del chitarrista è intrigante, insolita ed evocativa, anche se il vero culmine sta in quell'eco che dona profondità ad ogni parola del cantante: "...and unlike times before / when life comes alive the past moves aside / no regrets no remorse". Ma nonostante queste parole, torna tristemente alla memoria parte del requiem della vedova: "mi hai sempre detto che ti avevo salvato, che non saresti sopravvissuto se non fosse stato per me. Il mio cuore luccicava nel vederti felice, vivo e motivato". Nonostante tutto, all'epoca di Out of Exile, credo sia stato davvero così.

Dandelion

Con Dandelion (Bocca di Leone), l'album rimane su alcune delle caratteristiche della traccia precedente - determinazione e romanticismo - ma va a sfociare verso tutta una serie di diverse sfumature, frutto di diverse influenze, e più in generale su di un sound dalle marcate derive pop. A riprova della sua natura morbida ed orecchiabile, il testo della canzone è orientato ad un approccio didascalico che pone particolare risalto al ritornello, nonché ad una tematica ancor più delicata e zuccherosa di quella precedente, sebbene - è sempre il caso di ricordarlo - assolutamente sincera ed autobiografica. La bocca di leone è infatti un'allegoria del futuro figlio di Cornell, colui che "gioca laggiù, dentro il suo mondo caldo e soffice". In tal senso, Dandelion si qualifica come il perfetto seguito del brano precedente, Yesterday to Tomorrow, passando da colei che ha in grembo la promessa di un nuovo futuro, all'oggetto stesso di tale promessa: il nascituro. Chris Cornell delinea per quest'album quasi una sorta di "concept autobiografico", pur senza avere alcuna velleità in tal senso, fattore che se da una parte rappresenta un brillante punto di forza, dall'altra tende ad annoiare l'ascoltatore con il ripetersi di tematiche fin troppo personali... situazioni che, se non vissute personalmente, possono apparire blande e poco intriganti. Il singer descrive immagini retoriche profondamente evocative, un quadro quasi idilliaco traboccante serenità e speranza, colori caldi ed un diffuso, rincuorante senso di rinascita. Solo il finale lascia presagire quel pessimismo, mai del tutto sradicato, insito nell'animo del cantante: "Temo che tutto quello che ho perso s'ingigantirà con l'alzarsi dell'oscurità", come a presagire un inevitabile ritorno di quanto seminato nel suo difficile passato. Ma il ritornello cancella ogni dubbio, carico di gioia e scintillanti speranze, un augurio al nascituro d'auspicio soprattutto al cantante stesso. Fedele alla sua morbida essenza, Dandelion inizia immediatamente su sonorità particolarmente melodiche, supportate da una marcata sinergia tra il basso e la chitarra, caratterizzata, quest'ultima, da un timbro acustico che richiama a sonorità quasi "estive", come d'altra parte estivi sono i colori caldi evocati da Cornell. Sul ritornello, laddove il cantante rimarca la speranza e l'amore con quell'occhio intrinsecamente rivolto al futuro, la canzone esplode su soluzioni più elettriche e pompate, ma ugualmente melodiche, segnate da una diffusa e palpabile sensazione di propositività. Il singer in effetti domina la scena, sovrastato unicamente dall'audace controsenso di una batteria energica e dinamica, alternando una timbrica morbida, accompagnata da sporadici cori femminei, ad esplosioni di colore e di potenza dall'inatteso sapore ottantiano. Una potenza che trova il suo culmine nella consueta esibizione personale di Morello, tesa al massimo ma, tutto sommato, sulle righe del più tipico e blasonato rock contemporaneo. La prevedibile ripetizione del refrain pone fine al pezzo senza scosse, seguendo con scontata precisione lo schema utilizzato dall'inizio alla fine dell'album. Dandelion è una bella canzone impacchettata con tanto mestiere e scritta con sentimento, anche se tende a prolungare, forse all'eccesso, determinate atmosfere e tematiche autobiografiche, senza restituire in cambio quell'agognato lampo di genuina sorpresa. Le emozioni ed il pathos tuttavia non mancano, e la qualità resta alta. 

#1 Zero

La penultima canzone del disco, #1 Zero,  spezza quanto fin'ora seminato dalla band in chiave tematica e sonora. Abbiamo di fatto a che fare con un blues pensato e realizzato per la chitarra di Morello e per la voce di Chris Cornell, ma interpretato dal chitarrista con tutta la modernità del suo personalissimo stile, in antitesi con l'approccio classico che richiederebbe un brano del genere. Il cantante va invece sul sicuro, imbastendo la tipica storia della femme fatale cara al genere, interrompendo quella poetica autobiografica che l'aveva fin'ora contraddistinto. Ritmica cadenzata e un basso profondo, cupo e corposo, definiscono fin da subito la natura derivativa del brano, mentre il chitarrista si configura ben presto come l'elemento predominante di tutta l'opera. Le sue sfumature, le sue punte sonore e le sue trovate stilistiche sono l'anima della canzone, e ne definiscono tutto l'oscuro fascino, mentre il cantante, che pur dovrebbe risaltare, rimane confinato al ruolo prestabilito d'interprete sui generis. Un pezzo come questo, difatti, è stato senz'altro pensato a tavolino per dare risalto alla voce profondamente soul del cantante, il quale non a caso dà sfoggio di un repertorio vocale mica da ridere. Tuttavia, l'esecuzione di Cornell è sì ricca di mestiere e bravura, ma anche priva di quella genuina partecipazione cui siamo stati fin'ora abituati. Non un vero "difetto", sia chiaro, ma un fattore più che sufficiente a porre il chitarrista sul piedistallo al posto del cantante, nonostante il missaggio tenda a dare risalto proprio a quest'ultimo. Cornell fa il suo mestiere alla grande, ma Morello si diverte e diverte, trascinando l'ascoltatore nella sua personale dissacrazione del classico. Gli ex Rage Against the Machine si divertono a confezionare un blues radioattivo al punto giusto, pur senza reali eccessi sul piano sonoro, mentre Cornell canta tutta la sua sottomissione ad una donna irreale e vagheggiata, crudele come la leggendaria heartbreaker, tanto sensuale quanto irrispettosa dei sentimenti altrui. Insomma, gli imprescindibili canoni del genere. Tuttavia, il ritornello segna il parziale riscatto dell'uomo, ritrovando quell'autodeterminazione tipica del cantante americano, quel "go and save yourself" sottinteso in tanta discografia di Chris Cornell. Nonostante tale parentesi, la poetica del singer delinea un'oscura schiavitù spirituale e sessuale, un'ossessione priva di dignità sintetizzata dal titolo stesso: "I will never leave your side, but you call me your number one zero", il tuo "zero numero uno". L'ultimo degli ultimi. Nel suo momento di massima drammaticità, il pezzo sfocia in un hard rock molto duro, molto classico e, soprattutto, "molto americano", finendo così per racchiudere in sé decenni di musica e stilemi lontani tra loro, in una continua ed affasciante contrapposizione di cui l'exploit di Morello, pur breve, rappresenta il culmine e la sintesi ideale. La melodia del chitarrista, il suo classicissimo finale, e l'interpretazione di un Cornell mai uguale a sé stesso, rendono #1 Zero un pezzo piuttosto gradevole, del quale a distanza di anni, onestamente, non so ancora dare un'oggettiva valutazione: inattesa e piacevole chicca stilistica, o brano relativamente inutile, mera prova di stile in antitesi col resto dell'album? Forse un po' entrambe le cose, ma pazienza... il blues mi piace, Chris Cornell che fa blues mi piace, e mi piace lo stile di Morello. Quindi, mi piace anche questa canzone. E non poco. 

The Curse

Conclusione curiosamente un po' blanda, seppur piena di spunti interessanti, con The Curse (La Maledizione), un brano che si redime soprattutto sul finale, portato da una relativa mediocrità fin quasi oltre la media solo ed unicamente da Chris Cornell, la cui interpretazione intima e magistrale innalza il livello dell'intera esecuzione. Non a caso, tra quelle in scaletta, questa è la canzone che più tende alle antiche sonorità che furono dei Soundgarden. Per farla breve, sarebbe un pezzo finale anche parecchio interessante, se non fosse per l'inevitabile confronto con l'ultimo brano dell'album di debutto: The Last Remaining Light. Quello, nel parere di chi scrive, era il capolavoro della band, perfino migliore della blasonatissima Like a Stone. Il fascino insito nel lato oscuro dell'animo di Cornell, stavolta, frega anche me, lasciandomi preferire l'attonito e disperato pessimismo di quella terribile canzone, così magnificamente espresso, che non la propositiva spinta di The Curse. Ma - e non smetterò di ripeterlo - se guardiamo a questa discografia col senno di poi, non si può fare a meno d'apprezzare il fedele resoconto del cantante sul nuovo corso della sua vita. E pazienza, se il suo rinato ottimismo ci affascina di meno. Il testo di questa canzone in realtà è leggermente ambiguo: da un lato fin troppo sottovalutato, ma, dall'altro lato, effettivamente inferiore alla media del singer. La gran parte del pubblico ha ravvisato fra le strofe solo e unicamente versi d'amore; l'accorato appello di un uomo alla donna che ama. In certa misura, dopotutto, è esattamente così. Cornell definisce un protagonista che chiede aiuto, sostegno e speranza, ed un rapporto che gli sia in qualche modo di redenzione. Allo stesso modo, l'uomo promette il medesimo aiuto, l'identico sostegno, la stessa speranza, arrivando così al significante di tale poetica: I will be your luck and never be your curse - "Sarò la tua fortuna, e mai la tua maledizione". Molti hanno voluto scorgere un sottile filo tra questa tematica e quella del brano precedente, ed è probabile, in effetti, che l'alternanza tra le due tracce sia stata decisa proprio in virtù della loro "assonanza". Ma la femme fatale di #1 Zero c'entra poco o niente con la donna di questa canzone, una donna che possiede almeno due facce e due significati. Il primo significato è quello più superficialmente autobiografico, celebrato da Cornell in più di una canzone: il sostegno reciproco fra lui e la sua nuova compagna, la promessa di cambiare, di non rappresentare mai e poi mai "una maledizione". Il secondo significato, ben più profondo, è in quella redenzione che il cantante vagheggia fin dalle sue prime opere, nella liberazione da un dolore e da una paura che l'attanagliano da sempre, e di cui cantava magistralmente su pezzi come "Like a Stone", "Shadow on the Sun", e nella già citata "The Last Remaining Light". Ed allora, ecco che The Curse finisce per rappresentare una sorta di summa, l'epilogo di un discorso sul quale Cornell aveva fondato tutta la sua poetica: la ricerca spirituale di sé stesso, quel passato "maledetto" fatto di paura ed insicurezza, e poi la "resurrezione"; prima attraverso la riabilitazione, poi grazie ad una ritrovata vita sentimentale ed alla promessa di un futuro. Tutto questo in poche, semplicissime strofe. Fin troppo semplici, a dire il vero, criptiche nei momenti sbagliati, meno evocative ed immaginifiche che in altre canzoni; forse, volutamente più crude ed elementari. In definitiva, un testo potenzialmente ottimo lasciato grezzo, poco approfondito, troppo legato al contesto romantico e troppo slegato da quello, ben più interessante, profondamente intimista. Come da consuetudine, perfino in antitesi rispetto alla natura più profonda del brano, The Curse è caratterizzata da un riff di basso estremamente pompato, perfino eccessivo. Oltre ai soliti cliché classicisti, il pezzo è ricco di stilemi e trovate dal gusto più contemporaneo del solito, tendente alle radici alternative rock e "grunge" del cantante, la cui voce, d'altronde, domina su ogni elemento della composizione, finendo quasi per "scontrarsi" col basso di Commerford. Il risultato finale è un prodotto stranamente caotico, pur nel sua essenza fortemente melodica e sentimentale. Un caos, tuttavia, che trova paradossalmente sfogo nell'abitudinario schema seguito fin'ora per tutto l'album, e che prevede l'esibizioncina finale di Morello a precedere una conclusione lasciata, come sempre, a Chris Cornell. L'assolo elettricamente folle del chitarrista è più estremo del solito, dissonante fin quasi al fastidio, e l'esecuzione conclusiva del cantante davvero ottima: non solo professionale e precisa, ma anche il più "sentita" possibile. Insieme, nonostante la sconfortante piattezza compositiva, i due riescono a strappare più d'un sussulto, innalzando il valore dell'opera unicamente grazie a carattere e mestiere. Un risultato dignitoso che, tuttavia, non redime una traccia conclusiva più banale del previsto. 

Conclusioni

Come accennato sull'introduzione, Out of Exile fu accolto piuttosto bene dalla critica internazionale, e se tralasciamo la già disquisita retorica del "nuovo e più personale sound", mera illusione pubblicitaria dietro cui si cela l'ennesima opera derivativa, direi che la valutazione delle più note riviste anglofone coglie decisamente nel segno. Per carità, niente voti massimi o grandi lodi, ma delle marcate e generose sufficienze le quali mostrano un apprezzamento che supera, perfino ingiustamente, l'accoglienza che fu riservata due anni prima all'album di debutto. A distanza di oltre dieci anni, bazzicando la rete, è interessante constatare un fatto piuttosto singolare: la differente valutazione della critica straniera, rimasta invariata, e quella nostrana, la quale demolisce impietosamente la seconda fatica degli Audioslave. Non sempre, ma quasi. Ed è un peccato, perché nonostante tutte quelle debolezze che non esiterò ad elencare nella mia, di critica, Out of Exile non merita di essere scartato come irrimediabilmente "mediocre". Può non interessare, può lasciare indifferenti, può dar fastidio per la sua furberia sul versante commerciale, ma il secondo album della band di Cornell e Morello era e rimane un'opera più che discreta, ben costruita, eseguita e confezionata, vetrina di quattro musicisti che meritano d'essere ascoltati a prescindere. Ed è un peccato, oltretutto, che tali critiche siano sovente rivolte con malcelata superficialità, spesso e volentieri portando unicamente l'analisi di due o tre di quei pezzi usciti con il loro bel videoclip, quasi non esistesse il resto del disco. E poi il fastidio, soprattutto per uno "zeppeliniano" come il sottoscritto, per quei continui e saccenti riferimenti ai Led Zeppelin ed ai loro riff, come se la storica band fosse l'unico riferimento degli Audioslave, e non piuttosto il Grande Rock americano, i classici dell'heavy blues e del soul, il funk, l'alternative rock anni '90, l'heavy metal ottantiano e, tipo, metà della scena rock britannica anni '70. Ed infine sì, anche i Led Zeppelin. Insomma, per una volta sono d'accordo con quelli di All Music, Rolling Stone e compagnia danzante, più che con i critici nostrani. Ma se Out of Exile può considerarsi un disco solido, nella sua struttura e nella sua composizione, nonché facilmente vendibile, è anche indiscutibile la sua debolezza sul lungo periodo. Il processo lavorativo, deciso in primo luogo da Rick Rubin, il corpulento manager degli Audioslave, e dai quattro musicisti, prevedeva chiaramente una standardizzazione ancor più rigida delle tracce: riff pompati e baritoni, predominanti ma non in primo piano, laddove vanno la voce di Cornell e la chitarra di Morello. Quest'ultimo diviene nulla più di un costoso ornamento, pura velleità masturbatoria, mentre il cantante, la cui splendida voce potrebbe contare più sul suono, che non sul significato delle parole, viene "abusato" fino a risultare letteralmente didascalico, perennemente in bilico fra la performance stratosferica, quando non memorabile, ed una noia prolissa e prolungata. Praticamente, non solo Out of Exile conserva tutti gli errori del disco di debutto, ma li amplifica e ne fa uno standard - e non a torto, commercialmente parlando. Infatti, nonostante i granitici riff portati avanti dalla sezione ritmica, l'altro elemento che salta subito all'orecchio è l'evidente deriva pop della band. E non ci sarebbe assolutamente nulla di male, se non fosse che in casi come questo, ad accontentare capre e cavoli, si finisce per piacere a tutti e a nessuno, ed è per questo che gli Audioslave non saranno mai ricordati con l'alone di rispetto che, tutt'ora, aleggia sui Soundgarden e sui Rage Against the Machine. Insomma, l'intento era dar vita ad un prodotto facilmente vendibile sia ai vecchi fans, non sempre facili d'accontentare, sia ad un mercato nuovo, più ampio e soprattutto "di bocca buona", tenendo vivo l'interesse con il rilascio periodico di video musicali confezionati ad arte. Lo stesso Chirs Cornell pare fosse intenzionato a far uscire un disco all'anno, in modo forse da regalarsi il suo personale "diario in musica". I suoi testi, bistrattati da parte della critica, raccontano il periodo successivo la disintossicazione: contrariamente da quanto asserito su taluni articoli, infatti, all'epoca di Out of Exile il cantante aveva già smesso di bere e di assumere droghe, e stava smettendo anche di fumare, con risultati più che evidenti nell'eccellenza del cantato. La nuova relazione, la figlia nata da poco ed il bambino in procinto di nascere, fanno di questo particolare periodo un raggio di sole, nella tormentata vita di Cornell. E lui, privo di velleità poetiche fuori dall'ordinario, ne celebrava l'avvento nelle sue canzoni, cercando sempre di dare tutto l'amore possibile. Mettendoci l'anima. Tuttavia, privo di tensioni cui dare sfogo attraverso le parole, la poetica del singer finisce qualche volta per arrancare, scoprendo il fianco a sporadiche debolezze ed immagini fin troppo retoriche. Ma nonostante tutto, rimango dell'idea che la naturalezza autobiografica del cantante, unita al suo talento ed alla sua professionalità nella scrittura, regalino nuovamente un prodotto lirico più che dignitoso, commovente ed emozionante... a patto, naturalmente, d'avere le palle di prendersi sul serio. Quel che accadde dopo il 2005 è già storia: un ultimo disco e poi lo scioglimento, una fine prematura i cui semi erano già evidenti su Out of Exile, un album stilisticamente più variegato di quello precedente, derivativo d'una infinità di correnti ma, alla base, caratterizzato ancora dagli stessi punti di forza - e dagli stessi punti deboli - dell'album di debutto, ma meno fresco di quest'ultimo, paradossalmente meno colorito e, in definitiva, meno memorabile. Peccato, perché alla piena sufficienza il disco ci arriva, ma con tutti i presupposti e le potenzialità latenti, un'opera come Out of Exile avrebbe potuto rappresentare il vertice del rock contemporaneo. Ed invece, è solo un buon disco rock come tanti altri.  


Ps: se siete in possesso della versione giapponese di Out of Exile, avete tra le mani un'opera dall'enorme valore aggiunto. Il prodotto lanciato sul mercato nipponico, infatti, è forte di ben due tracce supplementari: la prima è la cover di Super Stupid, gioiellino strumentale tratto dall'album del '71 "Maggot Brain", dei Funkadelic, un pezzo che mette in luce il miglior Morello possibile alle prese con uno dei suoi principali riferimenti artistici. Solo che, in questo caso, si divertono anche tutti gli altri, compreso Chris Cornell. Veramente imperdibile. La seconda è una versione acustica, e dal vivo, di Like a Stone, una delle migliori tracce di tutto il repertorio degli Audioslave. Se pensate che la canzone sia bella già di per sé, sappiate che dal vivo la band metteva in mostra un'energia, un carattere ed una tecnica tali da eclissare ogni critica posta fin'ora. Almeno, quando Cornell era in grazia di Dio, come in quel particolare periodo. Quest'esecuzione, intima e personale, è una delle migliori mai realizzate dallo scomparso cantante, se non la migliore. 

1) Your Time Has Come
2) Out of Exile
3) Be Yourself
4) Doesn't Remind Me
5) Drown Me Slowly
6) Heaven's Dead
7) The Worm
8) Man or Animal
9) Yesterday to Tomorrow
10) Dandelion
11) #1 Zero
12) The Curse
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