AUDIOSLAVE

Live in Cuba

2005 - Epic / Interscope

A CURA DI
ANDREA ORTU
06/09/2017
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

La storia degli Audioslave è stata breve ma intensa: tre album in quattro anni e decine di concerti, oltre ad alcuni singoli di notevole successo, a testimoniare un'esperienza umana e professionale che, sulla carta, avrebbe  potuto fare la storia del rock: l'unione di tre quarti dei Rage Against the Machine con il cantante dei Soundgarden, ovvero il sodalizio fra due delle più importanti realtà rock anni '90. Grandi protagonisti della musica contemporanea, dunque, che vale la pena ricordare ancora una volta uno per uno: il cantante Chris Cornell, recentemente scomparso, il geniale chitarrista Tom Morello, il batterista Brad Wilk e il bassista Tim Commerford, le colonne portanti del sound della band. Con loro sono stato duro, come avrà avuto modo di notare chi già è passato per le mie recensioni dei tre album in studio, senz'altro ben più duro di gran parte del pubblico, ma non lapidario quanto certa critica fin troppo consapevole  dell'importanza dei nomi coinvolti, e quindi più interessata a far parlare di sé che delle opere in esame. Tuttavia, della parentesi Audioslave quel che rimane è soprattutto il rammarico per un'occasione così platealmente sprecata. La mia valutazione complessiva potrebbe essere così riassunta: "gli album sono tutti e tre godibili, ben fatti e ben confezionati sia dal punto di vista tecnico che stilistico, eppure ognuno di essi, nessuno escluso, difetta di quel lampo di umano genio che aveva definito la carriera dei suoi musicisti, di un'anima unica ed irripetibile e, cosa più importante, di elementi che fossero anche solo lontanamente scomodi o disturbanti, inaspettati, sopra le righe". Tutto vero, almeno finché non senti gli Audioslave suonare dal vivo. Di fronte a un pubblico in carne ed ossa, i Nostri non davano solo il meglio di sé, ma offrivano la loro anima nuda senza indugiare su numeri da circo o altre baggianate, caratteristica dei migliori perfino in questo secolo, dando sfoggio di un carisma ed una potenza - di una rabbia, perfino!  - assolutamente insospettabili. Eppure, sebbene ognuno dei loro concerti rappresentasse l'eccellenza pura del rock contemporaneo, nessuno si sarebbe immaginato che potessero addirittura passare alla storia della musica americana. E per "americana" intendo: del continente americano; e per "storia della musica", forse, dovrei intendere storia e basta, se vogliamo concedere alla musica, anzi all'arte, la capacità di cambiare le persone e la mentalità dei popoli. Era il 6 maggio del 2005 quando gli Audioslave si esibirono a l'Avana, capitale della Cuba di Fidel Castro: oltre settantamila persone in visibilio a riempire Plaza Anti Imperialista, scelta probabilmente non casuale e che strappa un sorriso nient'affatto sarcastico, ma bensì di ammirazione, per un traguardo che pareva completare a meraviglia la carriera di Morello e gli altri ex Rage Against. Per musicisti da sempre impegnati su tematiche politiche, ed orientati ben più a sinistra della pallida retorica liberal-democratica, suonare sull'isola simbolo della resistenza all'imperialismo neo-liberista degli States era come il compimento di un percorso umano ed artistico durato anni ed anni, un'impresa degna di stima a prescindere dalla parte politica che si sceglie di favorire, o dall'ideologia cui si sceglie di credere. A maggior ragione, tra l'altro, se al governo della più grande potenza mondiale c'era ancora quel George W. Bush che aveva portato la guerra in Medio Oriente, creando le condizioni sociali per gli attuali dissesti di cui abbiamo ormai quotidiana notizia. Certo, pur con tutta la loro apertura a meccaniche socialiste, gli Audioslave erano comunque figli di una nazione rispettosa delle libertà individuali e dei diritti umani, argomenti non felici in terra cubana e da sempre sbandierati dalla classe politica statunitense; un po' a ragione, un po' per giustificare atti politici quantomeno discutibili. Ma nel 2005, ed ormai già da alcuni anni, si assisteva ad una progressiva riapertura di Cuba al resto del mondo, e dal resto del mondo verso l'isola, in un processo lento ma inarrestabile culminato con la riapertura dell'ambasciata statunitense a l'Avana, e di quella cubana a Washington, il 30 giugno 2015. Non che fosse la prima volta che una band occidentale si esibiva a l'Avana: nell'81, un anno dopo la momentanea apertura all'emigrazione, i Fabulous Titans fecero il pienone nei locali della capitale, mentre nel 2001 i gallesi Manic Street Preachers si esibirono al Teatro Karl Marx, in un concerto immortalato sul noto "Louder Than War: Live in Cuba". Ma un concerto come quello degli Audioslave, di quelle dimensioni e in una delle più importanti piazze del paese, con protagonisti di origine statunitense, ecco: una roba del genere non s'era ancora mai vista. Dovettero passare altri dieci anni e la fine dell'embargo, perché si ripetesse un simile spettacolo: prima con i Dead Daisies al Roc Por la Paz, poi con Diplo e Major Lazer davanti all'ambasciata statunitense ed una folla oceanica, fino al monumentale concerto dei Rolling Stones nel 2016, di fronte ad una platea di qualcosa come un milione di persone, uno spettacolo unico immortalato sullo splendido Havana Moon. Gli Audioslave sono stati dunque i precursori di nuovi corsi storici, le cui dinamiche vanno avanti e mutano tutt'ora, ed è attraverso tali presupposti che parleremo della loro più importante impresa musicale e del DVD che ne raccoglie la memoria: Live in Cuba. Edito come sempre dalla collaborazione fra Epic Records ed Interscope Records, missato da Brendan O'Brien e Karl Egsieker, e prodotto dall'integerrimo Rick Rubin, il live album uscì alcuni mesi dopo il secondo disco della band, il gradevole ma insoddisfacente Out of Exile, sebbene al momento del concerto mancasse ancora un mese all'uscita della seconda fatica degli Audioslave. Come da esplicita richiesta della band, l'evento fu annunciato con un solo giorno d'anticipo e fu totalmente gratuito, ma lo scarso preavviso non impedì alla piazza di riempirsi di un pubblico caloroso ed euforico, capace di cantare a memoria le canzoni più belle di Cornell e compagni. Uno spettacolo meraviglioso che celebra l'unione di questi quattro musicista più di ogni altra opera della loro discografia.

Set It Off

Dieci minuti, forse quindici, per risolvere alcuni problemi tecnici alla batteria, poi lo spettacolo comincia quando esplode Set it Off, pezzo che già dal titolo rimanda all'immagine di un detonatore innescato e pronto all'uso. La canzone, tratta dall'album di debutto della band, è un inizio non casuale né privo di senso, perché oltre ad aprire le danze con la metafora di un esplosivo che, in quel momento, è lo stesso pubblico della Plaza, il suo testo è forte di una poetica leggibile sotto punti di vista significativi e potenzialmente anche politici. Il testo parla di rivoluzione e rivoluzionari, anzi, va più in profondità e parla di idee e ideatori, che il cantante chiama "radunatori", allegoria che riporterà l'ascoltatore più preparato all'immaginifico pifferaio di Stairway to Heaven. Se tuttavia quest'ultimo, l'ascoltatore, si aspettasse un testo palesemente politico ed in linea con lo spirito dei Rage Against the Machine, ne resterebbe deluso o quantomeno contrariato. Chris Cornell non era De La Rocha, e la sua poetica non ha mai avuto quello stesso taglio rabbioso ed infuocato; no, il cantante dei Soundgarden guardava al mondo con un distacco più morbido, pessimista e disilluso, e così i suoi stessi radunatori di folle rimangono vittime delle loro idee, e le loro idee vittime del fraintendimento e della corruzione. Le folle, infine, vittime di loro stesse e dei soliti carnefici. La potenza del brano suggerisce dunque solo l'umano ripetersi di un ciclo che comunque è vita, comunque è voglia e desiderio di un cambiamento che vive nella speranza, e la speranza di dare un senso alle proprie azioni - come in parte sottinteso da Cornell su The Last Remaining Light - è l'unica cosa che ci tiene in vita e ci fa andare avanti. Insomma, non certo l'apoteosi del regime cubano o di determinate argomentazioni a sinistra, ma dubito che questo avesse importanza per il pubblico a l'Avana, la cui mente orientata allo spagnolo doveva essere concentrata ben più sulla musica, che sui testi. E la musica era fantastica, molto, molto più incisiva e potente di quell'hard rock imperdonabilmente lineare immortalato sull'album di debutto. E' Brad Wilk ad innescare la detonazione, mentre Commerford è l'esplosione vera e propria, sua l'onda d'urto, mentre Cornell e Morello sono le fiamme che divampano. L'esecuzione in sé non è tanto diversa da quella in studio, se si esclude un momento centrale in cui il cantante dialoga con la sola batteria, la ragione che parla all'istinto, ma quel che sorprende - o che almeno sorprende me - è che nonostante ciò il risultato finale è qualcosa di completamente diverso, a riprova che il problema degli Audioslave non è mai stato nelle canzoni, o nell'"anima", per così dire, ma in ciò che quell'anima riusciva a corromperla: una lucida e schematica scelta di mercato. Tutto è simile eppure diverso, differente non solo dalla band cui siamo abituati, ma anche ai live di tanti artisti votati ad una riproposizione dell'arte noiosamente identica ai loro prodotti in studio, a soddisfazione di un pubblico dai gusti sempre più omologati. Non siamo certo nei paraggi dei gloriosi concerti rock anni '70, in cui tutto era veramente inaspettato, ma la grezza semplicità degli Audioslave riesce a restituire finalmente quattro musicisti eccezionali in tutta la loro intima purezza, e non si potrebbe davvero chiedere di meglio. 

Your Time Has Come

Non c'è un vero e proprio stacco tra il pezzo d'apertura e quello che segue, a parte un intangibile muro di applausi ed incitazioni, cosicché l'ascoltatore viene immediatamente catapultato fra le note di Your Time Has Come (Il Tuo Tempo è Giunto). Il brano, come molti ricorderanno, apre il secondo album degli Audioslave, di cui la band diede un assaggio anticipato al suo pubblico cubano, anche se questa canzone in particolare era già uscita come singolo il tre maggio, pochi giorni prima del concerto a l'Avana. In seguito, l'esibizione sull'isola di Fidel Castro avrà talmente tanto peso, anche a livello d'immagine, che le riprese del live verranno utilizzate per il videoclip della canzone. Le scene del video sono quasi tutte estrapolate da una ventina di minuti di goliardiche riprese presenti nel DVD, nelle quali i Nostri sono filmati a fare né più né meno che i turisti su di un'isola caraibica. Anche stavolta vale la regola di prima: struttura molto simile a quella della versione in studio ma più potente, più carismatica e sottilmente superiore, benché sia chiaro che la band sta ancora scaldando i motori ed è in fase di rodaggio. Tralasciamo la sterile polemica sul riff così simile a quello di Bad Seed, dei Metallica, e godiamoci un pezzo la cui disarmante semplicità mette al centro la passione e il divertimento, la potenza piacevolmente fine a sé stessa. Proprio come nella versione in studio, anche dal vivo il brano poggia sui classicismi compositivi di bassista e batterista, anche se, come già avveniva su Set it Off, il micidiale groove di Commerford ricorda da vicino le migliori atmosfere dei Rage Against the Machine, caratteristica che sull'album in studio tende a sfumare fin quasi al silenzio. L'assolo di morello è ugualmente "spaziale" ma più tirato, quasi il chitarrista voglia dare prova della velocità delle proprie dita, mentre Cornell mette in parte via l'aggressività in favore del dialogo col suo pubblico. Il cantante cammina avanti e indietro con l'asta del microfono in mano, quasi minaccioso, incitando la piazza e indicando con un sorriso quelli più scalmanati, dando alle sue parole un significato più diretto e concreto. Riguardo il testo, infatti, pare che l'ispirazione provenga da "People Who Died", una canzone del 1980 della Jim Carrol Band che poneva omaggio alle vittime della droga. Considerato che, nel periodo d'uscita di Out of Exile, Chris Cornell aveva appena concluso un ciclo di riabilitazione dall'uso di sostanze stupefacenti, abbiamo chiaramente a che fare con una scelta di carattere personale. Il cantante, tuttavia, preferisce deformare il senso del suo riferimento ad un significato più vasto, vertendo su un'indefinita e grottesca inutilità della morte. Ad influenzare il testo del brano è infatti l'esperienza del singer al "Vietnam Veterans Memorial", il monumento in memoria dei caduti americani in Vietnam. Cornell imbastisce abilmente l'alternanza fra leggere allegorie, caratteristiche della sua poetica, e brutali descrizioni di morti e ferite, citanto esplicitamente i "cinquantamila nomi scolpiti tutti sulla roccia". Il senso pacifista del brano è in perfetta sintonia col messaggio della band e con l'evento in questione, giacché l'ombra della guerra ha sempre aleggiato su Cuba e sulla sua popolazione. Per il cantante, la morte di decine di migliaia di ragazzi in una guerra ipocrita è paragonabile ad un "atto criminale", ed il pensiero di una morte improvvisa e inutile è per lui quasi insopportabile; un elemento, questo, che tolto dal contesto politico ha sempre fatto parte della poetica di Cornell. Naturalmente, quella a l'Avana è una grande festa, e l'aspetto drammatico delle parole cade giustamente in secondo piano, e tuttavia il seguito di Your Time Has Come sembra perfettamente in linea con quella paura della morte che, come sappiamo, per Chris Cornell era anche fatale attrazione. 

Like a Stone

The next song is called Like a Stone, urla il cantante ad un pubblico in visibilio, aprendo ad una cascata di urla entusiaste, a dimostrazione che l'intera piazza cubana conosce perfettamente uno dei due brani più famosi della band: Like a Stone (Come una Pietra). Normalmente, quando una canzone dal sapore così intimista viene suonata di fronte a migliaia di spettatori, qualcosa d'indefinito si perde per la strada; l'energia collettiva di una folla sterminata, capace di unire innumerevoli individui in un unico pensiero, tende però a disperdere lo spirito di opere cui necessita una certa introspezione. Ecco, non è questo il caso. Like a Stone è senza la benché minima ombra di dubbio un pezzo introspettivo, eppure i Nostri riescono a trasmettere il senso di solitudine che ne riempie le strofe ad oltre settantamila spettatori, senza perdere quasi nulla dell'atmosfera originale e riuscendo perfino a migliorarne la comunicazione, trasformando una sorta di monologo interiore in un accorato dialogo tra musicisti e spettatori. Per il resto, il brano è quello che conosciamo. Tom Morello apre a sensazioni di velato impatto emotivo, intimamente malinconiche, il bassista incalza e la batteria, con antitetico coraggio, offre una base dalla durezza inaspettata eppure non invadente. Chris Cornell parla al suo pubblico con quello strano soul che era suo e solo suo, coadiuvato dal controcanto di Tim Commerford, dando sfogo al suo animo tormentato fino alla splendida catarsi di Morello. Il chitarrista offre alla piazza ciò che la piazza vuole, ovvero una riproposizione abbastanza fedele di quell'assolo, così elettricamente straziato, che contraddistingue la versione in studio di Like Stone, dandogli solo un po' più di respiro e riflessione. La piazza ondeggia, conosce a memoria il ritornello e consola Cornell da quell'attesa mortuaria che caratterizza il testo. Quando il cantante morì e lessi che, poche ore prima di togliersi la vita, aveva pubblicato "In My Time of Dying" dei Led Zeppelin, il pensiero mi corse immediatamente a Like a Stone, alle analogie tra il protagonista del brano Zeppelin - in punto di morte e disperato al pensiero del giudizio divino - ed il soggetto di questa canzone: un Cornell spiritualmente lacerato al pensiero dell'incombere del tempo e della morte, e dai dubbi ancestrali che la morte porta con sé. Quest'oscuro terrore è sempre stato parte del cantante e della sua poetica, intrinsecamente legato a domande troppo grandi, per possedere una risposta, come il senso ultimo delle nostre azioni, o il destino che ci attende al termine del cammino. Dubbi, questi, che forse l'avrebbero perseguitato fino a quell'ultimo, fatidico giorno. Paura della Fine, solitudine, preghiera, smarrimento e speranza: tutto questo è Like a Stone, un'attesa quasi trepidante di un destino ineluttabile ed incerto, immobile, attonita e passiva. Come una pietra. Eppure, ancora una volta, quella della Plaza Anti Imperialista è una grande festa, una manifestazione di Vita cui perfino la morte può partecipare con un sorriso. Il concerto entra definitivamente nel vivo. 

Spoonman

Per dimostrare che il concerto è passato alla sua fase più densa ed importante, gli Audioslave fanno una scelta che non avevano mai fatto fino a quel momento: proporre materiale delle loro precedenti esperienze musicali. La scelta cade prevedibilmente su Spoonman, un pezzo dei Soundgarden del 1994 che ha fatto la storia del rock di Seattle, il cui titolo potrebbe essere sommariamente tradotto come "uomo dei cucchiai". Pur essendo inquadrabile nell'indefinito calderone chiamato "grunge", Spoonman fa sua l'esperienza dell'heavy metal ottantiano aggiungendo determinate sfumature, poche ma incisive, poggiando su di un groove tipicamente primi anni '90, stilisticamente non dissimile da tanti riff di basso e batteria dei Rage Against the Machine. Ci sono due motivi piuttosto solidi, relativi alla scelta di suonare proprio questo brano; il primo è che l'album da cui è tratto, Superunknown, rimane il più famoso dei Soundgarden, l'opera che ne sancì il salto di qualità a livello commerciale - quello, per capirci, che ospita anche "Black Hole Sun"; il secondo motivo invece è proprio il groove, perfetto per il background e per lo stile di Commerford e Wilk. Il cantante non esce più di tanto dalle righe da lui stesso tracciate dieci anni prima, ma è in stato di grazia: ora riflessivo, ora scatenato, prima sull'orlo del baratro, quasi sul punto di stonare, e dopo preciso come un orologio, ad alzare potenti grida che urlano rivalsa e soprattutto salute, quella salute che troppe volte era mancata ai concerti dei Soundgarden. Tom Morello sembra quello meno coinvolto, magari non è il suo genere, ma la sua reinterpretazione dell'assolo - fedele e diverso al tempo stesso - è affascinante. Infatti, se nel pezzo originale l'assolo poteva ricordare certo materiale degli Iron Maiden, o anche dei Judas Priest, qui la scuola è palesemente quella degli ultimi U2... e non è per niente un male, anzi: quale che sia la propria fede musicale, la chitarra di David H. Evans aka The Edge ha fatto scuola a tutti i chitarristi contemporanei, Morello compreso. L'aspetto più determinante è però la base su cui poggia l'intera opera, ovvero l'onnipresente muro di suono di Commerford e Wilk, il cui sound è simile all'originale ma enormemente più possente, coatto e pompato. Fra le strofe, Cornell torna ad un periodo della sua vita più semplice ma al tempo stesso più oscuro, antecedente il suo secondo matrimonio e, soprattutto, la riabilitazione dall'uso di droghe. Non che la tematica sia di natura autobiografica, almeno in superficie. Il nome "Spoonman" fu un'idea del bassista dei Pearl Jam, Jeff Ament, per la soundtrack di un film che doveva coinvolgere sia la sua band che i Soundgarden: Singles, del 1992. Alla fine il termine non trovò spazio sulla pellicola (da vedere, se vi interessa il grunge), ma venne riutilizzato da Cornell sulla canzone che noi tutti conosciamo, il cui testo è ispirato allo stesso musicista di strada che ispirò Ament per il titolo: Artis the Spoonman, un artista di Seattle noto per le sue esibizioni con... i cucchiai. Artis, che in passato aveva collaborato con gente del calibro di Frank Zappa, fu coinvolto alla realizzazione del brano e del videoclip, mentre Cornell ne analizzava la figura dal punto di vista prettamente sociale: "...è soprattutto riguardo il paradosso di chi è (Artis) e di come la gente lo percepisce. E' un musicista di strada, ma quando suona in giro viene valutato e giudicato in maniera totalmente sbagliata da molta gente. Pensano che sia un vagabondo, o che lo stia facendo perché non riesce a trovarsi un lavoro normale. Lo mettono alcuni gradini sotto la loro scala sociale per via del modo in cui percepiscono qualcuno vestito in maniera differente. Le liriche esprimono il fatto che io mi identifichi molto più facilmente in qualcuno come Artis..."; traduzione mia, pensieri di Chris Cornell. Quello che mi affascina, però, oltre al discorso sulla percezione del prossimo in relazione all'immaginario collettivo, è la continua riproposizione della frase save me, "salvami", un'espressione piuttosto frequente nella poetica spirituale di Cornell, prima che il grido d'aiuto si trasformasse nel più cinico ma concreto go and save yourself degli Audioslave. 

The Worm

Dal 1994 si torna repentinamente al 2005 con The Worm (Il Verme), brano spartiacque dell'allora inedito Out of Exile. Tra i pezzi del secondo album degli Audioslave, The Worm è forse il più pesante e duro di tutti, di evidente scuola settantiana, tanto da ricordare certe cose dei Black Sabbath o dei Led Zeppelin; in particolare "Black Dog", con quel possente botta e risposta fra voce e strumentale. Al brano di Cornell e compagni manca il sarcasmo degli Zeppelin, o l'oscurità dei Sabbath, ma la ruvidezza ed il sound voluminoso rendono l'opera piacevole e riconoscibile, insieme figlia del suo tempo ed intelligentemente derivativa. Ovviamente, se già tutto questo è vero per la versione in studio, in concerto ogni difetto tende a sfumare ed ogni pregio ad aumentare. L'amalgama essenziale è il riff di basso e batteria che caratterizza il brano, il quale diviene puro e semplice muro sonoro, quasi indistinto nella sua pompata assolutezza. Nonostante tutto, però, la chitarra di morello risuona alta e squillante, e la voce di Chris Cornell chiara e potente, ruvida nella sua pulita precisione. L'assolo di Morello, benché simile all'originale in studio, tende ad assomigliare a quello che in futuro sarà definito "monkey laughter solo", per via della sua somiglianza alla risata di una scimmia, con la sostanziale differenza che in quel caso le distorsioni saranno più corte, secche e spezzettate: un ottimo esempio della vena sperimentale live che ha sempre caratterizzato il chitarrista. Il testo, come molti altri del cantante, mette in mostra l'abilità di Cornell nel dar vita a pezzi in grado di parlare sia del loro autore, sia, potenzialmente, dell'intero pubblico della band. Cornell era un artista sincero e... romantico, in un certo senso, ma era anche perfettamente in grado d'intuire determinate logiche di mercato e fare il bene del suo portafogli, senza per questo dover rinunciare ad un certo spessore concettuale. Trovo eccezionale, soprattutto, come riuscisse ad imbastire un brano come questo, carico di spunti edulcoranti e "pedagogici", e renderlo interessante, forte e perfino cool, anziché prevedibilmente pedante e stucchevole. Dietro ogni amicizia sbagliata, ogni consiglio interessato e falso, c'è un pezzetto della vita del cantante che quasi sempre è parte della vita di tutti, un compromesso narrativo che non solo non dispiace, ma funziona alla perfezione. Cornell coglie l'occasione per usare un sarcasmo tagliente nei confronti di un certo tipo di persone, coloro i quali attraverso la fede credono di potersi ripulire di ogni colpa o rimorso, una rabbiosa ironia che nasconde anch'essa un pezzo della vita del singer e forse una velata auto-critica, frutto dei difficili anni di riabilitazione. The Worm si conclude come da consolidata tradizione nei fills del batterista, in una ventata di granitica possanza destinata a durare ancora un bel po'.

Gasoline

Giusto il tempo di riprendere fiato, poi Brad Wilk e Tim Commerford riaprono le danze con un altro brano dalla cadenzata veemenza, riflessivo ma allo stesso tempo parecchio duro, l'ultima canzone estratta come singolo dall'album di debutto degli Audioslave: Gasoline. Letteralmente "gasolio", il titolo indica in realtà semplice benzina, giacché tale è il significato negli Stati Uniti, e delinea fin da subito lo spirito on the road dei primissimi Audioslave, allora intenzionati a rimarcare l'adesione ad un immaginario e un sound decisamente classici, avulsi a quelle tendenze moderniste - grunge o hip hop che fossero - che avevano caratterizzato la carriera dei quattro musicisti fino ad allora. Teoricamente, sebbene decisamente godibile, questo brano è da considerarsi fra quelli più trascurabili del primo album, e la scelta di eseguirlo ad un  evento di tale importanza mette in mostra forse l'unico, vero limite degli Audioslave in concerto: la limitatezza del repertorio, pieno di belle canzoncine ma scarno di pezzi veramente memorabili. Cornell e compagni sembrano averlo chiaro molto meglio di me, e così trasformano una composizione limata e indebolita in virtù della stramaledetta vendibilità in un vero gioiellino, simile all'originale ma diversa in quelle poche, importantissime sfumature. Giuro, li amerei se non mi facessero imbestialire, mettendomi così palesemente di fronte alla vastità dell'occasione sprecata che fu il "progetto Audioslave". Questa versione di Gasoline pompa enormemente sui bassi e spinge al massimo la voce del cantante, lasciando relativamente intatta la natura atmosferica della performance di Morello, almeno fino ad una catarsi che fa del sapiente uso della tensione il suo perno centrale. Il chitarrista ha in pugno la situazione e definisce le sensazioni dell'opera, mentre i compagni operano su di un tiro espresso magistralmente dall'inizio alla fine, trasformando un pezzo non dico mediocre, ma certo limitato, in un tripudio d'acclamazioni e adrenalina. Fra le righe, Cornell torna su di una spiritualità tutta sua cui rende partecipe il pubblico a l'Avana, dando pieno risalto sia all'intimismo della sua poetica, sia ad un messaggio di libertà che da sempre fa parte dell'hard rock. Il cantante parla di colui che, intrappolato fra le quattro mura di una "casa stregata", vorrebbe uscire e farsi una liberatoria corsa in automobile, ma allo stesso tempo parla anche di se stesso, di quel ragazzo che passava le giornate tappato in casa in preda ad una strisciante depressione. Depressione- ora purtroppo lo sappiamo - che non l'avrebbe mai del tutto abbandonato. Tuttavia, il rigetto per la monotonia della quotidianità, l'appello per una liberazione che definirei spirituale, così come l'uso dell'automobile come forma e metafora di tale liberazione, sono da sempre caratteristiche di quell'hard rock alla base del primo album firmato Audioslave, e al tempo stesso metafora del difficile cammino di rinascita intrapreso da Chris Cornell. Forse una tematica fin troppo, diciamo... "figlia del benessere", per il pubblico della Plaza, ma a loro non sembra essere dispiaciuta e, di certo, nemmeno a noi.

Heaven's Dead

Con Heaven's Dead, traducibile come "Il Paradiso è Morto", risalta evidente l'intenzione di alternare il repertorio del primo album con quello, allora inedito, di Out of Exile, un album poeticamente influenzato dal profondo cambiamento della vita di Cornell. Dopo una riabilitazione dall'uso di sostanze stupefacenti portata a termine con successo, il cantante trovò infatti nuova luce nel divorzio dalla prima moglie, l'ex manager Susan Silver, e nel matrimonio con Vicky Karayiannis, dalla quale ebbe la sua seconda figlia, Toni, ed il primogenito maschio, Christopher Nicholas, nato circa sette mesi dopo il concerto a l'Avana. Praticamente, metà della poetica di Out of Exile ruota intorno all'amore e ad un ritrovato calore umano, elemento che se oggi, giustamente, rappresenta un valore aggiunto in quanto immancabile tassello della vita di Cornell, valse allore ciniche considerazioni da parte della critica, come se rifuggire tematiche tanto oscure e fascinose quanto ormai abusate fosse peccato mortale. Heaven's Dead gode così, assieme alle due tracce successive, dello stesso ruolo che aveva su Out of Exile: fare da ideale spartiacque dell'intera opera. Chirs Cornell, sulla cui voce pesa l'anima di questa commovente ballata, trasforma l'intimità intrinseca del brano in condivisione e dialogo, rendendo complice del suo amore l'intero pubblico della Plaza con partecipazione e sentimento, frutto sia di professionalità che di sincera convinzione. L'esecuzione live è leggermente antitetica allo spirito dell'opera, giacché bassi così marcati, possenti e baritoni, tendono a disperdere il romanticismo in funzione di una potenza fisiologicamente smorzata; ma è l'unico appunto che gli si potrebbe fare, poiché nel complesso il brano funziona e l'interpretazione di Cornell, da sola, è già sufficiente a coinvolgere ed ammaliare ognuno dei settantamila spettatori presenti. Come se non bastasse, Morello è in stato di grazia e confeziona una catarsi lieve e ponderata, malinconica ma pregna di speranza. Con voce ora leggera, ora carica d'emozione, Cornell descrive un testo ricolmo d'ogni elemento della sua poetica: la depressione, la paura, la rivalsa e la salvezza, ma soprattutto l'amore, perché, in fin dei conti, Heaven's Dead è prima d'ogni altra cosa una struggente ninnananna. Chris Cornell canta l'amore per il piccolo nascituro, per le figlie, per la nuova compagna e, fra le righe, anche per sé stesso, dando vita all'inno di un padre che vive per la sua famiglia, commosso e spaventato al tempo stesso dalla prospettiva di un futuro che credeva irraggiungibile. Heaven's dead when you get sad, "il Paradiso è morto quanto divieni triste", riassume in una frase quasi disarmante, nella sua semplicità, quell'insieme indefinibile di sentimenti che avrebbero dato a Cornell la forza di vivere, nonostante tutto, altri dodici anni di musica ed emozioni.

Doesn't Remind Me

Il baricentro del concerto rifugge da quell'alternanza discografica cui accennavo prima, mettendo in fila tre pezzi estratti dalla seconda fatica della band: tutti relativamente lenti e riflessivi, benché rinforzati da bassi possenti, e tutti - cosa non meno importante - di un certo spessore concettuale. L'intenzione degli Audioslave è portare la serata alla sua fase più immersiva e coinvolgente, usando come veicolo ideale il lato più emotivo del loro repertorio, un approccio classico alla musica dal vivo che non lascia spazio ad errori di sorta. Doesn't Remind Me, traducibile grosso modo come "non mi ricorda", è decisamente appropriata allo scopo, e stupisce un pubblico ancora all'oscuro della sua esistenza; dopotutto, parliamo se non del miglior pezzo di Out of Exile, senz'altro del più "vendibile" ed orecchiabile. Il riff di basso e chitarra, modulato, ritmato e cantilenante, si presta bene all'esperienza dal vivo, all'incitazione della folla e al suo coinvolgimento. Brad Wilk costruisce un'impalcatura che diviene parte integrante della melodia, mentre il chitarrista dà vita a tutte quelle suggestioni, piccole e all'apparenza invisibili, che danno personalità alla composizione. Alla fine è proprio il chitarrista ad esplodere il culmine del brano, una performance a metà fra scuola ottantiana e distorsioni semplicemente "morelliane", affiancato dall'onnipresente ed emozionante voce del cantante, un Chris Cornell che qui si limita quasi al compitino, ma la cui professionalità ed il piacere di cantare dal vivo rendono l'esibizione più che soddisfacente. Nel complesso, anche questa pur bella versione live tende a rimanere deboluccia, a dimostrazione che un brano vendibile non sempre risulta anche memorabile, e spiega perché "Doesn't Remind Me" avesse bisogno di un videoclip tanto eccellente per far breccia sul mercato. Ad ogni modo, la sintesi concettuale del testo rappresenta un valore aggiunto, benché tenda un po' a sfumare, in terra di lingua spagnola. Chris Cornell racconta principalmente l'esigenza di gettarsi alle spalle il passato e vivere il presente, lasciando il bocca all'ascoltatore un retrogusto d'amara malinconia. Ad essere lasciate indietro, infatti, sono tutte quelle cose che "abbiamo amato", quelle che abbiamo addirittura "sacralizzato", per usare la stessa iperbole del cantante. I don't want to learn what I'll need to forget, "Non voglio imparare ciò che ho bisogno di dimenticare", e così si guarda al presente e al futuro, godendo di quegli istanti di pura e vitale immediatezza, istanti che "non ci ricordano nulla" e che, proprio per tale motivo, non possono riportare a galla dolorosi ricordi del passato. Anche in questo caso, l'approccio autobiografico è più che evidente. Tornando al concerto, nonostante le critiche mosse poc'anzi, c'è da dire che la relativa leggerezza del brano, per quanto velata di malinconia, ed unita all'ottima esibizione di Morello, rende Doesn't Remind Me un intermezzo tanto apprezzabile quanto necessario.

Be Yourself

Gli Audioslave scelgono saggiamente di chiudere quest'immersivo baricentro con un brano già famoso, uscito come singolo pochi mesi prima l'esibizione a l'Avana: Be Yourself (Sii Te Stesso). Forte di un videoclip di successo, benché in parte scopiazzato da quello di Like a Stone, questo pezzo è dotato di una lucidità patinata e preimpostata, perfino barocca, ma anche di tutti gli ingredienti necessari a primeggiare nelle classifiche: una melodia catchy che ben dosa zucchero e dura roccia, un sound emotivamente accattivante ed un ritornello martellante. L'esibizione dal vivo elimina la patinatura vagamente posticcia del brano, valorizza la componente ritmica e mantiene invariato lo spessore della chitarra, ma l'anima dell'opera rimane sempre e comunque Chris Cornell. In tal modo, quello che rimane di Be Yourself è una composizione vincente suonata da musicisti d'eccellenza, e lo spettacolo è assicurato. Il cantante sembra affaticato ma continua a cantare con precisione e potenza, guardando fisso il suo pubblico come se volesse parlargli da uomo a uomo, mentre Commerford gode di quel ruolo di frontman che Morello pare quasi rifuggire. Il bassista distorce la fastidiosa linearità della canzone e affianca lo stesso Cornell, offrendo essenziali sfumature di controcanto, dando perfetto sfoggio della sua immagine dura e imponente. Brad Wilk non è da meno: la sua batteria trasforma una passeggiata in un'intrepida cavalcata, indurendo l'intera resa finale senza rovinarne l'atmosfera, elemento d'importanza vitale affidato alla chitarra di Morello. L'axeman della band si riappropria del palco e diviene protagonista, passando da un intrigante arpeggio modulato ad un assolo dissonante, graffiante e ponderato allo stesso tempo, prima di restituire il pezzo e la sua conclusione alla voce di Chirs Cornell. Quanto al testo, come sappiamo, è tanto intelligente quanto furbetto, ancora una volta insieme autobiografico e commerciale. Il cantante descrive vari personaggi, le loro azioni e le loro situazioni, le difficoltà, le vittorie e le sconfitte, solo per giungere alla più ovvia delle conclusioni: to be yourself is all that you can do, "essere te stesso è tutto ciò che puoi fare". Da una parte, una poetica del genere vezzeggia abilmente il pubblico più giovane, adolescente, quello cioè che rappresenta la più larga fetta di mercato. Ogni ragazzo e ragazza che si approcci al rock, e in generale alla musica, è infatti animato dalla stessa semplice, enorme esigenza: essere sé stesso e distaccarsi dall'opinione altrui, dagli schemi della famiglia e della società, definendo così la propria insostituibile unicità. O, almeno, illudendosi di farlo. Tuttavia, il sottotesto di Be Yourself è un pelo più complesso, e descrive il tentativo di Chirs Cornell di accettare sé stesso nonostante - parole sue - "le differenti tragedie e tutti gli errori orrendamente stupidi che ha fatto". Dopotutto ognuno di noi, ad un certo punto della vita, deve imparare ad accettarsi insieme agli errori - e talvolta gli orrori - che questo comporta: "l'unico, vero lato positivo d'invecchiare", secondo il cantante. Questa canzone regala una bellissima performance di Cornell, il quale nonostante tutto sembra ancora traboccare d'energia, più che necessaria, tra l'altro, per affrontare la bagarre che segue.

Bulls On Parade / Sleep Now in the Fire

"Please, make some noise for my favourite band in the world", annuncia Chris Cornell indicando i suoi compagni, poi è il turno del chitarrista. Tom Morello si dice onorato e ringrazia il suo pubblico in uno spagnolo esilarante, poi si unisce ai suoi vecchi compagni per una performance che arriva dritta, dritta dagli anni '90, un medley di due capisaldi dei Rage Against the Machine: Bulls On Parade e Sleep Now in the Fire (Tori in Parata / Dormi Adesso nel Fuoco). "Bulls On Parade" prevede due minuti di potenza pura completamente strumentale, una volgare e meravigliosa dimostrazione di potere come gli Audioslave, in studio, non si sono mai degnati di registrare. I colpi secchi del pezzo originale diventano una marcia impietosa e possente, il basso è pura collera sonora. Le suggestioni, o meglio il caos, sono tutte nelle abili dita del chitarrista, il quale sforna una vera e propria esibizione personale di quelle da leccarsi i baffi, uno dei più fulgidi esempi del reale talento di Tom Morello: dissonante fin quasi alla crudeltà, folle, apparentemente insensato, sempre sull'orlo del baratro sonoro come una sorta di Jimmy Page post-moderno. Una roba che o la ami o la odi, e io, personalmente, la amo. Il testo, tanto per dovere di cronaca, parlava dell'industria bellica americana e delle sue contraddizioni, e lo faceva con lo stile tagliente tipico di Zack De La Rocha. Fortunatamente, Cornell non s'imbarca nell'impresa di imitare l'hip hop di De La Rocha, ma si limita ad un ruolo d'animatore che pare non dispiacergli per nulla, incitando il pubblico con palpabile esaltazione. Il singer appare sempre più carico, e se per il capolavoro di "Evil Empire" aveva scelto di rimanere in disparte, dando sfogo a tutta la potenza dei compagni, per "Sleep Now in the Fire" decide per un non facile confronto con l'ex cantante dei Rage Against. Chi della mia generazione ha amato il rock, non può non ricordare l'album di Guerrilla Radio, uscito nel 1999: "The Battle of Los Angeles", o il videoclip che accompagnava "Sleep Now...", diretto nientemeno che da Michael Moore. In questo caso l'imitazione è più fattibile, giacché da un punto di vista canoro siamo nell'ambito di un rap estremamente basilare, poco più che un insieme di frasi incollate su di una base. Sia chiaro, tecnicamente Cornell era un cantante di gran lunga migliore di De La Rocha, ma ad ognuno il suo, e quello che faceva il singer dei Rage Against, poteva farlo solo il singer dei Rage Against. Ad ogni modo l'esibizione riesce perfettamente, lasciando ben poco da rimpiangere ai vecchi fans dell'ex gruppo di Morello; è proprio quest'ultimo a guidare l'azione con un riff squillante, smargiasso e duro al punto giusto, ben presto seguito dall'eco del bassista e dai possenti colpi del batterista, a fare della roccia puro metallo. Il gusto per il groove è quello di sempre, ed è quello sul quale Chris Cornell fa sue le parole di Zack De La Rocha: parole d'amaro sarcasmo, di rabbia e di protesta, adatte al contesto cubano più di qualsiasi canzone degli Audioslave, più di qualsiasi possibile introspezione, per quanto profonda. Questo popolo, che con indicibile dignità ha vissuto uno degli embarghi più duri della storia, può capire fino in fondo il personaggio interpretato da Chirs Cornell: un uomo che percepisce il mondo a proprio uso e consumo, convinto che Dio stesso sia dalla sua parte e pronto a difendere - o depredare - le sue ricchezze col fuoco. Non è difficile capire chi è quest'"uomo", colui che seppellirà o metterà in galera chi resta fuori dal suo sistema, pronto tanto ad arricchirti che ad ucciderti - a spese d'altri, la prima opzione. Attraverso allegorie più o meno evidenti, storiche o attuali, Cornell delinea il lato oscuro dell'occidente e della sua storia, descrive l'ingordigia degli uomini e l'ipocrisia di quel capitalismo che esporta democrazia, e poi la guerra, che sovrasta ogni cosa. Il pubblico della Plaza Anti Imperialista è in delirio, forse non tanto per un testo che sembra quasi parlare della sua lotta, ma per un'energia così improvvisa da averlo colto di sorpresa. Da questo momento in poi, e per tutto il successivo Out of Exile Tour, gli Audioslave avrebbero riproposto il medley di questi due vecchi brani dei Rage Against the Machine, e a buona ragione. 

Out of Exile

Dopo l'esplosiva parentesi dei Rage Against the Machine, la band torna al presente con Out of Exile (Fuori dall'Esilio). Parliamo naturalmente della title track del secondo album del gruppo, un pezzo dotato di ottimo potenziale ma, come tanti altri, castrato dalle opinabili scelte tecniche e commerciali dei Nostri. Naturalmente, ancora una volta la resa live è tutt'altra cosa, ma, ad ogni modo, mi vengono in mente almeno due buoni motivi per la presenza di questa canzone all'Avana: il primo è il marketing. Lo so, lo so, vorremmo idealizzare i musicisti che amiamo, ma anche a Cornell e compagni piacevano soldi e successo, e ancor più che a loro, alle loro case discografiche. L'evento mediatico del concerto cubano fu una pubblicità ben superiore a qualsiasi altra, e le vendite del DVD, ricolmo di brani inediti, avrebbero spinto notevolmente quelle di Out of Exile. E viceversa, naturalmente. Il secondo motivo, tuttavia, è meno veniale e ben più concreto, nella sua romantica immediatezza. A sei canzoni dal termine, gli Audioslave decidono di spezzare il finale di serata in due parti: l'ultima è logicamente una grande festa di commiato, con tutti i pezzi più duri della band, ma la prima, quella di cui stiamo per parlare, riporta la piazza al raccoglimento e ci conduce, attraverso tre brani dalla poetica assolutamente personale, attraverso il tormentato animo di Chris Cornell. Out of Exile inizia con la consueta marcia e l'arpeggio di Morello, per poi esplodere in possenti e caotici giri di basso. La relativa piattezza del secondo album è tale da rendere un po' piatta anche la versione live, ma benché la performance non vada tanto oltre la composizione canonica, il basso e soprattutto la batteria ingigantiscono ogni sensazione e dominano sul culmine del brano. Le telecamere puntano giustamente su Brad Wilk e sulle sue notevoli bordate, ma sotto, sotto, è la voce di Cornell ad offrire quell'immersione di cui il pubblico ha bisogno. Il cantante è ben più coinvolto di quanto non fosse in studio di registrazione, e l'intimo significato del testo lo aiuta ad aprirsi ad un pubblico di oltre settantamila persone. Cornell canta della gioia di divenire nuovamente padre, dando così nuovo senso alla vita e speranza per il futuro. Nel periodo in cui scrisse il brano, così come durante il concerto a Cuba, la moglie del cantante era incinta, e per lui la sensazione era quella di uscire da un oscuro circolo vizioso durato anni e anni - quelli dell'abuso di alcol e droga - e di essere finalmente fuori di un umano, allegorico esilio: "out of exile", appunto. Chris Cornell descrive il suo lungo periodo di disagio come una sorta d'inerme menefreghismo, un placido abbandono in cui "le ore si accumulavano vuote". Poi la salvezza, giunta attraverso una donna dai tratti quasi angelicati, stilnoveschi: Vicky Karayiannis, madre del suo futuro bambino. Le immagini retoriche del testo - il matrimonio fra le onde, la luce nel grembo della donna - sono dolci e forse abusate, ma mai stucchevoli, romantiche ma non puerili. A quello che scrive, il cantante crede con tutto il suo essere, e si sente. Send my Soul Away, urla il cantante alla Plaza prima di concludere la canzone. 

Outshined

Chris Cornell avverte il pubblico che quello che sta per eseguire è un suo vecchio pezzo, ed infatti l'attesa dura solo pochi secondi, prima che nell'aria risuonino le note di Outshined, un classico dei Soundgarden dall'album Badmotorfinger, del '91. L'espressione usata per il titolo è intraducibile, in italiano, ma fondamentalmente indica l'atto di superare o superarsi, qualitativamente parlando, di risplendere più degli altri o più di prima. Il terzo album dei Soundgarden fu quello in cui Chris Cornell diede inizio alla sua parabola autobiografica, a quella poetica introspettiva che, con gli Audioslave, sarebbe a tutti gli effetti divenuta prassi. Il singer canta della sua personalità instabile, della facilità con cui passava dal sentirsi in cima al mondo a miserabile, da colui che può tutto al più menefreghista ed incapace degli uomini. Le strofe sono una continua alternanza di allegorie in rima baciata, spesso ironicamente graffianti, autolesioniste, mentre sotto la superficie delle parole, il cantante, così giovane al tempo in cui scrisse la canzone, delinea in termini semplici ma rivelatori buona parte dei suoi problemi personali, quelli che col tempo l'avrebbero portato sull'orlo della distruzione, alla riabilitazione ed infine alla rinascita, quella descritta nel brano precedente. Non sapremo mai le vere dinamiche della sua morte, se il suicidio sia stato una sorta di fatalità o, piuttosto, se sia stato il culmine di un ciclo iniziato proprio allora, al tempo della stesura di Outshined. Quel che sappiamo è che, nel 2005, tutto questo sembrava oramai acqua passata. Tom Morello e i suoi vecchi compagni interpretano i Soundgarden amplificandone ogni virgola, ogni più classica tendenza all'heavy metal anni '80, dando al complesso un sound più gonfio, teatrale, epico e smargiasso. Siamo dalle parti di certa roba dei Megadeth, o dell'Ozzy solista, ma con dettagli e sfumature fisiologicamente più contemporanei. Se già l'originale, "grunge" al massimo sulla carta, poteva regalare belle soddisfazioni al metallaro vecchia scuola, questa versione live riesce a offrire addirittura il massimo del piacere, oltre ad un ottimo assolo che mischia il classico hard rock alle trovate chitarristiche di Morello. L'incombere minaccioso del bassista riempie ogni sensazione, mentre dosare o meno l'aggressività è un compito tutto nelle mani del batterista. Il chitarrista si tiene su righe già abbastanza dure, mentre Chris Cornell fa del suo meglio per dimostrare che, dopotutto, questo brano è suo e racconta di lui. Il finale è più morbido e atmosferico, carico di reminescenze dei migliori U2, un'eredità che del resto influenza l'intero periodo di Out of Exile, poi torna all'originale durezza per la catarsi finale, un culmine che lascia il pubblico prima senza fiato e poi in visibilio. Una curiosità: la strofa in cui Cornell canta "I'm looking California / And feeling Minnesota", divenuta tanto famosa da ispirare il titolo per un film con Keanu Reeves, deriva dal senso di straniamento del cantante di fronte allo specchio; dall'osservare la propria figura, vestita come un "beach kid" californiano, e sentirla estranea al suo tormentato stato d'animo. 

Shadow On the Sun

Si torna al primo album degli Audioslave con uno dei pezzi più tragici del catalogo, citato a buon titolo da Morello per salutare l'amico scomparso: Shadow on the Sun (Ombra sul sole). L'arpeggio elettrico del chitarrista domina la piazza, seguito ben presto dal canto dolce e cadenzato di Chris Cornell. Il ritmo incalza, e con esso la narrazione del cantante: sempre più intima, sempre più malinconica, in un crescendo di sensazioni che culmina nel roccioso e tragico ritornello. Incredibilmente, l'esecuzione dal vivo del brano pare perfino più pulita dell'originale in studio, ma di una pulizia definita da un'infinità di sfumature diverse, assenti o in secondo piano sul disco di debutto, offrendo alla canzone tutto quello che gli mancava. Shadow on the Sun, infatti, potrebbe rappresentare uno dei migliori pezzi firmati Audioslave, ma, proprio in virtù della sua eccellenza, la versione in studio risente in maniera amplificata dei limiti della band, sanciti come sappiamo da determinate scelte di mercato. Dal vivo, il suo incedere emotivamente pregno di sensazioni, insieme triste e carico di rabbia, offre invece quella che a mio parere è la performance migliore della serata, un exploit fenomenale in cui ogni musicista sembra brillare di luce propria. Alle montagne russe vocali del singer fa eco una strumentale che sembra parlare, tanto risulta espressiva, in un lento ma inesorabile incedere che sfocia in uno dei più begli assoli di Morello. Stavolta il chitarrista si fa ben poche "seghe mentali", se mi passate l'espressione, sostituendo i suoi soliti giochetti con una performance solida ed emozionante, dolce ma possente, semplicemente... bella. L'axeman prosegue il suo lavoro fra effetti invisibili eppure incisivi, tornando ad accompagnare il cantante attraverso i suoi evocativi arpeggi di chitarra. Questa versione live dura molto di più di quella in studio, cosicché i Nostri ne approfittano per un vero e proprio orgasmo musicale, un culmine fatto di ruggiti strumentali ed urla vere e proprie: abbastanza da far esplodere l'intero pubblico della Plaza. Fra le righe del testo, Chris Cornell s'addentra a fondo nei recessi del suo animo tormentato, passando così dagli albori delle sue problematiche psicologiche, narrate ancora ingenuamente su Outshined, alla maturità del suo periodo peggiore, quello che aveva anticipato la riabilitazione prima, ed il suo secondo matrimonio poi. All'apparenza, strofe di così difficile lettura e spesso criptiche, narrano del senso di vuoto alla fine di una relazione, trasformando una tematica tutto sommato banale in affascinante mosaico di parole. Più profondamente, tuttavia, si cela un senso autobiografico ben più cupo, individuale e soggettivo, carico d'un pessimismo che trova radici nell'umana solitudine, in un'intima dualità che "vive sotto la sua pelle", l'eterna lotta fra eros e thanatos. E' lui, Chris Cornell, l'"ombra sul sole", potentissima allegoria d'un uomo invaso da una morte che si contrappone alla vita tutt'intorno. Il cantante ha ora tirato fuori tutto, denudato sé stesso, ed in silenzio si prepara al momento più intimo della sua serata a l'Avana. 

Black Hole Sun (versione acustica)

Chris Cornell ripropone un altro dei suoi classici, l'ultimo pezzo dei Soundgarden della nostra serata... e che pezzo! Parliamo con ogni probabilità della sua canzone più famosa, un gioiellino di ruvida semplicità che Mtv ha riproposto, pressoché ininterrottamente, per almeno quindici anni. L'opera in questione, si sarà capito, è la famosissima Black Hole Sun, traducibile non letteralmente "Sole Nero". Occorre far subito chiara una distinzione, riguardo il senso del titolo e del brano in generale: il significato del famosissimo videoclip, diretto da Howard Greenhalgh e fissatosi nell'immaginario collettivo, non corrisponde necessariamente al significato che la canzone ha per il suo autore, ovvero Chris Cornell. L'unico, vero elemento in comune è rappresentato dall'oggetto del titolo, un sole nero che, proprio come un buco nero, risucchia e spazza via ogni male. Una disambiguazione insolita ma necessaria, e che dimostra quanto, certe volte, l'uso di un media possa corromperne un altro, influenzando alla radice la percezione di un determinato prodotto. All'epoca di Superunknown, per ammissione dello stesso Chris Cornell, Black Hole Sun era l'opera che più di tutte s'avvicinasse a descrivere l'animo dello scomparso cantante, benché cercare di comprenderne alla lettera ogni strofa sia impresa pressoché impossibile, oltre che oziosa. Il cantante non ha mai fatto chiarezza sulla questione, anzi, ha sempre cercato di confondere le acque con affermazioni anche contraddittorie. Il video, di contro, offre una chiave di lettura un pelo più immediata. Per quanto le inquietanti immagini proposte da Greenhalgh possano sembrare inintelligibili, ad una visione disattenta, la critica alla middle class americana ed in generale alla borghesia occidentale è più che evidente. Il "sole nero", nella visione del regista, spazza via tutte quelle piccole ipocrisie che nel loro insieme rappresentano l'orrore della società moderna, dipinta come grottesca, deforme e mostruosa. Considerata questa parafrasi politica, ormai impressa nell'immaginario collettivo, e l'ampiezza in chiave sociale della serata a l'Avana, viene da chiedersi se Cornell non abbia deciso di suonare Black Hole Sun proprio in virtù della fama "politica" del brano, che non per il suo reale significato. Non che abbia importanza: in ogni caso, avrebbe preso due piccioni con una fava. Adesso alla Plaza ci sono solo lui, la sua chitarra e l'immensa folla. Il cantante trasporta il suo pubblico in uno spazio a parte, come se la grande piazza sia ora una stanza chiusa a chiave, e canta quel suo brano così personale con voce multiforme, dalle mille sfumature, ora bassissima, ora sussurro, ora urlo. Alla composizione originale, Chris Cornell sostituisce elementi estemporanei ispirati, sentiti e soprattutto professionali, specchio di un'esperienza che mescola con sapienza sentimento e cinismo. La sua voce, coadiuvata unicamente dalla chitarra acustica, è inaspettatamente pulita, tiepida, dolce, eppure dotata dei mille colori di quel timbro così intimamente soul. Più d'una volta il pubblico si sovrappone alle strofe, estasiato, fino ad un finale ancora più lento, studiato e riflessivo, quasi un sospiro: Black hole sun / Won't you come /  And wash away the rain / Black hole sun / Won't you come / Won't you come. Viene da chiedersi, oggi, se quel sole non fosse nero per la stessa ombra che aleggiava su Shadow On the Sun. 

I'Am the Highway

L'atmosfera creata da Black Hole Sun prosegue senza interruzione nella traccia successiva, un'interpretazione strutturalmente intelligente di I'Am the Highway (Io Sono l'Autostrada). A quest'emozionante ballad, che già di per sé sapeva ergersi oltre la media dell'album di debutto, spetta il non facile compito di fare da ponte fra la parte più intima dell'esibizione, il cui culmine è senz'altro Black Hole Sun, a quella finale, caratterizzata da un'esplosione di durissima vitalità. Così, la prima parte del brano, caratterizzata nella sua versione in studio da sonorità atmosferiche e bassi rombanti, diviene diretto proseguimento acustico della canzone precedente, lasciando Chris Cornell e la sua chitarra ancora unici protagonisti del palco. La melodia di I'Am the Highway si presta incredibilmente bene alle sonorità acustiche, incoraggiando un pubblico coinvolto e affascinato a battere le mani a tempo, mentre Cornell avvia la sua splendida interpretazione solista al suo momento culminante, quando l'intera strumentale esplode di colpo lasciando la folla attonita e meravigliata. I musicisti mettono insieme una sonorità che sa insieme di malinconia, di riscatto e di solennità, una solennità portata alla catarsi da un magnifico assolo di Morello, valorizzato da un effetto eco essenziale e mai invadente. Ma al di là di tutto, gli elementi predominanti - fra le atmosfere del chitarrista, o la solidità della sezione ritmica - sono ancora Chris Cornell e la sua chitarra acustica, fulcro di un pathos emotivo palpabile e a tratti perfino commuovente. Il testo di questa canzone, inoltre, sembra legarsi alla perfezione con quello di  Shadow On the Sun, delineando dunque per Black Hole Sun un intrigante ruolo di "flashback". Se l'Ombra sul Sole nascondeva tematiche intime e individualiste fra strofe altrimenti banali, questo pezzo fa esattamente la stessa cosa, ma con argomentazioni di stampo classicamente hard rock. Dalla malinconica fine di una relazione si passa così alla fuga dal suo ricordo, trasformando l'automobile in metafora di una libertà che ha il sapore della disperazione: potrei sbagliarmi, ma credo non mi venga in mente nulla di più blues. Tuttavia, così come l'ombra sul sole era lo stesso Chris Cornell, allo stesso modo la corsa in macchina è prima di tutto fuga da sé stesso, dai suoi sbagli e dai suoi demoni personali. Ancora più profondamente, il viaggio e l'autostrada diventano l'allegoria di una profonda autodeterminazione, un percorso in gran parte tracciato fin dalle righe di Cochise e, in seguito, su di una gran fetta della discografia degli Audioslave. "Va' e salva te stesso", era il mantra del cantante, per il quale il percorso su cui sfrecciare è la breccia di una felicità guadagnata attraverso fatica e sofferenza, amori e rimpianti; un mosaico umano che la serata a l'Avana riesce a delineare con lucidità quasi crudele. 

Show Me How to Live

Siamo giunti infine alla poderosa chiusura del'evento cubano, sancita da due brani simbolo del primo album della band: il primo è Show Me How to Live (Mostrami Come Vivere). Come già dissi, il titolo del brano mi ricorda molto un pezzo dei Soundgarden, "The Day I Tried to Live", ed in un certo qual modo questa traccia ne riporta a galla tematiche e sensazioni. Se la canzone della band di Seattle parlava dell'esigenza di uscire dal proprio guscio, dal proprio torpore fisico e soprattutto intellettuale, Show Me How to Live mette del tutto a nudo l'anima del suo compositore, andando a ricercare il senso e il modo migliore di stare al mondo su di un piano più astratto, quasi trascendentale. Chris Cornell descrive l'appello di un uomo nei confronti di un'entità astratta, forse Dio, o magari la Terra stessa, in perfetto accordo con una spiritualità che ha sempre fatto parte della sua poetica. Un uomo, quello descritto da Cornell, disumanizzato da una vita troppo normale, "costruito con parti rubate" e con "un telefono al posto del cuore", ma che vorrebbe gli fosse mostrato com'è - davvero - l'atto di Vivere. Il cantante pare suggerire che la ricerca di Dio, di sé stessi e del proprio ruolo, sia come lasciar morire il proprio vecchio Io per far nascere un nuovo, più libero essere umano. Abbiamo così un testo che delinea con esattezza un importante aspetto degli Audioslave: l'armonica fusione tra  l'attenzione al sociale dei Rage Against the Machine, ed una costante, quasi spasmodica ricerca interiore da parte di Chris Cornell. Volendo tralasciare il lato prettamente intimista del brano, l'evidente critica allo spirito della società consumista che esso descrive, seppure in termini relativamente morbidi, si adatta perfettamente alla serata cubana e al pubblico della Plaza. Devo dirlo: l'abilità con cui  gli Audioslave sanno piegare il loro materiale alle più diverse esigenze non smette mai di sorprendermi. L'attacco di basso e batteria dà inizio a Show Me How to Live con la dovuta carica, seguono le sensazioni del chitarrista ed infine la voce del singer, roca e leggermente affaticata, ma sempre e comunque d'effetto. A dominare il tiro è la ritmica secca e guardinga di Brad Wilk, la quale alterna momenti cadenzati ad esplosioni di fills tagliate con l'accetta. Nel complesso, la band esegue l'opera rimanendo nei canoni della versione in studio, senza eccessi, né veri e propri exploit sopra le righe. Bassista e batterista iniziano per primi a porre le fondamenta del riff portante, sul quale andrà a reggere l'intera struttura del brano. Il groove di basso segue i canoni del grande rock americano, Grand Funk Railroad in testa, ma con un gusto influenzato da sensazioni più recenti, tipiche di quel groove metal portato alle sue estreme conseguenze da band come i Pantera, o anche gli stessi Rage Against the Machine. Non c'è nemmeno un vero e proprio assolo, ma unicamente una coda che culmina con un'interessante esecuzione vocale. Sembra una deriva antitetica, al culmine del concerto, nonostante già di per sé la canzone scelta sia una delle migliori in catalogo, ma la relativa piattezza con cui gli Audioslave interpretano "Show Me How to Live" ha un senso ben preciso: dare totale enfasi alla traccia finale.

Cochise

E la traccia con cui gli Audioslave chiudono la serata è quella da cui tutto ha avuto inizio, il primo singolo rilasciato dalla band, il primo pezzo dell'album di debutto, quello attraverso cui io stesso conobbi il gruppo di Cornell e Morello, ormai più di quindici anni fa: Cochise. In tre album, non c'è una sola canzone composta dagli Audioslave che sia riuscita a rivaleggiare con la potenza del riff di Cochise, ancora oggi il più famoso manifesto di questa "super formazione". Un sordo rumore di fondo inzia a riempire l'aria fin dalle ultime note di Show Me How to Live, trasformandosi gradualmente in quella sorta di... "boato subliminale", come di un elicottero in lontananza che si avvicini sempre di più, sempre di più. La batteria di Brad Wilk inizia con calma a ritmare l'attesa, come il timer di una bomba, poi il boato si fa sempre più forte fino a quando, infine, quella bomba non esplode nella potenza strumentale del basso e della chitarra elettrica; sullo sfondo, quasi sovrastata, la voce sporca e tiratissima di Chris Cornell. Il cantante sembra affaticato ed è normale: lasciarsi nel finale un brano di questo genere è impresa ardua, ma il nostro dà comunque il meglio di sé riuscendo a trascinare l'intera folla della Plaza, una folla che sembra conoscere a menadito le strofe del ritornello, cosa rara per un pubblico di lingua spagnola, e che magari lascerà interdetti coloro che pensavano che i cattivi comunisti vivessero in totale isolamento culturale. Il titolo del brano non ha alcuna attinenza con il soggetto del testo, ma ben si adatta allo sfondo necessariamente politico della serata cubana: proprio come l'indomito capo del popolo Apache, Cochise the Avenger, anche il popolo cubano s'era ritagliato il suo spazio lottando contro l'imperialismo americano, e questo al di là di qualsiasi argomentazione politicamente critica, senza "se" e senza "ma". Fra le righe, tuttavia, Chris Cornell delinea la sua più caratteristica poetica, intima e personale, offrendo all'ascoltatore uno spaccato di quel particolare periodo della sua vita. Erano infatti gli anni della riabilitazione, un momento decisamente duro per il cantante, ma da quell'esperienza Cornell aveva saputo ritrovare se stesso e la forza di ricominciare, un secondo inizio che si sarebbe ben presto concretizzato nel suo secondo matrimonio, ed infine, anche con la luce di nuova vita. Allo stesso modo con cui l'antico capo indiano chiamava la rivolta, Chris Cornell si ribella prima di tutto alla sua condizione: entrambi non facevano proseliti, ma chiamavano gli altri a salvare loro stessi, perché proprio come la politica, la salvezza personale è unicamente nostra responsabilità. Go and save yourself, dunque, un mantra che aleggia in ogni più intima opera degli Audioslave, perfino in quelle più cupe e disperate, come un implicito grido di rivalsa che infiammi le ore più buie. A Cochise non occorre null'altro che il suo poderoso riff, per far esaltare il pubblico cubano, e per gli Audioslave non servono altro che tre minuti di pura potenza, incarnata nella pulita rotondità di quel mirabile giro di basso e di chitarra, per chiudere la serata col botto. Poi, solo le urla della folla e la voce del cantante, felice e commossa, a ringraziare un pubblico fino ad allora ancora impensabile, irraggiungibile. Buenas Noche.

Conclusioni

In fondo allo scenario, così come sulla gran cassa del batterista, svetta l'unico elemento grafico di un palco ruvido e tradizionale, quasi privo di fumi o di laser, orpelli che non avrebbero di certo impressionato un pubblico come quello cubano, affamato unicamente di buona musica e null'altro. Quell'elemento è la fiamma simbolo degli Audioslave, che a Cuba ritrova un significato più ampio e più profondo: il fuoco di un popolo mai piegato, né dall'imperialismo americano, né dal durissimo embargo, e forse nemmeno dallo stesso Fidel Castro, come dimostrano i traguardi sociali che i cubani, col tempo, si sono bene o male ritagliati. La stessa fiamma campeggia imperterrita sulla copertina del DVD, quasi una riproposizione di quella dell'album di debutto ma in chiave caraibica, con elementi grafici che dovrebbero ricordare, nell'intento, una certa estetica di chiara matrice ispanica, caratterizzata dalla contrapposizione dell'oro, eterno simbolo di valore e nobiltà, ed il rosso, antico colore della passione che, a Cuba, assume connotazioni smaccatamente politiche. Un simbolo, quello degli Audioslave, che potrebbe sembrare abusato e sdoganato all'occhio disattento, e che invece dà ancora una volta risalto al nome del suo autore, il leggendario Storm Thorgerson, ideatore d'un fuoco insieme dinamico eppure monolitico, proprio come le fiamme della rivoluzione: un concetto che va oltre l'atto pratico per divenire perenne condizione dell'anima. Una metafora, quest'ultima, tutt'altro che casuale, né inventata da chi scrive, anzi, messa perfino in musica dagli stessi Audioslave qualche anno più tardi, nella bella e rumorosa "Original Fire", canzone di punta del terzo ed ultimo disco della band, "Revelations". E fu proprio su Revelations che comparve la Fiamma per l'ultima volta, enorme ed assoluta, idealizzata nelle forme d'un continente immaginario chiamato semplicemente "Audiosalve Nation". "The Original Fire is died and gone, but the riot inside moves on", recitava quel brano, e sembra parlare proprio di Cuba e del suo popolo, degli ormai lontani fuochi della guerra civile e di uno spirito ancora intatto, quello d'una resistenza che ha riempito i cubani di un orgoglio quasi incomprensibile, per un occidentale. Audioslave compresi. Eh già, perché nonostante le solide affinità politiche, le stesse che sono valse alla band il diritto di suonare sull'isola, un quartetto di americani benestanti e di sani principi non riuscirà mai del tutto a capire il sacrificio di Cuba e dei cubani, ad accettare le sue contraddizioni o immedesimarsi appieno nel cosiddetto socialismo reale. La grande nazione immaginata dagli Audioslave, quella stessa terra di tutti e di nessuno idealizzata da decenni di musica rock, è qualcosa di ben diverso ed assolutamente irreale, tanto utopistica quanto impalpabile, e probabilmente è un bene che tale rimanga. Ma gli Audioslave non sono i Rage Against the Machine, nel bene e nel male; gli Audioslave sono la band di Chris Cornell. E per Chris Cornell il Fuoco Originale era qualcosa di ben più intimo e personale, così come la "rivoluzione". Allo stesso modo, il legame tra gli Audioslave e Cuba non è solo politico, come tutti sarebbero portati a pensare, ma è il rapporto fra la storia di un popolo e la storia personale di quattro musicisti, quattro fenomeni del rock contemporaneo il cui fuoco s'è consumato nei primi anni '90, e che attraverso gli Audioslave mantenevano acceso l'ultimo focolare di resistenza: resistevano alle rughe sul volto, resistevano ai sempre più numerosi mostri del mercato e della società, resistevano alla depressione e alla droga, allo stesso modo in cui, i cubani, resistevano agli ideali del capitalismo e all'ingiustizia dell'embargo. Proprio per questo, oltre ogni volubile motivazione politica, quel rozzo palco a l'Avana appariva così scintillante, così, come potrei dire... giusto. Dico "rozzo", e naturalmente esagero: è un bel palco, ma sono rimasto colpito come fosse semplice e scarno, se raffrontato all'importanza dell'evento, ben diverso dai grandi palchi cui siamo ormai abituati. È un aspetto subliminale non indifferente, indice del rispetto e della comprensione, da parte degli Audioslave, di un pubblico che guarderebbe quasi con disprezzo, all'opulenza di un palco immenso e pieno di laser, fumogeni e riflettori. Cosa più importante, così come il palco, anche il concerto è ruvido e reale, vero nel più intimo senso del termine, fotografia d'una band che nonostante sapesse cavalcare l'onda del mercato, al di là di tutto, sapeva anche conservare la sua primigenia anima Rock. La performance della band è fenomenale, al netto d'un repertorio limitato a ben pochi pezzi davvero memorabili, vetrina di quattro musicisti che al talento potevano ormai aggiungere anni d'esperienza, sia umana che professionale. La potenza di basso e batteria non è nemmeno accostabile a quella in studio, Commerford e Wilk sono bestie da palco e si sente... diavolo, se si sente. Tom Morello, poi, lo conosciamo tutti, tante e tali sono state le manifestazioni del suo incredibile talento; mancherebbe solo un'esibizione vecchia scuola, un assolo di quelli interminabili, ma dopotutto non è in tal modo che si concretizza lo stile del chitarrista. Infine, Chris Cornell è stato memorabile. Tutt'altro che "perfetto", ma memorabile, sì. E vi giuro che non lo scrivo per via della sua morte, o da fan, ma perché trovo sinceramente affascinante quel suo modo di cantare, straziato eppure potente, moderno eppure soul, costantemente sull'orlo del baratro senza mai perdere l'equilibrio, come un funambolo sulla corda. Tutto questo lo dimostra ogni singolo brano della serata, ma soprattutto il suo vecchio caposaldo, "Black Hole Sun", la cui versione acustica sarebbe divenuta una costante ad ogni concerto degli Audioslave, ma nessuna si sarebbe avvicinata alla perfezione di quella cubana, specchio di una ritrovata lucidità che Cornell, come sappiamo, non aveva mai avuto né avrebbe più ritrovato. Tutta l'eccellenza di cui ho parlato fin'ora, funestata da ben pochi limiti tecnici o compositivi, si concretizza in un pubblico estasiato e partecipe, quasi commosso da un evento che per l'Avana è più unico che raro, ma la cosa sorprendente è la sua conoscenza del repertorio, non solo per la differenza linguistica, ma soprattutto per la fama di Cuba, troppo spesso percepita come culturalmente chiusa e isolazionista. Una sorpresa che diventa ammirazione, se ripenso che buona parte del pubblico della Plaza s'è ritrovato lì per caso, o quasi. Cos'è stato, dunque, questo concerto? È stato in primo luogo un evento storico che ha segnato l'inizio di un'importante riapertura, una riapertura messa oggi nuovamente in bilico dalle attuali correnti politiche, ma - nel trascurabile parere di chi scrive - irreversibile. Ma per noi, che pensiamo alla musica, è stata soprattutto la dimostrazione che gli Audioslave avrebbero potuto rappresentare qualcosa di molto, molto più vasto per la musica e per il rock, lasciando un velo d'amaro in bocca per il confronto, purtroppo inevitabile, fra i tre album in studio della band e questo storico, magnifico concerto. 

1) Set It Off
2) Your Time Has Come
3) Like a Stone
4) Spoonman
5) The Worm
6) Gasoline
7) Heaven's Dead
8) Doesn't Remind Me
9) Be Yourself
10) Bulls On Parade / Sleep Now in the Fire
11) Out of Exile
12) Outshined
13) Shadow On the Sun
14) Black Hole Sun (versione acustica)
15) I'Am the Highway
16) Show Me How to Live
17) Cochise
correlati