VIXEN
Vixen
1988 - EMI Records

Andrea Ortu & Andrea Cerasi
DOPPIATORI:
Paolo Marchese
Alessia De Lucia
Enrico Vaioli
DATA RECENSIONE:
18/04/2021
TEMPO DI LETTURA:











Prologo
Prologo
Il cielo roseo sta lasciando spazio alle tenebre e il sole, di un rosso vivo e infuocato, si sta nascondendo oltre le colline di una Los Angeles primaverile, bagnata di umidità a causa delle correnti di aria provenienti dall'oceano, da una parte, e dal deserto, dall'altra, che, come le forti braccia di un gigante, schiacciano la città in un solido abbraccio. In periferia, nel salotto di un appartamento al secondo piano, mi sto preparando, ammirandomi allo specchio con una certa aria di soddisfazione, giubbotto di pelle ricco di toppe e di borchie, come piace a me. Mi volto prima a sinistra e poi a destra, mi metto in posa per compiacermi, e sul volto mi si stampa un ghigno sornione. Sotto al giubbotto indosso una t-shirt bianca, alla vita ho allacciata una cintura di cuoio con una fibbia argentata, un paio di jeans chiari e ai piedi degli stivali a punta. «Hai finito di ammirare la tua innata ed eterna bellezza? Sei più vanitoso di una donna, Joshua!», la mia ragazza, dai biondi capelli cotonati, giunge alle mie spalle, mi cinge la vita e mi bacia sul collo, facendo su e giù con la lingua, rizzandomi i peli. Si chiama Desy. «Sei una provocatrice nata» rispondo, voltandomi per abbracciarla meglio e affondando le mani tra i suoi pantaloni di pelle. «Si sta facendo tardi, meglio andare» dice, divincolandosi dalla mia stretta e facendo un passo indietro per afferrare due biglietti poggiati sul tavolo. «Non vedo l'ora che inizi il concerto, abbiamo desiderato tanto questo momento», e alza in aria i due biglietti sui quali vi è stampato il nome di una band: Vixen. «Sono pronto» le dico contento, sventolando le chiavi dell'auto. Usciamo di fretta, scendendo le scale mano nella mano e, in pochi passi, raggiungiamo l'auto parcheggiata sul ciglio della strada, un impolverato Pick-up nero con il vetro anteriore crepato e uno specchietto laterale penzolante. L'atmosfera è serena, la luce in cielo si sta smorzando lentamente, facendo intravedere la sagoma della luna e il brillio delle stelle, che come diamanti incoronano il paesaggio californiano in una distesa luminosa e magica. «Sarà un concerto memorabile! Una delle primissime female-band della storia, due hit planetarie, un disco d'oro, e diversi tour in compagnia di Scorpions, Bon Jovi e Billy Idol. Non vedo l'ora di essere lì, sotto al palco» affermo fomentato, accendo il motore e parto a tutto gas. Il mangianastri spara "Edge Of a Broken Heart" a un volume assordante, riempiendo l'aria losangelina col suono delle chitarre elettriche.
Nel 1968 esce in America "Vixen!", una commedia erotica come mai s'era vista prima d'allora, soprattutto nelle puritane sale statunitensi. Diretto da Russ Mayer e interpretato dalla bella Erica Gavin, "Vixen" è il primo film americano a vantare il divieto di visione ai minori, ancora oggi famoso per una lunga serie di scandali, proteste e proibizioni: dalla messa agli arresti dei proiezionisti alle svariate multe; dalle proteste femministe alla censura della pellicola in molte città, come a Cincinnati, dov'è tuttora illegale. In Ohio, la censura arriva addirittura a fotografare e schedare ogni singolo spettatore dell'opera di Mayer, che nel frattempo sostiene qualcosa come ventitré processi per le più varie e ridicole accuse. Nemmeno a dirlo, tuttavia, il suo film si rivela un successo commerciale raro, per quei tempi, nonché il più importante di tutta la sua carriera. Un piccolo cult del cinema erotico in cui sensualità e seduzione vivono di luce, spontaneità e ribellione. Tre anni dopo, una chitarrista diciottenne alle prime armi decide di formare una rock band tutta al femminile, scelta insolita e assai coraggiosa, specialmente in un contesto culturale così profondamente maschile nell'estetica, nella poetica e nelle attitudini; nascono così le Vixen di Jan Kuehnemund. La scelta del nome è geniale, seducente, ma soprattutto emblematica: il rock negli anni '70 è il linguaggio del dissenso, la bandiera di un rigetto dell'ipocrisia borghese e dei suoi perbenismi, il nemico numero uno delle convenzioni e della vecchia morale. In questa sfida filosofica, storica e generazionale, la sessualità ricopre un ruolo centrale, e così, dalla compostezza degli artisti d'inizio secolo, si passa in un battito di ciglia alla ruvidezza dei primi grandi bluesmen di colore, ai movimenti d'anca di Elvis Presley, al fascino misterioso di Jim Morrison e a quello, spregiudicato e ambiguo, di Jimi Hendrix, Robert Plant e Marc Bolan. Poiché alle voci femminili è richiesto tutt'altro contegno, quella del Rock è un'estetica sessuale prettamente maschile, fatta di donne fatali, sgualdrine e principesse, angeli e streghe, tutte oggetto d'un arcaico desiderio, astratte e irreali. Quasi nessuno ha mai raccontato la nuova cultura da un punto di vista femminile, né le femministe, inceppate a metà fra liberazione sessuale e spettacolarizzazione della donna, né certamente le conservatrici. Quando le Vixen cominciano a suonare sanno bene che verranno amate ma anche insultate, derise, fatte oggetto di commenti bassi e ignobili. Perché perfino agli occhi dei cosiddetti ribelli, un conto è un uomo spavaldamente seducente, dichiaratamente fedifrago e sessualmente incontenibile; un altro conto, invece, è una donna. Le ragazze lo sanno e non gli interessa, anzi: di tutto quel teatrino fanno la loro forza, e il nome da loro scelto, "Vixen", richiama esplicitamente quell'opera famosa per aver dato luce al desiderio sessuale delle donne, libero da schemi e da giudizi. E così tra varie peripezie, pause di riflessione e cambi di line-up, le Vixen arrivano alla fine degli anni '80 forti di una fama ottenuta solo e unicamente sui palchi, evolvendosi insieme al mondo e all'hard rock, ispirandosi a donne del calibro di Janis Joplin, Debbie Harry, Joan Jett, Patty Smith, Pat Benatar e Siouxsie Sioux: tutte grandi pioniere del rock femminile. Più di quindici anni di carriera rigorosamente live finché, nel 1988, la Emi Manhattan decide di pubblicare il primo, omonimo album delle Vixen: un'opera figlia della sua contemporaneità che mischia glam rock, hair metal e sonorità squisitamente heavy. Janet Gardner, Jan Kuehnemund, Share Pedersen e Roxy Petrucci, sono le ragazze della storica line-up di questo debutto che profuma di sesso, amore, metallo, e di graffiante femminilità.
Il Pick-up inchioda facendo stridere le gomme sull'asfalto, svolto in una via per tagliare la città, evitando il traffico e facendomi largo tra grattacieli e parchi. «Se continui a guidare in questo modo, al concerto non ci arriveremo mai» Desy mi colpisce con una gomitata ben assestata alle costole «rallenta!» esclama, reggendosi forte al sedile per non essere sbattuta di qua e di là. «Come desidera, mia signora» grido, sovrastando il chiasso della musica hard rock che fuoriesce dalle casse dello stereo. Ci guardiamo per un istante, i nostri occhi brillano nel crepuscolo, e nell'aria si percepisce il nostro grande amore, luminoso come una scintilla, un amore difficile da contenere, una passione ancora fremente e vigorosa. Rallento, siamo in prossimità del palazzetto dove le Vixen si esibiranno, e quando nello stereo attacca "Desperate", la mia ragazza allunga un braccio, mettendo la mano in mezzo alle mie gambe, e con malizia dice «Sto cominciando ad eccitarmi». La situazione si fa calda, rovente come l'aria di una città giovane pronta per la notte, pronta per la festa, per la musica hard rock, per l'alcol e per gli eccessi. Stendo il collo e le scocco un bacio fugace sulle labbra; mi basta solo questo istante per sentire il profumo della sua pelle e il sapore della saliva che mi arrivano dritti ai polmoni, riempiendoli di una passione sfrenata. Divertimento, sesso e hard rock, questo ho in mente. Accosto, trovando posto dietro a una lunga scia di macchine e di moto. Davanti al palazzetto la gente è accalcata: capelli lunghi, possibilmente cotonati, stivali da cowboy, pantaloni e giacche di pelle, anelli, bracciali e borchie, sono gli indumenti che identificano i più. L'arena è grande, ma si riempie in pochi istanti, le luci al neon, sparate in aria, e le macchine spara-fumo, creano un clima effervescente che presto contagia gli spettatori. Cori, fischi e grida tempestano l'ambiente, prendo per mano la mia Desy e le faccio un cenno con la testa «Avviciniamoci al palco, la band sta per entrare in scena» e così dicendo, arriviamo sotto al palco, accanto alle casse. Nell'attesa ci guardiamo attorno. «Sai, da piccole, io e mia sorella facevamo un gioco» dice lei mentre si toglie la giacca e la allaccia alla vita «ci appostavamo in finestra e osservavamo i passanti, giù in strada. Fantasticavamo sulla loro vita, ci piaceva immaginare le loro vite, prendendo spunto dai vestiti indossati, dalle espressioni del viso o dalla camminata». La fisso negli occhi, stupito, e lei si giustifica «Lo so, sembra una scemenza, ma è divertente» e poi si sposta il ciuffo cotonato dalla fronte. «No, invece è stimolante. Proviamo» rispondo, facendomi ancora più vicino a lei, stringendola a me e facendo pressione col pube «potrebbe essere eccitante. La sala diventa buia, dopo qualche secondo ecco un faro puntato sulla platea, si accende e poi si spegne, mentre dal backstage parte un rullo di tamburi. Gli ascoltatori sono in delirio, le Vixen fanno il loro trionfale ingresso, prendendo posizione sul palco. La chitarrista-leader Jan, dagli occhi dolci e il ghigno sicuro di sé, saluta la platea e dà il via allo spettacolo. Seducenti, belle, talentuose, le altre emergono dal buio e iniziano a suonare.

Edge Of A Broken Heart
Capitolo Primo: Edge Of A Broken Heart
Il fumo sparato invade l'arena, sfocando i volti dei numerosi spettatori accalcati sotto al palco. Le luci colorate, come laser, si insinuano nella foschia, abbagliando le sagome in movimento. Qualcuno, fomentato, inciampa e sbatte contro una transenna, un altro pesta i piedi alla mia ragazza, chiede scusa sbiascicando, evidentemente già ubriaco, e si appoggia qui accanto. «Ad esempio, che hai da dire su di lui» Desy indica l'ubriaco, che ne frattempo saltella infastidendo tutti, «delusione d'amore? Esame andato male?». Accetto la sfida, indirizzo ancora uno sguardo verso di lui «Dunque, piuttosto giovane, potrebbe frequentare l'università, salta e si dimena ma si vede benissimo che sta cercando di nascondere le lacrime. Ha gli occhi tristi» «Pensi che il rock sia la sua medicina?» «Probabile, è uno che ci crede, capelli cotonati, chiodo, borchie. È venuto al concerto per sfogarsi perché è solo. Forse un esame andato male, forse una giornata di lavoro pessima, forse un litigio con la ragazza»
Ad aprire l'opera è la stessa canzone scelta dalla band e la sua etichetta come primo singolo delle Vixen: Edge of a Broken Heart, romanticamente traducibile come "l'orlo di un cuore spezzato". Il video del brano è quanto di più anni '80 si possa immaginare, tra capelli cotonatissimi, colori ultrasaturi con dominanti blu e fucsia, flashback in bianco e nero e vestiti di pelle e borchie. Considerato il periodo, siamo all'apice di un'estetica e del suo linguaggio, nonché ai margini del suo inevitabile declino. Fumo di scena, riflettori, stivali col tacco, e sullo sfondo un suono oscuro e teatrale, perfino solenne; poi, colpi secchi sulle pelli e infine la chitarra di Jan, acuta e graffiante, a dare realmente fuoco alle polveri. "Edge of a Broken Heart" è il pezzo ideale per presentare al mondo le Vixen; il suo sound ruvido ma melodico, insieme sfacciato e romantico, rende immediatamente l'immagine di quattro ragazze che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi maschi, capaci quanto questi d'incarnare lo spirito del rock 'n' roll ma bisognose, al tempo stesso, di riconoscere ed enfatizzare la loro natura femminile. Così il brano alterna un riffing bello tosto, solido e tagliente, a momenti più ariosi che trovano pieno sbocco nel romantico ritornello, smaccatamente tendente al pop. Le sensazioni più romantiche della canzone, tuttavia, non vengono mai abusate e le sonorità tornano sempre, puntualmente, su binari di sano e genuino hard rock. Così dopo la catarsi, soprattutto vocale, c'è spazio anche per un classicissimo solo di chitarra, piazzato bello centrale ad anticipare la chiusura del brano, sinergia corale fra tutti gli elementi strumentali del gruppo. Va detto che il merito di un equilibrio così mirabile è anche delle tastiere di Richard Marx, cantante, musicista e produttore, e di Fee Waybill, frontmand dei The Tubes. Questo primo album delle Vixen è infatti un mosaico di varie firme, caratteristica che da un lato impreziosisce l'opera, mentre dall'altra ne guasta l'autorialità. Il testo, scritto principalmente da Richard Marx, parla di una donna che ha vissuto troppo tempo sull'orlo di un cuore spezzato, metafora immaginifica di un lungo e doloroso ristagno emotivo. Quello della ragazza è dunque un grido di rivalsa, rivendicazione d'una libertà che proprio lei, accecata da un amore a senso unico, ha negato a se stessa. La decisione di non avere più una "spalla sulla quale piangere", di riappropriarsi della propria vita a costo di sopportare il dolore della separazione, è tematica tanto intima quanto sociale, sebbene scevra da caroselli politici, metro di misura d'una femminilità "nuova" e indipendente, affrancata degli antichi stereotipi senza tuttavia rifuggire la sua intrinseca sensibilità. Su queste sensazioni la musica ricama dunque momenti assai malinconici, ma a dominare è un dinamismo fatto di rivalsa, speranza, e - soprattutto - il ritorno ad una libertà che da sempre è l'anima del rock.
«Interessante analisi» intona Desy. «Scommetto che la sua è una delusione d'amore, guarda come fissa la coppia abbracciata che ha accanto. Sembra essere invidioso» ammetto «probabile che sia un tipo solitario, pochi amici, un amore alle spalle che gli ha spezzato il cuore» «È giovane, ha tutto il tempo di rifarsi una vita, ma guarda che buffo» lei indica il tipo, appoggiato alle gigantesche casse, che guarda su in aria come incantato. Il suo sguardo è indirizzato ai fasci luminosi prodotti dai neon colorati, che si diramano come un folto reticolato. Li fissa, incantato, poi riprende a saltare come un pazzo, dando spallate a destra e a sinistra, facendo incazzare tutti. «Alcol, divertimento e hard rock» grida l'ubriaco, sommerso dalla folla accalcata sotto al palco, non appena le Vixen, tra gli applausi, terminano il pezzo.

I Want You To Rock Me
Capitolo Secondo: I Want You To Rock Me
Ci abbracciamo, le nostre lingue si incrociano, avide, e i bacini ondeggianti dichiarano la nostra fortissima attrazione sessuale. È una notte di divertimento, di istinti carnali, di piaceri, e allora I Want You To Rock Me accompagna il nostro giovane amore, avvinghiati come non mai, in preda all'eccitazione. «Adoro questo brano!» esclama entusiasta Desy, afferrandomi la giacca per avvicinarmi a lei, azzannandomi al collo. Il suo sguardo si perde nell'aria, fino a quando non focalizza un punto preciso dell'arena, e me lo indica: in un angolo in penombra intravediamo una situazione curiosa, due tizi sono lì-lì per fare sesso, davanti a tutti quanti. La ragazza sollevata e con le gambe stretta alla vita dell'uomo, la sua minigonna svolazza, lasciando intravedere tutto quanto, mentre il compagno la stringe a sé, costringendola al muro e premendo col bacino. «Che ne pensi?» dico a Desy, divertito «Adesso tocca a te supporre, che mi dici di quella focosa coppia?»
I Want You to Rock Me è un titolo che potrebbe essere tradotto grosso modo in "voglio che tu mi roccheggi", in cui "rock", chiaramente, è inteso come consolidata metafora sessuale. È un brano dalla ritmica monolitica e incalzante, arricchito da tastiere dal sound palesemente anni '80. Se dovessi abbozzare una critica, direi che rispetto a canzoni come "Edge of a Broken Heart", che pure è figlia del suo tempo, questa è invecchiata male: è così smaccatamente vintage, squisitamente ottantiana, da rimanere confinata senza speranza nell'immaginario di quel decennio. Godersela appieno significa dunque riuscire a ritrovare quelle atmosfere fumose, quei colori saturi e quelle capigliature ingombranti, figurarsele nella propria mente e calarsi nella nostalgia. Fatto questo, è davvero un gran bel pezzo, definito tutto quanto dalla brava Roxy Petrucci, dalla sinergia tra Jan e Share, e dall'onnipresente ed energica presenza vocale di Janet Gardner, coautrice del brano assieme al produttore della band, David Cole. Il testo è semplice e conciso, quasi aggressivo, proprio come lo è la prova vocale della Gardner. A parlare è una ragazza sessualmente spregiudicata, libera, una giovane donna che non solo non è "preda" dell'uomo di turno, ma che al contrario è costretta, lei, ad incitare la sua timida controparte maschile a possederla, a prendere coraggio e - che diamine! - a farla finalmente sua. Più lui tentenna, più lei gli urla in faccia che vuol essere "rockeggiata"... rock me, e ancora roll me, e così via. Prima del finale c'è ancora spazio per un canonico solo di chitarra, così ruvido da uscire dai puliti schemi anni '80 per ricordare quelli, ben più sporchi e spontanei, degli anni '70. L'epilogo di questa rozza seduzione spetta proprio a lui, a quel maschietto fino ad ora incitato, pungolato e preso un poco in giro, sebbene a cantarne le gesta sia ancora la voce femminile della Gardner. Ora lui ha gettato ogni indecisione e la rockeggia come richiesto, forte e chiaro, mentre sullo sfondo il coro delle ragazze intona "rock me, roll me", lasciando sfumare una coda che sa d'amplesso carnale e musicale.
«Secondo me si sono conosciuti poco fa, magari all'ingresso del palazzetto. È scattato subito qualcosa, una passione travolgente» spiega Desy. «Una passione così grande deve essere appena sbocciata, sicuro si conoscono da pochissimo» aggiungo. Intanto la coppia, in lontananza, continua ad avvinghiarsi, tra gli sguardi divertiti di tutti quelli che gli sono attorno. La musica heavy riscalda il clima, le Vixen ci danno dentro, la vocalist richiama la folla chiedendo un aiuto nei cori, e per un po' anche io partecipo al canto, gridando a squarciagola. «Secondo me, dopo il concerto si chiuderanno in casa per due giorni a fare l'amore, poi chi s'è visto s'è visto» chiarisco, divertito. «Tutto può essere, o magari è l'inizio di una bella storia: famiglia, figli, nipoti e tanti buoni sentimenti» scrolla le spalle Desy.

Cryin
Capitolo Terzo: Cryin
Una donna di mezza età si fa largo tra il pubblico, urlando indemoniata non appena parte il pezzo, evidentemente il suo preferito. Io e Desy veniamo travolti dal corpo abbondante della tizia, pantaloni di pelle e t-shirt bianca con un logo verde e viola. Al braccio indossa un polsino di pelle con degli spuntoni affilati, e per poco non me ne conficca uno nell'occhio. «Cazzo, sta attenta!» le urlo infastidito, ma la tizia non sembra avermi sentito, perché procede sbracciando come un carrarmato verso la transenna, schiacciando tutti col suo passo pesante. La chitarrista delle Vixen la vede arrivare, le fa un cenno con le labbra, una specie di sorriso, poi si china per salutarla, la donnona allunga il braccio e le afferra la caviglia, sbilanciandola per farla cadere. Una guardia della sicurezza interviene, spingendo la donna e facendola arretrare, ristabilendo l'ordine. La folla emette un boato non appena giunge il grandissimo ritornello.
Cryin, "piangere", è il terzo brano in scaletta, nonché il secondo singolo tratto da "Vixen". Dopo una presentazione energica come quella di "Edge of a Broken Heart", al pubblico serviva evidentemente l'anima più delicata e melodica della nuova band al femminile, e "Cryin" rappresentava senza dubbio la scelta migliore. Decisamente pop in termini di sound, pulizia formale e poetica, questa canzone è tuttavia sufficientemente dinamica da non scadere nella melensaggine, né nella puerile banalità, mantenendo alta l'attenzione dell'ascoltatore di oggi così come quella del grande pubblico del passato. Il video che accompagna il singolo è dominato dalle musiciste, sebbene ai piedi del loro palco s'intreccino gli sguardi di uomini e donne, ognuno con una potenziale backstory già scritta negli occhi. Ovunque salta all'occhio il marchio della band, la vixen, ovvero la femmina di volpe rossa, sinonimo in Inghilterra di donna maliziosa, capricciosa e piantagrane, stereotipi con cui la band gioca con sagacia ed ironia, facendoli propri. Scritta da Gregg Tripp e Jeff Paris, "Cryin" gode sensibilmente dell'attitudine tastieristica di quest'ultimo, di cui fa perno per buona parte dei suoi momenti più melodici, indispensabili a caricare la catarsi del ritornello prima, e quella elettrica del solo di chitarra, poi. Nel complesso il brano suona quindi fresco e personale, sebbene risalti l'influenza del pop ottantiano di Madonna e Cyndi Lauper, complice un refrain azzeccatissimo, arioso, elettrizzante e romantico al tempo stesso. "Cryin" è la storia di una persona soggiogata da un amore fatto di bugie, inganni e false parole, una persona disperata e perduta nel vortice di se stessa e dei suoi sentimenti, e al bivio di una scelta difficile. Possiamo immaginare sia una ragazza oppure un ragazzo, non fa alcuna differenza, e tale ambiguità è probabilmente voluta e ricercata. D'interesse è piuttosto il ribaltamento d'una poetica antica e consolidata, di matrice blues, fatta di uomini dal cuore spezzato e femmine fatali. Ora che a cantare sono quattro signorine, non ci è dato sapere chi abbia effettivamente il cuore spezzato, né se ad essere "fatale" sia una donna oppure un uomo. Sembra poco ma non lo è affatto, e sebbene le Vixen non siano state le prime, a ribaltare determinati cliché, di certo lo sono state nel loro ambito culturale, culla delle grandi tendenze popolari di un'epoca dominata dal rock.
La donna indietreggia, inciampando e andando a cadere ai nostri piedi. «Tutto bene?» chiede Desy, cercando di rialzare la tizia spiaggiata a terra. «Non meritavo di fare questa fine, quello stronzo mi ha lasciata poche ore fa» piagnucola la donna, singhiozzando e respirando a fatica. Mi chino, la afferro per le braccia e tento con fatica di tirarla su «Dai, non pensarci» dico per rassicurarla. «Questo era il pezzo che abbiamo ascoltato di più negli ultimi mesi» aggiunge lei, continuando a piangere, mettendosi in ginocchio «io lo adoro» e continua a piangere come una bambina. Cerchiamo di rialzare la donna in lacrime, ma il suo peso è eccessivo. «Fatti coraggio, goditi il concerto» suggerisce Desy. A questo punto, la donna ha un rigurgito, ci fissa con aria incantata, poi rigetta l'alcool che ha ingurgitato fino al momento, schizzando ovunque. «Ma cristo santo!» sbotto, con lo stivale inzuppato nel vomito «senti che puzza!». Lasciamo la donna a terra, inginocchiata nel suo schifo, e ci spostiamo di qualche metro, tra imprecazioni e risate di scherno.

American Dream
Capitolo Quarto: American Dream
Alle nostre spalle c'è un uomo, carnagione olivastra, baffetti neri, lunghi capelli ricci, grida come un matto in una lingua straniera, si sta divertendo come se non ci fosse un domani. È solo. La mia bella Desy lo tocca sulla spalla, richiamandolo all'attenzione «Da dove vieni?» gli domanda, ma lui fa il vago e risponde «Da molto lontano». «Che ci fai qui a Los Angeles?» insiste lei, curiosa, e l'altro, senza tanti giri di parole «Sono venuto qui in cerca di una nuova vita, il sogno americano, proprio come la canzone», e alza in aria la mano, indicando il palco dove la band sta eseguendo la dirompente American Dream. Lo straniero urla le stesse parole della canzone «Insieme siamo forti, il sesso è a portata di mano in ogni città, commercia con bugie e segreti. Vivere è semplice con gli occhi chiusi. Siamo in cerca del sogno americano».
Finito di piangere e di parlare d'amanti, torniamo alla base del rock con un pezzo dolce-amaro ma graffiante, molto ritmato, insieme d'esaltazione e di critica: American Dream, il Sogno Americano. Buona parte del brano è nelle mani dell'accoppiata ritmica Petrucci & Pedersen, mentre la chitarra di Jan definisce sensazioni al tempo stesso decadenti e sfavillanti, perfetta esemplificazione musicale degli Stati Uniti d'America. Stavolta niente donne devastate dall'amore o seduttrici in giubbotto di pelle, bensì celebrazione dello spirito americano e dei suoi principi fondamentali, ma anche critica delle sue contraddizioni storiche. Da una parte la Costituzione che passa "di mano in mano", dall'altra gli affari più loschi e l'omertà della maggioranza. E ancora: da un lato la diversità di culture differenti, ma unite sotto gli stessi ideali e la medesima bandiera, dall'altra l'ipocrisia strisciante e gli assurdi tabù sessuali. Le Vixen tracciano dell'America un quadro tutto sommato edulcorante, senza tuttavia scadere nella celebrazione patriottica più perbenista e sorridente. Lo stile ottantiano della poetica si riflette naturalmente in ogni aspetto sonoro, dalla voce accalorata e grintosa della Gardner all'assolo, stavolta decisamente figlio d'influenze ottantiane, nonostante l'evidente impronta di leggende quali Heart e Led Zeppelin. Le Vixen impacchettano così un brano che riesce a commemorare senza fastidiose patinature, a criticare senza arrivare all'impegno politico, equilibrato, senza eccessi poetici e compositivi ma neanche privo di spunti o di coraggio. Soprattutto, piuttosto divertente. Non suona affatto casuale che ad aver scritto "American Dream" sia stato Jon Butcher, artista blues afroamericano che stavolta, alle esigenze sociali della sua comunità, ha anteposto quelle al femminile di una band che non chiede altro che di divertire e divertirsi. Alla fine alle ragazze non interessa che questo: onorare lo spirito del rock 'n' roll con leggerezza e sensualità, graffiando la pelle quando serve senza arrivare alla carne, per mantenere sempre vivi il gioco e il divertimento.
«Si direbbe che per te il sogno americano sia soltanto il sesso libero» gli dico, ma lui fa un cenno con la mano, come a dire "lascia stare", poi sorseggia la sua birra ghiacciata e replica «Quello è soltanto uno dei privilegi, ma ce ne sono tanti. Non sono così superficiale» ammette con tono quasi amareggiato. Io e Desy ci fissiamo negli occhi, sorpresi, ed entrambi scrolliamo le spalle. «Ho un progetto di vita, non mi arrenderò fino a quando non lo avrò raggiunto» riprende lo straniero, scolandosi un bicchiere intero di birra in un sorso soltanto. Non dà spiegazioni, si volta verso il palco e si assenta per ascoltare l'assolo. «Ma cos'è che cerchi, di preciso?» urlo alle sue spalle, il tizio si volta e mi lancia un'occhiata «Vengo da una situazione disastrosa, una famiglia sfasciata, un ambiente malsano. Tutto ciò che adesso desidero è un lavoro, amore e tanta buona musica. Voglio divertirmi» e alza in cielo il boccale vuoto. Urla, salta e si dimena. «Tutti vogliamo solo divertirci, il divertimento è libertà, è la vera conquista di un popolo» dice Desy, saltandomi in braccio e dondolandosi al ritmo di musica.

Desperate
Capitolo quinto: Desperate
In alto gli accendini per la semi-ballata, a quanto pare attesa da tutti, perché appena parte l'arpeggio di chitarra un coro esplode nell'arena. Tutti che si abbracciano, si baciano, si danno spintoni affettuosi. Qualcuno si fa largo e punta dritto verso di noi con lo sguardo è ipnotizzato. Si tratta di un ragazzo dalla testa rasata, con una cresta al centro e un tatuaggio sul collo, i muscoli pompati che si intravedono sotto la maglia e il passo deciso come quello di un cyborg. «Oh cavolo, quello è il mio ex. Sta venendo qui» sbotta Desy, nascondendosi dietro la mia schiena, allora mi volto per capire la situazione. Non vedo nessuno, confuso, ma faccio un salto di paura quando l'altro fa uno scatto ed accalappia la mia ragazza, sollevandola «Quanto tempo» dice, sorridente, stringendo ai fianchi Desy, facendola roteare, facendomi ingelosire. «Che sta succedendo?» dico spazientito, «Oh, lui è il mio ex» risponde lei, non potendo nascondersi «siamo stati insieme, tanto tempo fa». La situazione si fa improvvisamente imbarazzante, gli occhi del tizio cadono a terra, tristi e pieni di ricordi. Io temo il peggio, tipo un piango a dirotto, o un atto eclatante per riconquistare Desy.
A segnare il baricentro dell'intera opera è una power ballad dal sapore insieme malinconico ma energico: Desperate, letteralmente "Disperata". Siamo dalle parti del metal più melodico, quello tendente ai canoni patinati del pop, ma la canzone possiede una dignità che va oltre la sua patinatura per toccare punte di vera eccellenza. Aprono le danze i morbidi arpeggi di chitarra ritmica, seguiti da lievi sfumature elettriche e dalla voce melodiosa, quasi soave di Janet Gardner. C'è una tristezza sconsolata e un'energia sopita, nell'intonazione della singer, energia che esplode in tutta la sua potenza più e più volte in un tripudio di basso e di chitarra, fino alla catarsi di un solo centrale eccellente, lacerante ed evocativo, forse troppo breve, opera della guest star Vivian Campbell. Luce ed ombra, alternanza fra sensazioni malinconiche e disilluse ad altre taglienti, dinamiche e cariche di speranza, portano il brano ad un finale finalmente sopra le righe, caratterizzato da una sinergia corale che adopera ogni elemento strumentale e vocale per l'esplosione finale, preludo a una coda magari più scontata, ma necessaria. Se un brano dall'evidente potenziale come "Desperate" non è diventato un singolo, se gli è stata preferita una canzone tutto sommato più innocua come "Cryin", è proprio per il suo uscire dai canoni di leggerezza e sensualità con cui le Vixen volevano essere identificate. Oltre alla natura rocciosa del sound, anche il testo si presenta più impegnativo, non tanto per il tema - affine peraltro a "Cryin" e a "Edge of a Broken Heart" - quanto al modo di esporlo, articolato senza divenire didascalico, malinconico ma non dolciastro; poetico, eppure caratterizzato da strofe più lunghe della media. La storia è quella di una coppia tormentata dal dubbio, di due amanti posti ad un bivio, ognuno dei due a suo modo "disperato", smarrito, in bilico tra la paura del futuro e il terrore di rimanere da solo. Una storia banale, in fondo, ma raccontata con ardore e sofferenza, resa vera e reale, e che certamente sa raccontare le sensazioni di migliaia di coppie di qualsiasi tempo, colore, etnia. Una guerra di amore, paura e dolore in cui "non ci sono vittime, solo volontari", come canta Janet Gardner. A rendere così solida una tematica altrimenti abusata è forse il coinvolgimento alla scrittura di Jan Kuehnemund, assieme ai co-autori Brian Miku e Leah Santos. Quando un artista si approccia ai testi è per mettervi la sua particolarissima firma, spesso frutto d'esperienze personali, ed è probabilmente per questo che "Desperate" suona così reale e drammatica, sebbene illuminata da un finale che sa di speranza.
«Non è stato facile superare la separazione, sono stato molto male» ammette l'omone con la cresta «sono caduto nella depressione, ho cominciato a bere» «Ma adesso ti vedo bene» sottolinea lei «Sì, sono in gran forma, ho superato la disperazione della perdita, mi sono ripulito in clinica» i due si guardano dritti negli occhi, c'è ancora dolore nei loro volti, ma la vita va avanti, e certe scelte vanno accettate. «Adesso sono rinato, mi sento come nuovo, e non voglio più sentire parlare di alcool o di sigarette. Cazzo, quella roba ti divora l'anima e il fisico, è puro veleno» «Ma la passione per l'heavy metal ti è rimasta» sottolinea Desy, continuando a stringergli la mano, come se fossero ancora insieme. Io, mezzo incazzato, a questo punto mi metto in mezzo, dividendoli e riprendendo la mia donna, trascinandola via. «Ei, che diavolo ti è successo!» urla Desy, mentre viene trascinata via, all'altro lato dell'arena. «Adesso te ne stai buona qui, mente io vado a prendere due birre» le dico perentorio.

One Night Alone
Capitolo sesto: One Night Alone
Mi allontano verso il bar, una volta lì ordino due birre, pago e faccio il giro sotto gli spalti. Il fumo accresce, espandendosi nell'aria, e nella nebbia mistica intravedo la donna dei miei sogni. Una tipa che da anni perseguita le mie notti, una che vedo in giro da tanto tempo ma che non ho mai avuto il coraggio di approcciare. Bella, dal fisico minuto e lo sguardo imbronciato, è appoggiata a una delle colonne del palazzetto e sta sorseggiando un cocktail. Si gode il concerto da lontano, come per non essere disturbata, lontano da tutti. «Ciao» prendo coraggio, avvicinandomi mentre tra le mani stringo due bicchieri di birra «come mai sei qui da sola, lontana dalla mischia?» chiedo, ingoiando la saliva per l'audace gesto. La ragazza mi squadra dalla testa ai piedi «Sei Joshua?» chiede, io annuisco, sorpreso «Conosci il mio nome?» «Sì, qualcuno me lo ha suggerito». Ci fissiamo per qualche istante, imbarazzati, e non sappiamo che altro dire. Intanto parte One Night Alone.
A stemperare la "disperata ballata", per così dire, è un brano più leggero sia dal punto di vista sonoro che poetico: One Night Alone, letteralmente "Una sola notte". A metà fra la ritmata ariosità dei Genesis di Phil Collins e quella, più dura ma ugualmente melodica, dei Van Halen, "One Night Alone" è una canzone disimpegnata e luminosa, ruvida nei passaggi chitarristici d'obbligo, ma, tutto sommato, dall'anima smaccatamente pop. In virtù della sua semplicità anche l'assolo centrale, di cui le Vixen comunque non fanno mai eccessivo sfoggio, è ridotto all'osso e lasciato ad un ruolo marginale; di completamento, più che di baricentro. Autori del brano sono ancora Jeff Paris e Gregg Tripp, il cui testo è una variante di quanto già sentito fino ad ora: la storia di una ragazza tormentata dalle sue vicende amorose, una montagna russa emozionale che tuttavia, rispetto a pezzi come "Cryin" e "Desperate", è caratterizzata da un marcato sentimento di speranza, e dal desiderio di rinascita come coppia. La ricetta della ragazza è passare una notta, solo un'altra notta sola col suo antico amore, sicura che tanto basti a far capire a entrambi la portata dell'errore commesso, l'inutilità della separazione e l'importanza di ritrovarsi. Ecco così che un brano altrimenti più crepuscolare diviene solare, energico e carico di positività, elementi propri del Glam e dell'Hair, generi per loro natura antitetici all'oscurità tipica di altra musica dura. Con la sua leggerezza, "One Night Alone" riaccende dunque i colori su di un disco finora segnato da sentimenti traditi, storie alla fine ed amori laceranti, e con la sua anima graffiante, così intrinseca del sound delle Vixen, funziona da trampolino di lancio per uno dei pezzi più duri del repertorio della band.
«Comunque, rispondendo alla tua prima domanda: mi piace godermi lo spettacolo senza essere infastidita, non mi piace stare attaccata alla gente, farmi rovesciare la birra addosso, calpestare i piedi o farmi stordire dagli altoparlanti» «Saggia decisione» annuisco, a dire la verità poco convinto, poi riprendo «insomma, brindiamo alla musica» e faccio sbattere il mio bicchiere contro quello suo. «Brindiamo anche alla nostra conoscenza. Sei con qualcuno?» «Sono con la mia ragazza» dico, mordendomi la lingua. «Capisco, allora non dovresti lasciarla da sola». «Bè, ci si vede in giro» faccio fatica a staccarle gli occhi di dosso, indietreggio, sudato ed eccitato, e subito vengo risucchiato dalla massa che balla a ritmo di musica «Ma come ti chiami?» le urlo, dopo un po', ma ormai è troppo lontana per sentirmi.

Hell Raisers
Capitolo settimo: Hell Raisers
Le Vixen si autocelebrano in Hell Raisers, raccontando di scatenare l'inferno ovunque vadano a suonare, e scatenando il pubblico, che inizia a darsi spallate. Attraverso la platea, cercando di non rovesciare neanche un goccio di birra, ma la traversata è difficile, tra gente ubriaca che si spintona e ragazze che ballano suadenti, le spallate sono tante. A un certo punto, come ad assecondare la foga della band, scoppia una rissa. Al centro dell'arena, un gruppo di giovani se le danno di santa ragione. Mi allontano, cercando di evitare il delirio, davanti a me ci sono uomini e donne, sudati, alcuni con il labbro spaccato dal quale esce del sangue, altri con le magliette sbrindellate. Ma ciò che mi sorprende è vedere la mia fidanzata, aggrappata sulle spalle di un punk, che lo picchia selvaggiamente. La mia dolce biondina tira pugni di qua e di là e impreca, in preda all'euforia, mentre io resto paralizzato ad osservarla combattere come una leonessa. Poi qualcuno mi crolla addosso, facendomi cadere una delle due birre. Il panico.
Con Hell Raisers arriviamo al cuore d'acciaio delle Vixen. Il titolo stesso è un richiamo a tutto ciò che è infernale, contro le regole, avverso alla conformità e all'idea comune e perbenista di "bene". I primi a fare uso di tale espressione, almeno in un determinato contesto, sono i Raven, nel 1981. A renderla famosa è tuttavia Hellraiser, nel 1987, un cult dell'horror ottantiano come pochi altri. Dopo le Vixen, anche Ozzy Osborune e i Motorhead useranno il termine "Hellraiser" per le loro canzoni, rispettivamente nel 1991 e 1992. Dopotutto un'espressione traducibile come "portatore d'inferno" - o portatrici, in questo caso - fa perfettamente al caso di chiunque si occupi di musica dura. A dominare l'insieme e dare inizio al ballo è la sezione ritmica. È il basso di Share Pedersen a farla da padrone, caratterizzato dalle influenze funky di cui gli anni '80 erano pegni, e tendente a quel groove che avrebbe caratterizzato ogni rock e metal band dei primi anni '90, dai Soundgarden ai Pantera. Alla chitarra non resta che delineare le sensazioni più taglienti con distorsioni acute, in piena sinergia con il canto provocatorio e provocante della Gardner. Jan Kuehnemund si lancia in una breve performance personale che restituisce quasi subito la guida a basso e batteria, per tornare poco dopo in pompa magna con l'assolo finale, filo conduttore ad un finale tiratissimo ed eccitante, catarsi pura di ogni singolo elemento della band. Autori del brano, oltre le stesse Vixen, sono Scott Metaxas, bassista dei Prophet, Kennet Dubman e infine Spencer Proffer, uno dei tanti produttori del disco. Gente che, senz'altro, sa come raggiungere l'obiettivo di realizzare un prodotto vincente, carico solo del meglio del suo tempo e forte di tendenze ancora a venire. Il testo è un'autocelebrazione delle Vixen, o forse, di un movimento senza confini di uomini e donne in pelle nera, borchie e toppe sulla giacca. Al passaggio di queste "Hell Raisers" la festicciola è finita, poiché ha inizio il divertimento, quello vero: quello senza regole, senza morale, senza il giudizio dei soliti bigotti. E la tempesta dilaga da New York a Londra, da Parigi a Los Angeles, perché la musica non ha confini, e le Vixen sono arrivate a portare il loro sensuale, violaceo e fragoroso inferno. Un testo semplice e conciso che dà priorità al suono e rafforza la musica, qui vera, deflagrante protagonista.
«Ma che cazzo!» esplodo, tirando la birra in faccia al grassone che mi ha spinto e fiondandomi su di lui. Mi scateno come un animale inferocito, e così prendo parte alla rissa, affiancandomi a Desy. Joshua e Desy, insieme, uniti anche nella lotta, mi sembra buffo pensarci. Lei sputa a terra e riprende a picchiare peggio di un pugile. La sicurezza fa di tutto per placare il delirio, e alla fine ci riesce, così veniamo allontanati. Ci rifugiano accanto al palco, Desy urla di piacere «Ci voleva una bella scazzottata, vero?» e si lancia con la lingua tesa, scoccandomi un bacio profondo ed eccitante. «Mi fai impazzire quando perdi il controllo» ammetto, su di giri, asciugandole una goccia di sangue dal labbro. «Questa serata è un sballo» aggiunge lei, col fiatone.

Love Made Me
Capitolo ottavo: Love Made Me
L'aria si accende un clima di serenità ritrovato. Siamo nuovamente sotto al palco, abbracciati ad ascoltare l'ennesimo pezzo in scaletta. «Questa è una delle mie preferite» le dico, «Sotto sotto, sei sempre stato un romanticone» Desy mi stringe forte, accarezzando la barba incolta sul mento «riprendiamo il gioco?». Annuisco, mi guardo attorno e indico con lo sguardo una ragazza seduta sugli spalti, non molto lontano da noi, Desy si volta e nota una persona dai capelli a caschetto, le guance rosee, il rossetto scuro e un vestitino gotico che poco si addice a una serata glam metal. «Forse ha sbagliato concerto» sogghigna, prendendo in giro la tipa dall'aria sconsolata. «Vestito nero di pizzo, trucco scuro, volto serioso. Un pesce fuor d'acqua» sottolineo «ma le persone non si giudicano dall'apparenza, giusto?». Desy scuote la testa, sorride «Vediamo un po', secondo me sarebbe dovuta andare a una serata dark con il suo ragazzo. Si sono dati appuntamento nel parcheggio del palazzetto» «E invece cosa pensi sia successo?» «Lui le ha dato buca, l'ha lasciata sola, e lei, spaesata e confusa, ha deciso di entrare qui, pur non conoscendo la band».
L'andatura prosegue bella rocciosa sulle note di Love Made Me, traducibile in "l'amore mi ha fatta", o in questo caso, come vedremo, "l'amore mi ha resa". Il brano uscì nel 1989 come terzo e ultimo singolo tratto da "Vixen", ormai a meno d'uno anno di distanza dall'annuncio di "Rev It Up", secondo album della band. Il video ha meno pretese di quelli precedenti, e visto che dopo il lancio del debutto la band era impegnata in una lunga serie di date, esso mostra semplicemente le ragazze scatenate sul palco, seguite passo passo dall'obiettivo del fotografo. Autori di "Love Made Me" sono il musicista John Keller, la cantante Marcy Levy e il cantante e scrittore Michael Caruso, la cui sinergia è servita a confezionare un brano duro ma patinato, graffiante quando serve e mellifluo quando d'obbligo, capace di tirare fuori quella femminilità che, si presumeva, dovesse appartenere a una band tutta al femminile. Un contrasto ch'emerge evidente anche nella contrapposizione fra la strumentale, incentrata su di un riff tosto ed elettrizzante, e il cantato della Gardner, più delicato, vigoroso ma non lacerante, mai eccessivamente ruvido. Sul riff emergono basso e batteria, monolitici e rocciosi, ma è la chitarra a dare personalità all'insieme. Il canto ora dolce, ora delicato ma sempre sulle righe della Garden, è preludio di un ritornello orecchiabile e melodico, di facile fruizione e - soprattutto - vendibilità. Insomma, un brano ch'emoziona senza scossoni, in cui perfino il solo di chitarra è ridotto e contenuto, ideale ad una fruizione che coinvolga sia il pubblico rock e metal, sia quello casual di radio e tv. La storia è ancora dolceamara, stavolta narrata in prima persona. Gli eventi hanno luogo nel momento in cui la donna li racconta, e narrano di una discussione interrotta a metà, di una porta che si apre e si richiude, una storia che finisce. In questa storia ci sono una vittima e un carnefice: la prima si chiede come abbia potuto, l'amore, renderla cieca. Si chiede come sia possibile, se l'amore è quel gran sentimento che tutti vanno dicendo, ch'esso l'abbia resa strisciante e supplicante dinanzi al "carnefice", traditore ed egoista, eppure anche molto altro; troppo, per poter essere dimentico in un battito di ciglia. Così disgusto, autocommiserazione e rabbia si mischiano a speranza e illusione, ma love made me blind to the truth, love made me crawl - l'amore mi ha resa cieca alla verità, l'amore mi ha resa strisciante. Una narrazione breve, interpretata con più vigore che non malinconia, ancora una volta in totale accordo con una poetica ricorrente in molte tracce del disco, e c'è da dire, nella sua quasi banalità, ancora potente ed efficace.
«Potrebbe essere una situazione interessante» ammetto «non male come idea». Entrambi fissiamo la tipa dark sugli spalti, ha lo sguardo spento, deluso, e non sembra si stia divertendo molto. «Magari la canzone le sta ricordando qualche tragico avvenimento. L'abbandono da parte del suo uomo. Poveretta!» esclama Desy, convinta della sua analisi. «Mi verrebbe voglia di andare da lei, abbracciarla e offrirle da bere» dico, e scoppiamo tutti e due a ridere. Certo è che il mood del brano non aiuta a consolare, la sala si fa buia, i riflettori si spengono per qualche istante, un proiettore illumina viso per viso, poi risale lungo gli spalti, facendo una panoramica del pubblico, andandosi a fermare proprio sul volto della ragazza dark. «Oh mio Dio, ma che sta facendo?» grida Desy, spaventata. La ragazza dark alza lo sguardo e allarga le braccia, qualcuno, dietro di lei, preso dalla foga le dà una spallata, facendole perdere l'equilibrio. La ragazza viene buttata già dalla gradinata. L'altezza non è molto alta ma rischia di spezzarsi una gamba, se non fosse per un gruppo di metallari che la prende al volo, evitando la tragedia. I buttafuori la soccorrono e poi la scortano via. Il pubblico torna a focalizzarsi sul concerto.

Waiting
Capitolo nono: Waiting
«Stasera succede di tutto: risse, tentati omicidi, apparizioni di ex» afferma Desy, «È il rock n roll, baby» spiego, tirandomi indietro i lunghi capelli «questa è la serata degli eccessi, può accadere ogni cosa». Desy slaccia dai fianchi il giacchetto e me lo lancia «Tienimelo, accompagnami un attimo al bagno». La musica delle Vixen ci scorta fino all'uscita, ma quando siamo nel corridoio risulta un po' ovattata. Qui incontriamo due tizi accasciati a terra che fumano uno spinello, hanno gli occhi vitrei, ma sembrano sereni. Proseguiamo dritti, entriamo in bagno e ci specchiamo. Per prima cosa le esamino la ferita sul labbro, non sanguina più, è solo un po' gonfia, lei dalla borsetta tira fuori cipria e rossetto e si sistema il trucco. «Ma tu guarda come ti sei ridotta, mia cara Desy» borbotta tra sé, quando a un tratto sentiamo dei rumori, provenienti da dietro una delle porte. «Chi c'è?» chiedo.
Oramai è assodato che le Vixen danno il meglio di loro stesse con pezzi meno patinati, quelli che non saranno mai dei singoli ma che spiccano per energia e creatività. Lo dimostra anche il penultimo brano del disco, nonché il più breve: Waiting, "aspettando". Stavolta, per la prima volta, le autrici sono proprio Jan Kuehnemund e Janet Gardner, il cui diretto interessamento alla scrittura rende l'opera più grezza, meno adatta a palati qualsiasi, ma anche differente da quanto ascoltato fino ad ora e privo di quella mezza patinatura che, per ovvie e anche condivisibili ragioni, avvolge l'intero debutto della band. Il brano si apre su sonorità laceranti e distorte, seguite da un riffing ritmato e sofferto, in piena sinergia con una prova vocale delicata ma particolare, come guardinga, sospettosa e accorta, di una donna che finalmente intuisce un pericolo. L'insieme, quasi claustrofobico, sfocia in un ritornello completamente opposto: arioso, vitale, quasi aggressivo nella sua caustica allegria, ricco di energia e femminilità. L'assolo, pur breve, è catartico e sopra le righe, particolareggiato ma non ingombrante, in totale sinergia con una chiusura corale, ben costruita e assolutamente catartica. Il testo, se da una parte riprende la tematica del... maschio fatale, per così dire, già usata e abusata in diverse tracce del disco, dall'altra suona differente: è il punto di vista di una donna raccontato da una donna, e non il punto di vista di una donna raccontato da un uomo, come ascoltato fino ad ora. Il risultato è la storia di una ragazza dai sentimenti contrastanti, adesso venati d'un palese erotismo, elemento finora tralasciato dai vari autori dei brani. Erotismo, va detto, che sebbene sia stato trascurato in alcuni testi, è sempre forte e chiaro nell'interpretazione delle musiciste. Qui invece la sensualità è parte integrante della poetica, nella vicenda di una ragazza che, da una parte, si rende conto di come il don Giovanni di turno la stia prendendo per il naso, e dall'altra, è curiosa di vedere fino a che punto riusciranno a spingersi, fin dove entrambi arriveranno nella messa in scena di una storia fatta di sesso, amore e bugie. Una rappresentazione affascinante, realistica e coerente dell'incoerenza propria dell'animo umano. Finalmente.
Ancora un rumore, una specie di spallata al legno della porta, poi una risata e un gemito. Desy rimette tutto dentro la borsa, lancia un'ultima occhiata allo specchio, si dirige in bagno, verso la porta più lontana, ma questa è chiusa a chiave, la ragazza preme sulla maniglia ma niente, alza le spalle verso di me. «Devo solo pisciare» bisbiglia, poi prova con la seconda porta, apre e nota il pavimento completamente allagato «ma che diavolo, è una maledizione questa!» sbotta. Io rido. Non le resta che una porta, la stessa dietro la quale provengono risate e gemiti. «Non mi interessa chi c'è dietro questa dannata porta, io entro, vi avverto» grida con tono deciso, ed apre di scatto. Davanti agli occhi ci troviamo una coppia giovanissima, lui con i pantaloni slacciati e lei seduta sulla tazza. I giovani si spaventano, imbarazzati, si ricompongono subito e scappano via «E voi che ci fate insieme nel cesso? Eh, si può sapere?» li rimprovera Desy, mentre il ragazzino fugge con la sua fidanzatina. Desy si chiude dentro e si libera della troppa birra che ha in corpo. Io sorrido ancora, ripensando alla scena.

Cruisin
Capitolo decimo: Cruisin
Torniamo in arena, siamo alle ultime battute, la band annuncia l'ultimo pezzo prima di congedarsi. Io mi accascio alla transenna, sono sfinito, è stata una lunga serata anche per me. Desy allunga lo sguardo e nota la giovane coppia che prima stava facendo smancerie in bagno, me la indica, ridiamo ancora, dunque si avvinghia al mio braccio, infilandomi le mani sotto la t-shirt e affondando le unghie nella mia pelle. «Mi fai venire i brividi» dico, provando qualche brivido sulla schiena «ed è tutta la sera che cerchi di provocarmi. Sta attenta, bambina» pronuncio, sbiascicando un po' le lettere, dato la leggera ebrezza alcolica che mi sta investendo. In mano reggo l'ennesima birra della serata, ne offro un sorso a Desy, la quale si disseta e poi ammette «Amo le situazioni di pericolo, lo sai» e così dicendo affonda una mano sui miei pettorali. Adesso siamo abbracciati, eccitati, in preda agli ormoni, dondoliamo sulle note di Cruisin', vedendoci già proiettati a letto, per una nottata focosa.
Chiude l'opera Cruisin, "viaggiando", brano di voluta semplicità e ricercato manierismo. Parliamo di "manierismo" perché il sound, più che ottantiano, ritrova i modi e l'attitudine di rock band come Deep Purple e Grand Funk Railroad: gruppi vecchia scuola che non solo hanno esplorato sonorità innovative, ma soprattutto, hanno saputo definire l'immaginario e l'estetica alla base dell'hard rock e del metal. Di questo immaginario il vagabondaggio, la corsa su strade illuminate dai fanali della macchina, è parte integrante e fondamentale, come d'altra parte evidenzia la copertina di "Vixen", con la sua motociclista in sella al bolide a due ruote. Il termine in questo caso non indica quindi il solo spostarsi, ma letteralmente la corsa fisica e spirituale di un uomo nella sua autovettura, corsa che le Vixen trasformano in erotica chiamata del destino. Apre un feroce riffing di basso e chitarra, inseguito ben presto da una batteria che segna un ritmo rapido ed incalzante, come a descrivere in musica l'essenza stessa dell'auto nella notte, delle luci, della metropoli, dei locali notturni. La Gardner, coautrice del brano con Jan Kuehnemund e Keith Krupp, definisce un canto quasi tagliato con l'accetta, serratissimo ed energico, ideale a suggerire concitazione e frenesia. Ogni movimento di strumentale ruota intorno alla performance di Share Pederson, compreso l'ottimo assolo di chitarra, concessione al più puro heavy metal ottantiano. La cantante narra di un uomo insonne che esce e si mette alla guida, subito risucchiato dalla turbolenta metropoli e dalle sue infinite promesse. E potrebbe benissimo essere lo stesso protagonista del secondo brano, "I Want You to Rock Me", perché quando all'uscita del locale incontra una ragazza, lei lo riconosce e gli è subito addosso; "rock me, roll me", gli ripete, vuole entrargli nell'anima. La frenesia della corsa si fa così frenesia emotiva e sessuale, in un turbinio di colori e di asfalto, di musica, cori e quel riffing aggressivo, di una femme fatale che si riconosca come tale e che ci gridi addosso tutta la sua carica erotica. La carica delle Vixen.
«Adoro questa band» grido, sovrastando lo scroscio di applausi «credo proprio che l'album sia il mio preferito di quest'anno», «Che annata incredibile, vorrei che il tempo non trascorresse mai più». Fisso la mia Desy, in questo momento capisco che è lei la donna che amo e con la quale voglio stare «Questa è stata la serata più bella della mia vita. È successo di tutto, ma ce lo siamo goduto, io e te: la musica, il divertimento, l'alcool, la passione» e Desy aggiunge, ironica «Il vomito, i pugni e i calci, il sangue e il sudore». Nel frattempo le Vixen ringraziano il pubblico, l'arena diventa una bolgia, applausi, urla e cori si fondono per incoronare la serata. La bella Jan Kuehnemund ha un cuore grande e gentile, perché distribuisce plettri, fotografie autografate e t-shirt ai presenti. Poi il sipario cala, il palco si svuota e le luci si riaccendono, spezzando l'incantesimo.

Epilogo
Epilogo
Il parcheggio del palazzetto è gremito di gente, alcuni sono stremati dalla serata, sudati da fare schifo, altri riversano a terra mezzi ubriachi. Ci incamminano verso la macchina. Nel tragitto veniamo investiti da una folata di vento fresco, anche noi siamo stanchi, ma felici di aver vissuto una simile esperienza. Davanti agli occhi troviamo la tipa dark che ha rischiato di farsi male, è abbracciata ad un uomo con ciuffo colorato. I due sembrano ballare al chiaro di luna, restando in silenzio. Dietro a loro, la ragazza che mi aveva vomitato sullo stivale è ancora stordita, accasciata sull'erba e attorniata da un paio di amiche. «Poveraccia, una serata da dimenticare, per lei» dice Desy, compatendola. Invece per noi è stato un concerto fantastico, pieno di sorprese. Arrivati al pick-up, apro lo sportello, e mentre sto per salire, in lontananza, noto la ragazza incontrata vicino al bar, quella che sogno da tempo, poggiata al cofano di un'auto grigia. Faccio un cenno con la mano e la saluto, lei mi strizza l'occhio e, con un'espressione misteriosa, si accende una sigaretta. È ancora sola. «Chi è?» chiede Desy dal sedile, «Oh, niente, una vecchia amica». Mi sistemo i capelli, mi abbottono la giacca e salgo. Ripartiamo verso casa, questa volta la musica dello stereo è a basso volume, come per non spezzare l'incantesimo. La notte ci accompagna verso il nostro nido d'amore. Dopo un po', il mangianastri emette un click «Cambia lato» dico e Desy ubbidisce, capovolgendo la cassetta. "One Night Alone" scuote l'ambiente, spandendosi nell'aria di una Los Angeles calma e notturna. La primavera californiana brucia l'asfalto, ma il vento proveniente dal deserto rinfresca la pelle. «Ti sanguina il labbro» noto, guardando di sfuggita il bel viso di Desy, la quale si tocca la ferita e poi controlla la macchia rossa rimasta impressa sul dito «e brava il mio tesoro, forte e coraggiosa come una belva», aggiungo con un tono colmo di orgoglio, lei accenna un sorriso e poi picchietta sulla mia gamba, come per suggerire "facciamo presto, premi sull'acceleratore, ho una certa esigenza".
A settembre del 1988, quando esce il primo album delle "Vixen", il mondo è già in una fase di profonda metamorfosi. Nirvana e Soundgarden, futuri campioni del grunge, il "sound di Seattle", sono già sulla bocca dei giovani americani, i loro primi album attesi in pochissimi mesi. Sempre in America, l'hip hop inizia la sua scalata dall'underground all'odierna patinatura: N.W.A., Big Daddy, Public Enemy, fanno la storia del genere e pongono le basi di future tendenze. In Europa, l'amore per il metal estremo e l'esigenza di un suono nuovo, e soprattutto di un differente approccio alla musica dura, portano a una spaccatura culturale, e la spaccatura alla nascita del black metal. È la musica che sta cambiando. Certo, il vecchio mondo resiste ancora e il rock, in tutte le sue varianti morbide o metalliche, è ancora l'apice dell'establishment radiofonico e culturale; George Michael svetta con la sua "Faith", i Guns N' Roses imperversano con "Sweet Child o' Mine", i Def Leppard riempiono le classifiche con i singoli tratti da Hysteria. Ma la verità è che sono gli ultimi, veri momenti di autentica gloria di un intero mondo di suoni, segni, simboli e linguaggi. Le Vixen arrivano su radio e tv impugnando un'estetica in fase terminale, ed è una mossa voluta e ponderata - se non da loro, senz'altro dalla loro etichetta. Nel 1987, una band di sole donne appare sul documentario "The Decline of Western Civilization: The Metal Years". Sono le Vixen di Jan Kuehnemund, la cui fama è nata e cresciuta sui palchi: zero album, zero singoli in radio, solo vere esibizioni. La band è fresca di un cambio di line-up che ne ringiovanisce l'immagine, e la EMI decide che un gruppo metal al femminile, esperimento che in ambito pop rock sta già dando i suoi frutti, grazie a realtà come The Bangles e The Go-Go's, è la carta vincente per raccogliere gli ultimi frutti su di un viale ormai al tramonto. Tutto è studiato alla perfezione: le capigliature, le strutture dei brani, la patinatura radiofonica, le cromie aggressive e cangianti. Oltre a Richard Cole, le Vixen sono affiancate da un esercito di produttori, direttori e coordinatori artistici, musicisti e soprattutto scrittori, il cui contributo permette a una band ancora inesperta di avere l'equilibrio, sia poetico che compositivo, per conquistare il favore del grande pubblico. La copertina dell'album è l'essenza di tutto ciò che fu il rock 'n roll nella gloria dei suoi anni: una motocicletta inquadrata da dietro e dal basso, uno stivale da donna a toccare il terreno dalla sella, colori accesi da far quasi male, rossi e blu, e il nome della band stampato su una placca sotto il fanalino. L'esemplificazione di quello spirito On the Road che, dì lì a poco, avrebbe lasciato spazio all'intimismo psicologico del nuovo rock. Le Vixen sono dunque un prodotto studiato a tavolino? Per certi versi, sì. O meglio, lo è il loro esordio discografico, con tutti gli elementi estetici e concettuali ad esso legati, frutto, il più delle volte, di altri artisti e della loro visione, di solito smaccatamente "maschile". Tuttavia, ridurre il successo della band di Jan Kuehnemund all'abilità commerciale della EMI, a quella artistica dei suoi collaboratori e a un'estetica dall' immaginario ormai abusato, sarebbe quantomeno ingeneroso. In primo luogo perché "Vixen" è un album davvero ottimo: divertente, sensuale, graffiante, leggero ma forte d'un paio di episodi sopra le righe. In secondo luogo perché le tante collaborazioni, se da un lato rendono l'opera meno autoriale, dall'altro l'arricchiscono di sfumature rare, in un album di questo genere. E ancora, si potrebbe parlare della perfezione formale delle esecuzioni, dell'equilibrio compositivo, della presenza scenica delle ragazze, della voce della Gardner, dei pochi, ma splendidi brani firmati da cantante e chitarrista, di quelle canzoni che rifuggono la patinatura del videoclip e s'innalzano alla vera eccellenza. Ma l'elemento determinante, ciò che rende l'album e la band qualcosa di vero, con una sua intrinseca dignità, è l'anima stessa delle Vixen: quella d'una diciottenne affascinata dai Led Zeppelin, dai Grand Funk Railroad, dagli Heart e dai T-Rex, di una giovane donna che scopre i Bon Jovi e gli Iron Maiden, e che per anni porta avanti il suo sogno insieme ad altre come lei, ragazze che sfidano le convenzioni e il perbenismo, e che suonano da Dio. Che il mercato ne abbia abusato o meno, lo stile e l'estetica della band sono figli di sincera passione, di decennale, sofferta autenticità storica. "Vixen" rappresenta una delle ultime e reali scintille di un mondo e delle sue generazioni, è lo spirito più puro del rock 'n' roll, incarnato nella sensualità e nella forza di quattro donne e della loro musica.
Il pick-up torna in periferia, a passo lento, non c'è fretta alcuna, solo l'attesa di una notte carnale che cresce minuto dopo minuto. C'è una passione enorme tra noi due, una passione che ha bisogno di trovare sfogo, come un fiume in piena che straripa dagli argini. «Sono eccitata come non mai. L'hard rock mi eccita sempre» se ne esce Desy da nulla, proprio mentre l'auto sta accostando, giunta a destinazione. Mentre saliamo in casa, un tuono scoppia in cielo, improvvisamente, annunciando grandine. Frettolosamente ci chiudiamo dentro, ci denudiamo al volo, senza aspettare di essere in camera, ci avvinghiamo l'uno all'altra, ci baciamo con una foga pazzesca, le nostre lingue esaminano ogni lembo di pelle. Le unghie di lei affondano sulla mia schiena, io la solleva, facendomi cingere la vita dalle sue gambe nude, e finalmente la conduco in camera, lanciandola sul letto. «Sai che la band deve il proprio nome al film di Russ Meyer?» le dico, sfilandomi i pantaloni, mentre Desy mi attende, distesa e ardente di desiderio, e poi sussurra «Volpe femmina», «Già, volpe femmina, è il primo film "pop" del regista, 1968. Un film rivoluzionario, eccessivo, sensuale, tutto giocato sul sesso libero e sull'erotismo femminile». Dopo la spiegazione sono pronto per coronare il nostro sogno di passione. Siamo due cuori fusi in un'estasi divina, e i nostri corpi roventi si toccano, si stringono e ardono di calore, bruciando tra gemiti e sospiri, mentre la grandine, fuori, picchietta sui vetri delle finestre, accompagnando la magia carnale.
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2) Edge Of A Broken Heart
3) I Want You To Rock Me
4) Cryin
5) American Dream
6) Desperate
7) One Night Alone
8) Hell Raisers
9) Love Made Me
10) Waiting
11) Cruisin
12) Epilogo

