THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE
Smash Hits (US Version)
1969 - Reprise
Marco Palmacci & Andrea Ortu
DOPPIATORI:
Rino Bolognesi
Smash Hits: Musica Originale
DATA RECENSIONE:
17/11/2020
TEMPO DI LETTURA:
Introduzione Recensione
"Andare a vedere lo spettacolo di Hendrix fu l'esperienza più psichedelica che abbia mai avuto. Quando iniziò a suonare, qualcosa cambiò: cambiarono i colori, tutto cambiò. Cambiò il suono."
- Pete Townshend
Scomodiamo nientemeno che la leggenda degli Who, per meglio presentarvi il sommo sacerdote del Rock. Supremo celebrante, custode della fiamma.. alfiere della sei corde più passionale, vivida, intensa. Solo ed unicamente le parole di un grande personaggio come Pete Townshend, dopo tutto, potevano fungere da tavolozza; da usarsi per il dipinto che intendiamo creare, nella vostra mente. Spalancate le porte della percezione, immaginate: perdetevi, coccolati da un fuoco splendente. Sette note che paiono mille. Note morbide e suadenti, dure come roccia, leggere come farfalle. Sfavillii, scintille, calore; l'intenso profumo del fumo di sigaretta, della brace, dell'incenso. Il Rock, il Blues.. viaggi sospesi a metà fra il lisergico ed il liturgico. Un dipinto che vede, come sommo protagonista, nientemeno che Jimi Hendrix. L'uomo che, all'unanimità, è tutt'oggi considerato come il primo, vero e grande innovatore della chitarra elettrica. Sette note, le sue, emesse con un piglio all'epoca mai visto: musica che non fu più solo musica, e che divenne qualcosa in più. L'uomo, il Nostro, che non poteva relegare la sua arte in un unico ambito. Nato e cresciuto in una famiglia modesta, affamato di riscatto e volontà di emergere, sin da giovanissimo. La voglia, la brama di divenire qualcuno; sorretta, come nel caso dei grandi, da un talento e da un'ambizione fuori dal comune. Le stesse qualità che lo portarono, dopo tutto, a cimentarsi nella sua prima, vera sfida. Adattarsi ad una chitarra per destri, ricevuta in regalo da ragazzo. Una chitarra letteralmente "ribaltata", rivoltata.. che, passo dopo passo, passando per complessi giovanili e poi sfociando nella celeberrima The Jimi Hendrix Experience, avrebbe nell'ordine: dapprima preso fuoco (1967, in quel di Monterey), ed in seguito dissacrato l'inno nazionale statunitense (1969, Woodstock). Due facce d'una stessa medaglia, dopo tutto. Da una parte, il fervente manifestarsi dell'Arte. La chitarra che, letteralmente, prende fuoco distruggendo ogni barriera e donando alla Musica una veste totale, sconfinante in ogni ambito della percezione. Dall'altra, la consapevolezza di essere un personaggio scomodo, un grande comunicatore. Quel periodo a cavallo fra i '60 ed i '70, ben ce lo ricordiamo, fu particolarmente impegnativo e delicato; ed è inutile sottolineare, alla fin fine, quanto il nostro Jimi divenne ben presto un'icona, di quegli anni ruggenti. Gli anni delle rivolte, delle feroci contestazioni ad un sistema imborghesito ed ormai incapace di soddisfare i più. Le proteste degli studenti, delle femministe. Il diritto all'amore libero. Gli anni del joint e dell'acido, visti come fuga da una realtà opprimente, annichilente. Fu proprio in quel contesto che Hendrix, con quei suoi riccioli selvaggi, con i suoi cappelli, la sua sigaretta ed i suoi vestiti sgargianti, divenne un eroe per sterminate frotte di ragazzi. Tutti quei ragazzi che non volevano imbracciare un fucile, ma solo posizionare un LP nel loro giradischi. E fare l'amore al ritmo di "Foxy Lady". In poche parole, un nome, quello del Nostro, che è sinonimo di "rivoluzione". Sia essa musicale, sia essa politica, di costume. Un incendio, quello divampato negli anni d'oro della già citata The Jimi Hendrix Experience, che ancora oggi risulta ben lungi dallo spegnersi. O anche solo dal placarsi. Fu il 1967, l'anno della definitiva consacrazione. L'anno del rilascio di due capisaldi della storia del Rock, ovvero "Are You Experienced?" ed "Axis: Bold As Love". Masterpieces pregni di genuino ed autentico Rock Blues, biglietti di sola andata per un mondo nuovo, mai visto né esplorato prima di allora. Il mondo di Jimi, colui che "suonava brani facili", stando ai suoi detrattori.. ma COME, li suonava. "Dimenticate ciò che è successo ieri e domani, e oggi. Stasera creeremo un mondo completamente nuovo". La massima preferita del nostro musicista, nell'atto di disfare il normale concetto di "musica", plasmando la Musa al suo volere, al suo sentire. Del resto, poco gli importava, dell'altrui opinione. "La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire, sei vicino al cielo": e via, a vele spiegate controvento. Ad inventare, a rimodellare, a proporre filtrando le note attraverso un setaccio più unico che raro, la propria anima. Sarebbe impossibile compendiare in parole lo spessore di un musicista come Jimi Hendrix. Potremmo spendere fiumi di parole, riguardo l'importanza di un pilastro come "Are you..", e dei relativi singoli che lo precedettero /seguirono. L'Hendrix pensiero, dopo tutto, passa attraverso le sue corde. Iniziò tutto con la pubblicazione di un singolo non propriamente accolto a suon di ovazioni ("Hey Joe"), salvo poi proseguire con il rilascio di quell'autentico scrigno colmo di perle, l'ellepì pocanzi citato. L'album contenente "Purple Haze", quello che da solo vinse ben cinque dischi di platino. Talmente importante che nessun disco seguente ("Axis..", "Electric Ladyland") riuscì ad eguagliare cotanto successo. Fu proprio per questo motivo che, dopo il tiepido (si fa per dire.. appena "solo" un disco di platino!) successo ricevuto da "Axis..", il management della Experience ben vide di voler insistere, in un certo qual modo, sui grandi classici; divenuti tali dopo appena un anno. Siamo nel 1968, e l'idea fu dunque quella di riproporre un blocco che racchiudesse tutto il meglio composto dalla "..Experience" fino al 1967, escludendo di fatto il solo "Axis.." dalla tracklist definitiva. Prendendo in esame quello (come già specificato) che tutt'oggi viene considerato come il periodo d'oro della band di Hendrix. Ovvero, "Are You Experienced?" ed i relativi singoli che lo precedettero, divenuti un successo grazie all'ampia risonanza ricevuta dall'album. Fu dunque così che Smash Hits vide la luce. Una compilation riassuntiva in grado di racchiudere il meglio del meglio, che compendiasse in maniera più che efficace quel che Jimi Hendrix rappresentava, per la generazione sessantottina. Brani a dir poco leggendari, che si sarebbero letteralmente venduti da soli, senza nemmeno troppo badare al fatto di costruire un'adeguata o troppo ridondante campagna di promozione. Si optò semplicemente per una veste grafica che risultasse dunque accattivante: le case discografiche curanti i vari mercati, ovvero la "Reprise" e la "Polydor", scelsero infatti tre diverse foto di Jimi (scattate dal fotografo Dezo Hoffmann), in seguito sovrapposte per ottenere un'immagine dai tratti tridimensionali. Ad affiancare il gruppo nella pubblicazione di questo nuovo lavoro , lo storico pigmalione Chas Chandler, sino ad allora imprescindibile manager del trio. Composto, oltre che da Jimi, anche dal bassista Noel Redding e dal batterista Mitch Mitchell. La compilation vide quindi la luce nel 1968, dapprima nel Regno unito e successivamente in tutta Europa. Un anno dopo, persino in Giappone. Per quel che concernette la versione americana (quella di cui tratteremo in questo articolo), la pubblicazione avvenne sempre nel 1969, come fu per il Sol Levante. La sua incarnazione, quella a stelle e strisce, più famosa e proficua. Disco di platino già all'epoca, per il superamento dei due milioni di copie vendute, presentando anche due estratti dall'ottimo "Electric Ladyland", pubblicato qualche mese prima del primo rilascio inglese / europeo di "Smash Hits". Volontà, dunque, di arricchire l'insieme mediante l'inserimento di due tasselli certamente "postumi" al successo del 1967 ma non per questo da trascurarsi. Unica nota "stonata", si soprassieda sul gioco di parole, il fatto che la pubblicazione di "Smash Hits" siglò di fatto il canto del cigno di Chandler, il quale abbandonò il gruppo subito dopo la pubblicazione. Stessa sorte di Redding, dopo tutto, il quale uscì dalla Experience proprio nel 1969. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Bando dunque agli indugi e tuffiamoci nel pazzo mondo di Jimi Hendrix. Il mondo dove tutto è possibile.. e dove tutto può assumere forme e colori inaspettati, forse addirittura inesistenti. Una compilation che in questo caso ci viene in aiuto: una pubblicazione in grado di riassumere al meglio la folle epopea di un genio della musica, capace di unire in coro sia gli esperti che i cosiddetti "profani". Un bel modo per ricordare, a chi già "sa"; una decisiva iniziazione per chi, dal canto suo, si ritrova invece "a digiuno" di Hendrix.
Purple Haze
Cominciamo il nostro viaggio imbattendoci in uno dei brani simbolo del chitarrista di Seattle: ad aprire le danze è infatti la celeberrima Purple Haze (Foschia Viola), con il suo carico di fascino, suadenza e mistero. Leggenda vuole che Hendrix abbia composto questo piccolo capolavoro letteralmente improvvisando, prendendo in mano la chitarra e suonando, nel backstage di un club ove poi si sarebbe esibito la sera stessa. Semplicemente, Chandler ed il resto dell'entourage lo sentirono provare e riprovare l'esecuzione di un riff; particolarmente efficace, tanto che lo invitarono a comporre un testo da affiancare a quelle note. Emesse, in prima battuta, in maniera semplicissima e quasi sorniona, salvo poi esplodere in uno dei riff simbolo della storia del Rock. Rock miscelato a Blues gran riserva, le scintille cominciano a divampare dalla Fender Stratocaster; "Purple Haze", nella sua semplicità, riesce ad avvolgerci come solo una calda lingua di fuoco potrebbe fare. Una leggera nebbia viola domina il paesaggio, persi in questo mondo magico non possiamo fare nient'altro che viaggiare, letteralmente sollevandoci da terra. Tutto è così potente e suadente, batteria e basso scandiscono un ritmo decisamente avvincente eppure eccezionalmente reso morbido ed etereo da una chitarra espressiva quant'altre mai. Lo vediamo, il nostro genio, con i suoi vestiti sgargianti e la sua fascia ben salda sulla fronte. Affrontare il pubblico con piglio animalesco e sfrontato, suonando il suo strumento con i denti, mordendo il microfono a suon di versi misteriosi e sfacciati al contempo. Il suo sorriso sornione ed il suo ghigno da rubacuori. Il volto di chi sta per catapultarci in un'altra dimensione. In grado di far del male, di ferire, di azzannare.. eppure, al contempo, di squarciare il velo della realtà e di farci ritrovare improvvisamente sul fondo dell'oceano. Esattamente come il sogno che Jimi fece poco prima della nascita del pezzo, e che ispirò la sua composizione. "Scusatemi, mentre bacio il cielo": il ritornello per antonomasia, una frase pronunciata in impeti di violenta e piacevole passione. E' proprio questa la sensazione che ci domina e stravolge: il desiderio di naufragare in questo mare sconosciuto, accolti da venti caldi, battuti da luci psichedeliche. Vedere ed assaggiare forme del tutto nuove, mai percepite prima. Colori impossibili da catalogare, dipinti dalla sei corde e dalla voce di Jimi. Voce da consumato bluesman, forgiata da sigarette e bicchieri di whiskey. Momento di stacco decisivo, l'assolo centrale, frangente in cui il nostro si lascia ad andare in un impeto di piccolo virtuosismo, mostrando la sua tecnica e letteralmente amplificando ogni nostro senso. Le porte della percezione iniziano a spalancarsi, ma non è ancora il momento per compiere il salto definitivo. C'è spazio per una nuova coppia di strofa e ritornello, prima che l'assolo venga ripreso; e che la velocità aumenti, disponendo le note in un autentico e travolgente turbinio. Come se il mondo attorno a noi avesse di colpo accelerato, luci e fiammelle scorrono rapide a mo' di fari nella notte. La nebbia viola sembra dunque coglierci di sorpresa, prendendoci letteralmente per la gola e sollevandoci. Spasmi d'estasi, smarriti nella tempesta finale, non possiamo fare altro che abbandonarci totalmente alle taglienti note del genio di Seattle.
Fire
La temperatura aumenta in maniera sensibile: sintomo del fatto che Fire (Fuoco) sta per fare il suo trionfale ingresso sulla scena, scaldandoci a dovere. E' il Blues nella sua forma più sfacciata e dura ad alzare l'asticella del termostato. Jimi entra in scena immediatamente, coadiuvato da una sezione ritmica a dir poco magistrale, mordendo con la sua Stratocaster, incendiando la sua sei corde ed emettendo suoni potenti e diretti. Un brano che dunque mostra un piglio ben più aggressivo di quello già udito in "Purple Haze". Laddove il pezzo precedente decideva infatti di perdersi letteralmente in atmosfere certo possenti ma oniriche a tratti, in questa occasione veniamo invece catapultati in un vortice di nuda passione. "Spostati, e lascia entrare Jimi!", urla il Nostro. Una frase da lui veramente pronunciata quando, ospite una sera in casa di Noel Redding, chiese cortesemente al suo cagnone di togliersi dal posto occupato dinnanzi al caminetto, dato che lì Hendrix avrebbe dovuto dormire. Un verso che di fatto ispirò il pezzo e la sua composizione, anche se la piega presa dalle liriche, in seconda battuta, perse totalmente ogni traccia di goliardia e simpatia. Proprio perché ci troviamo dinnanzi ad un brano che fa dell'ars amatoria il suo punto focale, il suo cardine. E' il fuoco che divampa, il desiderio, l'attrazione definitiva. La scintilla che scocca, il fulmine che cade.. e tutt'intorno, fuoco. Fiamme, fumo, odor di brace. Il desiderio, che chiama e rapisce, che pretende, che esige. Il desiderio che scioglie il ghiaccio perenne, che scotta l'anima, che bacia sulla bocca. Maleducato, irrispettoso, peccaminoso.. l'amor carnale, celebrato da questi possenti riff come mai prima di allora era stato fatto. Un inno sconvolgente e blasfemo se vogliamo, distruttore della morale (all'epoca) comune ed anticipatore di uno dei temi portanti della filosofia hippie: la libertà sessuale, da viversi rigorosamente come i protagonisti di "Fire". Che non si sposeranno, non avranno figli né una casa.. ma si prenderanno comunque, si affonderanno le unghie nella carne, godranno in impeti di spasmodico piacere, facendosi del male, facendosi del bene. Un desiderio che giunge al culmine in occasione delle potenti improvvisazioni poste verso la fine del brano. Ritmi serrati, precisi e potenti accompagnano un Hendrix a dir poco sconvolto dalla foga amorosa, in grado di far gemere (a dir poco) la sua sei corde. Quasi essa fosse la sua amante, in questa occasione intenta a godersi il tocco ruvido eppure elegante di un chitarrista che, in due minuti, è riuscito a spiegarci cosa significhi il termine passione. Tempesta ed impeto, ben resi da una chitarra che strepita, stride, geme. Una chitarra che ben decide di lasciarsi andare, subendo dolcemente le mani del suo focoso amatore.
The Wind Cries Mary
Terzo brano del lotto, The Wind Cries Mary (Il vento chiama Mary). Dopo aver fatto vibrare le pareti della stanza con "Fire", Jimi decide di rilassarsi e rilassarci, donandoci un brano quieto e caratterizzato da un'andatura suadente anche se molto pacata. Leggenda vuole che il pezzo fosse stato dedicato dal chitarrista alla sua amata, Kathy Mary Etchingham; anche se, in un'intervista rilasciata dal genio di Seattle verso la fine degli anni '60, il Nostro sostenne che dietro quel nome "non si celasse una sola persona". O "cosa", magari. Visto che, a detta di molti (e considerata l'andatura rilassata della canzone), "The Wind.." sarebbe invece un brano "dedicato" alla marjuana ed ai suoi effetti calmanti. Sta di fatto, qualunque sia il caso, che la ballad qui presente riesce magistralmente a mitigare gli impeti di "Purple Haze" e "Fire", permettendoci di rilassare le nostre stanche membra, abbandonandole su di un comodo giaciglio. La voce di Jimi ci coccola ed accompagna, quasi fossimo già immersi in un bel sonno ristoratore ed il Nostro continuasse a suonare per conciliare questo nostro status di perfetta beatitudine, d'atarassia. Il resto della band lo accompagna magistralmente, non uscendo fuori dai binari né disperdendo nulla del clima instaurato dalla calma e placida Stratocaster. Un Blues magnificamente eseguito, e cantato nel migliore dei modi. Una voce profonda ed espressiva, Nera, figlia dei campi di cotone e della sofferenza di un intero popolo. Parole piene, un'ugola che cerca disperata la sua Mary, unica e vera fonte di felicità. Quella Mary il cui nome è cantato dal vento, quella Mary che sola riesce a stampare, sul volto del suo uomo, il sorriso più vero e sincero che ci sia. Mary, persa nel tempo, persa nel soffio di placide correnti autunnali. Poesia il suo nome, musica al contempo. Quando il sole tramonta e tutto sembra tranquillo, è lei l'unica in grado di sconvolgere il nostro sonno. Mary, sirena e regina selvaggia, pioggia dolce e pungente sul cuore. Un brano che insomma ci svela il lato più intimistico di un chitarrista che, sino a questo momento, ci aveva donato momenti di pura psichedelia e Rock Blues da manuale. Dopo tanto graffiare, dopo tanti violenti trasporti (sia sentimentali, sia carnali), eccoci dunque a sognare d'una ragazza che, a parte il nome, potrebbe benissimo essere Lei; la nostra compagna, la nostra fidanzata, nostra moglie. Un brano calmo, che scorre senza problemi e non mostra eccessi di virtuosismi. Tutto è sentito, intimo, pacato. Il tocco di Jimi rimane invariato, sempre marcato e deciso; tuttavia Hendrix decide di non strafare, appunto perché la ballad goda di una resa sonora che sappia centrare il punto del discorso: parlare del vento che, quasi piangendo, invoca il nome di una dolce e cara ragazza.
Can you See Me
Dalla calma alla furia, dalla quieta alla tempesta. Can you See Me (Non mi vedi?) ci prende letteralmente per la collottola e ci fionda in un vortice di rock n' roll grezzo e maleducato, senza troppo badare ad eventuali proteste o richieste di spiegazioni. Un brano prepotente, che morde e getta via; schietto, diretto e letteralmente privo d'inutili finezze. Il Nostro schiaccia sull'acceleratore, impennando letteralmente e facendo in modo che il sound generale assuma connotati quasi Hard Rock. Udiamo una chitarra assai meno sognante e più pesante, "oscura" se vogliamo. Stridente, distruggente, figlia della frustrazione e della disperazione di un uomo che cerca ad ogni costo di far tornare da sé la sua compagna. Una lei che non ne vuole più sapere, pronta ad andarsene sbattendo la porta, in un impeto di rabbia e delusione. Una storia che sta naufragando pericolosamente verso derive assai preoccupanti, una storia che lui non vuole assolutamente gettare all'aria. Raggiunge la sua donna, prende la sua mano, la invita a guardarlo: la sta supplicando, con gli occhi gonfi di lacrime e la gola strozzata da un nodo di dolore. Note e parole che vanno all'unisono con gli intenti dell'uomo. In certe circostanze, parlare candidamente serve a ben poco; la passione, quella vera, salta fuori e ci induce a tentare un disperato tutto e per tutto. Piangiamo, ci inginocchiamo, cerchiamo in tutti i modi di far capire a quella persona quanto noi teniamo a lei.. sperando che capisca, che ci guardi con gli occhi che un tempo ci scrutavano sognanti ed innamorati. La pesantezza generale dei riff, il modo nervoso in cui vengono emessi, sembrano davvero parodiare il pianto furioso di un innamorato in procinto di perdere quel che più ha di prezioso. Da notare anche il momento solista, per nulla eccessivo in sensi blueseggianti ma anzi ruvido, roboante. Un brano, insomma, che sembra anticipare di netto quel che poi sarebbero stati i Deep Purple ed anche i Led Zeppelin. Scuola di Hard Rock ai massimi livelli; un pezzo devastante, travolgente, durante il quale il buon Jimi era solito suonare con i denti il suo strumento, per cercare di donare ancor più mordace ad un sound che, senza ombra di dubbio, stava andando via via definendo quella che sarebbe stata la fiera scuola Rock alla corte della regina.
Hey Joe
Quando giunge il classico dei classici, non dobbiamo far altro che adagiarci sulla nostra poltrona, o sul nostro letto; metterci comodi, con le braccia dietro la testa, tirare leggermente indietro il capo.. gustarci una sigaretta, lasciando che il dolce e struggente blues di Hey Joe trasporti altrove i nostri sensi. Un brano divenuto leggenda, interpretato da diversi cantautori ma divenuto popolare solo quando Jimi decise di registrarne una sua versione. Lanciata, quest'ultima, nel 1966 come primo singolo della Jimi Hendrix Experience. Passionale, intrepido, sognante: un brano che si insinua morbido nei nostri sensi ed avvolge il nostro corpo, sollevandoci lievemente da terra. Note blueseggianti, piene, soffici come fumo fluttuante nell'aria. Eppure in grado di arrivare dirette, schiette, senza compromesso alcuno. La calda voce nera di Hendrix, i cori che sorreggono i suoni della sei corde.. tutto risulta perfetto. E subito sembra di trovarsi a New Orleans, anche se viviamo in tutt'altro luogo. Sembra di vederlo, il Nostro, lì sul palco. Mordere la sua Stratocaster, plettrando aggressivo eppure leggero, come una foglia planante. Una chitarra che geme di piacere, sotto le mani del suo amante prediletto. Il quale sa come toccarla, come trattarla. Come fare in modo che da una struttura semplicissima divampi un incendio di passione, d'estro esecutivo.. di pura e semplice genialità. Un sottofondo per certi versi atipico, narrante di un folle intenzionato ad uccidere la sua compagna. Tanto nel brano precedente si lodava l'amore forte e tenero, tanto qui si narra di un folle raptus omicida. Una donna fedifraga, infedele.. sorpresa dal suo uomo in flagranza di tradimento. E' un momento indecifrabile, indescrivibile. Note che scorrono tranquille come i pensieri dell'omicida, appena compiuto il fatto. Un colpo di pistola.. ed il conseguente, folle stato di abbandono che ne consegue. I sensi si sciolgono, la testa non risponde più. Il capo comincia a dolere, quando Joe si rende conto di cos'ha combinato. Occhi sbarrati e panico incalzante. La mascella trema così come le mani, la visione della sua donna ormai priva di vita lo sconvolge. Prendere e scappare, il più lontano possibile. La fuga di Joe, che sembra correre al rallentatore per quanto l'ansia lo stia sconvolgendo, ha dunque un sottofondo d'eccezione. Al secondo minuto di brano assistiamo infatti all'esecuzione di un assolo da manuale, durante il quale Hendrix sembra letteralmente far l'amore con la sua chitarra. Erotici trasporti blueseggianti, ogni nostro senso risulta amplificato e pronto a cogliere sfumature e sensazioni sino ad ora mai provate. Trascendentalità allo stato puro. Quelle corde, quella voce, quel basso, quella batteria così precisa ed incisiva.. un pezzo che merita ascolti ripetuti, in loop perpetui di sciamanica sensualità.
All Along the Watchtower
Seconda cover presente in questa compilation, All Along the Watchtower (Dalla torre di guardia) è un celeberrimo omaggio di Jimi Hendrix a Bob Dylan. Il brano, oltre ad essere l'unico (all'epoca) inedito della compilation, piccolo assaggio di ciò che sarebbe stato "Electric LadyLand" (ovvero il terzo album della Experience), risulta infatti un rifacimento di un grande classico di Dylan, presente originariamente nell'album "John Wesley Harding". I cambiamenti apportati da Hendrix sono stati discretamente sostanziali, e lo capiamo sin dall'inizio. Un brano reso meno "dilaniano" e decisamente più psichedelico, drammatico; la chitarra di Jimi sogna letteralmente, andando a delineare un sound tendente verso il lisergico pur rimanendo perfettamente scorrevole ed orecchiabile. Una vera e propria hit che non rinuncia, tuttavia, ad importare in essa elementi tipici del fuoco Hendrixiano. Riff delicati, andatura che conquista e quasi ci spiega dinnanzi le vele d'un vascello sperduto in un mare calmo, in assenza di vento. Un pezzo che conquista e ci catapulta in quel di Woodstock. Jimi è lì, con la sua fascia e la sua camicia dalle ampie maniche, con i suoi pantaloni a zampa d'elefante. E la sua Stratocaster, ben salda nelle mani. Una Stratocaster che dipinge un paesaggio desolato, in cui un giullare ed un ladro discorrono sul senso della vita. Uomini d'affari che rubano il nostro pane, gente che semina nel nostro territorio, non lasciandoci fare altrettanto. Il giullare, frustrato, si chiede come abbiamo potuto arrivare a tanto, come mai la normalità di tutti i giorni sembra ormai essersi perduta nelle sabbie d'un deserto senza fine. Il ladro, ben più risoluto, lo invita a non preoccuparsi. C'è chi crede che la vita sia solo un gioco, un qualcosa di poco valore, e per questo si vota al male, alle nefandezze; chi, insomma, crede di poterla fare franca in virtù della sua concezione dell'esistenza. Considerata, quest'ultima, come appunto una giungla in cui sopravvive solamente il più forte. Tuttavia, sia il ladro sia il giullare non appartengono a quella categoria di persone. Entrambi sanno che il loro destino è un altro, e dunque si mettono in viaggio. Accompagnati dalle taglienti e morbide note di un Hendrix ispirato quant'altre volte mai. Il suo estro viene fuori in maniera prorompente, eruttando letteralmente suoni e colori durante un assolo che conosce due differenti momenti: dapprima aggressivo ed incalzante, in seguito più pacato ma spiritualmente trasportante. Come un'immensa mano d'arcobaleno, questi suoni penetrano nel nostro cuore, avvolgendolo. Veniamo rapiti, destati dal torpore della vita terrena. Ed è questo, il momento nel quale il nostro spirito si eleva; nel quale voliamo fra nuvole viola ed un cielo infinito. Leggeri, trasportati dalle correnti, dalle note decise e squillanti di un chitarrista pittore, che in questo momento sta scucendo e rimontando la realtà a suo totale piacimento. Capovolgimento totale di prospettiva, trascendentalità allo stato puro. Le torri di guardia scorgono due figure avvicinarsi, il ringhio di un puma s'ode in lontananza. Riferimento biblico al profeta Isaia, il quale citava le "torri" come luogo dal quale si sarebbe scorta la fine di Babilonia. Ovvero, del mondo misero e corrotto del quale il giullare ci narrava pocanzi. Babilonia, la grande meretrice scarlatta. Il mondo in cui trionfa l'eccesso, il disonesto, l'impudico. Destinato a crollare ed a collassare su se stesso, cessando definitivamente di esistere. Rimandi religiosi e versi criptici, uniti ad una musica incedente quanto soave. E' questa la forza di tale cover, resa da Hendrix più misteriosa e proprio per questo più vicina al suo animo, indecifrabile, inarrivabile. Quel che dobbiamo fare, in presenza di tale capolavoro, è semplicemente abbandonare ogni legame con il mondo che conosciamo e cercare di elevarci verso piani superiori, alla ricerca della vera essenza d'ogni cosa.
Stone Free
Stone Free (Totalmente Libero) apre l'ultima metà della nostra dirompente compilation, e lo fa per un motivo: l'indissolubile legame con Hey Joe. La canzone precedente, All Along the Watchtower, così posizionata al centro della scaletta funziona, di fatto, sia come ideale spartiacque - data anche la sua classicissima origine - sia come ponte tra questi due capolavori, usciti a suo tempo col primo, storico singolo dei The Jimi Hendrix Experience. A Stone Free spettò infatti il difficile ruolo di b-side di un vero gioiello, la reinterpretazione di un grande classico divenuta classica a sua volta, se non leggendaria. Ma se Hey Joe è una cover dell'omonimo pezzo di Billy Roberts, a sua volta costruito sulla base di una canzone popolare, Stone Free è invece un brano inedito, il primo figlio della penna di Jimi per i suoi Experience - e, quasi per caso, uno dei più importanti pezzi di quel periodo. Stone Free nacque semplicemente dall'esigenza di avere un brano originale, una canzone che offrisse sbocchi economici ad un singolo, quello di Hey Joe, destinato altrimenti a non fare nemmeno un soldo bucato. I diritti del primo brano, infatti, appartenevano ovviamente a Billy Roberts, ed Hendrix, evidentemente poco avvezzo o poco interessato alle faccende di marketing, pensava di associargli un'altra cover, una qualche canzone che, avendo già una sua conclamata dignità a livello popolare, potesse dare ulteriore risonanza allo stile unico degli Experience. A dissuaderlo fu l'ex bassista dei The Animals, nonché produttore del disco: Chas Chanldler. Egli ritenne, a ragione, che bastasse ed avanzasse un pezzo come Hey Joe, per offrire ad una band così sopra le righe la dignità data dalla tradizione. E fu così che venne alla luce Stone Free, un gioiellino frutto della più pura originalità compositiva, forse non immortale quanto la straziante umanità di Hey Joe ma, per tanti versi, addirittura più importante. Se oggi esiste l'hard rock, e tutto ciò che dall'hard rock prese forma, lo dobbiamo anche e soprattutto a Stone Free, un pezzo che seppe attingere alla tradizione e andare avanti, delineando nuove linee guida sulle quali, in futuro, si sarebbero orientate le prime grandi band proto-metal. La canzone si apre su brevi, sporche distorsioni elettriche, per poi iniziare la sua corsa sul ritmo scandito dalla batteria di Mitchell, forte di un campanaccio che da una parte richiama a determinate tradizioni, ben consolidate, ma dall'altra proietta l'insieme dell'opera verso soluzioni avveniristiche ed intentate, seme di stilemi cui avrebbero attinto a piene mani band come i Deep Purple. Immediata si inserisce la voce scura e calda di Jimi, profondamente blues e rispettosa di tali origini, precisa e pulita, quasi formale. La chitarra si fa strada prima attraverso pochi accenni, poi sempre di più, sempre di più, fino ad esplodere in perfetta simbiosi con l'ugola di Hendrix. Sembra una sorta di rock'n roll, ma è troppo duro per definirsi tale; dovrebbe essere un normale pezzo blues, eppure è troppo distorto, concitato. Certe soluzioni vocali potrebbero ricordare Howling Wolf, o John Lee Hooker, ma è proprio quel modo di usare la sei corde che spiazza, incredibilmente allora come oggi, sebbene tutto questo sia oramai più che assimilato. Certo l'influenza dei grandi chitarristi americani non manca, specialmente quelli di colore, come B.B. King, ma lo stile di Jimi Hendrix è nuovo ed inconfondibile, germinale come pochi altri. E poi diciamolo, la scuola britannica di Mitchell e Redding, con la sua intrinseca tendenza alla sperimentazione, lo aiuta non poco ad uscire dagli schemi, altrimenti fin troppo ben definiti, del sound di matrice afroamericana. Insomma, Stone Free è un cocktail perfetto, potente ed ammaliante fino all'inevitabile catarsi, che avviene a due terzi del brano con un memorabile, selvaggio assolo di chitarra, un'esibizione lontanissima dalla pulizia cui siamo abituati oggi, lontana perfino da quella di pezzi maggiormente sulle righe, come la stessa Hey Joe, eppure proprio per questo più vera, più carnale, e soprattutto di basilare importanza per chiunque avrebbe imbracciato una chitarra dal '66 in poi. Il testo, nella sua semplicità, non è da meno. Tra le righe, Jimi lamenta l'insofferenza dal giudizio altrui, quel giudizio che - come molti di noi amanti dell'hard rock ben sanno - vede nell'ostentata diversità un qualcosa da ridicolizzare, da distanziare. Perfino da temere. Ancora, il chitarrista racconta come non riesca a stare fermo in un sol posto, di come ben presto senta sempre il bisogno di ripartire, e di come, per lui, la sola idea di mettere radici vada contro la sua natura più profonda. Si aprono così, con pochi versi, spazi giganteschi, e le persone che lo scherniscono per i suoi capelli lunghi, o per i vestiti che indossa, appaiono sempre più piccole, sempre più miserabili; miseramente inquadrate. Oh, le donne gli piacciono, ma non ce n'è una che possa sperare di cambiargli la testa, di imprigionarlo in una "gabbia di plastica". No, lui è l'essenza più pura dell'anticonformismo, di quello vero e non la macchietta che immaginiamo oggi, il superbo rifiuto dei dogmi e della morale piccolo-borghese. Lui è stone free: un'espressione a malapena traducibile che indica la più assoluta, totale forma di libertà. Sembrerà banale, raccontato così, ma tra queste poche strofe, fra questi semplici versi risiede un'eredità immensa. Hey Joe deriva da una storia classica, una poetica d'infedeltà e vendetta cara al blues e a tutta la musica nera in generale; ma Stone Free, con questo suo inno alla più spavalda, menefreghista libertà, è alla base di interi movimenti artistici e culturali, dall'hard rock fino alle più oscure, metalliche diramazioni contemporanee, passando naturalmente per il punk ed il suo messaggio anti-sociale. E poi c'è la figura della rockstar, la quale viene delineata da Hendrix in tutta la sua superba vanità: una splendente divinità pagana che si erge sui comuni mortali con fierezza, forte della sua sprezzante diversità. Perfino il finale è sopra le righe, quando poco dopo l'assolo la canzone sembra ripartire e poi invece si spegne, improvvisamente, tra le ruggenti distorsioni della chitarra di Hendrix. Un peso massimo come Jeff Beck affermò che, per lui, questa canzone è la migliore di tutta la carriera di Jimi; e se lo dice uno del suo calibro, be', noialtri comuni mortali non possiamo far altro prenderne atto e riascoltare, ancora e ancora, la semplice perfezione di un inno alla libertà destinato a fare la storia del Rock.
Crosstown Traffic
Crosstown Traffic è una canzone scritta da Jimi Hendrix nel '67, e ci riporta a quel capolavoro che fu Electric Ladyland. L'album rappresenta senz'altro l'opera più completa degli Experience, se non addirittura la migliore, e raggiunse il mercato radiofonico con tre singoli, tra cui il già citato All Along the Watchtower e, naturalmente, questa Crosstown Traffic. Pare che il titolo del brano si riferisca, con somma ovvietà, al traffico cittadino, ed in particolare a quello tra la zona est e quella ovest di Manhattan, fenomeno tristemente noto ai newyorkesi per le dimensioni degli ingorghi. Naturalmente, "Manhattan" è una donna, e l'ingorgo si trova da ben altra parte. Il pezzo si apre con l'energica batteria di Mitchell, fin da subito sopra le righe, accompagnata da roche distorsioni di chitarra. Pare quasi un'apertura melodrammatica, anticipatrice di tematiche forti e violente, ma subito dopo l'atmosfera si rilassa e la canzone diventa sì dura, ma solare e disimpegnata come si conviene ad un brano di neanche due minuti e mezzo. A dominare la scena, oltre la voce di Hendrix, è l'inusuale riff di kazoo con cui il cantante definisce anche le suggestioni del brano, dai suoni del traffico agli attimi più seducenti ed ammiccanti. Dave Mason, già presente con la sua dodici corde su All Along the Watchtower, si presta ora al coro di Redding e Mitchell, mentre i fills di batteria di quest'ultimo definiscono tutta la tensione del brano. È una struttura breve, tanto semplice quanto perfetta, apparentemente e volutamente disordinata, anima di una canzone che sa essere granitica nella sua leggerezza, germinale dell'hard rock moderno quanto i migliori e più memorabili pezzi degli Experience. La cosa stupefacente è che tali sonorità sono il frutto di una mente intrinsecamente anarchica: trovatemelo, oggi, un chitarrista divino e consapevole di esserlo capace di sfornare un pezzo così forte, relegando il suo strumento al ruolo di comprimario ed affidando tutto ad un kazoo fatto in casa, assemblato con mezzi di fortuna. La tecnica è una gran cosa, ma signori, qui state ascoltando il genio. Il testo di Crosstown Traffic è semplice: raccoglie l'eredità del blues più scanzonato, quello fatto di riferimenti sessuali più o meno nascosti, e riesce a dissacrare il dissacrante portando i doppi sensi al parossismo; un'attitudine non certo nuova, nel panorama d'allora, destinata ad essere raccolta da innumerevoli capisaldi dell'hard rock - da Frank Zappa ai Led Zeppelin, dai Sabbath agli AC/DC - ma raccontata con quel piglio libertario proprio del solo Hendrix. Così ecco che le novanta miglia all'ora del nostro conducente, più che un'unità di misura, diventano il metro per una memorabile prestazione sessuale. La ragazza in questione è proprio come un incrocio che di macchine ne ha viste, una che porta sulla schiena il "segno dei pneumatici", e rappresenta la femmina ideale di uno come Jimi: un essere libero da convenzioni, libero da catene, da vincoli, dedito solo al godimento della vita in ogni suo più intimo aspetto. Oltre che il più completo, Electric Ladyland fu anche l'album di maggior successo dei The Jimi Hendrix Experience, un risultato più che meritato che affonda le sue radici anche in pezzi come Crosstown Traffic, leggeri e disimpegnati ma forti di quell'invincibile energia rinnovativa che pervadeva l'intera opera della band.
Manic Depression
Si ritorna al primo album degli Experience con Manic Depression (Depressione Maniacale) brano che spezza solo in certa misura lo spirito goliardico delle precedenti tracce. Infatti, nonostante la tematica sia tutt'altro che allegra e spensierata, Manic Depression rimane una canzone ruvida ed energica, quasi positiva nella sua folle cavalcata tra i recessi dell'angoscia, come se per il cantante anche le emozioni più forti, più cupe ed oscure dell'animo umano fossero degne di celebrazioni, di inni che ne esaltino la natura intimamente vitale. È proprio con questo presupposto, col sottinteso di una poetica imprevedibile ed oltre gli schemi, che prende forma la struttura di Manic Depression. Il pezzo si apre con una breve introduzione strumentale, dalla quale spiccano immediate due delle peculiarità di questa canzone: la sostanziale sovrapposizione tra basso e chitarra, e la propensione verso il jazz del batterista britannico. È Mitch Mitchell, infatti, a definire il respiro della canzone, a suggerire la follia di una mente tormentata con veloci, leggere rullate, oppure i fugaci e rabbiosi momenti di lucidità, laddove torna a pestare forte come nei momenti più duri dell'album. Ma l'elemento più evidente di Manic Depression, quello che imprime al suono l'imprevedibilità e la follia proprie della sua poetica, è quell'inusuale tempo in nove ottavi che ne definisce l'intero corpo; una caratteristica praticamente unica, in campo rock, ma non del tutto inaspettata nel contesto musicale di quel periodo, in cui la tradizione si fondeva ogni giorno con le più ardite sperimentazioni. Dopo il breve intro, confezionato con tutti gli elementi tipici degli Experience, fa ben presto capolino la voce di Jimi Hendrix: una voce perfino troppo sulle righe, se consideriamo la tematica, ma, dopotutto, in linea sia con i limiti intrinseci dell'ugola di Hendrix, sia con quella virile profondità che ha saputo rendere immortale la voce del chitarrista. Jimi non rinuncia quindi al suo solito timbro, così formale nella sua matrice blues eppure unico, riconoscibile tra mille, ma ciò non gli impedisce di portare all'esasperazione più di un momento del brano, uscendo di tanto in tanto fuori dai suoi stessi schemi e lanciando la sua chitarra in urla acute, elettriche, molto spesso in concomitanza con gli exploit più concitati di Mitchell. Tra le righe, il cantante mette in mostra il suo animo nudo, indifeso e frustrato. Un animo descritto da chi lo conosceva meglio come irrequieto, perennemente insoddisfatto: prima gioioso e vitale, un attimo dopo cupo e solitario senza apparente motivo. Forse era il lato oscuro di Jimi, il dramma di uno spirito alla perenne ricerca di una libertà troppo astratta, per esistere davvero; di una mente fuori dagli schemi imprigionata nella gabbia delle consuetudini. La psicosi maniaco-depressiva, il disturbo di natura bipolare che dà il nome alla canzone, non è tanto il soggetto vero e proprio di questo ruvido sfogo, quanto piuttosto un'iperbole per raccontare un profondo disagio interiore. Il cantante racconta di un'irrequietezza inconsolabile, di sapere ciò che vuole ma non come ottenerlo; e non parla del successo o delle donne, di quelle cose Jimi ne aveva in abbondanza. No, è un bisogno più astratto, impalpabile, e che possiamo comprendere ma non definire, tanto è evanescente. Le donne, anzi: La donna, è una distrazione meravigliosa quanto effimera, così come l'amore che dona e che disfa a suo piacimento, una mera illusione. Mentre la musica... la musica è la sua più grande consolazione: Jimi vorrebbe poterla toccare, abbracciare, e Dio sa quanto fosse vicino a riuscire davvero in quest'impresa inconcepibile. Ma, alla fine, alla "depressione maniacale" non c'è rimedio. L'andamento turbolento del brano riesce ad esprimere il turbinio emotivo con equilibrio, senza stucchevole retorica dei suoni, fino a sfociare in un assolo che è tutto ciò che Jimi vorrebbe afferrare, ma che impalpabile scivola tra le sue mani. Poi, così come tra le righe del testo il cantante si ripete, così la musica torna sui suoi binari. Le acute grida della chitarra spezzano e rilanciano la tensione, mentre le veloci raffiche di Mitchell ne seguono l'incontenibile bipolarismo audio-emotivo. Fino allo spegnimento rauco, sfumato, dissonante come l'anima di Jimi Hendrix. Manic Depression riesce nell'impresa di raccontare il tormento interiore senza mestizia, senza la retorica melensa o inutilmente pesante che tanti, troppi altri avrebbero usato per parlare dello stesso argomento. L'impressione, anzi, è che Jimi e i suoi Experience parlino di tematiche potenzialmente delicate senza nemmeno farci troppo caso, senza dargli più importanza del dovuto perché, dopotutto, sono parte integrante di quella complicata faccenda che chiamiamo vita. Forse oggi il chitarrista sarebbe stupito, nel constatare quanto le tematiche da lui espresse su Manic Depression siano state seminali; di come, pur partendo da solide tradizioni afroamericane, abbiano saputo definire uno dei lati più importanti dell'hard rock come lo conosciamo. E, con esso, il successivo panorama metal in tutte le sue forme, soprattutto le più oscure. Non a caso, tra le decine di artisti famosi che hanno scelto di interpretare questo brano, vale la pena citarne soprattutto due: Jeff Beck, chitarrista leggendario quasi quanto lo stesso Jimi, enorme progenitore di stilemi rock divenuti regola, ed i Carnivore di Peter Steele. Questi ultimi sono stati forse i più sinceri e profondi interpreti di Manic Depression, ben consci dell'eredità che questo brano ha lasciato - a loro, ed ai più tormentati tra i figli del Metallo.
Remember
Per stemperare le ruvide atmosfere di Manic Depression viene scelta una canzone breve, placida e decisamente meno concitata: Remember (Ricordare). Da notare come il pezzo sia tra quelli che mancano, dalla versione britannica di Smash Hits, e di come sia naturale trovarlo invece in quella statunitense, da noi sviscerata per meglio comprendere l'uomo che fu Jimi Hendrix. Remember, diciamolo, non è tra le canzoni più famose del chitarrista, eppure non solo fa la sua discreta figura in mezzo a tanti capolavori seminali, ma riesce a dare senso e completezza all'intera raccolta in esame. Ciò che rende intrigante questa traccia, specialmente nell'ambito di un'opera che scavi nel personaggio di Hendrix, è la sua più che palese consacrazione al blues. Qui, suoni sporchi e distorsioni sono al minimo, e l'impostazione è pulita e formale, perfino più di quella di tanti veri bluesman dello stesso periodo. Mitchell si tiene su sonorità estremamente contenute, sfornando quasi una specie di marcetta, mentre Jimi utilizza la sua chitarra con inedita parsimonia. L'elemento di maggior spessore, suonato con gusto, è il basso di Redding. Il bassista interpreta sonorità per lui distanti senza mostrare alcuna ombra di manierismo, come se fosse nato e cresciuto in un quartiere nero di Chicago, anziché nel Kent, in Inghilterra. Jimi Hendrix omaggia le sue origini afroamericane, e lo fa tanto con la sua poetica quanto con la musica, dando al suo timbro già di per sé classico quell'aroma così soul, intrinsecamente legato ai grandi della musica nera: da John Lee Hoker ad Aretha Franklin, da Otis Redding a James Brown. E poi i veri e propri idoli di Jimi: Chuck Berry, Little Richard e, perché no, anche qualche "bianco di colore" come Elvis e Buddy Holly. A tutti loro dobbiamo le basi, le radici di una musica e di una cultura anti-borghese, fisiologicamente avulsa alle convenzioni della cosiddetta società "per bene". Jimi Hendrix lo sa, ne è cosciente più di chiunque altro perché si trova in prima fila, come musicista rock e, soprattutto, come musicista di colore. Remember, dunque, è qui a ricordarci le radici di Hendrix, e con esse le radici dell'hard rock; e lo fa con disarmante disimpegno. Il testo raccoglie la tradizione più leggera del suo genere... anche la più vendibile, se vogliamo, senza tuttavia mancare di una certa vena dissacratoria. Jimi parla dell'amore per una donna, o meglio del suo ricordo. Non ci è dato sapere cosa lo separi dall'amata; se gli impegni, se lo spazio, o il tempo, se lei lo abbia lasciato o, addirittura, lei nemmeno esista. Quel che conosciamo è lo strazio lieve e dignitoso del nostro protagonista, sostenuto da metafore delicate come "uccelli che non cinguettano più", oppure "api che non trovano più il miele", e così via. L'unico dubbio che sorge è cosa intenda, Jimi, parlando di un uccello affamato del suo pasto, o del miele sul quale vanno a posarsi le api, ma in fondo non ha importanza. Quel che conta è la nostalgia per un amore ormai distante, la cui mancanza spegne ogni suono ed oscura ogni bellezza. Infine, un appello: torna a casa, baby, in fretta! Romanticheria o fregola sessuale, poco importa. Jimi sforna un piccolo ma formidabile omaggio alle proprie radici, rimarcandone i tratti in una pulizia formale spezzata solo dal breve, energico e preciso assolo centrale, quasi inaspettato in un brano così modesto. Insomma, una piccola chicca che, meglio di qualsiasi altra, racconta un altro pezzettino di colui che fu Jimi Hendrix.
Red House
Il penultimo brano, Red House (Casa Rossa), prosegue sul sentiero del blues rock con naturale disinvoltura, chiudendo idealmente l'aspetto più concettuale della raccolta, quello più intimamente legato alla psicologia di Jimi Hendrix. In un certo qual modo, poeticamente e musicalmente, la canzone prosegue sui binari tracciati da Remember, ma lo fa decisamente con maggiore spessore lirico e compositivo e, soprattutto, con un'intensità rara perfino per il catalogo degli Experience. La peculiarità di Red House è la sua origine editoriale, risaltente alla collaborazione di Jimi con Curtis Knight e i suoi Squires. Si era tra il 1965 e il '66: uno dei periodi più concitati della gavetta del chitarrista, ma anche di maggiore crescita artistica, con un Hendrix sempre più consapevole delle proprie doti di scrittore e compositore. Posta da parte la diatriba tra Knight e gli eredi dei diritti di Jimi, limitiamoci a constatare la vastità del lascito che questo periodo, e questi musicisti, hanno lasciato nel nostro chitarrista; non mi riferisco solo a Red House, probabile discendente della versione Squires di California Night, di Albert King, ma più generalmente a quell'enorme eredità di matrice afroamericana, fatta di R&B e soul, cui Jimi avrebbe attinto sempre e comunque nell'arco di tutta la sua discografia. Pezzi come questo sono indicativi del legame di Jimi con la cultura afroamericana; lui, che afroamericano non lo era nemmeno del tutto, e per il quale il contesto culturale britannico è sempre stato più congeniale di quello americano, ancora così bigotto nei confronti di certi spiriti liberi, era del tutto conscio che per l'americano medio - perfino quello di colore - la sua pelle nera era un'etichetta imprescindibile, che non ammetteva sfumature. Bluesmen del Mississippi come Albert King, o neri dei sobborghi newyorkesi, come Curtis Knight, per Jimi sono sempre stati dei diversi alla base della sua stessa diversità, emarginati dal cui disagio sociale e personale nacque il genio, una controcultura destinata a superare i limiti dei colori e delle bandiere. Jimi era solo l'ultimo e definitivo stadio di un cammino lungo e nobile, la via di mezzo tra due mondi e due epoche diverse; dei suoi maestri avrebbe conservato per sempre l'eredità, ma, fedele a sé stesso, ne avrebbe anche puntualmente dissacrato i punti cardine, poetici e musicali. Arriviamo così a Red House, un classico blues in dodici misure insieme lugubre e seducente, romantico e scabroso, tradizionalista e pregno d'hard rock. La poetica del brano è davvero semplice, e ricalca gli stilemi tipici del blues più di tanti altri prodotti Experience. Se su Remember avevamo lasciato un cantante nostalgico d'amore, speranzoso nel ritorno della sua amata, ora ritroviamo un uomo perduto, completamente abbandonato dalla compagna ed in procinto di perderla per sempre. Non la vede già da novantanove giorni e mezzo. Il nostro uomo torna alla Casa Rossa, laddove abita la sua baby, ma la chiave non gira ed un cattivo presagio s'impadronisce di lui. Be', non si può dire ch'egli si perda d'animo, poiché se la sua ragazza se n'é andata, e non lo ama più, potrà sempre farlo la sorella, yeah. Tralasciamo un secondo questo finale scanzonato, e soprattutto dissacrante dell'intero genere cui fa riferimento, e concentriamoci su quella casa rossa, su quella chiave che non funziona. Sul senso di smarrimento. Uno smarrimento che era parte dell'uomo -del ragazzo - che fu Jimi Hendrix, perennemente irrequieto in amore e nella vita, nella musica. In ogni cosa. Era la sua maledizione, la sua "depressione maniacale", ma anche la sua benedizione perché, come egli stesso lascia intendere, una nuova città, una nuova donna o una nuova chitarra erano la cura migliore, la più semplice per il suo animo tormentato. La versione del brano presente su Smash Hits non è la stessa del primo album, Are You Experienced, ma è una variante registrata circa un anno prima ai De Lane Lea Studios, nel'66. Fra le note troviamo una delle migliori performance di Jimi, sebbene ancor più grezza rispetto a quella canonica, ed un'interpretazione particolarmente sopra le righe da parte di Redding e Mitchell. Hendrix alterna una voce dai connotati classici, rispettosi della tradizione, a momenti accorati, acidi, accompagnati da rabbiosi exploit di chitarra. Mitchell colora una base altrimenti senza sorprese con una ritmica concitata, quasi disordinata, mentre l'unico a mantenere la canzone sui suoi binari sembra essere Redding, con la calma possanza del suo basso. Momenti drammatici si alternano a momenti seducenti, poi di rabbioso sconforto ed infine nuovamente seducenti, senza soluzione di continuità se non l'onnipresente chitarra; mai uniforme, mai uguale a sé stessa, sempre oltre i limiti imposti dalle regole del suo tempo. Jimi e suoi alternano blues, hard rock e perfino jazz, fino all'immancabile solo di chitarra: una catarsi malinconica e rabbiosa, uno dei più intensi assoli della carriera di Hendrix. Eppure, nonostante l'esecuzione elettrica e primitiva, nessuno, nemmeno Jimi, esce mai del tutto dai canoni culturali alla base del brano, segno di un legame artistico indissolubile. Un aspetto che ci porta ad un'ultima considerazione: Red House è parte della versione americana di Smash Hits, mentre non compare su quella britannica; tuttavia, in origine, la canzone era parte della versione inglese di Are You Experienced... ma non di quella americana perché, come dissero al cantante e la sua band: "agli americani il blues non piace". Quale ironia.
Foxey Lady
Anche se il pezzo precedente ha chiuso, idealmente, il discorso di carattere prettamente intimista dell'album, la conclusione di una simile raccolta spetta giustamente a Foxey Lady (Ragazza Sensuale), o semplicemente Foxy Lady, come nella versione originale. Questa canzone non è lacerata dal suo interno, come altri capolavori firmati da Jimi, né vola completamente oltre i limiti della sua epoca; ma per le sue sonorità relativamente pulite ed accattivanti, per la sua poetica seducente ed un ritornello vincente, era e rimane una delle più famose e durature fatiche degli Experience. In realtà, tuttavia, Foxy Lady deve il suo successo - peraltro in gran parte postumo - alle germinali soluzioni chitarristiche del nostro Jimi, qui assolutamente inarrivabile da qualsiasi altro chitarrista a lui contemporaneo, tanto nella tecnica quanto nell'inventiva. Non sembra vero, a sentire questo brano, che il futuro avrebbe riservato aspri contrasti fra il chitarrista e Noel Redding. La sinergia fra i due è ciò che porta il pezzo oltre i limiti, oltre le barriere proprie di ciò che Foxy Lady dovrebbe essere. Ecco, quindi, che un normale pezzo blues diviene hard rock a tutti gli effetti, senza mezze misure; scatenato, fra sensualità ed ironia, da un riff di basso veramente cattivo accompagnato da continui, spettacolari virtuosismi alla sei corde. Mitchell limita i suoi influssi jazz e picchia forte, con cadenzata puntualità, eppure il suo è l'unico tocco che quasi indebolisce l'opera; non certo per limiti tecnici o artistici, quanto piuttosto tecnologici. Strumenti e missaggio, all'epoca, non riuscivano ancora del tutto ad esprimere sonorità così potenti, così avanti nei tempi. La tecnologia non teneva il passo delle idee - e di idee, gli Experience, ne avevano da vendere. Il fascino di Foxy Lady è tutto qui: una canzone facile e godibile, eppure al tempo stesso una delle più seminali di tutto l'hard rock. Anche il testo del brano si discosta dalla tradizione, toccando tematiche roventi con puntuale ironia, senza mai prendersi del tutto sul serio. Foxy sta per "furbetta", inteso non tanto come astuta quanto "sensuale", capace di manipolare gli uomini grazie al suo indiscutibile fascino. Una vera heartbreaker. Contrariamente a tanti autori, che siano blues, rock o metal, a Jimi non interessa fare la morale alla ragazza, nemmeno per scherzo, né gli importa di farsi manipolare da lei. Per Jimi le ragazze, come i luoghi, erano tutte avventure di breve durata: una momentanea consolazione dai guai della vita, in cui si dà e si riceve ognuno in egual misura, senza legami di sorta. Ciò non gli impedisce di desiderare la Foxy Lady solo per sé, tutta sua, e di fare una bella carrellata di riferimenti sessuali più o meno espliciti, intrinseci nella sintassi stessa. Il gemito, ammiccante e suadente, e la compulsiva ripetizione della parola "foxy", fanno parte integrante della musicalità della canzone. Chitarrista e bassista si sostengono a vicenda, in un crescendo leggero che trova la sua catarsi nell'assolo, breve e sporco il giusto, ma meno dissonante e più corposo del solito, quasi fosse il gemito di una donna in carne ed ossa, anziché quello di una chitarra. Ancora un sussurro, foxy lady, ed una pausa più che esplicativa, poi il ritmo riprende com'era all'inizio fino alla fine del brano, quando un'ultima distorsione sfuma il finale di questo vero e proprio amplesso musicale. Si chiude così la nostra compilation, con una traccia capace di sintetizzare l'intera essenza dei The Jimi Hendrix Experience attraverso poche, incisive qualità: Foxy Lady, fra i brani più importanti della storia del rock senza alcuna pretesa di esserlo, frutto indiscutibile del puro genio artistico.
Conclusioni
Normalmente, le compilation non sono certo considerabili "opere genuine"; non c'è un progetto artistico di fondo, un traguardo personale da raggiungere. Sono solo raccolte di canzoni estrapolate da altri album - quelli sì, artisticamente genuini - con l'intento di offrire uno spaccato del meglio dell'artista di turno. E anche, naturalmente, di ricavare quanti più profitti possibile col minimo sforzo. La nostra Smash Hits non si distacca da questa logica, non sfugge le regole di mercato, ma con una piccola, enorme differenza: la storia che vi è implicitamente racchiusa e la sua eredità. A maggior ragione se consideriamo la versione da noi descritta, quella americana. Smash Hits, nell'edizione statunitense, uscì nell'aprile del 1969 - un anno dopo quella britannica. Era un tentativo, da parte della produzione, di saturare il mercato in vista di un '69 spoglio di nuove uscite, causa soprattutto la diatriba interna alla band dopo l'uscita di Electric Ladyland. Salvo eccezioni, entrambe le versioni dell'album presentano brani scritti tra il 1966 ed il 1967, andando così a scavare nelle origini del sound Experience, nelle radici più essenziali della poetica di Hendrix. In tale scelta è implicita l'unica vera debolezza di questa raccolta, ovvero la totale assenza di opere estratte dal secondo album del gruppo, Axis: Bold as Love. Vero, il disco in questione nacque principalmente per soddisfare certi obblighi discografici, ma parliamo comunque di un peso massimo, un'opera salutata come indiscusso capolavoro da quasi tutte le riviste di settore. Tuttavia, nonostante l'assenza di un brano come Little Wing a volte si faccia sentire, Smash Hits riesce non solo ad adempiere il suo scopo editoriale, ma a trasformare quella che doveva essere una raccolta in qualcosa di più: la testimonianza, punto per punto, di ciò che Jimi Hendrix ha lasciato al mondo come musicista e come uomo. Fra le tracce di questa compilation sembrano fare capolino, quasi in ordine cronologico ed evolutivo, tutte le caratteristiche umane del chitarrista, dalle origini afroamericane all'eredità pellerossa, dalla primigenia forma del concetto stesso di rockstar, alla personalissima visione di una libertà senza confini. E poi, naturalmente, la sua chitarra, l'estro suo e dei suoi compagni, il rapporto con una band - The Jimi Hendrix Experience - destinata all'immortalità. La versione che abbiamo fra le mani differisce in più punti, da quella inglese. In particolare, sono presenti alcune tracce della versione britannica del primo album della band, Are You Experienced. L'intento era, ovviamente, presentare al pubblico statunitense dei brani ad esso sconosciuti, ma il risultato finale si dimostra ancor più incisivo della versione originale. Ascoltare Smash Hits nell'edizione americana è come riascoltare il primo capolavoro di Jimi Hendrix, ma senza quell'odiosa troncatura alla scaletta dovuta alle differenze fra la versione inglese, e quelle statunitense. Una raccolta sopra le righe anche in termini di vendite, giacché l'immensità del mercato americano ha garantito a Smash Hits la certificazione di "doppio platino"; un risultato non banale per nessuna compilation, perfino se firmata The Jimi Hendrix Experience. A questo background già di così vasto spessore, si aggiunge a posteriori l'elemento cardine della nostra compilation: l'eredità. Oggi Smash Hits non è più solo una gran bella raccolta, un'opera che - quasi casualmente -riesce a dare completezza ad una discografia di seminale importanza; oggi, Smash Hits è anche e soprattutto testimonianza. Testimonianza di un ragazzo che ha cambiato la musica e, con essa, la percezione stessa del mondo. Di musicisti dall'estro ineguagliabile e di canzoni che han fatto la storia del rock. Ma soprattutto, testimonianza di un'epoca, di un tempo sempre più distante eppure mai del tutto superato, lacerato da contraddizioni gigantesche ed immani energie; umane, artistiche, sociali. La musica di Jimi Hendrix, Noel Redding e Mitch Mitchell risuona alle nostre orecchie come un mantra, lo fa di continuo quando ascoltiamo l'ultimo tormentone dell'estate, o il più sconosciuto pezzo black metal che sia possibile reperire. Tale è l'eredità della loro musica, una musica esemplificata e raccolta con stupefacente precisione da una raccolta dal semplice, banale nome di nome di Smash Hits.
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2) Fire
3) The Wind Cries Mary
4) Can you See Me
5) Hey Joe
6) All Along the Watchtower
7) Stone Free
8) Crosstown Traffic
9) Manic Depression
10) Remember
11) Red House
12) Foxey Lady