Prince
Come
1994 - Warner Bros Records
Andrea Campana
Federico Pizzileo
DOPPIATORI:
Riccardo Rossi
Enrico Vaioli
Michele Alluigi
DATA RECENSIONE:
29/04/2022
TEMPO DI LETTURA:
Introduzione
Il modo migliore per iniziare questa storia è con quelle parole universali che conosciamo tutti, e che talvolta non vediamo l'ora di dire, e altre volte invece ci fanno quasi paura. Parole che Prince, protagonista di questa storia assieme a me, conosce bene: lui, artista, cantante, genio musicale e rinomato amatore; lui che non ha mai accettato l'esistenza di un confine tra amore e musica. Be', per me, lui è sempre stato un modello, e con "I love you" voglio aprirvi la mia porta, con la stessa frase tanto cara a Prince. Ma prima di entrare nel vivo, vorrei sottolineare anche che questa è in primis la storia di come Come ha sposato la mia vita, come sicuramente quella di molti altri - la vita di un ragazzo qualunque; perché, in fondo, non è importante quanto un album sia conosciuto e apprezzato dal grande pubblico o dalla critica, ma quanto effettivamente ricopre un ruolo fondamentale nella storia di ognuno a livello personale. "Quante volte capita di sognare di dire queste parole, semplici ma intense, alla ragazza dei nostri sogni?" Questo lo domandavo, qualche sera fa, al mio migliore amico, Guido Gandolfi, fuori dall'Odeon, a Sanremo, dove come al solito eravamo a fare una serata insieme con la nostra solita compagnia. Un po' brilli tutti e due, discutevamo dell'amore e di filosofia, come ci capitava sempre in quei momenti. "Quante volte, come in una favola, ci si immagina di incontrare proprio quella giusta, e di conquistare il suo amore come i divi del cinema, solo con gli occhi, le parole, e il sorriso?" chiedevo ancora a Guido, che mi guardava ridendo, e prendendomi in giro rispondeva: "Non sai cosa stai dicendo, non lo vedi che sei completamente ubriaco?" Forse aveva ragione, ero partito per la tangente. Avevo qualcosa in testa, anzi, qualcuno. Una lei, e il suo ricordo mi premeva in quel momento come un dolore fisico, portandomi a ripensarla e a rivivere quello che avevamo passato insieme, rendendomi conto con malinconia di quanto fosse stato speciale. "E quante volte, Guido, quante, vorremmo fare l'amore con quella ragazza, proprio quella che pensiamo essere perfetta per noi, unendoci in modo appassionato, spontaneo, vero, passionale...in una maniera che tutti, lo sappiamo, esiste, ma che si realizza solo con una persona, quella speciale, e con nessun'altra?" proseguivo io, come un declamatore da osteria. Di nuovo Guido rideva, e diceva agli altri "È completamente andato". Ma, mentre lasciavamo la discoteca, io continuavo a essere preso nei miei pensieri. Queste cose sull'amore, sul sesso, sulla ragazza ideale, si vedono sempre nei film e si leggono sempre nei libri, e in fondo, diciamocelo, non crediamo mai che possano accadere nella vita reale. Non così, non in maniera così perfetta, celestiale, incredible. Ecco, io invece sono qui per dire che sono stato fortunato, perché ciò che mi sembrava assurdo, a me è accaduto: tutto è successo in un turbine di emozioni, musica, imprevisti e sorprese. Lei? Lei si chiama Claudia. E queste parole, "I love you", sono esattamente quelle che le ho detto io in un momento particolare, e non gliele ho dette per caso: sono le stesse parole che pronuncia Prince alla fine dell'album Come, dopo un lungo corteggiamento della sua amante. Lui è quello che mi ha accompagnato in questa conquista, ed è successo tutto per caso: le sue parole sono diventate le mie, la sua musica ha dato senso alle mie azioni, ai miei pensieri. Sembra strano ricordare che mi sia davvero capitata una cosa del genere. So che è incredibile, ma è tutto reale, ed è successo davvero. Io chi sono? Ah, certo, scordavo di presentarmi: mi chiamo Mirko, ho ventiquattro anni. Sono nato a Imperia, ma ho passato tutta la mia vita tra Alassio e Sanremo, girando per la Liguria, e anche ad Albenga, oppure a Ventimiglia, talvolta mangiando e bevendo al Ca du chef, a Mentone, appena oltre il confine. Sempre in giro con gli amici e le compagnie, fino anche a Genova, dove studio lingue straniere all'università. In questi posti ho imparato ad amare tanti luoghi speciali, che mi hanno visto crescere. Ogni giorno, passandoci davanti con l'auto, facendo su e giù dalla facoltà, rivedo quelle zone e, anche scorgendole per un solo istante, ripenso sempre a tutti i momenti che ho vissuto. A Sanremo, tutti conoscono sicuramente la discoteca Odeon, non lontano dal teatro Ariston, in corso Matteotti, ma anche la Foce, dove abito io con la mia famiglia, alla fine del Corso degli Inglesi, in cui si trova il bar Haiti, e la Stazione, sempre a Sanremo, che oggi non è più una stazione, perché la ferrovia non c'è più, infatti ci si può passare anche in bicicletta organizzando un bel weekend in sella alle due ruote. In questa magica città ligure riesco sempre a divertirmi, a fare vita da "cuccadores", abbordando le ragazze tedesche e inglesi in vacanza che amano girare sulla passeggiata vicino al mare, facendo serata per le discoteche, i bar, i casinò, fino alla parte vecchia di Sanremo, oltre il tunnel, non troppo lontano da corso Matteotti. Ma il luogo per me più importante è la Statua della Primavera, situata presso la Passeggiata dell'Imperatrice, davanti alla quale passo ogni giorno per andare in università, che è rivolta verso Alassio, e dà invece le spalle a casa mia. L'ho vista così tante volte, quella statua, che mi ci sono affezionato come a una persona cara. Se Sanremo è sempre stata per me la città dei divertimenti, Alassio è per certi versi differente, perché più magica e molto più speciale. Qui c'è Balzola, vicino al molo, che dal 1902 vende i famosi baci di Alassio, cioccolatini buonissimi dal cuore morbido e avvolgente, e l'isola della Gallinara, anche chiamata "la lumaca che restava nel mare e si muoveva"...almeno così me l'aveva fatta conoscere mia nonna quando passavo più tempo con lei in tabaccheria perché i miei genitori avevano sempre da fare a lavoro: pensate che quando ero più piccolo ho sempre avuto la voglia di raggiungerla a nuoto e aiutarla a spostarsi, anche se era troppo distante. Ah, naturalmente ad Alassio c'è poi il Muretto, dove si tiene ogni anno il concorso di Miss Muretto, la cui vincitrice potrà poi partecipare a Miss Italia. E infine c'è il caffè Roma, che ogni volta mi strappa sempre un sorriso. No, non sono pazzo, semplicemente ricordo di quando mio padre Luciano mi ha raccontato di una sua - chiamiamola - "disavventura": quando era più giovane, in questo locale fece una pessima figura. Ordinò del kir, con l'aggiunta di cassis, per trovare il coraggio di provarci con le ragazze, ma quando arrivò il momento di pagare il conto rimase basito, con gli occhi sbarrati di fronte al barman: "Pago solo il mio!", disse, ma il cameriere ribadì che lo scontrino era, infatti, solo per lui: ventimila lire tonde tonde, che oggi sarebbero all'incirca 10 euro. Lui era convinto che il prezzo comprendesse anche le bevande prese dagli amici, e invece era proprio il kir che costava così tanto. Poi ad Alassio, più precisamente al Budello, c'è la tabaccheria di mia nonna - quella di cui vi ho già accennato, dove per anni e anni ho trascorso intere giornate ad ascoltare le sue storie, come quella sulla Gallinara, e ad ammirare come lei se la sapeva sempre cavare con tutti i clienti, mostrando ogni volta affabilità, gentilezza e abilità. Questi luoghi messi insieme sono tutta la mia vita, è vero, ma la cosa strana è che la mia storia, la storia che voglio raccontare, non inizia in nessuno di questi scorci tanto importanti per me. Inizia anzi, come tutte le storie migliori e più inattese, in un luogo anonimo, dove ogni giorno decine e centinaia di altre storie, magari senza senso o senza importanza, si intrecciano e si sciolgono, e nessuno ci fa caso: un autogrill. Mi ci ero fermato all'uscita dell'autostrada, andando verso l'università. E lì, come al solito, sono stato attirato da quella cosa che nell'autogrill attira sempre tutti gli appassionati di musica: uno di quei box con dentro matasse di CD invenduti, lasciati solo per chi li vuole acquistare a un prezzo bassissimo, perché sono sempre dischi che nessuno compra, oppure raccolte di musica generica talmente banali da essere ignorate. Però, io che amo la musica, non posso fare a meno, ogni volta, di infilarci comunque le mani dentro, in quelle montagne di CD, sempre curioso di cosa potrei trovare. E lì, tra un Best Of degli ABBA e una copia rovinata di Cat Scratch Fever di Ted Nugent, ho visto spuntare la sua faccia: Prince, davanti al cancello della Sagrada Família di Barcellona, in una foto in bianco e nero, con sotto una data di nascita (1958) e una di morte (1993) e l'immancabile etichetta "Parental Advisory", che, per chi non lo sapesse, è un marchio utilizzato per catalogare quegli album di musica in cui è presente un linguaggio, diciamo, "esplicito". Prince in effetti lo era, ma è proprio questo che secondo me l'ha reso se stesso: non è voluto scendere a compromessi con la sua personalità, rendendosi crudo per alcuni, ma di certo vero agli occhi di tutti. Il disco in questione era Come, del 1994. Quando l'ho visto lì, in mezzo a mille altri CD anonimi, ho sentito una strana vibrazione dentro di me: dovevo comprarlo. Mi era capitato già altre volte, ma mai così. Come ho detto, già conoscevo e amavo Prince: all'epoca avevo consumato la mia copia fisica di Purple Rain, e adoravo poi anche la sua colonna sonora Batman per l'omonimo film di Tim Burton. Ma questo disco, Come, era diverso: lo sapevo, ne avevo sentito molto parlare. Era l'ultimo disco registrato dall'artista con quel nome, Prince, e infatti la data di morte sulla copertina, il 1993, significava per lui una voglia di rinascere, di liberarsi, di fare la musica che voleva fare, senza restrizioni e obblighi, diventando un artista completamente diverso, che rinasceva sotto un altro nome. Ecco uno dei motivi principali per i quali amavo, e amo, questo genio: come anche George Michael, lui non ha mai ceduto, premendo sempre per trovare alla sua arte tutto lo spazio necessario, rifiutando i compromessi e lottando contro la tirannia delle case discografiche. Quando ho preso in mano quel CD, lì in quell'autogrill, mi è venuto in mente un episodio che mi era accaduto qualche anno prima. Ero in gita a New York, con alcuni miei amici, giusto per festeggiare la fine della triennale, e girando per Downtown Manhattan mi ero imbattuto in un negozio di dischi che si chiama Generation Records. Naturalmente non avevo potuto resistere, e mi ci ero fiondato dentro. Lì però ero rimasto abbastanza stupito: c'erano solo dischi in vinile. Io amo i vinili, naturalmente, e infatti a casa ho un giradischi Technician 1210 MK7, con punte della Stanton, tanto per darvi un'idea, ma sono cresciuto con i CD, e sono istintivamente affezionato a questo formato. Per cui, non trovandoli, proprio lì a New York, avevo chiesto informazioni al negoziante, che mi aveva indicato un cassone a tratti riversato in un angolo, abbandonato quasi come quello dell'autogrill. "Tu sei europeo, e forse non sei abituato a questo cambiamento" mi aveva detto, e poi, continuando, "Ma oggi le case discografiche premono tantissimo per la re-introduzione del vinile. I CD non vanno più". E sempre in quel negozio, a un certo punto, mi si era avvicinato un uomo: un tipo di colore, sulla quarantina, che mi aveva subito colpito per il contrasto che faceva la sua pelle con la vistosa maglietta di Jimi Hendrix Experience che portava: tutta gialla, accesa, come la copertina dell'edizione americana del primo disco del chitarrista. Questo ragazzo, che presentandosi mi aveva detto di chiamarsi Willy, sembrava molto interessato ai discorsi tra me e il negoziante. Avevamo iniziato a parlare di musica, e quando il discorso si era spostato sui nostri artisti preferiti, non avevo potuto fare a meno di nominare Prince. L'uomo, allora, improvvisamente esaltato, era passato a parlarmi di quello che per lui era il disco più sottovalutato di Prince, proprio Come. Mi aveva quindi raccontato: «Quando Prince registrò le canzoni di quell'album, era alla fine del suo rapporto con l'etichetta Warner Bros, che non gli dava la libertà che chiedeva. Aveva urgenza di re-inventarsi, un'esigenza che del resto lo aveva accompagnato per tutta la sua carriera. In quel periodo, oltre a cambiare nome in un simbolo impronunciabile, e a trasformarsi ne "L'artista precedentemente noto come Prince", lui iniziò a dedicarsi a molteplici progetti, la maggior parte mai finiti, ma dai quali scaturirono le canzoni di quell'album. Alcune, tra le quali la title track, Come, erano state presentate da Prince in uno spettacolo teatrale dal titolo Glam Slam Ulysses, basato sull'Odissea di Omero. Un altro progetto, mai portato a termine, era un triplo album dal titolo The Dawn. Diverse canzoni ancora finirono su The Gold Experience, album del 1995, ma il fulcro di quel materiale venne utilizzato da Prince per liberarsi della Warner, mettendo insieme un disco realizzato con gli "avanzi" delle sue registrazioni, ma riuscendo comunque a comporre un capolavoro. Solo Prince ci sarebbe potuto riuscire. Questo a dimostrazione che un album non è importante perché apprezzato dal pubblico o dalla critica, ma lo è solo se è importante per te, se diventa una colonna sonora della tua vita, o di un tuo momento importante. Così è stato per Prince, nel suo momento di rinascita e di lotta contro la Warner per la sua indipendenza». E, prima di congedarsi da me, Willy si era voltato un'ultima volta e, con uno strano sorriso, mi aveva detto "Stay with us, you are the best in town". Restate con noi, voi che siete i migliori della città. Una frase che mi aveva colpito come un fulmine, perché era la stessa che, come mi aveva raccontato mio padre, rivolgevano sempre i disc jockey al loro pubblico newyorkese, tanti anni fa. Non poteva essere tutta una coincidenza. Ecco perché poi, in quell'autogrill, ho iniziato a ricollegare tutto. Con quel CD di Prince in mano ho pensato ancora alle case discografiche, che devono decidere per gli artisti e per gli ascoltatori, seguendo le esigenze di mercato. Mi è sembrato un segno, un momento importante, anche se lì per lì non sapevo dire perché. Comunque, ho comprato Come, l'ho messo subito in borsa, così da evitare di rovinare la custodia (sono molto attento alla mia collezione!), in attesa di portarlo con me a casa dopo l'università e trasferire tutte le canzoni sul portatile, in formato mp3, e poi sulla chiavetta USB e sull'iPod, in modo da non dovermi portare sempre dietro il disco.
Come
Qualche sera dopo, di ritorno dall'università e con la testa che mi scoppiava a causa delle lezioni di linguistica comparata, decisi di fermarmi al Budello, ad Alassio, intenzionato ad andare come al solito da Balzola, a comprare dei baci di Alassio per mia mamma Mariella, perché ne va matta, e anche per me. E proprio lì, mentre camminavo sovrappensiero, senza concentrarmi su nulla, ho visto la più bella ragazza del mondo. È successo all'improvviso, come tutte le belle cose succedono quando meno te le aspetti. Lei si chiamava Claudia: alta, capelli neri lunghi, occhi azzurri e gambe lunghissime. Un sogno. Vedendola, sono rimasto letteralmente raggelato. Si sa come vanno queste cose. In quel momento, come trascinato da una forza invisibile, ho sentito che dovevo assolutamente parlarle, conoscerla, entrare nella sua vita. Allora ho sfoderato il mio sorriso migliore, l'arma che per me ha sempre funzionato con le ragazze, e mi sono fatto avanti. Non è stato difficile, anzi, è stato molto naturale, come in una fiaba. Claudia mi ha subito colpito per la sua semplicità e la sua spontaneità, e anche per la gentilezza con cui mi ha salutato fin dall'inizio, anche se ero praticamente uno sconosciuto. Mi ha spiegato che lavorava lì vicino, presso un fornaio chiamato "Pane Idea", e che partecipava all'edizione di quell'anno di Miss Muretto - cosa che non mi ha per nulla sorpreso vista la bellezza statuaria. Era anche una mia coetanea. Mentre la ascoltavo parlare, pensavo: "questa è la mia Audrey Hepburn". E mentre le parlavo ricordavo il disco di Prince, che avevo già ascoltato più volte, e pensavo che quei due importanti eventi a distanza di pochi giorni, ovvero l'album e Claudia, non potevano essere casuali: di sicuro c'era un collegamento. Sembrava tutto già deciso, già scritto, persino troppo perfetto. Ma sapevo anche che, a quel punto, dipendeva tutto da me. Dovevo corteggiarla, farle capire che mi piaceva, come Prince fa con le sue amanti nelle sue canzoni: in maniera sensuale, decisa, ma anche romantica, dolce. Allora, cercando di infondere in me quanto più possibile del personaggio di Prince, ho cominciato ad andare alla panetteria dove lavorava Claudia ogni giorno, con il pretesto di comprare sempre anche solo un panino, o un pezzo di focaccia, pur di poterla rivedere - conobbi anche il padre, il proprietario del negozio, una persona squisita. Nel frattempo non riuscivo a non pensare a lei intensamente, ammirando anche il suo corpo, giovane e snello, e non potevo impedirmi di sognare quali cose avrei potuto fare con lei se fosse stata mia. Questo è proprio quello che dice Prince nella sua prima canzone del suo disco. Come, vieni, è il titolo: un termine che, nella pronuncia in inglese, ha esattamente il doppio significato che ha in italiano. È un invito, ma si usa anche per indicare il culmine dell'atto sessuale. Il pezzo parla di due amanti che desiderano darsi piacere a vicenda, provare le stesse sensazioni intense, arrivando al massimo. Nel testo, Prince dice: "Se hai 18 anni baby, vieni qui, quando ti chiamo voglio dirti cosa devi indossare, non ti sorprendere se ti dico di non indossare nulla. Se vieni tu, verrò anch'io, non ti sorprendere se sarai tu il mio pasto questa sera, voglio che la mia lingua percorra il tuo corpo su e giù. Non parlare, non gridare, non tossire, voglio solo che tu ti metta a sognare, e che continui a sognare. Ti farò impazzire, sai che puoi lasciarti andare, non c'è niente di sbagliato in ciò che stiamo facendo, dovremmo farlo baby, per terra oppure sulla sedia, non importa, non significa che sei una poco di buono perché vuoi farlo, significa che chi è venuto prima di me non era capace di farti godere! Adesso voglio sapere solo se sono riuscito a farti godere?" Come è un brano lungo e sensuale, dai forti toni funk anni '70 ma allo stesso tempo fa l'occhiolino alle prime sperimentazioni hip-hop. Sono i fiati, orchestrati con attenzione, a decidere il tono pulito e quasi erotico della canzone. In effetti, il pezzo è proprio come un dialogo tra due amanti, un gioco di seduzione sia vocale e sia strumentale, nel quale Prince rifiuta di adattarsi a una struttura musicale precisa, preferendo giocare con la propria voce e con le sue sonorità, esattamente come un amante che cerca sempre nuovi modi per soddisfare il proprio partner. Più la canzone prosegue, più si sentono riferimenti e citazioni verso tutta la musica "black", dal soul anni '60 alla James Brown negli accenti più esuberanti, fino allo smooth jazz anni '80, richiamato con splendidi assoli di sassofono, che verso il finale assumono accenti sempre più esotici ed erotici: è la rappresentazione del rapporto sessuale in corso. La canzone non si chiude con un vero e proprio climax, sfumando invece nella traccia successiva; questo perché l'intero album è come una specie di unico grande amplesso, diviso in vari "capitoli". Così, praticamente allo stesso modo, mi sembrava quasi che la mia storia con Claudia fosse come all'inizio di quello stesso racconto, come al capitolo d'esordio, e dovesse proseguire man mano che Prince, nella mia testa e nelle mie orecchie, mi suggeriva con le sue canzoni e con la sua musica il modo migliore per soddisfare i miei desideri, e anche quelli di lei.
Space
Ero elettrizzato, naturalmente: stava accadendo davvero? A me? Claudia era davvero quell'essere divino che avevo incontrato? C'ero davvero io in quella storia? Non osavo crederci, eppure non riuscivo a evitarmi di essere euforico, allegro, spensierato: una felicità mai provata prima. Quella sera, tornando a casa, mi sentivo davvero più leggero, come se la gravità non contasse più per me. Camminando, mi facevo come sollevare a mezz'aria dalla mia lietezza, come se il terreno fosse per me diventato insignificante. Chi si è innamorato, almeno una volta, sa bene cosa voglio dire. Quella sera, a casa, da solo, dopo neanche aver cenato, con la testa da tutt'altra parte, mi sono seduto in terrazzo, a fumarmi una sigaretta, come faccio ogni volta alla stessa ora, più o meno. E, come ogni notte, mi sono messo a guardare il cielo, lo spazio e le stelle. Ogni volta che avevo rivolto lo sguardo lassù, avevo sempre cercato quel qualcosa di speciale che tutti dicevano esserci, in quel vuoto nero infinito punteggiato di luci lontanissime...ma non lo avevo mai trovato, non fino a quel momento. Perché quella sera, finalmente, l'ho visto: quel qualcosa di speciale era Claudia. "Tu mi fai uscire fuori di testa baby, ho dipinto il tuo volto sopra il soffitto e lo guardo sempre, ti immagino dentro la mia camera, mi immagino nel tuo cielo, tu mi fai volare in alto."...le parole di Prince. Ma certo, era ovvio. E, come per confermare quel mio pensiero, all'improvviso una cometa mi è passata davanti agli occhi, come se si volesse far vedere solo da me. Era lontanissima, eppure era lì, chiaramente visibile, come Claudia. Allora, quasi rispondendo a un istinto automatico, ho preso l'iPod, l'ho portato con me in terrazzo, e con le cuffie nelle orecchie ho fatto ripartire il disco di Prince. La canzone alla quale ero arrivato, coincidenza delle coincidenze, era proprio Space: spazio. Tutto tornava. Claudia? be' era lei il "razzo" che mi avrebbe portato nello spazio, lontano dalla Terra, dalla vita dell'altra gente. "Se fossimo vicini ti farei capire le mie intenzioni, ciò che farei al tuo corpo! Vuoi volare nello spazio con me, dove vanno le anime, dove scorrono le lacrime, dove l'amore cresce sempre più, dimmi, ci vuoi andare?" Io e lei, insieme, da soli, saremmo andati lontani, anche fino a Marte, e nessuno ci avrebbe mai trovati. "Faccio sogni di noi che ci coccoliamo sul pianeta Marte, ma quando mi sveglio mi accorgo che era solo un sogno e che sono tutto eccitato, con gli occhi che brillano come le stelle?ci stiamo avvicinando allo spazio!": così mi cantava Prince, nelle orecchie, partecipe e interprete dei miei sentimenti. L'ossessione per la sua amante, profonda e inarrestabile, va oltre la fisicità; è astratta, vuole arrivare proprio nello spazio, a bordo di una navicella. Anzi, ancora più in alto, ancora più in là. Nella canzone si sente una parte campionata, con una registrazione della NASA che dà delle istruzioni per il decollo di una navicella spaziale. Space è una traccia dall'atmosfera urban/R&B molto anni '80, con sintetizzatori sbarazzini e gemiti sussurrati che accompagnano, ritmicamente, l'intero brano. Con la sua consueta versatilità, Prince oscilla tra cantato soul, rap rilassato e falsetto alla Michael Jackson. Anche in questo caso, la canzone non è divisa per forza in strofe e ritornelli, ma si lascia andare invece a una sequenza di perdizioni vocali, che lui disegna con fantasia e acutezza come un pittore che improvvisa un quadro a partire da una tela bianca. Ancora una volta, è l'atmosfera a catturare l'ascoltatore: la sensualità è il fine unico, l'inizio e la fine di questa traccia - cosa che vale anche un po' per tutte le altre. Inutile dire che l'obiettivo di Prince è perfettamente raggiunto: musica e seduzione diventano un tutt'uno.
Pheromone
Erano passati dei mesi. Ormai io e Claudia stavamo insieme. Era arrivata l'estate, e naturalmente avevamo iniziato a uscire, andando soprattutto ad Alassio, dove abitava lei, in spiaggia, per goderci la stagione insieme. Ma io ero deciso a entrare davvero nella sua vita, e anche lei voleva che facessi parte di tutto il suo mondo e non che fossi solo un visitatore della sua città. Così aveva deciso di presentarmi i suoi amici, la sua compagnia. Ero pronto, volevo mettermi alla prova: volevo dimostrare a tutti che con Claudia avevo intenzioni serie. L'appuntamento era a Ferragosto, alla pizzeria Botafogo ad Andora, molto frequentata dalla gente di Alassio e di Laigueglia. Ero molto in ansia - devo dirlo, anche se sono sempre stato apparentemente sfrontato - perché gli amici di Claudia erano tutto il suo mondo, e temevo di non venire accettato. Se mi avessero respinto? Se non mi avessero trovato simpatico? Se avessero pensato che io ero un male per lei? Ma alla cena, invece, gli amici di Claudia si sono da subito mostrati simpatici e disponibili, con mio enorme sollievo. Tuttavia, mentre mangiavamo e scherzavamo, ho da subito notato qualcosa di strano. Anzi, qualcuno di strano. C'era infatti un ragazzo, tra di loro, che in quel momento non mi aveva fatto una buona impressione. Mi guardava strano, a volte mi fissava ma distoglieva subito lo sguardo; a volte fissava invece Claudia, e mentre tutti ridevano e bevevano allegramente, lui stava muto e sembrava quasi non voler essere lì. Pensavo che fosse solo un caso, che forse aveva avuto una giornata storta. Lì per lì, non gli ho dato troppo peso. Anche perché poi tutto quello che è successo nel resto della serata ha come cancellato quel piccolo momento. Dopo cena siamo andati tutti quanti in spiaggia, ad Alassio; lì abbiamo preso le sdraio, le abbiamo messe tutte vicine, a cerchio, e abbiamo continuato a chiacchierare, ridere e scherzare fino a tardi, guardando i fuochi d'artificio colorare il cielo notturno: uno spettacolo pirotecnico che ogni anno non manca mai a Ferragosto e che fa giungere nella località migliaia di persone, anche dai paesi limitrofi. Io, però, in un certo senso, non ero davvero lì. Per tutto il tempo vedevo Claudia, in costume da bagno; sentivo Claudia, che mi teneva per mano; leggevo il desiderio nei suoi occhi, in quelle occhiate silenziose e complici che mi lanciava, e che potevano significare una sola cosa. In quelle ore, pian piano i suoi sguardi cancellavano tutto il resto, per me. E quando tutti gli amici se ne sono andati lasciandoci soli, come fosse stata una scena già scritta, è stato come in un film: mi ha trascinato in acqua, tenendomi per la mano. E lì, nel mare caldo, silenzioso, solo guardandomi e senza dire una parola, si è lasciata scivolare via il costume, che vedevo con il cuore a mille galleggiare sulla superficie dell'acqua, mentre i riflessi dei fuochi d'artificio si specchiavano sul mare. Era mia, e voleva esserlo. Sentivo come il suo corpo si concedeva, non aveva dubbi, non aveva paura, così come non ne aveva lei. E io? Io ne avevo, ma era passata quasi subito, non appena avevo sentito, nel suo tocco sicuro, che quello era proprio ciò che doveva succedere: grazie a noi, lo spettacolo pirotecnico era passato dal cielo direttamente in quel mare. Finito il bagno, chiamiamolo così, siamo usciti dall'acqua e ci siamo rimessi sulle sdraio. A quel punto mi è sembrata come una cosa dovuta: bisognava ascoltare Prince. Ero sicuro che nel disco, che avevo riversato sull'iPod, ci sarebbe stata la canzone adatta per l'occasione. Infatti c'era: Pheromone, ovvero feromone. Ho pulito qualche granello di sabbia, e ho offerto una cuffietta a Claudia, la destra, tenendo per me la sinistra. E mentre la canzone accompagnava le nostre carezze, ho iniziato a raccontarle di Prince, e di quella canzone, e di tutto l'album, perché volevo farla entrare anch'io nel mio mondo, proprio come lei mi aveva fatto entrare, letteralmente, nel suo. Quindi, ho iniziato a raccontarle le origini della canzone, che risalgono, come mi aveva raccontato Willy a New York, a metà degli anni '90, quando Prince cercava di sfuggire dalle grinfie della Warner. Pheromone era stata parte proprio dello spettacolo teatrale Glam Slam Ulysses; il pezzo è una rivisitazione dell'Odissea di Omero e, parlando di amore e di sesso, riprendeva in origine la figura della maga Circe, cioè colei che, nella storia del poeta greco, seduce Ulisse grazie alle sue doti femminili. Nello spettacolo, non a caso, Prince aveva scelto Carmen Electra per interpretare questo personaggio: famosa sex symbol dell'epoca, conosciuta ai più grazie alla serie Baywatch. Per la prima parte della canzone, Prince si era ispirato anche al Canto dei Canti di Salomone, raccontando, poi, nel suo libro di memorie, The Beautiful One, che una sua fantasia erotica sarebbe stata proprio quella di farsi leggere e di parlare di questa opera nelle sue prime esperienze sessuali. Nella canzone, che ondeggia tra voyeurismo e volontà di possesso fisico, l'artista canta: "Vieni, sdraiati sotto la mia ombra con grande delizia, vieni, il mio braccio sinistro sotto la tua testa mentre il mio braccio destro stringe il tempo, il vino dell'amore. Feromone fa impazzire un uomo, fa fare certi giochetti, mi fa morire, è pura pazzia, potrei morire di feromone. Riesco a vedere la tenda staccata dal muro, le sue mani sono legate, riesco a vedere tutto. Ecco come fanno i loro giochetti mentre io sto lì a guardare. Il feromone mi inonda come un oceano e controlla ogni mio movimento; feromone quando tutto il corpo è bagnato. Riesco a percepire la tensione spiando dal buco della serratura: sono tutto un fuoco perché non l'ho mai vista nuda prima d'ora. Vorrei salvarla, ma rimango ancora lì a guardare, quando lui la slega lei corre verso la porta aperta, ma la raggiunge e la possiede proprio lì sul pavimento, lei è così vicina che posso quasi toccarla.". Come musica, Pheromone inizia con la voce di Prince che, tra romantici suoni di onde che scivolano sulla spiaggia, sussurra le sue proposte amorose a chi ascolta. Poi, subito parte il pezzo, un future funk anni '80 dalla ritmica serrata ed entusiasta, molto euforico e anzi quasi aggressivo. In questa canzone Prince è molto più impaziente, esuberante, intemperante. Se le due tracce introduttive dell'album erano degli inviti all'amore, dei messaggi di sottile seduzione, qui la musica cambia, letteralmente: nel rivolgersi alla sua amante, Prince esprime un'esigenza, una volontà mascolina e irresistibile di ottenere quello che vuole. Non c'è da sbagliarsi: è sesso, e stavolta non sembra proprio voler accettare un "no" come risposta. Claudia ascoltava tutto, interessata, coinvolta, facendosi trascinare assieme a me tra le onde della canzone. Prima di accorgercene, ci eravamo addormentati. Una volta svegliati con le prime luci dell'alba, lì sulle sdraio, in spiaggia, ci siamo trovati di fronte a una brutta sorpresa, quasi un coronamento amaro della dolce avventura della notte prima: l'iPod, tra l'altro un caro regalo di mio zio, a cui tenevo molto, non c'era più. Era stato rubato.
Loose
Loose è la canzone che in Come, nel disco di Prince, viene dopo Pheromone. Una canzone che parla di libertà, sia intesa come "lasciarsi andare" - che era quello che era successo tra me e Claudia, sia intesa come liberazione da qualcuno che ci vuole imprigionare, incatenare, farci essere quello che non siamo. Ed era quella la canzone a cui ripensavo quella mattina, uscendo dalla spiaggia con Claudia, ferito dalla perdita del mio iPod. Quasi come se il mattino dovesse rispondere alla sera. Ora, momenti tesi, rancorosi e cupi sembravano voler cancellare tutto quello che era successo di bello la notte prima. Arrabbiato, sentendomi come tradito, volevo andare oltre la perdita dell'iPod, e chiarire subito una cosa con Claudia; come si fa quando si è fuori di sé, e se ne approfitta in qualche modo per risolvere più questioni possibili, prima di ritrovare la ragione. Allora, le ho chiesto del ragazzo che, la sera prima, mi guardava storto, e che sembrava volerci infastidire, e non toglieva gli occhi da Claudia. Anche poi, in spiaggia, poco dopo essere arrivati, si era seduto con la sdraio vicino a noi, e continuava a fissarci, come se volesse mettersi tra me e lei. Io gli rispondevo: "Ciao. Devi dirmi qualcosa? Che cos'è che vuoi? Che cosa sei venuto a fare qui?" E lui diceva: "Volevo essere certo che Claudia stesse tranquilla". E restava lì, chiacchierava anche con gli altri, a volte rideva e scherzava, ma tornava sempre su di noi, come se fossimo per lui un fastidio. Quando ricominciava io ribattevo: "Mi sembra che fissi più me che lei. Ti interesso così tanto?", e allora il tizio stava finalmente zitto, ma poi ricominciava, e aveva continuato per tutta la sera. Certo, come ho detto, in quei momenti pian piano gli occhi di Claudia avevano cancellato per me tutto quello che c'era intorno, per cui la presenza del ragazzo mi era arrivata lì per lì solo come una eco lontana, attutita. Ma ora che ero ben sveglio, e la notte era passata, improvvisamente sembrava come se mi fossi accorto all'improvviso di avere una ferita aperta, da qualche parte, sul corpo. Chi era, volevo sapere: chi era? Claudia, vedendomi così arrabbiato, ha cercato di girarci intorno, di non rispondere subito. Ma alla fine ha ceduto, e me lo ha detto: quello si chiamava Lucio Tomatis, ed era, naturalmente, il suo ex. Quando me lo ha rivelato, è stato allora che Loose mi è venuta in mente, e mi è venuta in mente anche un'altra cosa: Loredana, la mia ex. Una vera strega. Lei era lombarda, ed eravamo stati insieme quando io avevo 17, quasi 18 anni. Naturalmente, a quel tempo non mi rendevo conto di come mi usasse solo per il suo piacere, per il sesso, senza in realtà provare nulla per me. Una volta mi era capitato di beccarla con un altro proprio il giorno dopo che ci eravamo visti, come facevamo ogni giovedì, per fare l'amore insieme. Dal giovedì al venerdì, senza preavviso, aveva già cercato un nuovo amante. Anche quella volta. Ma raggiunsi il culmine: ero talmente arrabbiato da tirare un pugno contro il muro, ad Alassio, vicino al molo, nel vicolo di Balzola, rompendomi il quinto metacarpo. Bella storia, eh? Poi ai miei avevo raccontato che mi ero fatto male con lo sportello automatico del treno, quello blu dei regionali, che si apre male e si chiude di scatto, ma meglio lasciare stare. Ecco, quella era lo stesso tipo di gelosia cieca, forte, irragionevole, che mi aveva preso allora, con Loredana, esattamente la stessa che ora provavo per Claudia nello scorgere questa figura del suo ex che, per forza di cose, faceva ancora parte della compagnia, e non potevo quindi allontanare da lei. Sbagliavo a essere così geloso? Ancora una volta, chiedevo consiglio a Prince, che proprio in Loose sembra confrontarsi con una persona del genere: un folle, fuori di testa, uno che si scatena sulla pista da ballo nel tentativo di farsi vedere a tutti i costi, ma con il solo risultato di rendersi ridicolo. Loose! (sciolto!) porta ancora più in là il ritmo irresistibile della traccia precedente, ma scartando stavolta funk e soul, e abbandonandosi a ritmi elettronici che troverebbero tranquillamente posto in una discoteca, tradendo influenze musicali che coinvolgono esperimenti techno ma anche chitarre rock. Nel testo, Prince canta: "C'è decisamente qualcosa che non va con te, ti comporti come un folle, quando la musica inizia a suonare ti fai strada tra la folla e vieni al centro della pista, scuotendo la tua acconciatura. Il tuo stile di vita dissoluto non ti porterà da nessuna parte, anzi ti scatenerà addosso la polizia! Fatti un'istruzione e comprati un paio di scarpe! Come puoi dirmi quello che devo fare? Io ho stile, ho i soldi e un seguito, e se ti avvicini puoi vedere che ho anche un bell'attrezzo". Nella canzone, Prince ovviamente costruisce una metafora degli artisti suoi rivali, e di tutte quelle persone, come quelli della Warner, che cercano di continuo di pestargli i piedi, e di non permettergli di essere sé stesso. Proprio quello che sentivo che cercava di fare quel Lucio con me, e con Claudia. Ma, pensavo rabbioso, non c'era chance: era Prince a trionfare, nel confronto della canzone; e nello stesso modo, con Lucio, avrei vinto io.
Papa
Per cercare di dimenticare i brutti pensieri di quella mattinata, sono andato a distrarmi, ritrovando gli amici al bar, per fare colazione insieme. Ho raccontato loro di Claudia, dell'iPod, di quel Lucio, di Prince, di un po' tutto. E tra le risate e le battute, finalmente ho cominciato a rilassarmi, e lasciar andare la tensione che mi portavo addosso fin da quando mi ero svegliato in spiaggia. Cercando di allontanare la mente, per il momento dal pensiero di Claudia, ho iniziato a chiacchierare con loro. E all'improvviso mi sono accorto di una cosa: "Dov'è Pischi?" ho chiesto. Pischi, cioè Marco Pasquale, era uno immancabile nella nostra compagnia. Ma quella mattina non c'era. "Lo sai, ha i suoi soliti problemi, non ce l'ha fatta a venire" mi ha risposto Stefano, con sguardi che già sapevo che cosa volevano dire. Pischi, infatti, era uno per certi versi molto più sfortunato di me e di noi. Non aveva avuto una vita facile: il padre violento, sempre dentro e fuori dalla galera, e la madre?be', diciamo solo che faceva il mestiere più antico del mondo. Non ho mai saputo come aiutarlo, anche se ho sempre provato cercando di essergli amico. Pischi si portava addosso come una maledizione, che lo faceva rinunciare a ogni tentativo di andare oltre. Non voleva lavorare, si faceva mantenere, e si accontentava di ospitarci a casa sua per bere birra e fumare, e per passare le serate così, a guardare Netflix con noi e a non far nulla. Casa sua, poi, se ci pensate bene, era il posto più adatto per darsi al bere, perché i carabinieri e i poliziotti non ci sarebbero mai venuti: la madre aveva infatti clienti importanti, persone altolocate delle istituzioni sanremesi. Insomma, eravamo al sicuro. Anche se a lei non piaceva troppo la nostra presenza. Infatti, ricordo con il sorriso che una volta, quando in preda all'alcol ci eravamo messi a ridere troppo forte, lei uscì furibonda dalla camera da letto, e ci aveva gridato: "Smettetela! Così me lo spaventate!", parlando del suo cliente. Pischi non viveva bene questa situazione, ma era deciso a non darlo a vedere, cercando di fingere sempre, con noi, che non gli importasse nulla. Ma nulla di nulla. Anche se alla fine si vedeva che non era così. Anche noi, allora, per dargli corda, ci scherzavamo spesso su. Per esempio, un altro nostro amico, Diego, una volta aveva escogitato uno scherzo: aveva comprato diverse sveglie, e ognuna l'aveva caricata in modo da farle suonare a orari improbabili durante la notte: alcune alle 02:30, altre alle 02:40 e alle 03:05, disponendole vicino al comodino, nell'armadio, sotto il letto, accanto alla porta e via dicendo; così, tanto per tormentarlo e fargli capire che, anche se non voleva, aveva comunque un appuntamento, come se dovesse alzarsi presto per prepararsi per una nuova giornata di lavoro. A pensarci ancora ci ridiamo su, anche perché non gli dispiaceva avere degli amici che lo aiutassero a non prendere troppo sul serio la sua condizione. Ma io vedevo che ci soffriva, e avrei voluto tanto fare qualcosa per lui. Quel giorno, dopo la notte con Claudia, una volta lasciati gli amici al bar, me ne tornavo a casa pensando "Chissà cosa starà facendo Pischi in questo momento? Sarà a casa?". Anche se non me ne aveva mai parlato, sapevo che il padre lo picchiava e anche troppo spesso. lo avevamo sentito, fuori da casa sua, aspettandolo per uscire, più e più volte. Allora, ormai come in automatico, non potevo non ritrovare anche questa sua storia in una canzone di Prince. La canzone era Papa, Papà, nella quale, non a caso, il cantante racconta della sua infanzia difficile, segnata dalla violenza domestica e dal divorzio dei genitori quando lui aveva solo otto anni. Il brano suona come una lenta improvvisazione, quasi teatrale, un monologo che Prince tiene su un palcoscenico, ma che potrebbe essere anche in camera da letto. Racconta una storia, con delicatezza e mistero, su una base inizialmente lenta e riflessiva, che improvvisamente però esplode in uno sfogo rock and roll quando si giunge al climax della canzone. La storia narrata si articola in scene di traumi familiari, nei quali il cantante ritrova l'origine della sua vita erratica, del vagabondare tra famiglie diverse, non riuscendo ad avere un punto di riferimento saldo. "Papà aveva lavorato troppo quel giorno, e aveva sgridato il bambino perché si era divertito a lanciare sassi alle macchine che passavano...Quindi lo ha preso e lo ha scaraventato nello sgabuzzino, chiudendo la porta a chiave?"Non lo farò più!", gridava il bambino, ma papà rispondeva che era proprio per quello che lo stava facendo". Prince parla di ciò che accade quando un bambino viene cresciuto male, quando i genitori non sanno donare il loro affetto, trasmettendo una maledizione fatta di rancore e di indifferenza, che continuerà sempre, di padre in figlio. Odio, violenza e disprezzo non possono che esserne l'unico frutto. Un frutto marcio.
Race
In quei momenti tutto turbinava un po' nella mia testa: Claudia, il suo ex, il nostro rapporto, ma anche tutte le cose che avevo visto e che vedevo, e mi sembravano riportare sempre al disco di Prince. L'album ormai lo sapevo a memoria, lo ascoltavo in macchina di continuo, ma lo risentivo anche spesso nelle orecchie. Mentre i miei pensieri si mescolavano con le parole delle canzoni, continuavo la mia vita di sempre, riprendendo anche l'università. Ed è lì, a Genova, non lontano dall'ateneo, che ho visto qualcos'altro che subito mi ha richiamato alla mente l'artista americano: un gruppo di naziskin, famosi per la loro "tenuta" con gli anfibi rossi, che giravano sempre da quelle parti. Non ci avevo mai parlato, ma sapevo bene che cosa andavano predicando, e sapevo che tipo di odio creava il loro comportamento. Nel vederli girare così spavaldi, beffardi, come se il mondo fosse loro, e prendere a regalare insulti e ingiurie a chi non gli andava a genio, ho ripensato a mio padre. Mi aveva raccontato di quando, da giovane, aveva fatto il militare a Chiavari, alla caserma Caperana. Era una caserma interforza, che specializzava i militari in discipline diverse, e perciò accoglieva gente da tutta Italia. Da Taranto, da Barletta, da Napoli - più precisamente da Afragola, e da Genova. Proprio da quest'ultima, mi aveva raccontato mio padre, in quella caserma erano giunti degli skinhead di Genova, campioni di razzismo e di pregiudizio. Lì lui si era scontrato più volte con loro, cercando di far rispettare i propri ideali: non bisogna giudicare qualcuno dal colore della pelle, ma da quello che c'è sotto o, meglio, dentro - il contenuto. Molte volte aveva rischiato anche di arrivare alle mani, perché davvero riteneva che il razzismo fosse una delle più basse viltà a cui può scendere l'essere umano. Un insegnamento che ho sempre portato con me, e che ora Prince mi cantava ancora nelle orecchie, con il testo di Race. Una canzone che parla di diversità etnica, un tema molto importante per lui, in quanto artista di colore. Race (Razza) è un pezzo di puro hip-hop, forse ancora non del tutto aggiornato alle tendenze del rap anni '90, e più nostalgico della forma anni '80 del genere, con ritmi funk e ballabili. In questa canzone non è neppure la prima volta che Prince parla di razza e appartenenza etnica. Già in passato, in diversi pezzi, aveva affrontato l'argomento della vita di un uomo di colore in un mondo di bianchi. Canzoni come "Baltimore", "Marz", "Black Muse", "Count the Days", "Money Don't Matter 2night", "Dreamer" e "Right the Wrong" rendono perfettamente l'idea: "L'aria nella stanza è pesante questa sera, forse a causa dell'assalto di poliziotti inesperti, parlate così velocemente che non si capisce nulla, siete capaci solo di rigurgitare frasi su frasi a sfondo razzista.". Prince parla dello status quo dell'uomo bianco, sempre esercitato attraverso la polizia. "Se questo fosse un gioco di Monopoli e dipendesse da voi, ci fareste iniziare il gioco da capo ogni volta", parla della schiavitù, un "gioco" amaro andato avanti fin troppo. Poi, nel refrain, il cantante fa riferimento ai moduli burocratici americani, anch'essi pregni di razzismo, perché richiedono di indicare la razza di appartenenza: latina, afro-latina, asiatica, afroamericana, e allora lui afferma con assoluta sicurezza e per tutta risposta che preferisce firmarsi semplicemente come "umano". Nel brano sembra quasi citare le parole di Shylock nel "Mercante di Venezia" di Shakespeare: "E tutto questo per quale ragione? Perché sono ebreo! Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? Se ci pungete non versiamo sangue, forse?" (Atto III - Scena 1) Prince incolpa poi anche i libri di storia, accusandoli di passare un insegnamento che, secondo lui, è ricco di bugie sulla superiorità di una razza e l'inferiorità di un'altra. Crede che tutta la storia andrebbe riscritta. Dice: "La bambina bianca che vedi seduta lì, affidata ad una donna di colore, è meglio che rimanga ignorante, piuttosto che scoprire, dalla mamma oppure a scuola, le malvagità che sono state commesse in passato". Chiaro: lui sogna un mondo non popolato da divisioni per colore, ma abitato da quelli che lui chiama "rainbow children", cioè "i figli dell'arcobaleno", in un'unica unione segnata dall'amore, lontano da tutto ciò che fino a quel momento aveva minato la libertà di ogni essere umano, che sia l'odio o deliranti personaggi che hanno segnato la Storia. Alla fine chiude con il messaggio più importante: la musica, più di ogni altro strumento, può essere questo grande mezzo pacificatore, che cancella le divergenze e rende uniti tutti quanti, senza più discriminazioni.
Dark
La mia storia con Claudia, la bellissima ragazza di cui mi ero innamorato, non è stata sempre rose e fiori. Come in tutte le storie, ci sono stati dei momenti di oscurità, dei momenti in cui ci siamo persi, rischiando di non ritrovarci più. E con lei è successo per colpa di un tale, e cioè quel suo ex che, invidioso della nostra felicità, ha insidiato per portarmela via. A mia insaputa, infatti, aveva raccontato a Claudia delle falsità su di me. Siamo arrivati a discutere, e non riuscendo a comprenderci, abbiamo chiuso la questione in maniera brusca. In quel momento Claudia, che aveva scelto di credere alle menzogne che l'altro le aveva raccontato, non ne voleva più sapere di me. E così abbiamo smesso di vederci. Mi sembrava irreale, ma lì per lì ho cercato di non dare troppo peso alla questione, o almeno a fingere. Una di quelle sere, tanto per distrarmi e non pensare a lei, mi sono fatto accompagnare dagli amici a Bagni Lido, a Chiavari, dove era stata organizzata una serata disco music. Lì però non ero riuscito a farmi prendere dalla festa, e mi ero invece seduto sui divanetti a pensare a tutto: a Claudio, a Lucio, a Pischi, a Loredana, e a Prince...A fine serata ce ne siamo andati, siamo usciti con un po' di alcol in corpo, e abbiamo iniziato a vagare tra le vie di Chiavari. Ma io non ero davvero lì. Mentre gli altri si raccontavano di questa o quella ragazza con cui avevano ballato poco prima, io ero perso nei miei pensieri, perso nei miei ricordi. In qualche modo mi sembrava di essere mio padre, ed ero sicuro che non era l'alcol a fare effetto, perché quella sera non sembravo davvero in me, avevo bevuto solo una goccia. La visione me l'aveva fatto venire in mente, stranamente, la luce blu di un lampione: era blu come il suo cappello da militare, della stessa tinta esatta anche della sua divisa che indossava quando ricopriva il ruolo di sottotenente dell'aeronautica; quel cappello che da bambino mi affascinava così tanto, con quella corona di foglie sulla fronte, e tutto il mondo che vi si nascondeva dietro. Tutte le volte che papà mi trovava in camera sua, che mi provavo quel suo cappello, lo prendeva, me lo faceva tenere in testa, mi faceva sedere sulle ginocchia e mi raccontava tante, tante storie. Storie belle, quand'ero piccolo, ma anche più serie quando sono diventato più grande. E tra tutti quei ricordi un giorno ne aveva scelto uno in particolare: la toccante storia di una ragazza, che mi era venuta in mente perché c'entrava anche Chiavari, dove mi trovavo io quella sera, magari proprio quei vicoletti dove ora camminavo insieme ai miei amici; la coincidenza tra la mia vita e la sua mi sembrava talmente intensa che, camminando, mi domandavo se non stessi percorrendo gli stessi esatti passi percorsi da lui lì, per quelle strade, anni e anni prima. Mio padre mi aveva raccontato di quella ragazza che aveva conosciuto nello stesso locale dal quale ero uscito io poco prima (in effetti, anch'io avevo incontrato una ragazza lì, quella sera). Solo il caso? Non poteva essere. Rivivendo la storia, in quel momento, risentivo la voce di mio padre, che mi raccontava quand'ero bambino: "Era il 1992. Facevo il militare, ma ogni volta possibile andavo a divertirmi, perché la vita del militare era dura. Quella sera avevo incontrato una ragazza a Bagno Lido: tutto era iniziato così, dal nulla, come accade sempre. Si chiamava Chiara, l'avevo vista sulla pista da ballo, e la ricordo perché lei mi aveva colpito subito con il suo dolce viso, con un sorriso solare e uno sguardo ammaliante. Ricordo anche che aveva i capelli molto corti: le stavano benissimo, anche se lì per lì non sapevo che aveva dovuto tagliarli per sottoporsi a un ciclo di chemio, per guarire un cancro alla gola. Era andato tutto bene, e in realtà era già fuori pericolo da un po', ma aveva scelto di continuare a tenere i capelli così: in un certo senso, sentiva di averli avuti corti fin dalla nascita. Mi ricordavo del suo volto, morbido e indimenticabile, ma soprattutto di un'altra cosa, come se fosse oggi. Mentre ballavamo, anche se lei era già lì con un altro ragazzo, mi si era avvicinata, e tra una mossa e l'altra mi cantava, divertita ma anche maliziosa: "Accendi un diavolo in me!" Mi sembrava chiaro che cosa stava succedendo, e io non ero mai stato uno che si lasciava sfuggire le occasioni. Avevo iniziato a corteggiarla, parlandole, raccontandole quello che voleva sapere. Credeva che all'epoca io facessi il militare, perché portavo i capelli rasati. Era divertente, rideva di continuo. Alla fine, ci siamo dati appuntamento per il giorno dopo, alle 16, al Caruggio di Chiavari. E lì, tra una cosa e l'altra, siamo andati a mangiare la farinata di ceci, per poi dirigerci al Blue Seagull, che allora era un bar karaoke, mentre oggi è un pub discoteca. Lì avevo bevuto una Corona, e brillo com'ero mi ero fatto trascinare da Chiara nella conversazione, ed eravamo finiti a parlare di amore e di sesso. Ero interessato, ma ricordo che quasi mi imbarazzavo a parlare con lei di quelle cose, perché mi sembrava troppo bella per "sporcare" la conversazione con argomenti tanto "volgari". Dopo aver passato il resto del pomeriggio insieme, l'avevo accompagnata in stazione, perché lei doveva tornare a casa sua, a Rapallo. E lì, in attesa del treno, mi aveva fatto vedere la cicatrice di quattro centimetri sul collo, lasciata dall'operazione servita per asportare il cancro. Fino a quel momento l'aveva nascosta con un foulard. Non capivo perché dovesse vergognarsi di una cosa del genere, che alla fine faceva parte della sua vita e della sua esperienza. Anzi, tutti dovevano sapere che cosa aveva affrontato, com'era stata coraggiosa. Le avevo quindi detto che non doveva vergognarsi, che era bellissima! E lei mi aveva guardato con uno sguardo che ti perfora, e nel mentre piegò il ditino dicendomi "vieni qua". Ci eravamo baciati, con un bacio forte, intenso, talmente potente che mi aveva completamente riempito. Avevamo iniziato a frequentarci per un po', e un giorno avevamo fatto anche l'amore, unendoci ancora di più, conoscendoci molto a fondo. Ma finita quella estate, dato che tendevo a non tornare più alla spiaggia, o a frequentare altri posti, mi ero infine un po' staccato da lei, anche perché non abitavamo esattamente vicini. Tornando a Chiavari ogni tanto mi capitava di vederla, ma non mi avvicinavo: non era più parte della mia vita, ma era giusto così, e non era colpa di nessuno dei due. Avevamo già cercato di riprendere i contatti, però la vita era troppo frenetica, avevamo troppe cose da fare, e non ci eravamo riusciti. Avevo saputo da mia mamma, Mariella, che ogni tanto mi aveva telefonato, cercandomi, per dirmi qualcosa: ma non mi aveva mai trovato. Lei nel frattempo aveva iniziato a uscire con un altro ragazzo, Fabio Scorza. Si era innamorata, diceva, ma io lui lo conoscevo solo di nome, quindi quasi per niente. Per un paio di anni non avevo più pensato a lei, non con l'intensità con cui ci posso ripensare ora. Anche se era stata una cosa tanto speciale. Ai miei amici, ricordo, che una volta, riflettendomi nello specchio della discoteca, all'improvviso, senza un apparente motivo dissi: 'Tra tutte le ragazze che ho preso in giro, l'unica che mi dispiace di aver preso per il culo è Chiara'. Sentivo di averla presa in giro perché in un certo senso per me lei era stata alla fine solo una "storia estiva", mentre credo che si sarebbe meritata molto di più. Loro annuivano, e sorridevano: conoscevano tutta la storia ovviamente, e mi capivano. La mattina dopo sono stato svegliato di colpo da mia madre, alle 11 di mattina, che mi diceva di correre subito in salotto, perché al telegiornale locale stavano dando una notizia che sembrava dovermi interessare. E lì, con un colpo al cuore, ho sentito il giornalista annunciare: "Uccisa giovane ragazza a Chiavari: Chiara Boero. Il suo ragazzo l'ha assassinata con un mattone per poi gettarla nella discarica". Mi è crollato il mondo addosso, ma non per quanto avevo detto la sera prima; o meglio, anche per quello. Ma quello che non ti ho detto, figlio mio, è che durante la notte la sua anima, l'anima di Chiara, mi era venuta a trovare in sogno, a salutarmi. Sembrava solo una delle tante immagini confuse che ritroviamo sempre nei sogni, e invece era realtà. Chiara, prima di lasciare questa Terra, ha semplicemente voluto dire addio a chi ha amato, in un modo o nell'altro. E la cosa che mi dispiaceva ancora di più non era tanto di non averla più potuta rivedere - perché, sai, la vita spesso ti divide; ma stranamente, continuavo a ripensare a quando mi aveva cercato al telefono, per dirmi qualcosa, e io non ero mai riuscito a risentirla. Che cosa aveva voluto dirmi? Non l'avrei mai saputo. Tutto questo mi ha cambiato, mi ha reso più sensibile verso l'amore, verso la vita e verso tutte quelle persone che da lì in poi mi avrebbero accompagnato o che avrei incontrato per caso per strada. Chiara è stata per me una magia, una piccola fetta di solitudine". Mi ripetevo queste parole, che mi aveva raccontato mio padre anni prima, ma che ora rivivevo come se le stesse ripetendo lì, davanti a me. E la malinconia di quella storia sembrava riflettersi nei vicoli bui nei quali camminavo, dei sentieri oscuri nei quali tutti ci inoltriamo prima o poi, ma non tutti ne escono. E, come emergendo da quel buio, le note di una di quelle canzoni di prince, che ormai conoscevo così bene, sembravano volermi quasi sussurrare di nuovo le parole di mio padre, lamenti per la perdita di un amore che non è mai cresciuto, un po' come quello che stavo vivendo io con Claudia. Dark (Oscurità), ritorna a parlare proprio di sentimenti amorosi, ma lo fa stavolta in modo malinconico, da un punto di vista solitario e ferito, proprio come mi sentivo io. È un lentissimo e delicato soul condito da fiati quasi farseschi, organo alla Jimmy Smith e vocalità lussuriose e persuasive. È un brano tutto motown, che potrebbe essere cantato da Otis Redding o da Marvin Gaye, e che richiama perciò sonorità molto anni '60, del tutto prive dei ritmi elettronici e hard/funk del resto del disco. Una musica che serve ancora una volta il suo scopo: cercare di indagare le ombre dell'amore. Prince si sfoga, parla di una storia finita male - come temevo fosse finita la mia, e arrivando all'autocommiserazione, si sente come "un uomo innocente nel braccio della morte", non riesce a capire perché lei se ne é andata, perché abbia voluto lasciarlo nel buio. La donna amata è come un nemico invisibile contro il quale il suo cuore si ribella con forza, annegando nel rancore, rinfacciandole che ha preso tutto di lui e poi è scappata via, abbandonandolo. Prince non riesce a spiegarsi come un amore tanto intenso, tanto puro, tanto appassionato, possa essere finito così. Lei lo ha ridotto in lacrime, ha voluto fargli del male, e lui aspetta che qualcuno faccia risplendere un nuovo sole, che porti via quella nuvola scura. Non trova pace, e si sfoga come un adolescente che ha perduto il suo primo amore, quell'amore spontaneo e spensierato che fa tanto più male quando non c'è più. "È così buio, così buio, mi sento come se il sole non volesse tornare mai più a splendere, mi hai lasciato nel buio, è così buio." Tutto ciò che rimane sono la rabbia, l'umiliazione, la voglia di rifarsi ma anche il desiderio di vendicarsi: "Perché mi hai lasciato baby? A volte vorrei maledire la terra che calpesti, voglio maledirti perché mi hai lasciato nel buio.. mi hai lasciato solo nel buio, nel buio.
Solo
Da quando ci siamo lasciati, con Claudia non mi sono più sentito, neppure un "buongiorno" su Whats App strappato all'improvviso prima di correre all'università, e mi fa tutt'ora rabbia pensare che è stata tutta colpa del suo ex, Lucio Tomatis. Lui le ha detto che io, mentre uscivamo insieme, frequentavo anche alcune mie compagne di facoltà. Lo ha fatto per gettare ombre su di me, e per mettere sé stesso in luce ai suoi occhi. Ed è stato sul molo di Alassio che lei ha tirato fuori l'argomento, rinfacciando il tradimento. Mi sono sentito sconvolto, anche perché per me tradire una persona mentre ci stai insieme...no, non voglio neppure pensarci! È una cosa proprio inconcepibile! La fiducia è alla base dell'amore, e la complicità in una coppia passa anche per questo: dopo quello che avevamo vissuto, come poteva credere che davvero l'avessi tradita? Ma quello che mi feriva di più era che Claudia, dovendo fare una scelta, aveva imboccato la "strada vecchia", cioè quella di Lucio, anziché quella nuova, cioè la mia. Io credo che l'amore sia fatto anche di momenti in cui si azzarda, nei quali si decide di fidarsi del partner, in cui l'affetto che si ha per l'altro dovrebbe bastare come garanzia. Ma questa volta Claudia aveva invece scelto la via più facile, quella che conosceva già, quella indicata da una persona a lei nota, che in passato era stata molto al suo fianco. Allora me ne sono andato, lasciandola lì, furioso: non potevo credere che, se mi stava lasciando, doveva essere quello il motivo. Avrei preferito che mi avesse lasciato per una ragione vera, non per una storiella raccontata da qualcun altro. In preda all'ira, ero scappato nel vicolo vicino al Budello, dove c'è la pasticceria Balzola, e dove anni prima mi ero rotto il quinto metacarpo sfogandomi dopo il tradimento di Loredana. Da lì sono corso alla mia macchina, deciso a farmi un giro sulle quattro ruote cercando di sbollire. Lo facevo sempre. Del resto, che cosa avrei potuto fare? Ho viaggiato molto, sono andato prima verso Sanremo e poi ho fatto un lungo giro, fino ad arrivare a Imperia. Qui sono entrato in bar e ho iniziato a bere, bicchiere dopo bicchiere, tentando di soffocare quelle sensazioni scottanti che sentivo. Mi sembrava che tutto stesse tornando, che ogni ombra della mia vita si volesse riunire in quel luogo, eppure tanto speciale. Volevo risolvere la situazione, ma non sapevo come fare. Un mio amico di Genova mi aveva detto: "La vita è come una tavola di legno, se ci ficchi dei chiodi e poi li togli, il buco rimane sempre". Be', il tradimento di cui ero accusato era apparentemente il mio chiodo, ma io non lo volevo lasciare quel buco nella tavola della mia storia con Claudia. Ma ancora una volta, per fortuna, ho ritrovato la mia forza in una canzone di Prince. Seduto in camera mia, con questo peso sul cuore, ascoltavo Solo, che potrei tradurre in "da solo", la canzone successiva del disco di Prince. È il pezzo più anormale, esattamente come la situazione che stavo vivendo, ma per questo anche il più ragguardevole dell'opera: è un lamento etereo e astratto, fantasmagorico e quasi funebre. Parte a cappella, con la sola voce di Prince, che viene poi gentilmente accompagnata da arpeggi d'arpa spirituali e incorporei, con lontani rombare di tuoni e suoni che fuggono dentro e fuori dalla canzone come fantasmi. Non si può parlare, in questo caso, di soul, funk, rock o rap: questa canzone è semplicemente l'esemplificazione della straordinaria capacità di Prince di inventare musiche nuove, irreali, e sempre differenti. Si può considerare Solo come l'apoteosi del periodo più triste per Prince. La traccia, scritta insieme a David Henry Hwang, parla del momento più disperato di una persona, quando scopre che la donna che ha amato più di ogni altra cosa al mondo non tornerà mai più: "Mi sento così giù, che anche un gradino sembra un grattacielo, intorno a me c'è un tale silenzio che posso sentire il sangue scorrere nelle vene, così giù che mi sembra di impazzire." L'artista cerca di ricordare gli attimi più piacevoli trascorsi con la sua amata, come a volersi aggrappare a questi ricordi in modo da poter tornare a respirare di nuovo aria fresca e pulita: "Quando facevamo l'amore, persino gli angeli rimanevano a guardare, mentre tu gridavi in estasi...e tutto il creato mi faceva pena perché nessuno era più fortunato di me." Il brano viene cantato completamente a cappella, anche se alcuni suoni eterei e avvolgenti contribuiscono a creare quell'atmosfera di dolore e di solitudine. Chi ascolta è quasi obbligato a provare quello che prova Prince. La solitudine quasi irreale, quasi spirituale, dalla quale l'artista è afflitto. "Tu non ci sei più e voglio solo restare in silenzio, voglio far addormentare i miei sensi, sarà difficile ascoltare la mia voce, ammesso che io riesca di nuovo a parlare." Il dolore disorienta, preme, annienta l'essere umano, e nelle sue parole si ritrova tutta la sua immensa solitudine. In quel momento, esattamente come dice Prince, mi sono sentito talmente perso che neppure mia madre, dall'altra stanza, riusciva a trovarmi, ormai preferivo cambiare nome in "Nessuno".
Letitgo
Qualche settimana dopo, all'Università, tra una pausa e l'altra dalle lezioni, con alcuni compagni di corso si parlava spesso di argomenti di attualità, ma anche delle nostre passioni, come la musica e il cinema. E, vivendo in un'epoca tempestata da pubblicità e promozioni, praticamente nell'era digitale, siamo finiti a parlare dell'effetto del marketing sulla mente delle persone. Di quanto, le aziende più importanti riescano a penetrare nelle nostre teste, con immagini e slogan significativi, per non lasciarle mai più. I miei compagni non prestavano troppa attenzione a questo aspetto, limitandosi a godersi la musica così com'è. Ma io, grazie a Prince, e ricordando il discorso di Willy, avevo imparato la lezione, e ne avevo una visione diversa. Anche al supermercato di Alassio o di Sanremo o di Imperia, a seconda di dove mi trovavo, mi capitava spesso questo: potevo sentire anche solo una pubblicità, e questa mi entrava nel cervello e modificava ogni cosa. Praticamente lo stesso meccanismo sostenuto dalle case discografiche, specie le major, che vogliono produrre a catena di montaggio solo tormentoni e suoni facili per accompagnare le giornate vuote di ascoltatori distratti. Un meccanismo che impone e non dà libertà, mentre un artista deve per forza essere libero e spontaneo per poter nutrire i vecchi e i nuovi fan con vera Arte, mostrando rispetto di rimando a chi lo ama e a chi lo apprezza, e dando mostra del suo fuoco interiore, quello che dà vita alla musica o all'opera. Ecco perché, pensavo, Prince ha fatto bene a lasciare la sua casa discografica, avendo capito che il loro interesse era mirato solamente al denaro, al portafoglio dell'ascoltatore, e non all'utente vero e proprio, non ai clienti. Il segreto non è infatti puntare sul guadagno, ma puntare sui valori. Ecco perché alla fine Prince mi ha stimolato nel cercare di creare una band, ed ecco perché all'università eravamo finiti a parlare di questi argomenti. Mi sembrava che tutto potesse partire davvero da lì, mi sembrava una buona idea, e l'ho sottoposta ai miei compagni di corso, Gianluca e Alessandro, spiegandogli cosa dice Prince nella canzone Letitgo. Si tratta, insieme a Space, di uno dei singoli dell'album Come, e quindi una delle canzoni più famose e più promosse in radio in quel periodo della carriera dell'artista. Si può chiaramente dire che il brano riassume con forza il proposito di base che stava dietro il disco: un modo per Prince per liberarsi dal suo impegno con la Warner Bros, ma anche per intraprendere una nuova direzione, nell'arte e nella vita. Affermava che per tutta la carriera aveva dovuto tenere i suoi sentimenti per sé, perché sembrava non esserci nessuno davvero interessato a conoscerli, eppure non doveva rendere conto a nessuno, no? Ecco, qui, lo spirito indipendente e libero di Prince emerge in tutta la sua forza, perché spinge verso una libertà ancora da conquistare ma che già è presente nel suo animo, da sempre, come nella sua musica. Per 14 anni ha dovuto solo cantare le sue canzoni, bevendo le sue stesse lacrime, ma da quando si è reso conto di avere un esercito composto da tre milioni e passa di persone, tutto è cambiato. Quando esce Come, sono passati gli stessi anni trascorsi dalla prima firma per la Warner Bros, e il materiale incluso nell'album viene pubblicato proprio per svincolarsi dagli obblighi verso la label. Ecco a chi Prince rivolge l'invito a "lasciare andare" ("let it go" appunto). "Ora devo solo lasciare andare tutto, devo mettermi comodo e far fluire le vibrazioni, devo dare libero sfogo ai miei sentimenti, finalmente sono pronto per quello che è vero." Forse anche per questo, Let It Go è, per contrasto con la traccia precedente, la canzone meno innovativa e inventiva del disco. Un doppio cantato maschile/femminile che si trascina su sonorità soul/funk già ascoltate e apprezzate, in forme più riuscite del resto del disco. Il pezzo appare più come una ripetizione e in rafforzamento di pensieri e sensazioni già molto bene espresse. Ma va comunque ascoltato con attenzione, specie nel momento in cui svela un breve ma splendido assolo di tastiera distorta. Un esempio di come Prince, anche nella lettera d'addio alla sua casa discografica, uno scritto che poteva essere solo fiele e veleno, non può comunque tenere a freno la propria inesauribile vena creativa.
Orgasm
Da quando io e Claudia non ci eravamo più visti, all'inizio avevo cercato di fare finta che non mi importasse, lasciando scorrere le giornate come se nulla fosse e concentrandomi su altro. Ma allo stesso tempo ero attratto morbosamente, continuamente, da quella musica che me la ricordava sempre, che mi faceva tornare in mente quando avevamo ascoltato Come in spiaggia, insieme. Sentendo le prime canzoni mi era sembrato quasi che Prince fosse stato lì vicino a me, a consigliarmi, incitarmi, darmi fiducia. E poi, c'era una volta nella quale avevamo ascoltato l'album, tutto quanto, facendo l'amore. Perché tutto il disco, in un certo senso, suona un po' come un unico, lungo e intenso rapporto fisico: ci sono momenti più intensi, momenti più rilassati, momenti forse anche un po' perversi. E quella volta era stato così perfetto, così piacevole, che non riuscivo ora, nei miei ricordi, a separare una esperienza dall'altra: mi sembravano legate a filo doppio. Disteso sul letto, e immaginandomi Claudia a fianco a me, senza rendermene conto, ero ora giunto al termine del disco per l'ennesima volta: la fine, che mi sembrava anche quasi essere la stessa della nostra storia. Eppure, mi dicevo, non poteva andare così, qualcosa non tornava. Perché il finale dell'album era ben diverso da quello che sentivo di vivere in quel momento. Era del tutto simile a come si era concluso quel mio rapporto con Claudia, quando avevamo fatto l'amore muovendoci con le note delle canzoni, e lasciando che l'armonia della musica e degli strumenti in dialogo tra loro si ritrovassero nei movimenti dei nostri due corpi che si univano, si capivano, si ascoltavano insieme come se non fossero stati mai separati. Per noi, insomma, fare l'amore era un modo di dirci tutte quelle cose importanti che non riuscivamo a comunicare a parole. E quel finale, quello che ora mi mancava, e sognavo e ricordavo con il respiro corto e il battito accelerato, è un finale che ha un nome, e lo aveva anche in Come: Orgasm (Orgasmo), il breve ma intenso brano conclusivo del disco. La chiosa naturale di un lungo percorso amoroso che, naturalmente, non può non terminare, per l'appunto, con il raggiungimento del climax del piacere fisico. Tra gemiti di piacere espliciti e chiaramente udibili, i due amanti raggiungono nella canzone l'apice del godimento, culmine di questo rapporto durato quasi per tutto l'album. Tra suoni di onde (ricorrenti qua e là per il disco), e feedback di chitarra elettrica che incrociano Jimi Hendrix e Eddie Van Halen. Il verso finale, pronunciato da Prince con semplicità, come se non potesse esserci altro da dire, è: "I love you"
Conclusioni
Con Come, il suo scopo Prince l'aveva raggiunto, anche se nel mondo non era riuscito a raggiungere vette stratosferiche nelle classifiche come aveva fatto con altri suoi lavori. Di lì a poco il fantasma di sé stesso, quello che l'aveva accompagnato per anni, l'ombra che la Warner gli aveva attaccato addosso, restandogli appiccicata come un'immagine dello specchio rovesciata - quel fantasma - se ne sarebbe andata per sempre. Ormai cresciuto, maturato, sicuro della propria statura artistica e conscio delle possibilità della sua musica, Prince avrebbe cambiato nome: un nome impronunciabile, scritto come un simbolo, noto poi come Love Symbol, l'emblema dell'amore. La rappresentazione, cioè, del concetto universale che Prince esprime in ogni nota di ogni sua canzone, e il fine unico della sua arte: l'amore, l'arte passionale di procurare godimento e piacere, e di riceverne; ma anche l'amore dei The Beatles, quello platonico, fatto di comprensione reciproca e di confronto, di affetto disinteressato e di rispetto delle diversità. Con The Gold Experience, il suo nuovo album del 1995, l'artista "precedentemente noto come Prince", così si faceva ora chiamare, completava il suo percorso di trascendenza, compiendo una trasformazione quasi religiosa, quasi messianica, che non può non tener conto della statura pseudo-divina da lui raggiunta con la sua arte. Già di fronte a lavori come Purple Rain, 1999 e Sign o' the Times, che parevano voler superare i confini e le convenzioni della musica corrente, l'idea, per Prince, di apparire "solo" come un cantante, o un chitarrista, un artista come tanti altri, doveva sembrare ridicola. E ora, dagli inizi degli anni '90, finalmente libero dalle catene di personaggi in ombra, in giacca e cravatta, che dall'alto di un palazzo senza nome pretendevano di decidere della sua arte, non gli restava altro che spiccare definitivamente il volo, lasciare il suolo trasformandosi in un essere divino, sciolto dai vincoli terreni di una musica intesa come "prodotto": no, la musica di Prince può e deve essere pura espressione artistica, non un articolo da scaffale come un altro, e se lui si affidava all'industria è soltanto perché, all'epoca, non ha altro modo di diffonderla, farla ascoltare, condividerla con quante più persone possibili. Che poi è il suo scopo ultimo, vista anche la sua attività costante, intensa, sempre instancabile. La sensazione di pienezza e libertà che doveva aver colto Prince una volta consegnato il disco alla Warner Bros - un biglietto d'addio colmo di amarezza, rimpianti e voglia di scappare via - mi era arrivata chiaramente soltanto quando avevo terminato di ri-ascoltare Come alcuni giorni dopo tutte le cose che mi erano successe. Prima, godendomi il disco, avevo sentito tutti quei collegamenti, tutte quelle storie che io vivevo attraverso di lui, e che lui interpretava per me, quasi raccontandomele sotto una luce nuova. Ma quella parte, quel gran finale, non ero mai riuscito a coglierlo fino a quella notte. Era buio, e stavo dormendo, o meglio, ero in dormiveglia, perso tra sogni, pensieri e rancori. All'improvviso, nel vuoto della mia stanza, in mezzo all'oscurità, ho sentito vibrare il telefono. Lo schermo si è accesso, e la luce ha illuminato all'improvviso tutto il nero in cui ero immerso. Un buio che mi sembrava durare non da quella notte, a cui quasi mi ero abituato, soprattutto da quando non avevo più rivisto Claudia. Ho dato subito un'occhiata al numero: non lo conoscevo. Nessuno che avevo salvato in rubrica. Erano degli audio di Whats App. Non solo uno, ma tanti, da un numero ignoto. Al di là di chi fosse, sembrava voler qualcosa da me, sembrava anche quasi non trovare il modo giusto per dirmelo. Alla fine mi sono deciso ad ascoltarli, senza sapere che cosa aspettarmi, ma con un presentimento e il cuore in gola: forse sapevo cosa stava accadendo, e pregavo che non mi stessi sbagliando. Quando ho sentito quella voce dolce, vellutata, musicale, che non avevo più ascoltato, sono stato scosso dai brividi. Era la voce di Claudia. Era proprio lei, e mi diceva di avermi contattato in questo modo per farmi una sorpresa, perché sapeva che se avessi letto il suo nome sul display dell'iPhone probabilmente non le avrei risposto. Mi ha detto delle parole, delle parole precise, che sapevo aver cercato in qualche modo di prepararsi prima, ma che non per questo ho trovato meno intense: «Senti, so che forse non vuoi parlarmi e, magari, che ce l'hai con me, ma non posso più non sentirti. Non posso più non sentire il tuo profumo sulla pelle, le tue mani che con delicatezza mi sfiorano il viso e le tue labbra che si uniscono alle mie. Ho deciso di lasciar perdere i pettegolezzi e cercare di camminare insieme a te sulla strada della vita». Non mi sembrava vero che mi stesse realmente dicendo così, e ho dovuto resistere alla tentazione di rispondere subito, per ascoltare cos'altro aveva da dirmi. «Dopo tutto questo tempo ho potuto ragionare, e sai una cosa? Avevi ragione tu, Lucio è uno stronzo senza paragoni e voleva solamente mettersi in mezzo». La verità - quella con la "v" maiuscola - ha vinto anche questa volta, ho pensato. Il rancore che provavo per Claudia, nel pensare rabbiosamente a come poteva essere stata così cieca, era ora svanito come neve al sole. «Sei una delle cose più importanti per me, Mirko. Ti prego di credermi perché è la nuda verità?ti prego, vediamoci, domani notte, alle 03:00, sul Molo, ad Alassio». Finito l'ultimo messaggio, sono rimasto raggelato. Ci sarei andato? Forse no, forse sì. Pensavo che la nostra storia, quella tra me e Claudia, fosse alla fine, e invece ora sembrava appena all'inizio. Ho cercato di dormire, dopo aver sentito quelle parole irreali, dolci, divine, ma naturalmente non ci sono riuscito. E non ho potuto resistere. Ho risposto: "Ci sarò"*. E dopo aver iniziato a registrare il messaggio vocale, tenendo il pollice sull'icona del microfono, sono rimasto in silenzio per qualche secondo. Sentivo che dovevo dire qualcos'altro, subito, qualcosa che era importante che Claudia capisse?ma come spiegarle tutto quello che avevo provato, tutto quello che avevo passato, con lei sempre nei miei pensieri, nei momenti bellissimi in cui ci eravamo conosciuti, quando avevamo fatto l'amore per la prima volta, ma anche nei momenti tristi, brutti, quando credevo che non l'avrei più rivista, che mi avesse lasciato per sempre?e la soluzione, naturalmente, era lì davanti a me. Sul comodino. Era Come, il disco di Prince, che ora sembrava quasi, stranamente, splendere nel buio. Questo significava per me, sentivo che doveva essere questa la chiave: con un album musicale, non è importante se la critica lo acclama, o il pubblico lo apprezza o meno. Invece, è importante quello che ognuno di noi ci sente dentro, quello che comunica a ciascun ascoltatore, in un senso unico e speciale. Quindi mi chiesi: "come finiva il disco?" Ma certo. Poche semplici parole, che Prince dice nel posto giusto e al momento giusto. Anche per me l'album era finito, ma sentivo che un altro racconto, forse più bello ancora, stava per iniziare: il nostro. E la fine poteva essere solo un nuovo inizio, come per Prince la rinascita dopo Come era stata solo il punto di partenza di una nuova vita, artistica e musicale. Per me, ora lo sapevo, ne ero sicuro, quella nuova vita era Claudia. Così, dopo pochi secondi, sempre con il dito sul telefono, la registrazione che attendeva in silenzio, sapevo che cosa dire. E l'ho detto, ed ero certo che sarebbe andato tutto bene: "Ti amo".
2) Come
3) Space
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9) Solo
10) Letitgo
11) Orgasm