OZZY OSBOURNE

The Ultimate Sin

1986 - Epic Records

A CURA DI:
Andrea Cerasi & Jader Lamberti

DOPPIATORI:
Roberto Chevalier
MUSICA DI SOTTOFONDO:
Musica Originale di Ozzy Osbourne

DATA RECENSIONE:
10/09/2020

TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Mia madre è felice che sia tornato per qualche giorno, appoggio a terra la vaglia e mi abbraccia forte come quando avevo quindici anni e prendevo un bel voto al liceo classico. Vuole baciarmi sulla fronte, tanto che sono costretto a piegarmi per permetterle di poggiare le labbra; è una donna piccola e gracile, dal passo incerto per l'età, ma ha ancora una mente sveglia e un sorriso brillante, giovanile. Le dico che Annalisa mi raggiungerà più tardi col treno che attraversa la Val Roia e che non ha potuto essere qui prima per via del lavoro. Mentre mia madre torna in cucina a preparare il pranzo, io mi sistemo in camera, nel mio vecchio rifugio, dunque scosto la porta e il passato si mi palesa subito davanti agli occhi. Sono andato via per frequentare la facoltà di medicina di Torino, e poi il destino mi ha portato a trasferirmi definitivamente all'estero, in un piccolo paese della Francia: Houlgate. Ma eccomi qui, a casa, e nessun luogo al di fuori di questo posso considerarlo tale: Borgo San Dalmazzo ha il sapore della mia infanzia, i suoi vicoli sono il mio ricordo, i suoi scorci sono il mio nido, la sua natura è il mio tempio sacro dove la mia anima si rigenera. Guardo le pareti della mia vecchia camera, sono ricoperte da poster, le mensole appesantite dai libri di scuola, l'armadio decorato con degli accessori che andavano di moda tanti anni fa. Sento dei brividi strusciare dalla punta dei piedi e salire fin sopra le spalle. Sono a casa, decisamente. Mi torna in mente il protagonista del film Nuovo Cinema Paradiso, al quale era stato consigliato di fuggire dal paese che lo ha visto crescere, per non farvi più ritorno. -Non pensare a noi, non ti voltare, non scrivere. Non ti far fottere dalla nostalgia- recitava il vecchio Alfredo rivolto al giovane Salvatore, dicendogli addio per sempre, ma questo profondo sentimento mi abbaglia, inondandomi gli occhi, come la rugiada che si stende sui fiori primaverili che colorano le montagne. In questo paese della provincia di Cuneo ho vissuto gli anni più belli della mia vita, gli anni della fanciullezza e dell'adolescenza. Un tempo ormai lontano, ma che ricordo lucidamente. Sopra lo schienale del letto c'è ancora appeso il poster di Ozzy Osbourne, "The Ultimate Sin", con i suoi colori accesi e l'immagine fantasy, dove una guerriera e una creatura mostruosa dal corpo di insetto ammirano in estasi un paesaggio infuocato. Contemplo il poster con la stessa ammirazione divina e sento un nodo alla gola che non mi permette di respirare bene, la mia saliva ha un retrogusto amaro. Lancio la valigia sul letto e corro in garage, superando lo sguardo sorpreso di mia madre. Scendo nel seminterrato, all'interno del quale giace dormiente l'auto di mio padre, ferma da circa dieci anni, ovvero da quando lui non c'è più. La sua carrozzeria, piena di ammaccature e di chiazze arrugginite, è come un animale in fin di vita, ormai incapace di lottare, abbandonatosi alla stanchezza. Accarezzo la lamiera, ruvida come le guance di mio padre che baciavo sempre quando ero bambino, e proseguo verso l'angolo degli attrezzi. Frugo nei cassetti ed estraggo una scatola di cartone, dentro trovo un album pieno di fotografie scattate con la Polaroid, pinzate con cura e arricchite da note scritte a mano; sulla copertina c'è scritto il mio nome: Luigi. Nell'album ho racchiuso quasi metà della mia vita, una sorta di diario che, tra didascalie, pensieri ed immagini, racconta le mie esperienze di ragazzo. In un altro cassetto trovo delle musicassette, le ricordo bene, in quei nastri avevo registrato pensieri e riflessioni. Sono curioso di ascoltare la mia voce giovanile. Lascio tutto lì e scatto verso casa, in camera recupero un vecchio mangianastri, così ridiscendo in garage. Mi siedo all'interno dell'auto di mio padre, i sedili del vecchio macinino ancora profumano del dopobarba che era solito portare, e impaziente sfoglio le pagine ingiallite, scruto le fotografie e afferro la prima cassetta che ho a portata di mano. Salto il pranzo, non ho fame di cibo ma solo di memorie. Sento il bisogno di fare un balzo nel passato, ma manca qualcosa per calarmi tra le polveri di quel tempo lontano, quando ero solo un adolescente ribelle e pieno di sogni. Manca la musica giusta. Ispirato dal poster in camera scelgo "The Ultimate Sin", album fondamentale per la mia crescita, per ascoltarlo in sottofondo dal telefonino. Pubblicato nel 1986, nel pieno della potenza commerciale dell'heavy metal, "The Ultimate Sin" ha una genesi travagliata: i lavori in studio rallentano a causa della disintossicazione da alcool e droghe da parte di Ozzy Osbourne, ricoverato al Betty Ford Center in California. Ad aggiungere benzina sul fuoco, il chitarrista Jake E. Lee e il bassista Bob Daisley, memori dei litigi sui diritti d'autore del precedente "Bark Of The Moon", decidono di collaborare all'album solo sotto contratto, firmato e controfirmato da Ozzy e da sua moglie Sharon, manager del cantante. Quasi al termine dei lavori di registrazione, Daisley abbandona il gruppo dopo l'ennesima sfuriata, facendosi rimpiazzare da Phil Soussan, il quale co-scrive il singolo "Shot In The Dark". Il malcontento però continua ad aleggiare tra i membri della band, tanto che la data di pubblicazione viene continuamente posticipata. Il titolo scelto è "Killer Of Giants", trasformato all'ultimo da un Ozzy sotto pressione e in crisi d'astinenza da droghe, assoggettato al volere della moglie, il cui potere decisionale influenza non solo il lavoro dei musicisti, ma dello stesso produttore Ron Nevison, che modella e ripulisce il sound in modo tale da lanciare il disco nelle classifiche americane. La voce di Ozzy mi accompagna tra le macerie dei ricordi, e a fatica trattengo le lacrime. Il quarto album del cantante inglese risente di tutti gli stilemi del periodo, discostandosi leggermente dal sound classico dei Black Sabbath e da quello dei primi tre album solisti, per assorbire maggiormente gli effetti dello sleaze metal, tanto in voga in quel periodo. Potenza hard rock, melodie cromate studiate per centrare le classifiche, produzione scintillante, sono le caratteristiche di un platter che all'epoca scontenta i vecchi fans, ma che comunque permette al principe delle tenebre di conquistare una nuova generazione di adepti. Alla fine, l'album vende tre milioni di copie ed è un grande successo di pubblico. Mentre parte la prima canzone in scaletta, scorro le pagine dell'album fotografico. Il fruscio dei fogli si mescola con i suoni della band. Sento il profumo degli anni 80, l'odore di queste vecchie Polaroid mi assale, il rumore delle chitarre elettriche mi inebria la testa. La mia adolescenza è tutta concentrata in questa casa, i ricordi sono come i granelli di pulviscolo che all'interno vi aleggiano al ritmo di musica, e che se solo mi sforzassi magari potrei persino afferrarli e farli miei.

The Ultimate Sin

Avevo due cari amici, due fratelli, Maurizio e Marcello, entrambi musicisti. Marcello suonava il basso in una band chiamata Blast e per me era una specie di maestro. È stato lui a insegnarmi a rispettare la musica, a rispettare il rock e tutto ciò che significa. Quando eravamo ragazzi era lui a prendersi la briga di tradurre i testi delle canzoni per tutti noi e a spiegarceli. Ricordo il mio primo impatto con "The Ultimate Sin", pezzo rovente e dalle chitarre impennate che passava spesso in tv in un videoclip esplicativo e che sembrava parlare di me: se Ozzy cantava di una donna-demone che cercava di prevaricarlo, sottomettendolo e ossessionandolo, cibandosi della sua essenza e delle sue carni come fosse un insetto mostruoso, io frequentavo una ragazza più grande e ne subivo un fascino tremendo. Il potere di Giorgia era potentissimo su di me, i suoi occhi erano capaci di stregarmi, di manipolarmi, proprio come nel brano di Ozzy. Giorgia era maliziosa, fin troppo sveglia per un ragazzino della mia età, alle prime esperienze amorose, e il suo carattere tendeva a prevaricarmi. Ne ero cotto, avevo la classica fissa adolescenziale, ma non sapevo gestirla. Le note di "The Ultimate Sin", con quelle schitarrate possenti e gli acuti di Osbourne che declamano un refrain melodico e incisivo, riportano a galla tanti ricordi. Afferro il mangianastri e faccio partire la prima cassetta: la voce di Marcello è un colpo al cuore. Quando registrammo questo frammento eravamo in camera sua a provare con gli strumenti, e in quell'istante il filmato di "The Ultimate Sin" passava in tv. «Questo videoclip sai a cosa mi fa pensare? A te e a Giorgia» diceva Marcello, «Ci hai mai pensato?». Fermo il mangianastri, sorrido; ovvio che ci avevo pensato, la mia era una fissazione. Giorgia viveva a via delle Platane, in prossimità di via Perosa, dove c'era il ristorante Europa, oggi diventato Drago 3. Stringo tra le dita la Polaroid ingiallita di me e Giorgia, abbracciati, e subito riesco a sentire nell'aria il profumo di quei giorni. Quasi ogni weekend percorrevo via Mazzini e aspettavo Giorgia sul bordo della strada, lungo la fila di alberi, ognuno dei quali è stato testimone della mia vita. Sul marciapiede, un po' più all'interno rispetto alla fila di tronchi, c'era quello che noi chiamavamo "il platano grasso", perché aveva un tronco curvo che assomigliava a una pancia rigonfia. Quello era il punto preciso dove attendevo Giorgia, il mio demone personale. Mi mettevo seduto su una delle panchine rosse e guardavo in strada, di fronte a me, che la mia amata sbucasse dalla via che costeggiava il ristorante. Ho ricordi vividi dell'ultimo giorno in cui la vidi: un vento leggiadro spirava dalle montagne, rinfrescando l'aria, ed io ero nervoso perché avevo deciso di troncare quella storia. Mi sentivo sfruttato, preso in giro, e a me non stava più bene. Lorenzo, un ragazzo della mia comitiva, passava di là con la sua inconfondibile Vespa 50 sul cui cruscotto era attaccato un adesivo gigante dei Manowar. Si era fermato per un saluto, mi aveva scroccato una sigaretta ed era ripartito, augurandomi buona fortuna. Così come Ozzy, stufo di quella specie di prigionia, ero deciso a ritrovare la libertà, ululando alla luna proprio come faceva lui nella canzone. Mi sentivo come un lupo solitario che vagava per le vie di Borgo San Dalmazzo, deciso a riscattarmi dal mio peccato supremo. Riaziono il mangianastri: era ancora la voce di Marcello «Ascolta cosa inventa il chitarrista Jack Lee, un vero fenomeno. Che ne pensi di un assolo del genere?»  e cercava di replicarlo con la chitarra. «Se non sbaglio ha militato nei Ratt e nei Rough Cutt» ero intervenuto io, e sentire la mia giovane voce mi fa rabbrividire. «In quel periodo è stato Ronnie James Dio a notarlo, tanto che lo ha voluto con sé durante i lavori dell'album "Holy DIver"» aveva aggiunto. «Io so che c'è stato un diverbio tra Lee e Dio per i diritti d'autore di quel disco e che è stato subito licenziato». Il nastro si interrompe improvvisamente, ma dal telefonino la voce di Ozzy riempie l'aria. È un pugno allo stomaco, intonando un inno alla distruzione e all'annientamento, sentimenti ben lontani da ciò che provo io in questo momento, eppure gli assalti delle chitarre e del basso che simulano gli artigli di una belva feroce sono metafora della mia nostalgia. Se il folle vocalist canta di una voglia repressa di libertà, di liti furiose con la moglie e di giornate noiose trascorse a lavoro, dietro una scrivania, intorno a me c'è solo calma e un clima frizzante che mi solletica le narici. Questo luogo è la mia libertà, me ne rendo conto solo ora che stringo a me questa vecchia fotografia. Tutto è così ordinato che trasmette calma, come se il ritmo qui fosse scandito con maggiore lentezza. Nel videoclip di "The Ultime Sin", un Ozzy dal biondo capello cotonato e in giacca e cravatta sbotta irrequieto contro i colleghi di lavoro e soprattutto contro l'ossessiva moglie che lo tormenta, fino a quando lui non la getta in piscina, liberandosi di lei. Mi viene da sorridere al pensiero del video, da ragazzino saltavo come un pazzo quando passava in tv, così alzo il volume del telefonino e il refrain ipnotico del brano si staglia nel mio cervello come una cannonata. Ora che ci rifletto bene, il mio peccato supremo è stato quello di abbandonare il luogo della mia nascita.

Secret Loser

Scorro le pagine dell'album fotografico e trovo un'altra foto di me e di Giorgia. «Penso che dovremmo finirla qui. A me non sta più bene il tuo comportamento» le avevo detto, dopo esserci seduti sulla panca, accanto al platano grasso. Giorgia non se l'aspettava mica, aveva sgranato gli occhi e assunto un'espressione di stupore, ma aveva cercato di mantenere un atteggiamento discreto, da vera signora. Era delusa, ma forse non più di tanto, forse le dava fastidio essere mollata da un ragazzino. «Se è questo ciò che hai deciso, va bene così. Vorrà dire che resteremo amici» aveva risposto, abbassando lo sguardo. La solita frase di circostanza; sapeva anche lei che non saremmo rimasti amici, e che forse non ci saremmo più incontrati. Tali sensazioni si sposano bene con il brano "Secret Loser", dove Osbourne canta di trovarsi imprigionato in un corpo solitario, che non gli appartiene, incapace di trasmettere emozioni e di vivere una vita serena, tanto da considerarsi un perdente, anche se a tutti appare come un re, come un uomo duro e privo di dubbi. Per lui è impossibile combattere contro il destino, il peso della vita lo sta schiacciando e il suo animo è una sagoma piena di ferite che cerca invano di nascondere. Ma nella vita non c'è nessun premio, nulla da vincere. Anche io, nonostante l'aria da duro, capelli lunghi, giubbotto con spillette e toppe di metal band, bracciali e anelli di acciaio, non ero altro che un adolescente fragile che si gettava incontro alla vita, sperando di non sbagliare. Giorgia era un demone personale che andava ucciso; una brava ragazza, bella e intelligente, ma non andava bene per me. È assurdo pensare quanto il brano di Ozzy parli della mia esperienza passata, e di quanto questo disco faccia parte della mia crescita. "Secret Loser" è un canto intimo, un grido liberatorio, un'ammissione di debolezza, nonostante le chitarre ruggenti e il basso di Phil Soussan, che punge e vibra come il volo di un calabrone per poi posarsi durante il break, subito dopo il brillante assolo di Lee, scaraventi l'ascoltatore in un buco nero, fitto di riflessioni negative e di ammissioni di colpe. Assurdamente, questa canzone parlava di me: il giorno che ho mollato Giorgia mi sono sentito libero e potente, ma in realtà dentro di me piangevo. Quella ragazza mia aveva sedotto, illuso e poi trascurato, e in qualche modo dovevo pur reagire. Ci eravamo salutati con un ultimo intenso bacio sulle labbra. Entrambi avevamo gli occhi lucidi. Mi ero voltato ed ero tornato indietro, ripercorrendo il viale alberato. Se scavo bene nel mio cuore, nonostante i tanti anni trascorsi da quell'evento, sono sicuro che sotto la superficie potrei ritrovare la stessa ferita di allora, magari non sanguinante, ma cicatrizzata, perché ogni momento importante della nostra esistenza comporta ferite, lividi e cicatrici. Siamo tutti perdenti, perché la vita ci mette alla prova, ci schiaccia, mettendo a nudo le nostre fragilità. Dopo aver lasciato Giorgia avevo ripercorso via Mazzini e poi avevo svoltato a via Lovera, dove il parrucchiere Figaro, ogni volta che mi vedeva passare, alzava in alto le forbici con la minaccia di tagliarmi i capelli. Io gli facevo la linguaccia e scappavo via, spaventato. Nei miei capelli c'era la mia essenza di rocker ribelle che voleva differenziarsi dalla massa. Ne andavo fiero. Ne vado tutt'ora fiero, come il ritornello di "Secret Loser", possente ma allo stesso tempo melodico, contornato da suoni cromati che all'epoca in Italia erano definiti Class Metal. Ora Figaro è stato preso in gestione dalla figlia Susanna, quella piccola peste che decenni fa fissava con curiosità tutti i clienti. La sconfitta della separazione da Giorgia, perché ogni separazione, indipendentemente da chi lascia, è sempre una sconfitta, mi aveva abbattuto. Dovevo fare qualcosa per riprendermi e l'unica cosa che poteva alleviare il dolore era la musica. Avevo deciso di recarmi da Record Bank, il negozio di dischi della città, per consolarmi annusando l'odore degli Lp e delle cassette. Ci andavo ogni volta che ero triste o non mi sentivo bene, ma anche quando ero contento e avevo voglia di festeggiare. La musica è sempre stata il mio rifugio. Sulle note di "Secret Loser" mi abbandono al ricordo di quella giornata. Intanto la chitarra di Jake E. Lee fende l'aria diventando infuocata, il suo assolo è pazzesco, sfrenato, proprio come il ritornello da capogiro. Riffing graffiante e andamento heavy metal impartito dalla batteria di Randy Castillo che scuote ogni memoria. Proseguendo per via Mazzini, superando un fioraio, un bar e la scuola guida, mi ero affacciato a Largo Argentera, affamato di musica. Avevo voglia di acquistare un disco e di scambiare due parole con Valeria, la proprietaria del negozio. Un'amica. Avevo acceso una sigaretta per smaltire la tensione, gli occhi e il sorriso di Giorgia ce li avevo stampati in mente, ma dovevo dimenticarli. Era una storia finita e avevo bisogno di andare avanti.

Never Know Why

Capovolgo il lato della cassetta, nel piccolo altoparlante del mangianastri sento voci concitate, un baccano tremendo e suoni a me familiari. So dove è stato immortalato quel momento, anche perché la mia voce gridava contenta «Dai che sto battendo il record!» e sotto di me i rumori dei tasti premuti freneticamente. «Sei un mito, Luigi», la voce al mio fianco e che mi incitava era quella di Wedro. Probabilmente era lui che stava registrando. Wedro registrava ovunque, si portava dietro il registratore come i reporter in tv. Ero alla sala giochi Galattica, oggi diventata magazzino sportivo, dove c'era sempre un bel movimento. Dopo aver lasciato Giorgia mi ero fermato lì per svagarmi un po', quando un inconfondibile rumore di passi, più che altro un frettoloso ticchettio, si faceva sempre più vicino. Nel nastro era rimasto impresso il latrato di un cane; fermo la registrazione per riprendere fiato. Era Perla, il cane di Marcello e Maurizio, che in realtà era il cane del paese. Tutti a Borgo San Dalmazzo le volevano bene, era una animale solare, educato, che si faceva amare. Perla vagava per il paese con le sue zampette agili e ogni tanto scroccava persino un passaggio in auto quando si allontanava troppo dal centro. Solitamente si piazzava davanti all'Hotel Europa e faceva compagnia ai passanti. Premo play: «Hei, Perla! Come va? Vuoi accompagnarmi da Record Bank?» le avevo chiesto, lei aveva accelerato il passo e mi era saltata addosso per farmi le feste. L'avevo baciata sul muso, le aveva grattato l'orecchio, e poi avevo proseguito al suo fianco, dopo aver salutato gli amici della sala giochi. Largo Argentera è una bella piazza alberata e con i giardini curati. Circondata da palazzi e portici, la piazza mi aveva accolto a braccia aperte per condividere con me le sofferenze di quella giornata. Non appena avevo voltato l'angolo e attraversato la strada, Perla si era staccata, correndo verso la gelateria La Voglia, dove avrebbe sicuramente trovato qualcuno da aggraziarsi per farsi comprare un biscotto. Nessuno di noi sapeva dirle di no. Il ricordo della dolce Perla mi rattrista, quanti momenti abbiamo passato insieme. Lei era il simbolo della città. Per un istante sono distratto dal ritmo incalzante di "Never Know Why", così il flusso di coscienza si interrompe e all'improvviso torno al presente. La mia mente vaga per il garage, come una mosca che segue febbrilmente il vortice musicale. Il brano è un roccioso mid-tempo nel quale la band tira fuori i muscoli per scandire un inno all'acciaio che identifica ogni metallaro. Si tratta di un messaggio di orgoglio, di ribellione contro un sistema che reputa ogni singolo rocker come una minaccia, un poco di buono, un criminale. All'epoca questa sensazione di disgusto e di rifiuto era molto evidente, ma oggi le cose sono cambiate e le differenze si sono assottigliate. La musica dura non fa più paura a nessuno, ma tanti anni fa spaventava e noi, nonostante fossimo bravi ragazzi, eravamo visti con un certo timore. La verità è che volevamo soltanto sfogarci, dare libero sfogo alle nostre passioni. Volevamo divertirci e vivere l'adolescenza, cavalcando sogni di gloria. Ad esempio, un giorno ci eravamo divisi in due gruppi da tre e avevamo fatto irruzione in chiesa, mentre Don Riba recitava la messa. Non volevamo fare niente di male, solo sfidare il paese ad accettarci per quello che eravamo. Dalle due navate laterali eravamo entrati, spavaldi, vestiti da rocker. Ai giacchetti avevamo cucite le toppe dei Motorhead, Iron Maiden, Metallica e tante altre band, e le catene attaccate alle cinture dei jeans rintoccavano ad ogni passo. Camminavamo davanti all'altare, sotto lo sguardo stupito dei presenti. Il prete aveva smesso di recitare e ci aveva lanciato un'occhiata inequivocabile. Eravamo rimasti lì davanti per qualche secondo, orgogliosi della nostra identità, senza timore di dimostrare la nostra natura. In quel momento noi ci sentivamo come nella canzone di Ozzy, perché eravamo il simbolo di rottura con la tradizione. "Never Know Why" mi ricorda quel momento preciso, già dalla sua apertura, così tetra, così cupa, dove la chitarra di Jake E. Lee emette un agonizzante vagito metallico prima di lanciarsi al galoppo insieme al basso di Soussan. "Noi spacchiamo e voi non saprete mai il perché. Non provate a domarci, noi proviamo questi sentimenti", recita il testo, un tripudio di orgoglio metallaro che ci rendeva tutti quanti fieri di appartenere a un gruppo speciale. Ispirati dal brano, era come se dovessimo risvegliare le coscienze della comunità, perciò avevamo deciso di farlo in quel modo, pacificamente, ma sfidando tutti faccia a faccia. Io, Marcello, Wedro, Massimo, Roberto e Luca eravamo i ribelli di San Dalmazzo, e dovevamo dimostrarlo in qualche modo. Nessuno doveva dirci come dovevamo essere, nemmeno Don Riba. Eravamo usciti dalla chiesa a testa alta e a petto gonfio di orgoglio. All'epoca, dimostrare tutto questo era importante: essere accettati e amati comunque. Appena entrato da Record Bank, Valeria mi aveva salutato da dietro il bancone «Come va, Luigi?». Le avevo fatto un gesto di stizza con la mano «Lasciamo stare, preferisco frugare tra gli scaffali alla ricerca di qualcosa di fresco». Muovevo freneticamente i polpastrelli, frugando tra i dischi e le musicassette. «Questa settimana è arrivata tanta roba, è accatastata in quella cesta e non ho ancora avuto il tempo di metterla in ordine», Valeria indicava un carrello contenente Lp, cassette, poster e i primi cd, ancora troppo costosi per le mie tasche. Da lì avevo estratto un vinile dei Megadeth e la cassetta di "The Ultimate Sin" di Ozzy Osbourne. Avevo sventolato i miei acquisti e Valeria aveva sorriso. Quando ero andato alla cassa a pagare, lei si era voltata e alle sue spalle aveva preso il poster dell'album di Ozzy, quello che avrei appeso sopra il letto della mia camera. «Questo te lo regalo. Che la sua magia possa vegliare su di te». Forse aveva notato il mio sguardo cupo. Che cara ragazza, Valeria, sapeva sempre come rallegrarmi. Sapeva bene che la musica era la mia ancora di salvezza, la mia e della mia comitiva, simile a una musa, un credo da venerare.

Thank For The Bomb

Per un istante torno al presente per cambiare Tdk. Frugo ancora nella scatola e ne afferro un'altra a caso, sulla cui etichetta vi è scritto "Monserrato". La infilo nel mangianastri, quando sta per cominciare "Thank God For The Bomb", una critica e condanna aperta alla guerra, anche se l'argomento viene affrontato in maniera ironica, tanto che gli strumenti si muovono sornioni, alleggeriti dalle tastiere di Mike Moran. Ora che ci rifletto, in così tanti anni, di guerre ne ho dovute affrontare molte, le ferite accumulate sono numerose, ma io fondamentalmente sono rimasto sempre lo stesso ragazzo ribelle di una volta. Il tempo trascorre veloce, ma noi restiamo gli stessi. Lo stesso messaggio lo trasmette Ozzy nel suo brano, il significato della canzone me lo aveva indicato Marcello all'epoca, lui che, conoscendo bene l'inglese, ci faceva da traduttore: «Ozzy accusa il genere umano di essere un disastro, di rovinare il mondo interno, e allora ringrazia Dio per la bomba nucleare che raderà al suolo l'umanità. Divertente, no?». La paura di una guerra nucleare, acuita poi da un'era in cui l'ombra della guerra fredda era ancora presente, era il solo freno all'avidità dei potenti. Il tempo è sempre nostro nemico, e per questo va rispettato e venerato. Le strofe possenti si abbattono contro un ritornello un po' anonimo, e questo contrasto ricorda l'ideologia mia e del mio gruppo di amici, eternamente in conflitto con gli abitanti di Borgo San Dalmazzo. Le tastiere si stendono in sottofondo, cullando l'intera sezione ritmica, e pungono gelidamente tra una strofa e l'altra, mentre il drumming di Castillo si abbatte sulle casse come un tuono proveniente dagli inferi. Guardo la Polaroid della mia comitiva, seduta ai piedi del Santuario di Monserrato, dove la domenica ci ritrovavamo per scambiare quattro chiacchiere o per tirare due calci al pallone, nell'antica arena situata a fianco alla chiesa. Sapete, dal Santuario si vede tutta la città, un piccolo borgo sospeso sulla collina, le cui scalinate anteriori sembrano affacciarsi sul mondo per poi cadere a picco sulla vallata. Al ricordo di quei tempi sorrido, una lacrima sfugge via dall'angolo dell'occhio e la catturo con le dita. Quell'antico edificio è stato testimone di numerosi momenti, da quelli più divertenti, come i giochi con la neve, durante i rigidi inverni, o gli sfoghi, nelle lunghe serate estive in macchina, ascoltando musica e fumando erba, sognando di diventare grandi, a quelli più profondi, come uno dei primi baci tra me e la mia futura moglie, Annalisa, in una notte magica che ha visto sbocciare un amore solido tra due ragazzi. Una coppia che si è incontrata e non si è più lasciata. "Thank God For The Bomb" è una delle canzoni che mi rimandano a quell'epoca innocente, perché parla di me e parla dei miei amici. Noi eravamo i cavalieri dell'apocalisse, coloro che avrebbero illuminato le coscienze degli abitanti di Borgo San Dalmazzo. Noi eravamo la bomba nucleare da sganciare su questo piccolo paese. Premo play e il nastro gira: «Ci rilassiamo un po' in macchina, con il riscaldamento al massimo, mentre fuori nevica a dirotto» diceva Wedro, immortalando il momento. «Non c'è niente di meglio che stare con gli amici, a parlare della vita, a parlare di musica» aveva aggiunto Marcello, «A proposito, come va con la tua ragazza, Luigi?», chiamandomi in causa. La mia giovane voce, sommersa dal fruscio del vecchio nastro, rispondeva «Stiamo insieme da poco, ma penso di amarla». Ancora non sapevo che quella ragazza sarebbe diventata mia moglie. Ma un po' ci credevo.

Never

Mentre recupero la foto della mia comitiva, raggruppata sulle scale del Santuario di Monserrato, scruto i volti di tutti i miei amici. Uno di questi l'ho visto di sfuggita stamattina, quando sono arrivato in paese: era Lorenzo. Camminava per la strada principale, sguardo perso nel vuoto e testa china. Sembrava sconsolato, immerso nei suoi pensieri. Quell'uomo ha sempre avuto un carattere particolare, schivo e solitario, ma io gli sono rimasto sempre vicino. Era lo stesso Lorenzo che quando eravamo ragazzini andava in giro sulla sua Vespa con l'adesivo dei Manowar, lo stesso Lorenzo timidissimo che una volta mi aveva messo nei casini perché andava dietro alla ragazza sbagliata. Il ricordo dell'accaduto, di quel mitico pomeriggio, mi rimbomba in mente come le note di "Never", amarissima cantilena di Ozzy sorretta dal prezioso drumming di Castillo e dal basso di Soussan che si rincorrono per tutto il tempo, danzando in un clima catastrofico ma mai arrendevole. Se in questo momento rivivo il contrasto tra la mia vita presente e il lontano passato, il brano mette in musica una modernità che fagocita ogni sentimento, spazzando via antichi valori. "L'eco della tua risata risuona nella disperazione e nel dolore. Hai cercato l'emozione nella profondità dell'anima, ma ancora ti manca qualcosa" recita il bel testo, intriso di tristezza e che trasmette un certo senso di impotenza nel trovarsi di fronte alla realtà. La stessa cosa era accaduta al povero Lorenzo, in quel lontano pomeriggio estivo. Eravamo al Ristobar40, luogo di ritrovo che esiste ancora oggi. Come ogni giorno io e i miei amici eravamo soliti incontrarci da quelle parti. Il locale era composto da diverse sale: il bancone sulla sinistra, all'entrata, seguito da una saletta dove gli anziani giocavano a carte. Superata la saletta, sulla destra, vi era un'altra sala dalla luce opaca, grande e impregnata di tabacco. Lì vi erano i flipper e i videogiochi, e a seguire i tavoli da biliardo. Tra la sala grande e quella piccola erano posizionate le cabine telefoniche; sapete, quelle cabine strette, con la seggiola e la luce al neon che dopo un po' ti acceca. Bè, in una di quelle cabine ho cercato di mettere in contatto il mio amico Lorenzo con la tipa della quale era innamorato. Lui era troppo timido per farsi avanti e così mi aveva commissionato la chiamata perché avevo la parlantina e sapevo convincere le persone con le parole. «Ti prego, Luigi, devi aiutarmi. Chiama Cristina e parlale bene di me, che ne so? di che sono un bravo ragazzo, dì che sono un tipo sensibile e che?» gli avevo tappato la bocca perché avevo già capito dove voleva andare a parare «Va bene, sta tranquillo. Ci penso io, dammi il numero di telefono». Aveva risposto la mamma, poi mi aveva passato sua figlia «Hei, Cristina, come va? Chiamo per conto di un amico» le spiegavo la situazione, ma non ero sicuro che lei mi stesse credendo davvero, tanto che in un paio di occasioni aveva messo in dubbio la mia parola «Ah davvero? E come si chiama questo fantomatico amico?» aveva chiesto con tono di sfida, oppure «Sarei proprio curiosa di conoscerlo, perché non venite a casa mia venerdì prossimo? Tutti e due, intendo». Ovviamente pensava che il corteggiatore fossi io, ma Lorenzo era soddisfatto lo stesso. Qualche giorno più tardi eravamo partiti per la provincia di Torino, dove viveva Cristina. In quel momento Lorenzo si sentiva come il protagonista del testo di "Never", bloccato dalle sue catene, che in quel caso poteva essere l'estrema timidezza, o la sua insicurezza nell'affrontare la vita, tanto che era sempre assalito dal dubbio, e come Ozzy era alla continua ricerca di sentimento affine al suo, di un'anima compatibile. Ma era un ragazzo profondo, andava solo scoperto. La mia auto, una Renault, aveva degli ammortizzatori che rimbombavano come il basso della canzone, concepito quasi come una serpe capace di stritolare l'ascoltatore, mentre Randy Castillo martella dietro le pelli e Jake E. Lee si diverte con un assolo incendiario. La melodia del brano è molto buona, trascina il pubblico in un vortice hard&heavy da classifica. Parlare con Lorenzo era un po' come dialogare con Ozzy, ascoltare i suoi sfoghi e apprezzare i suoi consigli. Se il pezzo è amaro, tanto che alla fine dice "Non è mai troppo tardi per piangere o per dire addio. Sai che sei nato per morire", lo stesso si poteva dire dell'infatuazione di Lorenzo. Quel ragazzo stava andando incontro alla sconfitta, sapevamo entrambi che non era ben accetto dai genitori di Cristina, tant'è che al citofono io non avevo pronunciato il suo nome. Mi avevano fatto salire in casa, mentre Lorenzo aspettava giù in macchina. La madre mi aveva fatto il terzo grado, mettendomi in imbarazzo, poi era arrivata Cristina dal lavoro e mi aveva preparato un caffè. Le avevo spiegato nuovamente la situazione e alla fine lei aveva deciso di conoscere il suo corteggiatore. Lorenzo era salito, ma neanche il tempo di fumarmi una sigaretta che il poveretto era già di ritorno, deluso e incazzato perché la famiglia lo aveva cacciato. Ecco, se c'è una parabola amara nel testo di Ozzy, questa disavventura ne è la rappresentazione. Cerco di mettere a fuoco lo sguardo del mio amico, quello sguardo spento visto poche ore prima in strada, preda forse della depressione e delle tante delusioni, del troppo alcool assunto e delle medicine buttate giù. La vita di Lorenzo non è stata semplice, eppure io gli ho voluto un mondo di bene, è stato come un fratello maggiore per me. È stato lui a regalarmi la libertà, portandomi con sé nelle prime uscite da ragazzini, mi ha sempre protetto e mi ha fatto capire tante cose nella vita. Una su tutte, come affrontare il dolore: con la musica, perché la musica è salvezza.

Lightning Strikes

Se Lorenzo aveva grossi problemi con le ragazze, io me la spassavo. Ero sicuro di me stesso e non ci pensavo troppo prima di fare la prima mossa. Fortunatamente ho sempre avuto un discreto successo con le donne, e per un periodo andavo spesso in discoteca. Ci andavo il giovedì perché c'era meno calca, alla discoteca Cubo, o il venerdì al Flash, mentre il weekend stavo con la mia fidanzata, Maura, e ogni tanto passavamo la serata al Galaxy Pagoda, che oggi si chiama Arena. All'epoca mi sentivo un selvaggio in preda agli ormoni, proprio come il protagonista di "Lightning Strikes", energica canzone dall'alta carica sessuale. Ozzy canta di essere un animale sotto le lenzuola, di essere pronto per il rock n roll notturno, ed è talmente carico che osa sfidare gli Dei. Io avevo preso questo pezzo come inno personale per le serate in discoteca. Prima di andare ascoltavo sempre questa traccia per fomentarmi, illudendomi di essere proprio come il Principe delle Tenebre, e allora mi ripetevo ad alta voce un passaggio del testo: «Dei del tuono, sedetevi e osservate gli eventi. Sapete che non farò prigionieri». Avevo diciannove anni ed ero in cerca di avventure continue, schiavo della mia pulsione sessuale. Se Lorenzo era stato il primo, a quindici anni, a darmi la libertà e a farmi conoscere il gusto della notte, all'epoca ero artefice del mio destino e rispondevo al richiamo dei miei istinti. Come la chitarra di Lee mi muovevo come un felino e cantavo a squarciagola il ritornello orecchiabilissimo e studiato per gli stadi. Il brano è roccioso, una tempesta metallica che ricalcava il mio stato ormonale. Mi identificavo in un Ozzy dai capelli cotonati e tinti di biondo che si trascina sul palco affamato come una belva, mentre la sua band, intorno, crea furore. Una sera avevo conosciuto Mina, una bellissima ragazza, molto sexy, che mi aveva sedotto in pochi minuti. Ci eravamo appartati in un angolino all'interno della discoteca Cubo, molto popolare allora, e avevamo passato una serata caldissima. Il mattino dopo ero talmente stordito che non ero andato a lavoro. Maura era passata all'ora di pranzo per un saluto, chiedendomi se il sabato seguente saremmo andati a ballare al Galaxy. Avevo accettato, non intuendo assolutamente niente di ciò che mi sarebbe aspettato. E poi sabato era arrivato. Anche in quell'occasione avevo messo a cannone "Lightning Strikes". "Non smetterò di fare l'amore fin quando il fulmine non si schianterà a terra!" canticchiavo il ritornello mentre mi stavo preparando. Avevo intenzione di divertirmi con la mia ragazza e non mi sentivo minimamente in colpa per averla tradita. Ovviamente ero giovane e folle, non sapevo bene quello che facevo. Maura sì, e presto lo avrei scoperto. In discoteca mi aveva presentato le sue amiche, avevo stretto la mano a tutte e arrivato all'ultima, una volta alzato lo sguardo, avevo riconosciuto Mina. Mina era di fronte a me e mi guardava con aria contrariata. Dietro invece c'era Maura, che aveva combinato tutto per farmi fare la figuraccia. E c'era riuscita, ero rimasto a bocca aperta e non sapevo come scusarmi. «Sei un imbecille, Mina è la mia compagna di banco. Mi ha raccontato tutto. Pensavi di essere così furbo da non essere scoperto?» aveva urlato Maura, e così mi aveva tirato uno schiaffo, facendo voltare tutti i presenti, poi aveva preso le amiche e mi aveva lasciato lì da solo. Mi ero messo in gioco ed ero stato umiliato. Avevo seguito l'insegnamento di Ozzy e mi aveva detto male, ma non mi importava, ogni esperienza di vita, positiva o negativa che sia, ha arricchito la mia personalità. Quando si è giovani si fanno un sacco di follie senza pensarci troppo.

Killer Of Giants

Nell'auto che apparteneva a mio padre resto immobile, fermo la musica al telefonino e poggio il mangianastri sulle ginocchia. Ho bisogno di prendere un profondo respiro, di riprendermi qualche secondo prima di rigettarmi nel passato. Prendo aria a pieni polmoni, annusando quel che resta del profumo di mio padre, impregnato nei tessuti del sedile. Riaziono play e la musica riparte. Esiste un posto, vicino al Santuario di Monserrato, chiamato Le Vigne. È un paradiso verde dove noi, da ragazzini, eravamo soliti andare per stare a stretto contatto con la natura. "Killer Of Giants" mi riporta in quei luoghi, e in particolare mi ricorda la tragedia di Chernobyl, che tutti noi abbiamo vissuto sulla pelle. Si tratta di un altro brano dedicato alla guerra, nel quale Ozzy maledice i potenti, i giganti del testo, perché muovono le fila del destino del genere umano. I potenti della terra sono dei giganti, ma Madre Natura è l'ammazza-giganti, perché potrebbe rivoltarsi e schiacciare tutti noi in un batter d'occhio, proprio come accaduto quella terribile notte del 26 aprile 1986. L'arpeggio iniziale prodotto da Lee fa subito presagire la tempesta sonora che presto investe l'ascoltatore. Tra le corde di chitarra emerge il grido di aiuto della Natura. Soavi tastiere fanno echeggiare un dolore soffocato, ma pronto ad esplodere. Ozzy è liturgico, canta un'ode di pace, implorando il perdono per il male causato dall'uomo. Le candide note intonate dal cantante mi rammentano la delusione provata nella primavera di quell'anno: per diversi mesi, infatti, ci era stato proibito di uscire di casa, specie quando soffiava vento dall'est Europa perché portava le radiazioni su tutta la vallata. Noi ragazzini ci sentivamo impotenti perché ci era stata tolta la libertà, noi che eravamo cresciuti tra queste verdi montagne in quel periodo non potevamo giocare all'aria aperta. I nostri genitori ci rimproveravano severamente se tentavamo di avvicinarci al Santuario. Temevamo le radiazioni, forse non comprendevamo del tutto il pericolo, eravamo troppo piccoli per comprendere la gravità della situazione, ma eravamo comunque spaventati e increduli. L'incredulità sembra colpire persino Ozzy, tanto che il ritornello del brano è particolare, mai troppo aggressivo, disperato e amaro, quasi arrendevole di fronte alla cruda realtà dei fatti. La coda finale sa di catastrofe imminente, cori celestiali in sottofondo, clima apocalittico, chitarra lasciata a briglie sciolte. Ricordo che a scuola ne parlavamo tutti i giorni, le professoresse facevano lezione sui disastri ambientali e sugli errori dell'uomo. Madre Natura si era rivoltata e ci aveva spazzato via. L'avevamo risvegliata noi, premendo quel fatidico pulsante citato nel testo di "Killer Of Giants". Per tutta la primavera e per la prima parte di estate, ci era stata tolta la libertà, e noi non potevamo più allontanarci dalla città. Ancora oggi che sono trascorsi decenni sento i brividi sulla pelle a ripensare a quegli istanti della mia giovane vita. Mi sentivo in gabbia, sentivo di perdere tempo prezioso per crescere. Ed io non vedovo l'ora crescere e di diventare adulto, e ora che ho raggiunto la mezza età ho capito che è tutto una fregatura. Mi manca il passato, mi manca l'adolescenza. Al piano di sopra mia madre sta guardando il telegiornale a tutto volume, in lontananza sento la voce del giornalista che racconta, con toni allarmanti, l'ennesimo danno ambientale che ha colpito il mondo. Penso che il brano di Ozzy sia ancora oggi attuale, l'uomo continua a fare del male alla natura e questa si ribella. Per un istante chiudo gli occhi, mentre il pezzo va a sfumare, e in mente rivedo noi della comitiva che giocavamo a calcio sulla radura delle Vigne, in mezzo ai campi coltivati.

Fool Like You

Mentre raggiungevo casa, poche ore fa, con la macchina sono passato davanti a un muro color arancio, un po' rovinato. Parte dell'intonaco è caduto, ma ancora si riescono a intravedere due lettere, di colore rosso sbiadito: sono una I e una M. È assurdo pensare che quella scritta abbia più di trenta anni, ma è così. Sono le iniziali degli Iron Maiden, scarabocchiate dal mio vecchio amico Danilo. Quando sono passato davanti a quel muro ho sorriso, ricordando un episodio della mia vita. Danilo aveva un fratello più piccolo, Davide, che conoscevo sin da quando ero piccolo. Era cattivo ed egoista; una volta, ad esempio, era venuto a trovarmi a casa, io ero con la gamba fasciata perché un cane mi aveva morso, e quando poi era andato via, Davide mi aveva rubato alcuni giochi. Me ne ero accorto qualche giorno dopo, e così, una volta guarito, lo ero andato a cercare per tutta la città. Una volta trovato, avevo buttato a terra la mia BMX e mi ero lanciato furioso contro di lui. Lo avevo picchiato con tutta la rabbia in corpo e poi mi ero ripreso i giochi. Ecco, "Fool Like You" sembra essere la rappresentazione musicale del mio rapporto con Davide. Il brano ha un'atmosfera cupa che ondeggia tra basso e batteria, strumenti che quasi si sfidano a duello, incarnando le parole declamate dal vocalist. Nel testo sono presenti due personaggi, l'uno positivo e l'altro negativo, che si danno battaglia. Se Ozzy canta di volersi liberare di una persona negativa, minacciandolo e dichiarandogli guerra, lo stesso ho fatto io con Davide. Avevamo ventidue anni, tramite la mia amicizia col fratello Danilo, non so per quale motivo, si era unito anche lui al gruppo. In qualche modo eravamo diventati amici e così ci eravamo frequentati per tutta l'adolescenza. Davide lavorava in discoteca ed era anche abbastanza conosciuto nell'ambiente. Era un PR di successo e tutti si rivolgevano a lui per entrare o per farsi prenotare un tavolo privato. Gran parte del suo successo, però, era dovuto alla mia collaborazione. Io conoscevo praticamente tutti, per questo gli mandavo tanta gente. Dopo qualche tempo Davide aveva cominciato ad essere geloso di me, nei suoi occhi si era riaccesa quella rabbia e quell'invidia che aveva quando eravamo piccoli e mi aveva rubato i giochi. La cantilena di Ozzy, ondeggiante e subdola, che viene accompagnata dal brillante fraseggio di Lee, ben rappresenta l'antagonismo tra me Davide. «Credi di essere qualcuno? Non sei nessuno, sei solo un pazzo, ecco la verità!» una volta gli avevo gridato, facendo mio il testo della canzone. Davide, a quel punto, aveva risposto, indiavolato «Io non ho bisogno di nessuno. Il successo me lo sono costruito da me!» e così si era nascosto tra la folla. Da quel momento aveva cominciato a perdere gli amici, ritrovandosi solo, perché tutti avevano capito che persona fosse. "Se ti capita di stargli vicino, contagerà anche te di negatività. Non voglio essere ossessionato da un pazzo come te" canta Ozzy. "Fool Like You" era stata come una rivelazione, mi aveva dato la spinta per abbandonare definitivamente l'ambiente della discoteca e la gente negativa. Non che sguazzassi a mio agio in quei locali, ero un metallaro fiero e intransigente, ma lo facevo per mantenere vivi alcuni contatti. In quel periodo avevo capito che quel mondo non faceva per me, troppo plastificato e superficiale, pieno di ipocriti opportunisti. Ozzy mi aveva aiutato a capire che il mondo del rock è diverso, più sincero, genuino e passionale. Il rock è vero, il rock racconta la verità. Davide, col suo comportamento da egoista, non solo aveva perduto la mia amicizia, ma anche la simpatia di tante altre persone, e per questo la discoteca lo aveva licenziato.

Shot In The Dark

Scritta da Osbourne e il bassista Soussan e scelta come primo singolo del disco, "Shot In The Dark" aveva avuto un successo enorme su MTV. Ispirata all'omonimo film preso dalla popolare serie tv "La Pantera Rosa", la canzone è spiritata e magnetica. Simboleggia l'amore. Chiudo l'album fotografico, spengo il registratore, il mio viaggio tra i ricordi è terminato. Mia madre si affaccia dicendo che Annalisa sta per arrivare alla stazione. Quando sento scandire il suo nome il cuore mi batte forte come la prima volta che l'ho conosciuta. Batte come il possente basso di Soussan o come i colpi secchi delle bacchette di Randy Castillo. Annalisa è lo sparo nel buio, colei che mi ha donato la pace interiore, la serenità dalla gioventù selvaggia. Ozzy canta di una specie di serial killer alla ricerca di felicità, e che deve uccidere di notte per sentirsi bene. Ma la sua preda preferita non è in carne ed ossa, bensì una giovane donna schiava del suo fascino, che vive solo nella sua testa. La donna raccontata nel testo incarna un demone personale che gli infesta la mente e lo ossessiona ripetutamente durante il sonno, proprio come la traccia d'apertura di "The Ultimate Sin". Mentre mi ricompongo, uscendo dall'auto di mio padre, ripongo l'album fotografico nella scatola e poi in un baule, dove sarà al sicuro. Accarezzo un'ultima volta la copertina, come per assorbire sotto pelle tutti i ricordi lì contenuti. Rimetto a posto il mangianastri, lo poggio con cura sullo scaffale e mi avvio. Intanto, in tasca il telefonino continua a scandire la musica di Osbourne, l'ultima traccia del disco. Prima di salire le scale e tornare in casa mi soffermo a guardarmi davanti a uno specchio impolverato, attaccato al muro del garage. Osservo i miei lineamenti, mi tocco il volto. "I ricordi non fanno più male" dice il testo della canzone. Penso a quanto tempo sia trascorso da quando vivevo qui, a quanto sia cambiato, fisicamente e caratterialmente. Adesso sono un uomo adulto, sono maturato e ho avuto la mia rivalsa. Anche la band sta cantando di una rivalsa, lo fa con toni aspri ma non troppo violenti. "Shot In The Dark" è un mid-tempo solenne che fa tremare le casse del telefonino. Gli incubi che il protagonista ha sono i ricordi evanescenti di brutte avventure. Lui non li vorrebbe affrontare, vorrebbe solo dimenticare, ma l'unico modo per liberarsene è combattere, per questo egli si trasforma da preda a carnefice, decidendo di uccidere la ragazza, ovvero il demone. La trasformazione è il lampo nel buio, che simboleggia la presa di coscienza. "Bisogna lottare contro il passato" dico ad alta voce. Io l'ho fatto e ho vinto. Adesso sono pronto per uscire, mentre risalgo penso a quando ho preso in braccio Annalisa. Eravamo sulla riva del lago di Borgogno e lì l'avevo baciata per la prima volta. Nel ricordare l'evento ancora sento un brivido lungo la schiena. Qualche giorno più tardi avevo comprato due rose di ferro in un negozio, che si chiamava Euro C, di Largo Argentera, lo ricordo bene perché le cose importanti non si dimenticano mai, e le avevo portate con me alla chiesa di Monserrato. Le avevo disposte a terra e a distanza di un metro l'una dall'altra per simulare una specie di passaggio, un varco, e l'avevo fatto attraversare da Annalisa. Quel passaggio era la metafora del nostro mondo, della nostra intimità, un piccolo rito magico frutto del nostro amore. E come la musica di Ozzy ha sempre testimoniato, l'amore vince su tutto, perché insegna a guardarti dentro, scava nell'anima e ti tira fuori le emozioni. Quella porta immaginaria simboleggiava il nostro eterno sentimento, e mentre Annalisa la oltrepassava io le dicevo «Fintanto che questa porta rimarrà chiusa, il nostro amore sarà per sempre», facendola commuovere. Bè, come noi due abbiamo varcato insieme questo confine creato dalle due rose, il disco di Ozzy è riuscito ad attraversare le porte tempo, rimanendo un brillante che continua a splendere ancora oggi nella mia anima.

Conclusioni

Il viaggio tra i ricordi è terminato. Non mi sono gettato alle spalle il passato, ma ho imparato tutto ciò che c'era da imparare dalle avventure trascorse negli anni: le uscite con gli amici, le piccole follie, i litigi, gli amori disillusi, le cotte adolescenziali, le passioni, le passeggiate nella natura, gli errori, le figuracce. Tutto fa parte del bagaglio vitale di una persona. Se c'è un messaggio nascosto nel disco di Ozzy Osbourne è quello di affrontare la vita a testa alta, perché l'esistenza che ci è stata concessa è una soltanto e vale la pena viverla fino in fondo. "The Ultimate Sin" per me rappresenta un percorso di crescita che va dalle prime esperienze fino alla maturità. Con questo disco io sono cresciuto, e non smetterò mai di ringraziarlo per avermi fatto capire tante cose. Adesso questo viaggio è finito, ma ne è già iniziato un altro. Mia madre lo sa, sembra intuire i miei pensieri perché mi fissa intensamente, asciugandosi le mani dopo aver pulito la cucina. Mi chiede se vada tutto bene, le rispondo di sì, ora sì, e mi sento svuotato, perché ogni ricordo è stato come un mattone sollevato dal cuore. «Annalisa sta per arrivare. Corri da lei» mi dice. Annuisco. Faccio un salto in camera mia per recuperare le chiavi della macchina, ma prima di muovermi fisso a lungo il poster di Ozzy: mi sento come la guerriera-demone che dalla collina osserva il mondo infernale. Le montagne che schizzano lava indicano il futuro. Temo il futuro, ma non posso far altro che affrontarlo, sono un guerriero anche io, e la mia arma non è altro che l'amore. Scappo fuori di casa, salgo in auto e parto per Cuneo. In macchina ripasso a mente la quarta opera del Principe delle Tenebre. La title-track e "Shot In The Dark", i singoli che aprono e chiudono l'album, parlano dell'ossessione di un uomo nei confronti del suo demone personale, mettendo in evidenza una struttura circolare e un suono incendiario. Ciò indica la volontà dell'artista di liberarsi degli inganni e dello stress legati alla quotidianità al fine di ritrovare la serenità perduta. Ma per giungere alla conclusione bisogna superare indenni l'acredine di "Fool Like You", ipnotica traccia sorretta dal sontuoso basso di Soussan, e lo smarrimento prima della heavy "Secret Loser" e poi della funambolica "Never", cavalcata metallica che a un certo punto recita "Nella tua vita manca qualcosa ma non sai cos'è", e per capire se stessi bisogna accettare la propria condizione di mortalità, quindi riflettere sulla fragilità dell'uomo decantata nella sobria e sognante "Killer Of Giants" e nella apocalittica "Thank God For The Bomb". Eppure l'orgoglio esce fuori in pezzi come "Lighting Strikes", dall'alta carica erotica e terzo singolo dell'album, e "Never Know Why", che da sempre mi ha fomentato, indicandomi quale fosse la via da seguire. Alla stazione, il treno proveniente dalla Val Roia rallenta fino a fermarsi, portando con sé vite e viaggiatori. Annalisa scende e mi corre incontro col bagaglio. Ha un sorriso fresco, giovane, come quando ci siamo conosciuti. Essere qui con lei ha il sapore dei tempi passati, di quando, mano nella mano, passeggiavamo per Cuneo e per Borgo San Dalmazzo. In un certo senso, sento che questa vacanza sia un passaggio fondamentale che andava fatto, e che forse testimonia l'inizio di un nuovo ciclo. Abbraccio Annalisa, la stringo forte e la bacio, come se non la vedessi da chissà quanto tempo. Per qualche giorno staremo insieme nella mia vecchia casa, come quando eravamo ragazzi e ci chiudevamo in camera, lontani dagli sguardi indagatori dei miei genitori. Mio padre era un uomo saggio, aveva una parola per tutto, ed era solito citare massime di filosofi e citazioni cinematografiche. Una volta aveva preso in prestito le parole di Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso, il suo film preferito: "Più è pesante l'uomo, più profonde sono le sue impronte". Questa frase mi è sempre stata di insegnamento, perché mi ha spinto ad osare pur di lasciare un'impronta nella testa delle persone che ho conosciuto. Prima di andare a casa, io e Annalisa ci facciamo un giro per le vie di Borgo San Dalmazzo. Nello stereo ho messo "The Ultimate Sin", ho voglia di riascoltarlo, questa volta con lei accanto. Le racconto della difficoltà che Ozzy ha avuto nella sua realizzazione, le registrazioni interrotte per i problemi di droga, le crisi di astinenza dopo che si è ripulito, le liti tra lui e il chitarrista Jake Lee e il bassista Phil Soussan riguardo ai diritti di autore. Annalisa resta in silenzio, chissà se mi ascolta, se è interessata a ciò che le sto dicendo. Ma di sicuro sa bene quanto questo disco sia importante per me. Nel bene e nel male Ozzy fa parte della mia vita, perché la sua musica mi ha sempre accompagnato. Saliamo fino al Santuario di Monserrato, qui ammiriamo il paesaggio, il cielo che promette pioggia e che si stende come un manto fumoso su tutta la città. Le montagne ci girano attorno, ci scrutano in silenzio, ci osservano come quando eravamo giovani e ingenui e ci davamo i primi baci. Lei mi guarda dritto negli occhi mentre mi accendo una sigaretta, e nelle sue iridi riesco a vedere la forma dei nostri sentimenti. Tutto è iniziato qui, la mia crescita, il nostro amore, la passione per musica. Ogni cosa è sbocciata ed è fiorita tra queste solenni montagne. Ora che siamo di nuovo insieme, in questo luogo, possiamo ricominciare.

1) The Ultimate Sin
2) Secret Loser
3) Never Know Why
4) Thank For The Bomb
5) Never
6) Lightning Strikes
7) Killer Of Giants
8) Fool Like You
9) Shot In The Dark
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