MICHAEL JACKSON

Bad

1987 - Epic / CBS

A CURA DI:
Andrea Cerasi, Andrea Ortu

DOPPIATORI:
Enrico Vaioli
MUSICA DI SOTTOFONDO:
Bad - Musica originale

DATA RECENSIONE:
16/06/2020

TEMPO DI LETTURA:
10

Introduzione Recensione

Dedizione instancabile e immani conquiste, arrivando fin dove nessuno è mai arrivato, ma anche rinunce, dolori fisici e psicologici, vita dissoluta fatta di solitudine e alienazione. Raccontare Michael Jackson, la sua vita e le sue opere, significa raccontare un mito che non solo appartiene alla storia della musica, ma che appartiene anche e soprattutto alla cultura di massa: un personaggio inevitabile da ignorare, impossibile da non conoscere. Michael Jackson è l'incarnazione del sogno americano, un fenomeno che da solo è riuscito a scuotere il pianeta toccando milioni di anime e che per più quarant'anni ha accompagnato le nostre vite tramite un'espressione artistica e una dedizione uniche nella storia dello spettacolo, tanto da consacrarlo come l'artista più celebre e venduto di sempre. Una carriera iniziata tanto tempo fa, quando, alla tenera età di cinque anni, il piccolo Michael è costretto dal padre a impugnare il microfono e a cantare con i suoi fratelli nei Jackson 5, esibendosi nei centri commerciali di Gary, Indiana, loro paese natio. Da quel momento un'escalation incredibile, quasi impossibile da immaginare, che ha portato il cantante a travalicare epoche e generi, da quell'incendiario esordio nel lontano 1969 fino alla tragica e inaspettata morte avvenuta nel 2009. Quattro decenni di musica pop, funky, rock e soul, quattro decadi di arti visive, con l'invenzione dei celebri videoclip narrativi, di maschere horror, di costumi scintillanti e di coreografie spaziali mai sperimentate prima e realizzate grazie alla nascita del "moonwalk", che hanno reso ancora più inumano il personaggio, quasi un alieno venuto da un pianeta lontano, separandolo dalla realtà e relegandolo nella leggenda. "Un quarantenne espertissimo, incarnato nel corpo di un bambino di soli dieci anni", lo presenta Barry Gordy, produttore della Motown Records, dove Michael muove i primi passi, e se inizialmente il ragazzino canta le popolari "I Want You Back", "Who's Lovin' You", "I'll Be There" e "ABC", cercando di imitare le mosse di danza e i versi di James Brown, suo eterno idolo, in età adulta Michael comincia a crearsi un proprio stile, musicale e di ballo, con il quale fuoriesce dai confini razziali conquistando il pubblico bianco con i brani "Can You Feel It", "Rock With You" e "Don't Stop 'Till You Get Enough", e ancora stravolge la storia della musica pubblicando il disco più venduto di tutti i tempi: "Thriller", trascinato dall'omonima canzone e dal suo videoclip, primo vero esempio di cinema-musicale che impone un nuovo linguaggio e apre le porte di MTV a tutti gli artisti di colore; poi è la volta di altri immensi brani come "Billie Jean", "Beat It" e "Wanna Be Starting Something", che ne fanno l'artista assoluto di quell'epoca. L'esibizione al "Motown 25: Yesterday, Today And Forever", nel 1983, è l'incoronazione a re e conquista del mondo intero, dove il giovane Michael, guanto gigante e calzini brillanti, mostra per la prima volta il passo della luna, lasciando tutti a bocca aperta, imponendosi non solo come musicista ma come intrattenitore completo. Negli anni 80 il mito di Michael Jackson è ormai consolidato, ed è in questo periodo che il suo genio creativo è destinato ad espandersi definitivamente insieme alle polemiche e ai riguardi estremi da parte della stampa. L'isolamento, le ossessioni morbose della sua psiche e i primi cambiamenti fisici sono solo il preludio a ciò che l'artista americano diventerà da lì a poco. L'acquisto di Neverland, villa, parco-giochi e zoo, non è altro che esternazione del mondo fantasioso di Michael, un mondo nel quale rinchiudersi per isolarsi da tutto e tutti. È qui che il cantante prova nuove mosse di danza, sperimenta suoni con tecnologie all'avanguardia, prova con artisti di fama mondiale e scrive e compone centinaia di pezzi. Per capire un disco come "Bad" bisogna partire da qui, dal principio della leggenda vera e propria, con tanto di critiche e di parodie che vanno di pari passo con la venerazione del pubblico, le vendite miliardarie e la definitiva separazione artistica dalla famiglia. Nel 1985 Michael Jackson è sulla bocca di tutti: la pubblicità della Pepsi, l'incidente durante una delle riprese che gli ustiona la testa, "Thriller" e "Off The Wall" che continuano a vendere anche se non supportati da nessun tour, le esibizioni in compagnia dei fratelli, non più Jackson 5 ma Jacksons, formazione a sei, per pubblicizzare gli album "Triumph" e "Victory"; la straordinaria "We Are The World", scritta dallo stesso Jackson per il progetto di beneficenza USA for Africa, e infine, nel 1986, la partecipazione al cortometraggio fantasy della Disney "Captain EO", diretto da Coppola e prodotto da Lucas, distribuito in tutti i parchi-giochi Disney in 4D. È qui che Michael Jackson appare diverso fisicamente, flagellato dalla vitiligine, ma anche caratterialmente, più schivo e dagli atteggiamenti strani che sollevano una marea di polemiche e di dubbi sulla sua persona e sul suo stile di vita. Proprio come il protagonista di "Captain Eo", un solitario guerriero dello spazio che si circonda di creature strambe, MJ si rintana a Neverland, immerso nei suoi cimeli, e sotto consiglio di Quincy Jones dedica anima e corpo al nuovo materiale, facendo tutto da solo, scrivendo testi, componendo melodie e arrangiamenti. "Sii onesto con te stesso, concentrati su ogni singola canzone, le canzoni sono la forza di un album, la loro melodia è ispirata da Dio", dice il produttore, e Michael lo ascolta. Le sessioni sono lunghe e faticose, ma alla fine il cantante si presenta in studio con più di sessanta canzoni e l'idea di sfornare un album triplo. È lo stesso Jones a consigliare di tenere nel cassetto il 70% del materiale accumulato, suggerendo che una tale operazione sarebbe controproducente per il mercato. Presentato dalla rivista Rolling Stone come imparagonabile a "Thriller", ma certamente superiore per via di una maggiore compattezza, "Bad" esce nell'autunno del 1987, mostrando undici brani fenomenali curati in ogni minimo dettaglio, videoclip compresi, come quello della stessa "Bad", diretto da Martin Scorsese nella metropolitana di New York e della durata di 18 minuti, o quello di "The Way You Make Me Feel", che ne sfiora 10, o "Liberian Girl", pezzo dedicato all'amica Elizabeth Taylor, dove compaiono numerosi personaggi famosi, e ancora "Smooth Criminal", "Leave Me Alone" e "Speed Demon",  le cui immagini sono riprese da "Moonwalker", film di James Kramer del 1988 che ispira, tra l'altro, anche l'omonimo videogioco della SEGA. L'album rappresenta un taglio netto col passato, i suoni sono più corposi, sintetici e metallici, i testi più cinici, le melodie più dure e più gridate, così come il look del cantante appare più rock e sensuale, interamente vestito con pelle nera e borchie. Michael Jackson si reinventa, confermandosi re del pop e icona intramontabile degli anni 80, anticipando suoni e mode che prenderanno il via solo dopo il suo ritorno in scena. "Bad" è la massima espressione di un certo tipo di musica che sarebbe riduttivo definire semplicemente "pop", dal quale vengono estratti dieci singoli su undici tracce, di cui ben cinque vanno a finire dritti al primo posto della classifica Billboard Hot 100, cosa mai avvenuta prima, dominando le hit-parade per i due anni seguenti e accompagnando il pubblico fino all'alba del nuovo decennio. Più di trenta milioni di copie vendute inizialmente, cresciute negli anni fino a sfiorare i cinquanta, che ne fanno il secondo album più venduto della storia, subito dopo "Thriller" e appena davanti a "Dangerous", per un podio che appartiene soltanto a lui e al suo mito. "Bad" rappresenta un lavoro unico nella carriera di Jackson, mai tanto prolifico e ispirato come in questo momento, mai così venerato dalla folla ed emulato dagli altri artisti. "Bad" è icona sacra degli anni 80, culto musicale e visivo di un'epoca che non tornerà mai più, essenza stessa di ciò che è stato MJ. Il suono degli anni 80 è racchiuso in questo album, nella sua iconica copertina, in quel graffito rosso sangue su sfondo bianco, per un'esperienza ancestrale che il cantante celebra con il suo primo tour solista, il Bad World Tour, infrangendo ogni record di affluenza, alimentando la sua stessa leggenda.

Bad

Il regista Martin Scorsese ci conduce in un quartiere malfamato di New York per raccontare una storia di violenza urbana. Michael Jackson è un brillante studente universitario che, nonostante le umili origini e le cattive compagnie, si dà da fare per realizzarsi. Magari un giorno scapperà dal quartiere e realizzerà i suoi sogni. Il graffito rosso sangue che vediamo in copertina è il simbolo di questa storia: Bad (Cattivo) è, secondo le parole dello stesso Jackson, "un canto di strada che narra di un ragazzo cresciuto in un quartiere malfamato, sintesi di uno stile di vita deplorevole e specchio di una società fatiscente, dove i ragazzi sono costretti a convivere con la delinquenza, lo spaccio, le risse, il degrado, la morte". Il candore del bianco e nero scelto dal regista si adatta bene allo script di Richard Price, la poetica dei toni grigi evidenzia il candore dell'animo del ragazzo interpretato da Jackson, che quotidianamente deve combattere con i suoi amici per non farsi trascinare nelle crudeli e violente disavventure. La strada è protagonista del racconto, così come della musica, dove le percussioni e i sintetizzatori assomigliano ai rumori della città e il giro di chitarra ai passi della gente, in un trambusto generale che induce a danzare in una New York invernale e cupa, specchio delle emozioni di un Michael Jackson che grida al mondo il suo malessere. "Sono cattivo, lo sai" urla con la gola piena di rabbia, cercando di dimostrare ai suoi compagni che nonostante gli studi e il sogno di una vita migliore, le sue radici sono ancorate alla strada, rovinate come rami secchi e in balia delle intemperie. Per dimostrare la sua vera natura, Jackson costringe gli amici a seguirlo nel parcheggio di una metropolitana, la stessa che tutti i giorni prende per andare all'università. Qui il ragazzo attua la sua trasformazione, pelle nera, borchie, ghigno beffardo. Michael Jackson diventa selvaggio, ma la sua cattiveria viene mostrata attraverso l'arte, la musica e il ballo, in una coreografia elaborata che costringe Scorsese a chiudere il parcheggio della metro per due settimane intere. Michael si mostra per quello che è, il suo animo nero viene a galla in tutto il suo splendore, danzando e gridando in faccia ai suoi avversari, imbambolati di fronte a cotanta maestria. Le strofe sono seducenti, pregne di rancore, di odio, di disprezzo, nelle quali il cantante si diverte a fare il verso ai cattivi, quelli veri, e ai bulli di periferia. Il pre-chorus è più sofisticato, gli animi si stemperano per qualche secondo, la melodia fuoriesce da un tappeto di sintetizzatori che si stendono sopra un corposo giro di basso, ed è qui che Michael sovverte le regole del suo degradato mondo: il vero cattivo è colui che cerca di cambiare il mondo, che combatte per vivere in un posto migliore, che lotta ogni giorno per uscire alla luce del sole. La luce del sole viene sparata in faccia allo spettatore nel momento in cui Scorsese passa dal bianco e nero della pellicola a iridescenti colori che accompagnano la coreografia, con tanto di ballerini al seguito che simboleggiano una banda di criminali non convenzionali. La scritta "Bad" campeggia su una parete bianca, sparata lì con una bomboletta spray in un rosso scintillante che cola liquido assomigliando tanto al sangue che i delinquenti vorrebbero spargere. Ma la violenza declamata da Jackson è solo musicale e parodistica, ed ecco che le percussioni assumono maggiore impatto, facendo da trampolino per l'entrata in scena del sassofono che suggella un refrain immortale, lo stesso ripetuto decine di volte in faccia ai nemici a mò di presa in giro. "Chi è il cattivo?" chiede Michael, rimasto ormai solo nel parcheggio, una volta tornato ad essere il bravo ragazzo di sempre e scacciata via la sua metà oscura.

The Way You Make Me Feel

Il suono della strada, i toni cupi e amari dei quartieri popolari di Los Angeles prendono vita per mettere in scena una storia di corteggiamento e di amore. Il baccano del popolo della notte, tra risse e molestie, sono l'essenza stessa della natura smorta dei vicoli, dove i tombini saltano per aria sospinti dal fumo delle condutture sotterranee, dove le scritte tempestano ogni singolo muro, dove la spazzatura sparpagliata sui marciapiedi fa da cibo per i topi. Michael Jackson racconta ancora una storia di strada, per ribadire il concetto che anche nel degrado più assoluto c'è una speranza di rinascita, una luce da seguire. Definita da Greg Quill, giornalista del "Toronto Star", come "una canzone d'amore incentrata, in maniera minore, più sulla resa che sulla conquista e sull'autogratificazione", The Way You Make Me Feel (Il Modo In Cui Mi Fai Sentire) è la luce di un cuore pulsante che si accende nel momento in cui un ragazzo prova amore nei confronti di una ragazza. Un vecchio si avvicina a Jackson e gli dice: "Tu non vuoi essere come loro, tu devi essere te stesso", Michael guarda la sua combriccola: scagnozzi ubriachi, spacciatori, bulletti senza futuro, e allora capisce che deve reagire per ribellarsi a quella condizione. Il regista Joe Pytka è attento ai particolari, ai giochi di luci ed ombre, agli spazi che hanno a disposizione Jackson e la sua amata, nel videoclip interpretata dalla modella Tatiana Thumbtzen, ed è qui che avviene la sensuale e notturna coreografia. Michael schiocca le dita di pari passo alle percussioni, come per impartire il ritmo, che si traduce in solari toni blues, con tanto di chitarre elettriche, sassofono, batteria elettronica e cori di dita schioccate dirette in studio dallo stesso MJ. La modella corteggiata è protagonista delle strofe, queste suonate e cantate in modo sensuale per identificarne le curve feline e un fascino che illumina la notte. La luna, alta in cielo, crea un bellissimo effetto: la sagoma della ragazza si concretizza lentamente, uscendo dal buio del vicolo e attraversando la strada dove Michael fa baccano assieme ai suoi amici. I passi della donna sono come quelli di una pantera, tacchi alti, gonna stretta, gambe lunghe, e dove lei cammina le luci si accendono, colorando angoli di città altrimenti grigi e depressivi. Il cantante è in estasi, ulula, scalcia, ancheggia con mosse repentine, corteggia disperatamente la ragazza, e, come scrive Harrington del Washington Post: "Jackson canta nel modo in cui danza: è sexy e trionfale". Michael si ingegna in tutto il suo talento, segue la modella, la sfiora, le manda baci furtivi, attuando una coreografia splendida e magnetica che si prende tutto lo spazio a disposizione nella scena. Le trombe squillano nel ritornello, evidenziando l'eccitazione dell'uomo: "Mi fai inginocchiare, mi accendi, tu poni fine ai miei giorni di solitudine. È così che mi fai sentire, ragazza", scandisce MJ, tra un passo e l'altro, mentre intorno a lui saltano tombini, vapori si estendono in aria offuscando l'ambiente e il corpo di ballo si unisce al cantante gettandosi a terra e rotolandosi nelle pozzanghere. Il groove è impressionante, la tradizione funky è concentrata in queste linee melodiche arrangiate con classe e studiate nei dettagli, la coda finale si trascina sfumando come il fumo della strada. Michael è riuscito a conquistare la ragazza, nella pallida luce notturna la coppia si abbraccia. Le loro sagome si fondono in un'unica macchia nera.

Speed Demon

Un tripudio di colori e di sfumature sonore vengono sparati in un videoclip molto divertente e scatenato, frutto di una grandissima fantasia e di una visione dettagliata atta a promuovere il film "Moonwalker", diretto da Kramer e uscito nelle sale nel 1988, nel quale è lo stesso Michael Jackson a recitare, dapprima in una serie di clip frammentati che raccontano la sua leggenda, e poi in un vero film nel quale Michael interpreta se stesso che deve combattere una banda criminale e salvare una bambina. Ambientato tutto su strada, trattandosi di un inseguimento, Speed Demon (Demone Della Velocità) attacca col rombo di motore per poi distendersi su sassofoni campionati, percussioni, drum-machine e un curioso giro di chitarra dal sapore 70s. I toni aspri delle strofe e la voce indemoniata di Michael contrastano con l'ironia di un videoclip realizzato in stop-motion dove fans, poliziotti e reporter inseguono il cantante da una parte all'altra dell'America. Michael, travestendosi da coniglio per non farsi riconoscere, salta in sella alla moto e parte a tutta velocità, una velocità sottolineata dagli strumenti e da una certa impostazione vocale sempre più tirata e che esploderà nella fase centrale in un lungo e brillante falsetto. L'importante è arrivare in tempo, guardare allo specchietto retrovisore che non ci sia nessuno dietro, soltanto la polvere alzata dagli pneumatici incandescenti. Eppure Michael si sente col fiato sul collo, ha la sensazione che i suoi inseguitori siano molto vicini, così accelera bruciando le strade delle città che attraversa. L'intento del cantante è quello di urlare al mondo che quella è la sua vita e che ha tutto il diritto di godersela, la velocità è una metafora per indicare lo spirito selvaggio, la libertà e l'amore per il proprio mestiere. Le persone di contorno, i divertenti personaggi cartonati che lo inseguono, rappresentano l'invadenza, le molestie, le ossessioni nei suoi riguardi. "Qualcuno ha detto che futuro è nelle nostre mani, tu giudichi la mia vita in base alla tua legge. Io vivo ogni giorno come se non ci fosse un domani" è il monito di Michael nei confronti dei suoi detrattori e dei giornalisti, fin troppo attenti al suo stile di vita. Pop, funky e una certa attitudine rock si amalgamano in un brano dai repentini cambi di tempo, le accelerazioni e i rallentamenti improvvisi, le melodie secche e dure, che ci danno la sensazione di viaggiare in moto accanto all'artista, col vento tra i capelli, attraversando città, deserti, villaggi, località marittime e catene montuose, facendo una carrellata completa delle visioni che tempestano la mente di Jackson. Davitt Sigerson della rivista Rolling Stone descrive "Speed Demon" come "un inno alla velocità e una canzone da auto, nonché un racconto potente e divertente nel quale il super-ego di Jackson fornisce la sua identità". Il coniglio, travestimento scelto dal cantante per sfuggire alla folla, non è casuale, esso cita apertamente una delle storie preferite di Michael: "Alice Nel Paese Delle Meraviglie", dove l'animale è incarnazione di fantasia, alienazione, comprensione di una realtà alternativa e, per finire, frattura della vita stessa.

Liberian Girl

"Quando la canzone uscì, le donne di tutta la Liberia furono sbalordite e piene di speranza nel sapere che Michael Jackson stava pensando al loro piccolo paese africano. Ci ha fatto sentire parte del mondo". Sono le parole di una giornalista liberiana a proposito di Liberian Girl (Ragazza Liberiana), seducente ballata scritta addirittura nel 1983 e tenuta per anni nel cassetto, perla ricca di sfumature romantiche definite dallo stesso Jackson come "scintillio d'amore nei confronti di qualcuno", una sorta di preghiera verso tutti i posti dimenticati del pianeta e verso tutte le persone lontane. I sintetizzatori si diradano come nebbia quando una ragazza recita le prime parole in lingua liberiana, dunque entrano in scena le percussioni, seguendo il piano-sequenza del regista Jim Yukich che segue i numerosi personaggi che popolano lo schermo. Sono tutte star amiche di Jackson: Steven Spielberg, John Travolta, Brigitte Nielsen, Whoopi Goldberg, Quincy Jones, David Copperfield, Lou Ferrigno, Danny Glover, Dan Aykroyd e molti altri, con la partecipazione di Bubbles, la scimmietta di Michael. Il bianco e nero dello schermo si trasforma dopo pochi secondi in un set cinematografico dove ogni personaggio recita le parole della canzone, aspettando con impazienza l'autore, che si paleserà soltanto sul finale. I toni sono placidi, delicati come brezza estiva che richiama un po' il clima dell'Africa, Michael accompagna la base strumentale arricchendola con i suoi inconfondibili cori sovra-incisi, di cui lui è maestro assoluto e che utilizza per dare corposità ai passaggi vocali. Una donna dalla pelle scura e dalle forme sinuose ha sconvolto il mondo dell'uomo, è arrivata e fugacemente se ne è andata, come in una scena di un film nella quale la coppia si bacia profondamente e poi si saluta tra le lacrime. Donna liberiana, dalla pelle raffinata e preziosa come un gioiello, il suo bacio è come ambra, raggio di sole che illumina un mondo buio, lo penetra squarciandolo, incendiandolo di un amore completo e puro. "Sei arrivata e hai sconvolto il mio mondo" ripete ossessivamente Michael, e con lui gli attori del videoclip, sorpresi dalle telecamere a provare il copione di questa storia o a confrontarsi con i colleghi. La telecamera è irrequieta, si sposta da un ambiente all'altro aleggiando come un piccolo insetto, e così anche la voce di Jackson, assumendo ogni volta diverse sfumature vocali, intensificando le linee in prossimità di un ritornello immaginifico e rallentando nelle quiete strofe sospirate che descrivono l'attesa di questo dramma d'amore messo in scena, costruito sul jingle di un sintetizzatore digitale all'avanguardia per l'epoca. Tra colpi di scena e sorridi di incredulità, Jackson compare in mezzo agli ospiti, sovrastandoli dall'alto: lui è l'occhio che guarda il suo mondo, l'orecchio che ascolta le preghiere del popolo. Mj si erige a divinità onnisciente.

Just Good Friends

Quincy Jones chiama Steve Wonder, ex bambino prodigio della Motown Records, proprio come Michael Jackson, e gli propone un duetto col suo vecchio amico di squadra. Michael inizialmente è contrario all'inserimento del pezzo, non essendo stato scritto da lui ma dal tecnico Terry Britten, preferendo diversi altri brani ben più interessanti e soprattutto usciti dalla sua mente, ma alla fine si convince. Just Good Friends (Solo Buoni Amici) è l'unica traccia dell'album a non essere lanciata come singolo, e i dubbi sollevati da Michael trovano riscontro nelle disamine della critica, in un giudizio unanime che descrive tale canzone come quella meno ispirata di tutta l'opera. La rivista Rolling Stone la definisce traccia minore, e a tale proposito scrive: "debole dal punto di vista melodico, che attacca bene in un trionfo di trombe, chitarre elettriche e drum-bit elettronici, per poi non decollare mai". Giudizio abbastanza severo, in parte vero, ma il risultato finale non è così catastrofico. Il giro di chitarra è molto interessante, i sintetizzatori ispirati e le linee vocali molto gradevoli, sospese in un clima di serenità e morbidezza che sottintende un'amicizia di vecchia data, quella tra i due vocalist, declamata in un classico pop di natura "ottantiana". Le due voci inizialmente si alternano, Michael ricorda un avvenimento lontano: una ragazza su una pista da ballo, guancia a guancia sol suo fidanzato, poi l'incontro dei loro sguardi, il desiderio improvviso di lui e gli occhi velenosi di lei, che brillano in un atteggiamento ambiguo. La giovane agisce in maniera subdola, tenta il suo amico con atteggiamenti sexy ma alla fine non si concede, lasciandolo rodersi nella gelosia e preferendo gettarsi tra le braccia di altri. Subentra Steve Wonder, che da sincero amico, consiglia a Michael di non cadere più nel tranello della vipera, gli consiglia di non cedere alla tentazione, di ignorare la fanciulla per evitare altre delusioni. I sintetizzatori acuiscono il loro sound, la chitarra inventa un ottimo giro che esplose all'unisono con le trombe e col sassofono. Le due voci si mischiano bene dando corposità a un pezzo che, a differenza dell'opinione della stampa, si evolve distendendosi prima sul delizioso pre-chorus e poi sui cori di un festoso ritornello cantato insieme da due voci fantastiche che si fondono alla perfezione. L'impronta del produttore Jones è evidente, artefice di tutte le collaborazioni imposte a MJ in quegli anni, da Paul McCartney nei dischi "Off The Wall" e "Thriller", a Siedah Garret, corista dello stesso Jackson che viene coinvolta nel brano "I Just Can't Stop Loving You", alle idee prese in esame e poi scartate di duetti con Prince, Run DMC, Barbara Streisand e Whitney Huston. Tali imposizioni, quasi maniacali, del produttore Quincy Jones, creeranno accese discussioni in studio, portando a un triste divorzio artistico nel 1989.

Another Part of Me

"Bad" possiede un baricentro piuttosto ampio, dato non tanto da un singolo brano cardine, perno centrale intorno al quale ruota l'intera opera, quanto piuttosto da un'accoppiata d'ampio respiro composta dalla canzone precedente e da questa "Another Part of Me" (Un'altra Parte di Me). Fedele alla sua natura positiva e positivista, in cui la spensieratezza è una scelta, piuttosto che uno stato d'animo, Michael decide che il cuore del suo album, così spesso introspettivo e talvolta perfino "sociale", poeticamente parlando, debba mettere in luce l'intrinseca solarità  del suo essere più profondo. E così è. Sebbene in qualche modo più sofferta della traccia precedente, "Another Part of Me" è festa che si aggiunge alla festa, venata a volte d'una passione sul filo dell'aggressività, ma comunque pregna di speranza e divertimento, pronta a far danzare qualsiasi ascoltatore. Fu anche il sesto dei dieci singoli estratti dal disco, l'undici luglio dell'88. In realtà, la scelta del brano e il suo posto nell'album è anche frutto di consiglio manageriale, dal momento che Jackson avrebbe preferito usare "Streetwalker" al posto di questa canzone, cambiando idea all'ultimo momento su consiglio del produttore Quincy Jones. Da una parte è un peccato, perché "Streetwalker", inserita tempo dopo nella special edition, è un pezzo più interessante sotto il profilo dell'arrangiamento e della scelta strumentale, ma il suo incedere nettamente funky ricordava forse fin troppo altri brani già proposti; inoltre, "Another Part of Me" era già parte della colonna sonora di "Captain EO", il cortometraggio della Disney uscito l'anno prima con protagonista proprio Michael Jackson, e si sa, un prodotto tira l'altro. Alla fine, poco male: parliamo di un pezzo divertente e liberatorio, ideale a trascinare il disco verso la sua parte conclusiva. Il solito, maniacale lavoro al sintetizzatore occulta un livello compositivo raro, per il pop commerciale, nascosto tra suoni apparentemente semplici e disimpegnati e tuttavia determinanti, carichi di un incedere guardingo figlio delle radici funky del cantante che, però, sfumano sapientemente su melodie permeanti e catartiche. La ritmica serrata cede ben presto il suo posto al canto arioso di Micky e alle sue consuete peculiarità vocali, portandoci verso un exploit centrale arricchito da trombe che, nelle versioni dal vivo del brano, offrono una resa emotiva ancora più marcata e concreta. Senza cercare di stupire ulteriormente l'ascoltatore, "Another Part of Me" si avvia alla conclusione ripetendo lo schema già collaudato inizialmente, senza tuttavia farci mancare poche ma essenziali sfumature, ideali ad un finale sulle righe ma non banale. Poeticamente, Michael fa uso di una narrazione collaudata e a tinte classiche, caratteristica di molto rock 'n' roll prima di lui e del funky più solare, ma lo fa ad una maniera che è sua e soltanto sua. Se da una parte il suo messaggio d'unità e le sue metafore sociali sono relativamente blande, una sorta di semplificazione di Funkadelic e affini, dall'altra parte è proprio tale semplicità a dare forma ad un lirismo perfetto, nella sua sinergia con la musica, e perfino con i movimenti di Michael, determinanti quanto il suono stesso durante gli strepitosi spettacoli dal vivo. Il cantante si riferisce a se stesso al plurale, come se non sia una singola entità a portare il suo messaggio, ma un'enorme, coesa collettività. E per certi versi è proprio così. Nella verità dell'amore che è l'unica cosa che conta e che è nostro compito diffondere nel mondo, le parole di Mickey ci rendono parte di un movimento enormemente più grande di noi ma di cui noi stessi formiamo l'essenza, arruolandoci in una sorta di grande esercito pacifico esemplificato dalle folle ai suoi concerti, vero fulcro di quello che è stato il fenomeno popolare più grande di tutti i tempi. Siamo noi stessi l'altra parte del fenomeno conosciuto come Michael Jackson, perché come afferma lui stesso: "I pianeti si stanno allineando, noi porteremo giorni più luminosi, sono tutti in linea e aspettano te, Riesci a vederli? Tu sei un'altra parte di me". E quasi senza accorgercene, siamo già arruolati tra le fila di "Bad", pronti a diffondere la Verità dell'amore.

Man in the Mirror

Quarto singolo estratto da "Bad", ennesimo primo posto in classifica per Michael Jackson, Man in the Mirror (Uomo allo Specchio) è anche il secondo e ultimo pezzo del disco scritto da elementi terzi, ovvero Glen Ballard, professionista del settore nonché produttore navigato, e Siedah Garrett, nota per aver prestato voce e penna ad innumerevoli artisti di rilievo. Tra le altre cose, "Man in the Mirror" è uno dei pezzi insieme migliori e più in ombra di Jackson, nonostante si parli di un singolo arrivato al primo posto nelle classifiche di mezzo mondo, tra cui Stati Uniti e Italia. Alcuni critici hanno parlato di una delle dieci canzoni più brillanti del Re del Pop, e tutti ne hanno lodato la poetica, l'arrangiamento e soprattutto la natura corale, marcatamente figlia di una "black culture" dalle radici antiche, degnamente rappresentate dal quartetto gospel dei The Winans e dall'interpretazione di Andraé Crouch. Inoltre, nonostante non sia frutto della sua penna, sembra sia stata una delle canzoni preferite dallo stesso Michael Jackson, artista capace sia di evocare un protagonismo ai limiti del parossismo, sia di mettersi da parte e dare spazio ad altre figure, accettando consigli e idee da amici e collaboratori. In questa umiltà, che forse era anche specchio d'insospettabile insicurezza, e dal contrasto di questa con l'innata attitudine a porsi al centro del palcoscenico, sta buona parte della ricetta del successo di una figura artistica e sociale senza precedenti. Nel mettersi al di fuori dell'opera, riducendosi a momenti a mero esecutore materiale, il cantante sceglie di non figurare, o quasi, nel videoclip diretto da Don Wilson, benché l'idea alla base sia in buona parte anche figlia sua. Una scelta che ha del clamoroso, parlando di una figura che ha fatto della presenza scenica parte integrante della sua arte. Tuttavia, una scelta perfettamente sensata. Man in the Mirror è infatti scritta, sì, su misura per Michael Jackson, ma astrae l'uomo e si concentra sullo spirito della sua musica e sull'anima del suo messaggio, ed il video si pone esattamente su tale essenza, concentrandosi sui suoi protagonisti: gli ultimi, i diseredati, i poveri e i tormentati. Non è una vera messa in scena, quanto piuttosto una carrellata d'immagini tratte dai fatti di cronaca dell'ultimo secolo, tra segregazione razziale, nazismo, homeless e terzo mondo. Il brano e le immagini vivono in alchimia: laddove la telecamera si concentra su miseria e sofferenza, Michael intesse una melodia estremamente delicata e fluida, tipicamente ottantina, sottolineata da bassi pregnanti e sonorità sintetiche inevitabilmente datate, ma efficaci, su di una ritmica cadenzata ma dal passo incisivo. Gli interventi corali, già in questa fase, sono l'elemento determinante al funzionamento dell'insieme, sebbene siano le brevi scariche vocali del Re a caricare un climax inaspettato, enorme e sopra le righe, del tutto frutto della sola alchimia vocale tra Jackson e i suoi coristi. La semplicità, molto spesso, è alla base di un lavoro ben fatto. Ad un certo punto è come se la speranza, il riscatto, la gioia e tutto l'amore del mondo esplodessero in una sola volta, solo per confluire negli scambi continui e sempre più serrati fra la voce principale e i cori, via via sempre più protagonisti e determinanti, mentre sullo schermo iniziano a passare immagini differenti, non più di poveri derelitti e dei loro carnefici ma di redenzione, di carità, di fiducia e di cambiamento, elementi che il regista sintetizza in una manciata di immagini evocative e figure chiave, tra cui diversi politici e personaggi storici, artisti e attivisti. Tra le righe, nel frattempo, il messaggio è chiaro: per cambiare il mondo dobbiamo guardarci allo specchio, e cambiare prima di tutto noi stessi. Michael Jackson descrive un individuo in cui qualsiasi ascoltatore può riconoscersi, identificandosi nella sua indifferenza, nella sua cecità di fronte agli orrori, riconoscendo che in fondo non è deprecabile ipocrisia ma semplice, umano desiderio di tranquillità, di normalità, incoraggiando tuttavia una presa di coscienza per la quale è necessario tanto coraggio quanto amore, perché, come canta il Re del Pop: "se vuoi rendere il mondo un posto migliore, rivolgi lo sguardo a te stesso e crea il cambiamento!". Ancora una volta, un appello ad una collettività di cui Mickey è guru invisibile, stabilito secondo canoni concettuali ai limiti della stucchevolezza, soprattutto visivamente. Se il video infatti si ritroverebbe, oggi, tacciato di "buonismo", termine assai alla moda, la canzone in sé è assai più solida e diretta, concreta e "buona" nel senso più vero del termine, decisamente figlia di un'epoca che, anche nella sua innocenza comunicativa, non riusciamo a fare a meno di rimpiangere un po'.

I Just Can't Stop Loving You

Visti i risultati con l'eccellente "Man in the Mirror", che dopo un paio di brani sulle righe riporta alta l'attenzione, "Bad" ripropone il talento di Siedah Garrett in uno dei duetti più caratteristici dell'87, anno d'uscita del primo singolo estratto dall'album: I Just Can't Stop Loving You (Non Riesco a Smettere d'Amarti). Il brano è anche il primo di una lunga serie di primi posti in classifica, stabilendo solamente un altro dei tanti record di Michael Jackson. In realtà la partecipazione di Garret fu decisa all'ultimo istante, dopo che Barbra Streisand e Whitney Houston, inizialmente volute da Jackson per il duetto, negarono la loro adesione al progetto, prese da impegni personali già soffocanti e dall'esigenza di non mettere la propria immagine all'ombra di un altro gigante. Alla fine non ebbe importanza, giacché per quanto la fama abbia il suo peso, bastò quella di Michael Jackson e la genuina bravura della Garrett, ad assicurare il successo dell'opera. Tutto anche per la gioia di Quincy Jones, che per la cantante afroamericana aveva un vero e proprio debole, professionalmente parlando. Quando si dice "i santi in paradiso"! Trattandosi di una ballad, la melodia del brano è delicata e dolce quanto la sua poetica, perfino fin troppo smielata per la dieta di zuccheri contemporanea ma, dopotutto, anche squisitamente anni '80. L'atmosfera si carica attraverso archi sintetici dal richiamo quasi cinematografico, per imporsi prima con bassi cauti e profondi, frutto dell'estro di Nathan East, poi con pochi ma sapienti arpeggi e infine con la voce, morbida e romantica, di Michael Jackson. La ritmica incalza contemporaneamente con il canto della Garrett, la cui esecuzione emotivamente pregna impone il "come" rispetto al "cosa", incantando l'ascoltatore con poche ma essenziali parole e vocalizzi indistinti, pura forma che predomina su di una sostanza superflua, non strettamente necessaria alla resa di un sentimento che travalica le parole. Alla fine il valore della canzone, non un capolavoro ma capace, comunque, di segnare il mercato e l'immaginario romantico dei suoi anni, sta tutto nella sinergia tra i due cantanti, sempre più marcata e corale man mano che la traccia volge alla conclusione, sebbene più che in coppia, la Garrett appaia più d'ausilio che altro, una sorta di spezia pregiata sul primo piatto di Jackson. Sul piano poetico non c'è alcuna particolare ricerca d'originalità, anzi, l'archetipo del duetto romantico è perseguito con solida costanza e consapevolezza d'intenti, soprattutto commerciali. Dopotutto, "I Just Can't Stop Loving You" doveva aprire il mercato mainstream all'arrivo di "Bad", e rischiare l'esordio con un brano più controverso e impegnativo è un passo troppo rischioso per molti artisti, specialmente quando parliamo di pop. Nonostante ciò, è proprio l'estrema semplicità del messaggio a giocare a favore del brano, che lascia l'ascoltatore assimilare parole prive di peso e di spessore in favore di un'essenza che è soprattutto melodica e corale, in una sintesi concettuale fatta di nostalgia e di un amore dai contorni asessuati, più ideali che non reali, definiti da eterei richiami ad un'assenza che necessita conforto, spazio vuoto dell'anima che deve essere riempito dell'amore di una donna classicamente angelicata. Per la canzone non fu realizzato alcun videoclip, sebbene su Youtube sia presente un montaggio video dal menzognero titolo di "ufficiale", e la reazione della critica, all'epoca dell'uscita del singolo, fu quantomeno tiepida: non ostile ma neanche esaltata. Come potremmo dunque descrivere, in sintesi, il valore di questa ballad? Per una volta voglio far mie le conclusioni di un famoso critico di Rolling Stone, Davitt Singerson, che alla fine di una breve e impietosa disamina, aggiunge: "?chi, avendo ascoltato questa canzone almeno un paio di volte, può non ricordare quel coro?", e aveva maledettamente ragione.

Dirty Diana

Penultimo brano della nostra scaletta, quinto singolo ed ennesimo primo posto nella classifica statunitense, con un pezzo che pur avviando "Bad" alla sua ideale conclusione, non accenna minimamente a smorzarne i toni, ma solo ad appesantirne il passo. Parliamo di Dirty Diana (Sporca Diana). È la canzone più rock di tutto l'album, e una tra le più dure di tutta la carriera di Jackson, forte, non a caso, dell'ennesima collaborazione di lusso: quella con Steve Stevens, noto soprattutto per la sua attività a fianco di Billy Idol, sebbene va detto che il suo peculiare sound è in qualche modo filtrato, adattato allo stile di Michael dal chitarrista jazz Paul Jackson Jr., già stretto collaboratore del Re del Pop e presente, ad esempio, tra le note di "Another Part of Me".Tutt'oggi, non è del tutto chiaro a chi si riferisca il titolo del brano, elemento che lungi dal penalizzare l'opera, ha finito per farle buona pubblicità attraverso congetture, leggende metropolitane e gossip. Chi è dunque la "sporca Diana"? Sembra non sia la principessa Diana, che anzi pare apprezzasse non poco la canzone, né Diana Ross, vecchia fiamma di Jackson, almeno stando alla saggezza popolare. Rimane dunque la possibilità, timidamente confermata dall'artista stesso, che sia semplicemente una delle tante groupie al seguito di Mickey, e sebbene diversi passaggi del testo tendano a confermare tale ipotesi, l'essenza del brano, come vedremo, è forse soprattutto tradizionale e simbolica. Il videoclip di "Dirty Diana" è la messa in scena di un concerto dal vivo, scelta che consente allo spettatore di idealizzare le sensazioni e le immagini di un qualsiasi concerto del Re, immortalato in quasi tutte le inquadrature a fianco del chitarrista, protagonista del grande climax del brano. L'atmosfera si carica attraverso suggestioni grevi e urbane, smorzate ben presto da tonfi di basso cauti ma curiosamente sensuali, come l'approccio tra un uomo e una donna soli in una stanza, mentre le svirgolate della chitarra elettrica e la voce del cantante caricano lentamente ma inesorabilmente una tensione quasi palpabile, erotica e sensuale, oscura come quella di una stanza a malapena illuminata, teatro di un'anima rubata per una sola, eterna notte. È una tensione così straripante che non può fare a meno di esplodere già a metà dell'opera, tra languide grida di chitarra, per poi riprendersi subito dopo, quasi si fosse trattata di una momentanea debolezza, ma è solo il preludio alla catarsi finale, in cui Jackson e Stevens deflagrano all'unisono in uno dei migliori momenti di tutto l'album, quasi rovinato dalle finte grida di un finto pubblico che, grazie a Dio, non vanno a danneggiare il pezzo originale, innalzato da un assolo davvero raro in un disco del genere, di un artista fin troppo spesso considerato, semplicemente, "pop". Tra le righe, come dicevamo, numerosi elementi portano a identificare Diana come una delle tante, bellissime groupie al seguito di qualsiasi rockstar, o in generale come una donna capace di strappare all'artista una notte di passione, un momento sospeso nel tempo e nello spazio destinato a non avere alcun peso nelle vite di entrambi ma, proprio per questo, così indimenticabile. L'impressione, tuttavia, è che al netto della possibile ispirazione da fatti e personaggi reali, la "sporca Diana" di cui parla la canzone sia solo l'ultima erede di un archetipo femminile duro a morire, caratteristico di tanta letteratura e musica da ogni parte del mondo, ma esemplificata, almeno secondo canoni contemporanei, prima dal blues e poi dall'hard rock; è la classica femme fatale di cui hanno cantato centinaia d'artisti, famosi e non. Tutto qui. È una donna dai contorni eterei, ma non angelicati, parossistici ma non idealizzati, l'esatto contrario di quella descritta nel brano precedente: un'entità peccatrice e fascinosa capace di rubare l'amore e la dignità dell'uomo che desidera, per risplendere della sua luce riflessa. E quand'egli, preso da un fugace e ipocrita rimorso, tenta di chiamare a casa per giustificarsi, è lei a rispondere con malefico sarcasmo all'altra donna: "lei rispose: lui non tornerà, perché sta giacendo con me!".

Smooth Criminal

Chiude idealmente l'opera non quello che è stato, semplicemente, il settimo singolo estratto dal disco, ma quello che a tutti gli effetti è divenuto il singolo di "Bad", il capolavoro di fine decennio di Michael Jackson, e, più in generale, uno dei pezzi più amati, copiati e riveriti del Re del Pop: Smooth Criminal, traducibile come Criminale imperturbabile, dalla fredda e spietata efficienza. Lo stesso anno dell'uscita del singolo, il brano è parte del film Moonwalker, il cui nome è ispirato al celebre passo di Jackson il quale, naturalmente, interpreta se stesso come protagonista della pellicola, mentre nel frattempo il videoclip della canzone fa il giro del pianeta e impone il suo peso sulla percezione dell'opera, forte di una coreografia d'importanza storica sia per l'arte di affiancare immagini alla musica, sia per il mondo del ballo in generale, quasi in affanno a stare dietro le continue innovazioni e invenzioni del Re del Pop. Michael Jackson e il regista Colin Chilvers mettono insieme una vera e propria epopea fatta di azione, danza, costume e pantomima, e tutto nello spazio di neanche cinque minuti. Un piccolo miracolo. L'idea iniziale era quella di un'ambientazione western, ma il cantante rimase folgorato dalla visione de Il Padrino e decise, all'ultimo istante, di dare al suo capolavoro l'estetica della criminalità organizzata, o meglio, di un modo un po' barocco e tipicamente hollywoodiano di idealizzare il contesto malavitoso. Gli elementi western tuttavia, sebbene sfumati, rimangono nell'essenza di alcuni dettagli. L'inizio della storia - perché di questo parliamo - inizia con una sequenza che è già da antologia, quando alla sua entrata in abito e cappello bianco, il nostro centra dalla distanza il jukebox lanciando una moneta, facendo così partire la musica. L'ambientazione è quella di un bordello gestito dalla mafia, o comunque di un locale di malaffare, in tutto e per tutto la versione anni '30 di un saloon malfamato in piena età dell'oro. Ballerine e prostitute inscenano coreografie e balletti con Michael e suoi scagnozzi, tutti bellissimi, abilissimi ed elegantissimi, e ovviamente, tutti ballerini di primissimo ordine. La pantomima di attività illecite quali il gioco d'azzardo è resa magistralmente attraverso la danza, mentre la mimica facciale rende ogni singolo personaggio caratteristico nell'arco di pochi istanti d'inquadratura. In poco tempo l'intera ambientazione è scenario ideale per le regole base del musical, in cui ogni soggetto viene spinto al movimento, ogni azione al ritmo del brano, ma è solo parte di una narrazione che Jackson e il regista approfondiscono in altre versioni dello stesso video, come ad esempio quella di Moonwalker. Nel film, la scena di "Smooth Criminal" dura quasi dieci minuti e comprende tutte le scene già viste nel videoclip ufficiale, alle quali si aggiungono elementi di commedia e azione, perfino di tensione, inserite in un contesto che evita abilmente di prendersi troppo sul serio, suggerendo al pubblico la spensierata ironia dei film d'azione anni '80. In trent'anni sono stati fatti passi da gigante nel settore videoclip, ma la coreografia di "Smooth Criminal" rimane imbattuta e incontrastata, eppure, nonostante ciò, la vera, grande protagonista di quest'opera è sempre e comunque la musica. L'intera magia è frutto di apparente semplicità, e vive nei bassi seducenti e aggressivi che definiscono l'intera canzone, rivestiti ed edulcorati da archi sintetici e sonorità elettroniche assolutamente invisibili, molto meno invadenti e datate di quelle che caratterizzano buona parte di "Bad", lasciando così a Michael Jackson piena libertà d'innalzarsi oltre ogni altro suono, forte dell'effetto catartico di sovra-incisioni dal respiro corale. La tensione dall'andatura guardinga e "malavitosa", in perfetta sintonia col titolo del brano, si carica d'elettricità fino ad esplodere in un finale da antologia, capace di portare ogni sensazione alla sua massima espressione senza tuttavia disperderne completamente la carica, lasciando sfumare l'opera verso un'ideale, eterna danza forsennata. Il testo è letteralmente la scena di un delitto che vede due protagonisti: Annie, la vittima, e un criminale dal sangue freddo che non ci è dato di visualizzare, ma solo d'intuirne i movimenti dalle tracce lasciate in casa della donna. Al ritornello, che chiede disperatamente "Annie, è tutto ok? Annie, dicci che stai bene!, segue pedissequa la descrizione degli eventi attraverso strofe secche ed essenziali, capaci di evocare in pochissime parole la ricostruzione dei fatti, immedesimando l'ascoltatore nei poliziotti giunti sul luogo. Segni sulla finestra, tracce di sangue? tutto lascia intendere che Annie sia stata colpita e che sia corsa in camera sua, cercando rifugio sotto il letto, ma solo per essere colpita una seconda, fatale volta. Il freddo criminale, lo "smooth criminal" del titolo, ha colpito e s'è dileguato, lasciando la sua vittima in fin di vita e un quadro desolante dinanzi agli agenti; "Voglio che ripuliate subito l'area, adesso!", urla una voce fuori campo, presumibilmente quella del detective giunto sulla scena, mentre attraverso poche strofe e suoni essenziali possiamo intuire la corsa all'ospedale, il battito del cuore farsi sempre più debole, fino al tragico, controverso finale di un'opera così apparentemente innocua: Annie è morta. E così, idealmente, metaforicamente, "muore" anche l'esperienza musicale appena consumata. Si conclude l'ascolto di "Bad", sebbene manchi una traccia inclusa solo in seguito, per l'edizione in CD del 1989.

Leave Me Alone

Un ritmo ipnotico e morboso costruito sulle note ripetute dei sintetizzatori e un meraviglioso e magnetico giro di chitarra delineano quello che viene definito "canto della paranoia", uno dei tanti partoriti da Jackson in carriera. Jim Blashfield, nel suo videoclip, ci mostra una panoramica, a metà tra film e cartone animato, delle sprezzanti critiche dei giornali che flagellano quotidianamente la vita di MJ: paura della morte, camera iperbarica, matrimoni fittizzi, omosessualità, droghe e sbiancamento della pelle; i temi contenuti nel funky rock di Leave Me Alone (Lasciatemi Solo), bonus track di "Bad", fino al 2001 contenuta soltanto nella versione cd, sono tanti e spietati, ma non solo, perché è anche a causa delle falsità scritte su carta che il pubblico ha alimentato il senso di alienazione dell'artista americano. Questa volta le percussioni e i riff sporchi di blues che avevamo trovato in "The Way You Make Me Feel" si fanno più duri e diretti, Michael intona a muso duro una cantilena di ribellione comparendo sulle copertine di numerose testate giornalistiche, volando in cielo su razzi spaziali, attraversando tunnel dentati dalla forma di bocche che sbattono le labbra a tempo, danzando con lo scheletro di un elefante in un teatrino ottocentesco, ammirando fotografie, busti e quadri di Liz Taylor, e infine, sotto forma di gigante Gulliveriano, liberandosi dalle catene che lo rendono un fenomeno da baraccone, schiacciando il mondo intero. La fantasia di Jackson si scontra con la realtà, i sintetizzatori richiamano all'attenzione come una sorta di sirena che avverte del pericolo scaturito dai giornalisti, le percussioni fendono l'aria in segno di protesta, la chitarra elettrica accompagna le grida di una voce stratificata che si moltiplica durante il clamoroso refrain. "Sono state dette una valanga di cose tremende sul suo conto, dalla camera iperbarica agli interventi chirurgici. E allora? Chissenefrega? Io ho il naso rifatto, anche Elvis lo aveva, e Marylin? Naso e seno?" afferma il manager Frank DiLeo per proteggere il suo artista, e il videoclip del brano non è altro che una carrellata di accuse mosse allo stesso MJ da parte della stampa. Quando Michael balla con uno scheletro di elefante fa riferimento all'acquisto, mai avvenuto ovviamente, delle presunte ossa del povero Joseph Merrick, conosciuto come l'Uomo-Elefante, un ragazzo deforme e affetto da diversi tumori alla pelle vissuto alla fine del 1800. Quando il cantante visita il museo dell'amica Liz Taylor smentisce categoricamente una relazione con l'attrice, oppure quando canta dentro una camera iperbarica ironizza sulle false accuse secondo cui, ogni notte, egli dorme incapsulato al fine di vivere in eterno. Le immaigni vanno di pari passo alla musica, rivelando molte altre accuse e critiche, dalle più evidenti a quelle più criptiche, fino a quando, come in una narrazione fiabesca, il prode Jackson, dalle fattezze del gigante Gulliver, si alza in piedi schiacciando un parco-giochi, ossia la sua dimora Neverland, frutto dei suoi sogni e della sua alienazione, un'alienazione gridata al mondo intero nel fugace ritornello, nel quale MJ implora di essere lasciato solo. "Leave Me Alone" è una canzone paranoica e glaciale, la prima di una lunga serie di risposte seccate ai danni della stampa. 

Conclusioni

Alla fine, nonostante l'immane lavoro in termini tanto qualitativi quanto mediatici, le vendite di "Bad" non superano quelle di "Thriller", come naturalmente speravano Michael Jackson e Quincy Jones, ma sono comunque da capogiro, praticamente irraggiungibili da quasi chiunque altro non sia il Re del Pop: fra le trentacinque e le quarantacinque milioni di copie in tutto il mondo, stando alle più disparate fonti. Difficile affidarsi a stime precise, quando si ragiona su numeri del genere. Se "Thriller" è all'apice di qualsiasi classifica di vendite, "Bad" l'accompagna sempre a poca distanza a fianco di capolavori dei Beatles, degli Eagles, di Whitney Houston e di altri imprescindibili maestri, ma graziato da un'aura che travalica i semplici dati di vendita e si riveste di sincero rispetto e ammirazione critica. Oggi, infatti, l'album che ospita capolavori come "Smooth Criminal" e "Liberian Girl", è considerato seminale ad un livello che va ben oltre sia Thriller, sia ogni altra opera di Michael Jackson, assurgendo a modello non già per il pop, o per il funk, o per qualsiasi altra influenza e deriva musicale caratterizzi lo stile del cantante, ma per la musica tutta. E non solo, in realtà: anche il mondo della danza ne esce stravolto, rivoluzionato, mentre il mercato dei videoclip ulteriormente maturato. Per non parlare di quanto tutta l'operazione abbia avuto da insegnare ai contemporanei in termini di produzione, pubblicità, lavoro sull'immagine e così via, tutti aspetti in cui Michael e il suo staff erano avanti anni luce. Insomma, "Bad" ha contribuito ad innalzare l'asticella di linguaggi artistici vari e differenti, e ha saputo anche alzare la posta in gioco dell'intero mercato discografico. Di nuovo. Tuttavia, com'è lecito aspettarsi da un gigante come Jackson, non mancano neanche i record: "Bad" può infatti vantare l'assoluto primato sul numero di singoli estratti da un full length ad essere arrivati in cima alla Billboard Hot 100, ovvero cinque su dieci. Consecutivamente, tra l'altro. Probabilmente, il fatto di aver venduto quasi ogni canzone dell'album come singolo, e avendone diluito l'uscita nel corso di circa due anni, ha contribuito a rendere "Bad" una delle opere più longeve dell'industria discografica, e con essa, dell'immaginario collettivo, permettendogli di travalicare il tempo e lo spazio ed arrivare fin qui, ai giorni nostri, ancora rilucente di un alone dorato. Come tutti i capolavori d'importanza seminale, anche "Bad" non è stato del tutto compreso e decodificato dai critici del suo tempo? che lo elogiarono e molto, non fraintendetemi, ma senza catturarne lo spirito rinnovatore e soprattutto la potenza comunicativa, forse la più incisiva di sempre. Il New York Times, ad esempio, lo definì l'album catchy e ben fatto di un artista enigmatico, mentre il notoriamente severo Robert Christgau lo acclamò il miglior disco black pop da molti anni a questa parte, ma aggiungendo: privo, tuttavia, del lampo di genio che possedevano "Beat It" e "Billie Jean". Altri lo giudicarono migliore sia di "Thriller" che di "Off the Wall", ma meno prorompente, altri ancora lo considerarono addirittura uno scivolone, e ce ne vuole di propensione al gossip più dozzinale, per ciarlare in questi termini di uno dei dischi più venduti della storia. Lo stesso gossip che non perdeva occasione d'inventare teorie assurde sulla malattia che cambiava l'aspetto di Michael, impegnato dal canto suo a non rispondere, o a farlo solamente a mezza bocca e a bassa voce, come suo solito, impegnato unicamente a fare musica in giro per il mondo. Non a caso, lo spettacolo ai limiti delle possibilità umane conosciuto come "Bad World Tour" ancora riecheggia nella leggenda, tanto è stato memorabile, con le sue centoventitre date diluite in sedici mesi, i quattro milioni e mezzo di fans raggiunti in quindici nazioni e i centoventicinque milioni di dollari guadagnati, macinando nuovi records e accodandosi al mitologico "A Momentary Laps of Reason Tour", dei Pink Floyd. Nonostante tutta questa magnificenza, tuttavia, un fatto rimane inequivocabile: "Bad" non ha eguagliato il capolavoro precedente. Thriller fu? be', chiamarlo meteora non renderebbe giustizia. Fu un vero e proprio meteorite. Sì, un gigantesco asteroide giunto da una stella già conosciuta, ammirata e amata, quella che aveva regalato al mondo gioielli come "Off the Wall", e tanta altra musica fin dai tempi dei Jackson 5. L'impatto al suolo fu tremendo e le conseguenze devastanti: per anni non si celebrò che Thriller, non si imitò altro che Thriller, non si discusse che di Thriller. Era la mania del momento, e a buona ragione, con la sua qualità formale, il suo marketing innovativo, i suoi video in perfetta simbiosi con il sentire dell'immaginario collettivo di quegli anni. E il suo gran tiro, inutile negarlo. Tutto perfetto, geniale perfino, nonostante non inventasse nulla, e dicesse anche relativamente poco del suo autore. Vendette più di ogni altro album mai prodotto nella storia della musica, e quando un artista raggiunge un livello del genere, quando archivia un simile trofeo, difficilmente può sperare di superarsi. Il grande nemico, tuttavia, è il cosiddetto hype: l'aspettativa del pubblico, un'attesa così carica di presupposti, pretese, sogni inverosimili, da essere del tutto impossibile da superare per il semplice fatto che travalica il senso del reale, del realisticamente possibile. Quanto realizzato da Michael Jackson era stato talmente grande, che solo l'utopia, il sogno, poteva superarlo, e per quanto "Bad" sia un disco enorme, non sarebbe mai potuto arrivare a tanto. Eppure, oltre a tutti i grandi lasciti che abbiamo citato, "Bad" ha il grande merito di parlare del suo autore come nessun'altra opera prima di esso, di riuscire qualche modo a delinearlo, rendendolo insieme più umano e disumano, incarnandolo in un uomo dalla sensibilità quasi straziante e idealizzandolo nell'astrazione, fino a renderlo parte integrante del suo pubblico. Uomo e Mito, quasi Michael volesse assurgere non a Re, ma a Messia del Pop... quasi riuscendoci, perfino, nonostante la malattia, i dolori, le malelingue. Riguardo "Bad" potremmo dilungarci anche sulla varietà espressiva, sul sempre infuocatissimo funk, sull'effettistica elettronica che lo rende oggi un po' datato, ma che allora era coraggiosa inclusione stilistica, alla delicatezza e all'accortezza delle parti più pop, pensate per parlare alle masse, certo, ma senza quasi mai scadere nel banale; o potremmo accennare degli evidenti influssi hard rock, mai così evidenti e d'impatto, presenti a malapena tra le righe o del tutto evidenti, fino alla totale catarsi di "Dirty Diana". Tuttavia, ritengo che la vera magia dietro quest'album, ciò che davvero lo rende senza tempo, sia la sua Universalità. "Bad" non figura nella top ten degli album più venduti negli Stati Uniti, al contrario di Thriller. Dell'enormità di copie che quest'opera ha venduto, milioni sono state distribuite in giro per il mondo, e non solo in Europa, ma in Asia, Africa, Sud America, mettendo in luce agli occhi dell'intero pianeta un artista non più incatenato dai vincoli familiari, non più il ragazzo di colore che fa musica di colore per il suo pubblico di agiati ragazzi bianchi, ma un uomo vero proiettato al dialogo sull'amore come sui mali del mondo, sui valori della tolleranza come della lotta, del rispetto, della curiosità. Michael Jackson era stato il bimbo d'oro che fa ballare il mondo, ma con Bad, è finalmente divenuto il Re del Pop capace di cambiarlo, il mondo. C'è una sua frase, estrapolata da un'intervista, che riassume tutto questo meglio di ogni altra cosa: "?nessuno può veramente dire cosa sia il processo creativo, perché? perché io non ho quasi nulla a che farci. Viene creato nello spazio, è opera di Dio. Non mia".        

1) Bad
2) The Way You Make Me Feel
3) Speed Demon
4) Liberian Girl
5) Just Good Friends
6) Another Part of Me
7) Man in the Mirror
8) I Just Can't Stop Loving You
9) Dirty Diana
10) Smooth Criminal
11) Leave Me Alone