LED ZEPPELIN
Led Zeppelin IV
1971 - Atlantic Records

Andrea Ortu
DOPPIATORI:
Simone Mori
Davide Cillo
Led Zeppelin - musica originale
DATA RECENSIONE:
19/03/2021
TEMPO DI LETTURA:











Introduzione Recensione
Musica pop, hip hop, funky ed elettronica. Il rock in tutte le sue infinite sfumature, il metal in tutte le sue più oscure derive. In queste definizioni, tagliate con l'accetta da scaltri giornalisti e critici e discografici, è racchiusa gran parte della musica contemporanea, e ognuna di esse è in qualche maniera figlia di quel colorito, indefinito calderone noto come "anni '70"; un decennio a sua volta figlio di tre grandi movimenti: la beat generation, la controcultura afro-americana, e la cosiddetta "british invasion". Nel 1969, i Led Zeppelin sono il prodotto definitivo di quest'epoca turbolenta, oscura e lucente al tempo stesso, carica d'un energia che qualcuno definisce "mistica". Il loro suono ritrova la pesantezza del blues, mentre la loro poetica ne sovverte gli antichi cliché. Un blues post-moderno e smaccatamente europeo, anglosassone, o come qualcuno già lo definisce: "heavy blues", poiché in esso vi sono già insiti i semi di un suono nuovo, ancora più duro della roccia. I Led Zeppelin sorgono dalle ceneri fumanti degli Yardbirds, la band che fu di Jeff Beck, ma sono la creatura di Jimmy Page, il chitarrista più richiesto di Londra e - dicono - anche il più ambizioso. La loro entrata in scena è poderosa e immorale, indecente, con lo sventurato dirigibile Hindenburg a fare le veci di un enorme fallo maschile in fiamme, e se la critica benpensante li detesta fin da subito, la folla li acclama. Jimmy Page affascina con i suoi rituali sciamanici, con il theremin e l'archetto da violino, e il suo interesse per l'occulto, portato avanti nella sinistra dimora che fu di Aleister Crowley, intimorisce i detrattori e fa innamorare i fan; Robert Plant fa sue tutte le donne che vuole, gli bastano i lunghi riccioli dorati, i movimenti del bacino, il fisico agile e un sorriso disarmante. La sua voce è puro tuono, pressoché inarrivabile nello splendore dei vent'anni. "Sono un dio dorato", dirà di se stesso in quegli anni magici, prima che la sventura lo riportasse alla condizione di mortale. John Bonham, uomo di famiglia e padre affettuoso, il destino già segnato sul fondo d'un bicchiere di vodka, è l'istinto primordiale, la bestiale avanguardia del sound Zeppelin. Le sue bacchette possono segnare il tempo con la precisione di un orologio atomico, accarezzare le orecchie con la morbidezza di un bacio, ma più spesso preferiscono deflagrare, urlare come il motore di una macchina in corsa e martellare come l'amplesso più selvaggio. John Paul Jones è il genio, quello vero: talento puro e genuino, ma raffinato da anni di studio. La sua conoscenza di un numero imprecisato di strumenti noti alla razza umana è inestimabile, la sua abilità nel suonarli rinomata quasi quanto la sua composta riservatezza. Il suo basso è la colonna portante di un tempio del suono che rischierebbe di crollare sotto il suo stesso peso, le sue tastiere ne rappresentano i preziosissimi fregi. Quattro musicisti la cui speciale alchimia è divenuta leggenda, s'incontrano all'alba di quel decennio magico, di quegli anni '70 carichi di tensioni, paure, speranze e passioni. Il primo album è tanto acerbo quando dirompente, più che ispirarsi al blues ne saccheggia spudoratamente il repertorio e ne plagia i capisaldi, ma da quei plagi, paradossalmente, la band dà forma a qualcosa di mai udito prima di allora; "Led Zeppelin" è un caotico mare in tempesta su cui veleggiano, impavidi o folli, galeoni di puro genio musicale. Neanche un anno dopo, "Led Zeppelin II" mette ordine nel caos e guida i velieri verso porti sicuri, lontane città oltreoceano dal nome di "consapevolezza", "maturazione" e "personalità". Mai prima d'allora s'era sentito un suono così maledettamente duro, sebbene ancora incompleto. La band passa un anno di fuoco: il tour americano, una lista di date fitta come un elenco telefonico, e naturalmente gli eccessi... alcolici, sessuali, d'ogni genere, molti dei quali entrati di diritto negli annali del rock. Page e Plant decidono di riposare fra le verdi colline del "Seno D'Oro", in Galles: Bron Yr Aur. Lì, nell'idilliaca pace del cottage della famiglia di Robert, i due pongono le basi di "Led Zeppelin III". No, i ragazzi non hanno pazienza per i nomi, a contare sono unicamente i fatti. Il terzo album ritrova le radici celtiche di quattro musicisti britannici, unendo il folk europeo al sound americano, l'antica magia alla moderna dissidenza. È un capolavoro, puro e semplice, ma un capolavoro decisamente "morbido"... un po' troppo, per un pubblico così giovane e turbolento. La band è ormai matura e affiatata al punto giusto, ma deve imparare l'equilibrio, fare sua quell'armonia che appartiene agli immortali. I nuovi pezzi vengono registrati a Headley Grange, un tempo rifugio per orfani e diseredati, luogo di echi e d'antiche presenze, adesso ancora una volta un rifugio, ma di spiriti ribelli e anime dannate. Sì, Headley Grange è quel genere di luogo in cui l'arte sorge spontanea, come richiamata da forze misteriose, assolute. Ne parla proprio Jimmy Page: la ragione per cui siamo andati lì, in primo luogo, è stata quella di dar vita a una situazione in cui avremmo potuto scrivere e vivere realmente la musica. Non avevamo mai vissuto quell'esperienza come gruppo, prima d'allora, a parte quando Robert e io siamo andati a Bron-Yr-Aur. Ma eravamo solo io e Robert, laggiù, in giro per il Galles a divertirci. A Headley Grange è stato differente. Eravamo tutti noi, focalizzati e concentrati in quell'unico ambiente, e l'essenza di ciò che lì ha avuto luogo si è manifestata attraverso tre album. È l'8 novembre del 1971, quando la più silenziosa delle bombe esplode in tutto il Regno Unito. Non c'è stato annuncio alcuno, né pubblicità, eppure i negozi di vinili sono affollati di ragazzi e cercano tutti lo stesso disco, un album senza titolo, senza il nome della band, senza niente a parte una grafica assai bizzarra, fuori dal tempo. Dicono si tratti del quarto album dei Led Zeppelin, roba veramente grossa. Si dice anche che quest'insolito teatrino, questa sfacciata mossa di mercato, sia una sorta di protesta da parte della band, un modo per ricordare a certi critici che il successo del Dirigibile è frutto di qualità, non di mera fama. È un suicidio commerciale trasformato in successo clamoroso, ulteriore segno della lungimiranza di Page e della scaltrezza del manager, Peter Grant. I giovani osservano la copertina con diffidenza e fascinazione a pari merito, intrigati dalla dicotomia ch'essa rappresenta: l'anziano uomo con le fascine, immortalato in una cornice dallo sfondo bucolico, respira un'aria sconosciuta a questi ragazzi del ventesimo secolo, londinesi e newyorkesi che ai ritmi della natura hanno sostituito quelli dell'elettricità. Ma il muro tutto croste e crepe che ospita il quadro, prosegue sul retro di copertina in un semplice gioco prospettico, laddove s'apre lo scorcio urbano di Ladywood e della sua Salisbury Tower, a Birmingham. Il contrasto fra vecchio e nuovo è chiaro come l'acqua, così come il senso d'ineluttabile ciclicità di tutte le cose, ma il pezzo forte è il disegno all'interno: un'illustrazione dell'Eremita dei tarocchi ad opera di Barrington Colby. In essa, l'anziano mistico alza al cielo una lanterna in cui brilla il Sigillo di Salomone, illuminando di saggezza l'umanità. Eccola, la mistica di Jimmy Page, i legami con l'esoterismo che affascinano i seguaci e intimoriscono gli stolti. Di fatto un'altra dicotomia, due missioni apparentemente inconciliabili: isolamento intellettuale e condivisione della conoscenza, proprio come i Led Zeppelin, dalla solitaria campagna britannica ai palchi di tutto il mondo, da Los Angeles al Giappone; i cosiddetti Houses of the Holy, le "dimore del sacro", come li definiranno in futuro. Sulla quarta di copertina, sopra i titoli delle otto canzoni di questo Untitled, o Led Zeppelin IV, o chissà che altro s'inventeranno per tentare di definirlo, affiorano quattro simboli di evidente radice arcana, di sicuro impatto su di un pubblico affamato di segni e simbolismi, adepti di quella nuova religione di cui gli Zeppelin sono i più suggestivi dei sacerdoti: l'Hard Rock. Qualche intellettuale nota subito che alcuni dei simboli sono tratti dal "Book of Signs" di Rudolph Koch, e che quello di John Bonham, tre anelli sovrapposti, rappresenta la Trinità e la famiglia, gioia e rimpianto del batterista; essere padre a diciott'anni, divenire poco dopo un dio del suono, e lasciare i propri cari per andare in tour dieci, o undici mesi all'anno, è una lacerazione che lo segnerà fino all'ultimo dei suoi giorni. La figura scelta da John Paul Jones è una runa e un talismano, simbolo di saggezza, fiducia, competenza e fertilità, compresa quella intellettuale: una classica triquetra celtica, tre archi incrociati, o mandorle, sullo sfondo di un cerchio. Il simbolo di Robert Plant è la piuma, anch'essa contenuta in un cerchio, geometria che richiama a cicli eterni, infinita estensione del mondo spirituale. L'ha disegnata lui stesso, e rappresenta il coraggio e l'armonia, la creatività e la saggezza, a seconda d'interpretazioni che vanno dall'antico Egitto ai nativi americani, di cui Robert subisce una fascinazione ch'è figlia del suo tempo. Infine il simbolo più misterioso dei quattro: un ghirigoro ideato da Page le cui linee sembrano disegnare la parola "ZoSo", termine talvolta usato per definire questo quarto album. Solo Jimmy conosce il vero significato del suo segno; il mistero dopotutto è parte del suo fascino, un culto della personalità che lui padroneggia come pochissimi altri. Tuttavia, c'è chi ha notato l'affinità del disegno con antichi cifrari magici, codici dimenticati di criptica interpretazione; o l'assonanza con "Zos Kia Cultis", il culto del mago Austin Osman Spare, discepolo di Aleister Crowley e da questi ripudiato. Ovviamente, su ognuno di questi simboli, sorgono e sorgeranno ancora interpretazioni e leggende, storie di patti col diavolo e maledizioni, scie di morti e drammi familiari. Ma più che il potere del maligno, a sancire il successo mediatico dell'album pare proprio l'aura mistica, perfino oscura di cui la band si circonda, una pubblicità di gran lunga più potente di qualsiasi prima pagina, più rumorosa di qualsiasi radio, e certo più memorabile di qualsiasi dannato poster. Sarebbe un errore parlare di fortuna o ingenuità, Jimmy Page non è un genio solo alla sei corde: dietro ogni dinamica commerciale, ogni elemento d'immagine, c'è ancora la sua lungimiranza, quella di Peter Grant, e l'occhio lungo di Ahmet Ertegun e la sua Atlantic Records. Ma neanche a dirlo, la vera anima di questo miracolo in vinile è la musica. I ragazzi che riempievano i negozi, e che ora si riversano sulle strade, se ne rendono conto quando tornano a casa, il nero disco a girare su note destinate alla Storia. La reazione è stupefacente, deflagrante, carica di gioia e inquietudine e desiderio incontenibile. Le voci circolano concitate, incontrollate, ché un capolavoro sa farsi pubblicità anche da solo, e l'album senza titolo è già pietra miliare, opera irrinunciabile di un decennio appena cominciato. Ogni singolo brano di quest'opera diverrà un caposaldo del repertorio Zeppelin, e alcuni, dell'immaginario collettivo tutto. Per sempre. Una scala per il paradiso lunga appena otto inestimabili canzoni, quella perfetta alternanza di luci e di ombre così cara a Jimmy Page. L'armonia è raggiunta, e con essa l'immortalità. Che sia stato davvero un patto col diavolo?

Black Dog
Volevo provare un blues con una parte di basso a onde, ma non lo volevo troppo semplice. Volevo che si rivoltasse. Spiegai la cosa ai ragazzi e ci buttammo a capofitto. Faticammo con quell'inversione, fino a che Bonham immaginò di andare in quattro come se l'inversione non ci fosse. Il segreto fu quello. Ad ogni modo, il titolo venne da un cane che vagava per lo studio. Il cane non aveva un nome, così chiamammo la canzone Black Dog.
?- John Paul Jones - Led Zeppelin: Light and Shade
Headley Grange non era frequentata unicamente da spiriti inquieti e da musicisti altrettanto inquieti; proprio nel periodo in cui l'antico edificio ospitava i Led Zeppelin, pare s'aggirasse senza meta un labrador nero, anziano e un po' sgangherato, e tuttavia ancora piuttosto... arzillo, diciamo, nei confronti del gentil sesso canino. Visto che la canzone con cui la band vuole aprire il suo quarto album parla di desiderio, e dal momento che parliamo del desiderio di un uomo piuttosto attempato per una ragazzina, "cane nero" dev'essere sembrato un titolo maledettamente appropriato. Ma c'è dell'altro. Black Dog ha in sé tutti gli elementi della poetica Zeppelin: la femmina fatale di matrice blues, la decostruzione del cliché su base oscena e sensuale - peraltro tipica del post-modernismo britannico di allora - e un richiamo immaginifico più sottile e ricercato, sempre vagheggiato e mai del tutto esplicitato. Sul finire del diciottesimo secolo, lo scrittore inglese Samuel Johnson usa il termine "black dog" per definire quella che oggi chiameremmo "sindrome depressiva", e Winston Churchill farà lo stesso centocinquant'anni dopo, stampando l'espressione nell'immaginario collettivo britannico. La tensione sessuale del protagonista del brano, l'implicita solitudine del suo animo, la costante delusione in cui vive per nutrire la sua insana passione, lo pongono all'ombra dello stesso "cane nero" che fu di Johnson e di Churchill - sebbene, va detto, quella dei Led Zeppelin non sia certo l'opera di chi ha a cuore tematiche così decadenti. I ragazzi inglesi, infatti, riducono all'osso l'eredità blues della canzone, la tragedia intrinseca di quella poetica già semplice e primordiale, trasfigurando il dramma in siparietto, l'uomo e il suo dolore in macchietta erotica, e la femme fatale in una donna moderna e indipendente, giovane, consapevole di tutto il suo femmineo potere. L'intero brano è un botta e riposta fra le incitazioni dell'uomo - la cui ossessione vive nella languida voce di Plant - e la tracotante, magnifica, gloriosa superbia della ragazza, presenza eterea che qui diviene pura strumentale: la sua spudorata vanità nella possanza dei bassi, ogni voluttuoso movimento di bacino nell'acuto ruggito della chitarra. L'effetto di basso ideato da Jones apre la canzone alla stessa maniera di come un sasso s'infrange sull'acqua, permettendo così alle onde di lambire le grida dell'uomo, eccitato fino alla disperazione, e di esaltare la risposta della strumentale, in uno dei riff più memorabili di tutto il catalogo zeppelin. La premiata ditta Jones&Bonham è la colonna portante di quest'incredibile dialogo, un copione che prosegue e va avanti fino alla fine, spezzato unicamente dalla cantilena sarcastica di Plant, ormai preda delle sue pulsioni più primitive, e da un'esibizione chitarristica amabilmente in stile Page, momento culminante di molti concerti Zeppelin. Il chitarrista è fenomenale, deflagrante, e Bonzo, come tutti chiamano John Bonham, è forza primigenia fattasi percussione. Plant è puro eros, e Jones, onnipresente alle fondamenta di ogni elemento, semplicemente un pezzo di futuro. C'è tuttavia una strofa che sembra come fuori posto, in quest'irreale alternanza di follia, superbia e desiderio: con occhi che brillano, rossi d'ardore. Un riferimento all'uomo soggiogato dall'amore, certo, al suo cocente e insano desiderio... o forse, richiamo ad un altro Cane Nero della cultura britannica: una bestia notturna a metà fra diavolo e animale, raccontata ai viandanti dai vecchi paesani, o da anziane signore inglesi agli impauriti nipotini; una creatura che ispirò a Sir Arthur Conan Doyle il suo terzo Sherlock Holmes, "Il Mastino di Baskervilles", e in chiave moderna e derivativa, il "Cujo" di Stephen King. Cane preda del desiderio, cane preda della depressione, cane preda del demonio: tutto questo è stato ed è tuttora il Cane Nero dei Led Zeppelin, ancora oggi emblema di suoni e di richiami immaginifici divenuti immortali.

Rock and Roll
Sì, i Led Zeppelin sono proprio come il loro cane nero: apparizione spettrale carica in egual misura di erotismo e di oscurità. Ma se facciamo più attenzione, se porgiamo l'orecchio ancora una volta al resto del repertorio, realizziamo che sono anche molte altre cose: potenti rivoluzionari del suono, certo, e tuttavia, anche integerrimi paladini della tradizione, ché la coerenza è per i mediocri. I Led Zeppelin nuotano da sempre nel grande mare del Paradosso, e lo fanno con astuzia e passione. Il genio musicale, l'impertinente audacia della giovinezza, hanno reso il sound Zeppelin base fondamentale di tendenze in là da venire, di musica ancora da scrivere e di artisti ancora da svezzare. Ma le basi, quelle che la band ha decostruito con ferocia, con precisa e maniacale pazienza, sono quanto di più classico vi sia in seno alla cultura pop di quegli anni: il blues americano e il folk britannico. Gli anni '70 europei sono questo, dopotutto: influssi atlantici e riscoperta d'antiche radici. Atlantic Records aveva fatto la sua fortuna cercando musicisti di colore nelle strade, nei ghetti, nei locali meno borghesi d'America, trasformandoli in stelle e portando i semi della controcultura per un intero continente, fino a valicare gli oceani e arrivare in Regno Unito, eterno ponte d'Europa. Jimmy aveva scelto l'etichetta proprio per la sua storia, affinché i Led Zeppelin venissero associati al classico, alla tradizione. E ricercare la tradizione, molto spesso, significa celebrarla; e celebrarla vuol dire talvolta abbandonarsi alla nostalgia di tempi lontani. Ad essa i Led Zeppelin s'abbandonano con un altro dei loro capolavori storici: Rock and Roll, ovvero potenza che segue altra potenza. Ma se l'incedere di Black Dog è quello di un carro armato pieno di donne nude, la potenza di Rock and Roll sta nella grinta d'una coppia in pista da ballo, gli agili corpi a definire vortici su note indemoniate. Naturalmente si parla di nostalgia, d'un passato etereo e idealizzato, di tempi spensierati in cui si facevano promesse che non potevano essere mantenute; tempi d'amori fugaci e di balli scatenati. Tempi, insomma, in cui dominava incontrastato il rock 'n' roll. In mano ai Led Zeppelin, questo non è solo un genere musicale, ma un sentimento vasto e immortale ch'esiste finché vive la gioventù, un ideale cui il protagonista del brano cerca di tornare nonostante una vita priva d'amore, scandita dal lavoro e dall'alternarsi grigio delle giornate. Il mito della beat generation oramai è il passato: la generazione cresciuta a pane e rock 'n' roll, a Kerouac e Little Richard, Gary Snyder e Bob Dylan, negli anni '70 è ormai ricordo di gioventù di un uomo avvinto alla realtà, sconfitto dai suoi stessi anni e rassegnato alla normalità. Ma per una volta, il passato torna davvero, il morto risorge, e il canto di Plant si fa inno a una rinascita spirituale e ideologica che per noi significa nuova musica, nuova giovinezza; nuova, durissima roccia. Perché se è vero che "Rock and Roll" persegue e omaggia il genere di riferimento, è anche vero che ne inspessisce ogni elemento ben oltre i canoni del buon senso. Il cantante definisce la sua poetica attraverso onomatopee che sono musica, non parole, in un dialogo continuo e fitto con la strumentale, veloce, pesante e affilata come una spada giapponese. Jimmy Page, lasciati da parte microfono e amplificatore, allaccia la sua chitarra direttamente alla consolle di missaggio, e in cambio ottiene un suono stradaiolo, ruvido, così sporco da suonare quasi sbagliato eppure, proprio per questo, molto vicino allo spirito da cui nacque il vero rock 'n' roll. John Bonham, preda di se stesso, non è più Bonzo ma The Beast, l'altra identità per cui è divenuto famoso o malfamato, a seconda dei casi, mentre John Paul Jones, be', è lì: ordinato e paziente, a costruire mattone su mattone il muro portante di un altro riff memorabile. Al solo di chitarra segue un'accelerazione folle nei passi di danza: è il piano di Ian Stewart, tra le poche guest star ad aver lavorato col Dirigibile. Il musicista è letteralmente straripante, e forse nessuno come lui, allontanato dai Rolling Stones per motivi d'estetica e di marketing, può capire il senso profondo di un pezzo come "Rock and Roll", nostalgia e rimpianto d'un uomo che continua a sognare le danze e le luci e i palchi d'un antica giovinezza.

The Battle Of Evermore
La Regina della Luce ha preso il suo arco e s'è voltata per partire.
Il Principe della Pace, abbracciata l'oscurità, ha camminato da solo nella notte.
Oh, danza nell'oscurità della notte, canta alla luce del giorno
Il Signore oscuro cavalca in forze, questa notte, il tempo ci dirà tutto.
Dicono che un bel giorno Jimmy abbia rubato il mandolino di John, e che con quello abbia inventato The Battle of Evermore di getto, in studio, fra le ariose stanze di Headley Grange. Ma la Battaglia di Evermore è in realtà un ritorno a Bron Yr Aur, un pellegrinaggio fra colline e montagne e valli che ha il sapore del sogno, di quelle fiabe d'altri tempi in cui la magia più luminosa andava a braccetto con l'oscurità più profonda. Presi alla sprovvista da un brano di tale delicatezza, i fans fanno a gara a cercare significati nascosti, dettagli fra le righe che mettano in luce qualche profezia nascosta: messaggi esoterici dei sacerdoti del rock a loro, gli adepti del nuovo Culto. Allora c'è chi è sicuro che sia tutto un riferimento al Signore degli Anelli, che la regina della luce sia in realtà la sovrana elfica Galadriel, e che il principe della pace sia l'eroico Aragorn... o magari Frodo, il cui cammino verso Mordor è segnato dall'oscurità. C'è invece chi parla di storia scozzese, di eterna lotta fra Luce e Oscurità, o ancora chi cita i cicli arturiani e la mitologia anglosassone. Il punto, ancora non lo sanno, è che hanno tutti ragione. Quella di Evermore è una battaglia che non ha mai luogo, che rimane eterna attesa, preparazione di una lotta cui siamo tutti predestinati, e la sua storia è lungi dall'avere un significato univoco o uno svolgimento definito. Robert Plant, ormai sempre più maturo e sicuro del suo ruolo nella band, tesse una trama fatta d'episodi sospesi nella nebbia, storie i cui destini non s'intrecciano e che pure sono parte di un quadro più ampio, vasto quanto il mondo e forse di più. Quanto ai riferimenti all'opera di Tolkien, essi sono fisiologici ai miti del nord: impossibile parlare degli uni senza intersecarsi con gli altri. Dopotutto, negli anni '70 la fascinazione intorno la narrativa tolkeniana è cosa ben diversa, rispetto ad oggi; lungi infatti dall'essere un brand conosciuto da tutti, Tolkien e i suoi libri hanno l'alone del profeta e della profezia, e i movimenti giovanili ne sono catturati a una maniera che sfiora la devozione. Ai Led Zeppelin non importa tanto omaggiare la compagnia dell'anello, quanto che il pubblico tragga le sue conclusioni su quella che è la Storia per eccellenza, quella che ci riguarda tutti e che a ben vedere è la storia di Frodo, di Artù, di Cristo, di noi tutti da quando siamo su questo pianeta. In tal senso "The Battle of Evermore" vive in perfetta simbiosi con "Ramble On", fra i gioielli di "Led Zeppelin II", con la stessa "Stairway to Heaven" e con "No Quarter", il tetro capolavoro di John Paul Jones, fatto anch'esso di attesa e di guerra, di misteriose figure indistinguibili nel fitto della neve. Jimmy inventerà l'epic metal su "Presence", ma adesso, l'aura epica che trasuda da "Evermore" è definita da una leggerezza che ne stempera ogni tensione, immergendo personaggi e destini in una favola dai contorni rarefatti , perennemente in bilico tra sogno e incubo.
Il mandolino che apre e accompagna l'intera opera è proprio di Jimmy Page, rafforzato dall'effettistica di John Paul Jones, mai ingombrante e quasi invisibile, ma a definire l'opera è una sinergia corale e avvolgente rara perfino per i Led Zeppelin. Nella moltitudine di suoni, i cui echi sembrano perdersi tra le valli di una terra indefinita nel tempo e nello spazio, risaltano con vigore e passione le voci di un uomo e di una donna; lui naturalmente è Robert Plant, lei, invece, è Sandy Denny, voce solista dei Fairport Convention. La cantante aveva conosciuto Robert al festival di Bath nel 1970, legando con lui e la sua band in un sincero rapporto di amicizia e stima professionale. La loro interpretazione della battaglia di Evermore è un dialogo fatto di risposte vaghe a domande sottintese, di urla ora strazianti, ora cariche di gioia, da echi canzonatori che riverberano su pareti di chitarra acustica e mandolino. Il risultato è un gioiello che ha la grazia di una colomba e il peso d'una piuma, fiaba eterea e inquietante al tempo stesso, come solo le migliori fiabe sanno essere. Sandy Denny morirà sette anni dopo, nel 1978. I suoi ultimi anni saranno funestati da difficoltà nelle relazioni, dall'alcol e dalla depressione, ma alla sua morte, ovviamente, si dirà che la colpa è stata dei Led Zeppelin, e della maledizione che i loro patti col diavolo si portano dietro.

Stairway To Heaven
Sì, ero seduto vicino a Pagey mentre la componeva. Fu realizzata molto in fretta. Ci volle un po' per sistemarla ma non tanto, era un pezzo molto fluido, una canzone facile come non succede mai. Era come se... hmmm, come se qualcosa dovesse uscire in ogni caso in quel momento. C'era una forza che spingeva, una voce che diceva "ragazzi, siete dei tipi in gamba, ma se volete fare qualcosa di veramente intramontabile, eccovi una marcia nuziale.
- Robert Plant su Stairway to Heaven, da "Led Zeppelin: Light And Shade" di Cameron Crowe
Quando Michelangelo Buonarroti presentò la sua "Pietà" a Roma, intorno al 1498, la sensazione fu enorme. L'opera, pur non esente da critiche, fu immediatamente salutata come un capolavoro ispirato da Dio, inestimabile manufatto destinato all'immortalità. Piccato dai commenti dei suoi contemporanei, che discutevano su chi avesse scolpito quella statua - se questo o quell'artista famoso - Michelangelo, appena ventenne e sostanzialmente sconosciuto, incise la sua firma sulla fascia che tiene il manto di Maria. Era la prima volta che un artista faceva una cosa del genere: un atto rivoluzionario. Nel 1971 i Led Zeppelin pubblicano un album senza nome e senza firme, e per quelli che sono i canoni dell'industria discografica, è un gesto rivoluzionario quasi quanto quello del Buonarroti. Il capolavoro di quest'album si chiama Stairway to Heaven, e proprio come la "Pietà", è salutato dai suoi contemporanei come opera immortale e grandiosa, senza aver bisogno d'aspettare il giudizio della storia, e anzi, scrivendone esso stesso un piccolo paragrafo. Il suo successo, travalicherà ben presto la fama degli stessi Led Zeppelin. Perfino la critica di settore, la cui ostilità per il Dirigibile è proverbiale, non sa bene come porsi; d'altra parte come lo giudichi, un capolavoro? Che voto puoi dare alla Monna Lisa? Che numerino puoi appiccicare su un quadro del Caravaggio, o su un'opera di Beethoven? Allora, i critici, o tentano di riportare alla ragione terrena un brano che vive altrove, al di là delle nuvole e dello spazio, o salgono quella dannata Scala per il Paradiso e ne decantano la gloria, salutando "Stairway to Heaven" e l'album Senza Titolo come capolavori, senza "se" e senza "ma". Ai contemporanei non è chiaro cosa provochi questo vero e proprio delirio collettivo; qualcuno pensa sia il testo, così criptico, oscuro, terribilmente fascinoso. Robert Plant l'ha tirato fuori in pieno flusso di coscienza di fronte al caminetto di Headley Grange, il naso ricolmo dell'aroma di braci secolari, le orecchie carezzate da echi di antiche voci; un testo che, in qualche maniera, fa suo ogni singolo elemento della poetica di Robert: c'è la femmina fatale di matrice blues, ora donna materialista, ora eterea seduttrice; c'è la componente immaginifica proveniente dal folk, così squisitamente britannica; e naturalmente, ci sono quei richiami di natura spirituale che molti definiscono "esoterici". Il pubblico è tanto confuso quanto deliziato. Tutti seguono il perverso copione di Jimmy e Robert, tutti si pongono domande cui non sanno dare una risposta: il titolo del brano, "scala per il paradiso", viene dalla Bibbia, pensano... o magari da quel vecchio film inglese del '46, "Stairway to Heaven - a Matter of Life and Death"; quanto al Pifferaio, molti ritengono che sia una figura positiva, simbolo di ragione, d'intelletto, di risveglio spirituale. Sulle note del suo flauto si fa festa. Ma... il Pifferaio, spesso, non è anche un subdolo ammaliatore? Eccome, se lo è. Forse entrambe le cose, ché la vita è raramente in bianco e nero, forse nessuna di esse. E la Regina di Maggio? Be', sicuro un richiamo a forze primordiali e pagane - ritengono in molti... o magari alla Vergine Maria, festeggiata proprio il mese di maggio, chi lo sa? Dopotutto, l'immaginario collettivo ha sempre dipinto la donna in un alone d'ambiguità: materialista e pericolosa, incarnazione del Caos, oppure immacolata e salvifica, incarnazione di purezza, amore, pietà. E così fanno pure i Led Zeppelin. E poi, il cristianesimo non s'è forse sovrapposto al paganesimo, tanto nella storia quanto nella letteratura? E così via, ancora e ancora, domande che generano altre domande, alimentando il Mito. Non mancano nemmeno le solite accuse di satanismo, deliri su strofe che, ascoltate al contrario, chiamerebbero in causa il demonio, o il 666, o altre amenità del genere; tutta ottima pubblicità gratuita, per i ragazzi d'Albione. Qualcosa, tutto sommato, è perfettamente chiaro: "Stairway to Heaven" è un insieme di elementi senza alcuna pretesa di avere un significato univoco e omogeneo, un brano la cui poetica è insieme sociale, antimaterialista, spirituale e profondamente intimista, astratta quanto il flusso di coscienza che l'ha generata. Come sempre, ad essere importante non è il significato delle parole, ma il suono delle parole, la misura in cui le parole trascendono il linguaggio e diventano Musica. Che sia semplicemente la musica, allora, il segreto di Stairway to Heaven? Può darsi sia proprio il canto, l'interpretazione di Robert Plant, ad essere determinante: il modo in cui il cantante sussurra nell'orecchio dell'ascoltatore, e cresce, cresce ancora, poi esplode in una catarsi da brividi come poche altre nella storia del Rock. O magari è la prova di Jimmy Page, ad essere decisiva: anch'essa d'una delicatezza piena e avvolgente, drammaticamente infranta da una violenza disperata, struggente, totale. Per non parlare di quell'assolo che alcune classifiche definiscono il migliore di sempre, se solo certe classifiche avessero davvero valore. Ma come potrebbe funzionare la voce di Plant, o la chitarra di Page, senza i suoni e i flauti di John Paul Jones, il cui richiamo mistico delinea paesaggi ultraterreni, o senza i rintocchi di John Bonham, la cui ruvida energia è collante fra cielo e terra, solidità che si contrappone alla dittatura dell'astrazione. E tuttavia, nonostante la maestosità dei singoli elementi, e nonostante la magica alchimia che li tiene uniti, Stairway To Heaven non è una vetta d'irraggiungibile virtuosismo tecnico - neanche lontanamente - né di coerenza o di spessore poetico; d'altro canto, però, non è neanche un brano ballabile o divertente, non è un'opera facilmente fruibile da chiunque: è una tragedia di otto minuti inafferrabile e surreale. Eppure ha in sé una magia... un fascino, che chiunque abbia le palle di prendersi sul serio per un attimo e di ascoltarla in silenzio, è in grado di cogliere. A ben vedere è un po' come un altro capolavoro del '71, "Imagine". Quella di John Lennon è una canzone semplice, ben confezionata ma non certo elevata, né particolarmente originale in termini compositivi; il testo pacifista è talmente tagliato con l'accetta, concettualmente, che preso da solo è retorico e stucchevole. Eppure, "Imagine" riesce a fare proprie le esigenze del suo tempo, a fare breccia nel tessuto sociale, e così a divenire la bandiera di una generazione, l'inno immortale di un'ideologia imprescindibile dalla natura umana. Sa emozionare oggi esattamente come quarantacinque anni fa, e così fa Stairway to Heaven. Il segreto del suo successo è tutto qui. Oggi, quasi cinquant'anni dopo, Stairway To Heaven rappresenta una vera e propria leggenda, per molti un rito d'iniziazione, un'indispensabile scuola di formazione. Quando non piace - eventualità rara ma, talvolta, curiosamente alla moda e anche piuttosto chic - la canzone rimane comunque una sorta d'intoccabile mostro sacro, un capolavoro a prescindere. C'è tuttavia chi non si trattiene dal definirla "sopravvalutata", innalzata ben oltre il suo valore effettivo dal mercato che ruotava, e ruota, intorno ai Led Zeppelin, dalla suggestione ch'emana il misticismo della band o anche, semplicemente, da una fortunata successione di eventi. Be', la verità è che non hanno tutti i torti. Il successo di Stairway to Heaven è senz'altro in parte dovuto al nome di chi l'ha scritta, al marketing che l'ha sfruttata e alla fascinazione che l'ha coinvolta, e come sempre, a tutta una serie di controverse fortune. E tuttavia, la prova del tempo è inconfutabile: parliamo di un'opera in grado di superare il tempo e lo spazio e di imprimersi nelle persone come fosse stata scritta ieri. E questo tanto basta. "Sopravvalutata" è quindi il termine sbagliato; Stairway to Heaven è "abusata" - questo il termine corretto. Abusata come la Pietà, come la Gioconda, come la Nona Sinfonia di Beethoven; abusata come altri mille capolavori conclamati. Nel 1971 è già chiaro a tutti: c'è un prima e un dopo Stairway to Heaven, e ogni musicista, da quel momento in poi, si dovrà confrontare col quarto album e la sua scala per il Paradiso. Oggi, semplicemente, Stairway è considerato il più grande inno Rock di tutti i tempi.
Per qualcuno Stairway è un colossale scherzo, un brano di epica pseudo classica impossibile da prendere sul serio. Per chi invece riesce a sospendere per almeno otto minuti il suo cinico scetticismo, la canzone rimane il più grande inno epico di tutto il rock.
Barney Hoskyns, critico musicale

Misty Mountain Hop
Lontano su nebbiosi monti gelati | in antri oscuri e desolati. | Partir dobbiamo, | l'alba scortiamo | per ritrovare gli ori incantati.
?- Dal brano "Far Over the Misty Mountains Cold", Lo Hobbit
La Battaglia di Evermore, incantata e oscura al tempo stesso, è vibrazione sullo specchio dell'acqua, preludio a una tempesta che porta il nome di "Stairway to Heaven". Quest'ultima è baricentro ideale dell'intera opera, occhio di questo quarto ciclone firmato Led Zeppelin. Ad ogni tempesta segue tuttavia la quiete, e la quiete, ora, ha il nome di Misty Mountain Hop: un brano, il cui sostanziale disimpegno sfuma sulle stesse totalità cromatiche di Evermore, rarefatte e inconsistenti come quelle di un acquarello, evitandone però le nette pennellate blu notte, o quell'alternarsi di rossi e neri che funesta la poesia di Stairway, altrimenti candida come il Paradiso. Il titolo richiama nuovamente l'opera di Tolkien, e questa volta, il riferimento è chiaro a tutti: le Misty Mountains, le Montagne Nebbiose, sono infatti centrali nella narrazione de Lo Hobbit, e quella dei Led Zeppelin è la loro ballata: La Ballata delle Montagne Nebbiose. Più che una canzone, una cantilena infantile e sprezzante, ironica e beffarda; pura aria fresca trasformata in cemento armato dal basso di Jones, autore del brano insieme a Page e Plant. Il polistrumentista si unisce alla filastrocca di Robert, lasciando canticchiare le sue quattro corde come l'ugola di un gigante. La batteria di Bonzo è la roccia di queste montagne, la nebbia invece, è l'effettistica elettronica di Jones, e la chitarra di Jimmy, infine, è il cuore dell'avventura: la nostra passeggiata tra pendii, salite e discese, sentieri d'alta quota che risuonano delle urla di Robert, delle sue vibrazioni beffarde, caustiche e sensuali. Il chitarrista ha anche il suo momento solista: in parte, per offrire una catarsi che spezzi la malefica nenia, e un po' per imprescindibile tradizione culturale. A leggere fra le righe, sembrerebbe che Robert si sia posto un interessante quesito: come si sarebbero sentiti Frodo, Bilbo e compaesani dai piedi pelosi, a un evento tipo quello del '68 all'Hyde Park di Londra? Il cosiddetto Legalise Pot Rally era stato un evento memorabile, per gli amanti delle libertà sessuali e... stupefacenti, uno degli ultimi, prima del declino dei figli dei fiori. Certo che gli abitanti della terra di mezzo, con la bocca sempre profumata di erba pipa, non hanno neanche bisogno di porsi il problema, ma è proprio qui il bello. Per una volta l'opera di Tolkien è dissacrata e trasfigurata, le sue creature più celebri messe nei panni di una banda di hippie sul prato d'una manifestazione. Qui, si mischia una varietà umana in un vortice di sentimenti, desideri e paure: l'amore, incarnato dalla nostra baby di sempre; il desiderio, nonostante tutto un po' represso, per la timidezza o per la droga; e naturalmente, il fumo, la vera "nebbia" di queste montagne allucinogene. La paura è incarnata invece dalla polizia, ma la sua comparsa sulla scena è venata di un'ironia surreale, la sua divisa e il suo manganello, presi in giro dalla cantilena sguaiata di Robert. C'è ben poca pace, e un amore alquanto acidulo, in questa canzone, così volutamente disordinata da divenire quasi preludio di punk, al pari della vecchia "Communication Breakdown". Ai live funziona a meraviglia, dicono i fortunati che hanno visto dal vivo i Led Zeppelin, un gioiellino che rende omaggio alla Terra di Mezzo e ai suoi abitanti, siano essi hobbit o figli dei fiori, rappresentanti di un movimento demonizzato, demolito e infine ridicolizzato, trasformatosi in macchietta per accanimento terapeutico, e nonostante tutto, rappresentativo di una delle generazioni artisticamente più vivaci della storia. Ma gl'inglesi, dopotutto, non han preso mai troppo sul serio né gli hippie, né i loro detrattori, né il blues né tantomeno Tolkien, così britannici nel loro sarcasmo, e così europei, nella loro cinica disillusione. Ecco perché hanno dato vita ai Led Zeppelin.

Four Sticks
Oh, Sì, resisto coraggiosamente
Oh, Sì, scudi e princìpi sono ben saldi
E Loro non possono sostenere l'ira di coloro che camminano
E lo stivale di chi marcia, baby, attraverso le strade di un tempo così lontano
La cantilena si placa e la nebbia si dissolve, ma la roccia durissima sostiene ancora i nostri passi, in una canzone definita essenzialmente dalle quattro bacchette impugnate da Bonham. Sì, precisamente: quattro bacchette. Four Sticks, per l'appunto, ché i Led Zeppelin non hanno tempo di stare appresso ai titoli. Di questo brano, Jimmy disse che avrebbe dovuto essere qualcosa di astratto, almeno all'inizio, ma qualcosa andò storto... e il bello è che va bene così. "Four Sticks" vive di vita propria, prescinde gli stessi musicisti e trova la sua dignità nell'essere costantemente sopra le righe, amabilmente fuori controllo. Ogni soluzione stilistica nasce dalle difficoltà incontrate nel gestire i tempi, o nel dare sostanza a un'intenzione forse fin troppo astratta, per usare il termine di Page, e quindi, dalla frustrazione d'incontrare un muro sul proprio cammino. Ma necessità fa virtù, e così, ecco le quattro bacchette dare vita a una cavalcata dal trotto sostenuto, rapido e pesante al tempo stesso, a sorreggere il riffing di Jimmy e di John Paul Jones. È proprio il bassista a regalare al brano l'intuizione finale, una raffinatezza che si contrappone alle urla selvagge di Plant e a quel riff così ripetitivo, ipnotico come un antico mantra. L'idea è proprio quella, dopotutto: ispirarsi alle sonorità indiane e lasciarle penetrare nel tessuto della società britannica, così veloce e materialista, rallentare un poco la vita dei giovani inglesi e dare loro un nuovo impulso alla spiritualità. Il testo cantato da Robert è l'unico elemento che rimane sulle righe, idealmente legato all'immaginario delineato su "Evermore", alla poetica di "Stairway" e all'estetica di "Misty Mountain Hop". Lui, il dio dorato, la voce un costante grido di gioia liberatrice, si rivolge alla stessa baby di altre mille canzoni, ora non più donna fatale né madonna salvifica, ma incarnazione di un passato dal quale allontanarsi, personificazione di un legame non tra due persone, ma tra due parti di uno stesso individuo. Robert canta dell'addio e di un cammino, d'una promessa e di una battaglia, esemplificando quella profonda spiritualità che Jones trasforma in musica, impossessandosi d'antichi, esotici suoni, portandoli con sé verso il futuro. In fondo vorrebbe essere un semplice brano psichedelico, "Four Sticks", magari un po' più duro, che insomma, c'è pur sempre il "marchio Zeppelin"; invece, diviene qualcosa d'altro e indefinibile, preludio a sonorità elettroniche molto in là da venire, a una poetica che sarà ermetica, a una ripetitività che sarà nuova espressione artistica. Tutto questo, ovviamente, Jimmy Page o John Paul Jones ancora non lo sanno, e non lo sapranno neanche quando andranno ancora oltre, con quel capolavoro vero che sarà "No Quarter". Per loro, "Four Sticks" continuerà ad essere un pezzo strano e complicato, un gioiellino trovato per puro caso sul finire d'un sentiero fra montagne nebbiose. Coloro che vogliono capire come sarebbe dovuta essere l'opera nelle intenzioni degli autori, di Jimmy e di Robert, potranno ascoltare la versione registrata dai due con l'orchestra di Bombay nel 1972. L'album senza titolo offre qualcosa di molto differente, meno coerente, nelle intenzioni, ma non meno prezioso: la perfetta chimica tra quattro musicisti. E la chimica, si sa, dà spesso luogo a reazioni incontrollate e maledettamente esplosive.

Going To California
In un'intervista rivolta a Guitar World, Jimmy Page canterà le lodi della band e di Stairway to Heaven, affermando: "Occorre molto lavoro, molta fatica, solamente per avvicinarsi a quei livelli di talento e di assoluta eccellenza. Non penso ci siano in giro molte persone in grado di farlo. Forse una sola, Joni Mitchell. A casa mia ascolto sempre quello: le canzoni di Joni Mitchell". Nel 1971, Joni Mitchell è l'artista folk più famosa d'America, forte di un sound che richiama sia l'avventurosa frontiera, sia una sensibilità un po' più europea, tipica degli artisti canadesi. La sua fama rivaleggia solo con quella dei Fairpoint Convention di Janis Joplin, ma la sua autorialità non ha rivali, e non solo la sua voce, ma anche il suo stile e il suo approccio al mercato saranno d'ispirazione alle future star, da Madonna a Lady Gaga. A giugno di quell'anno esce "Blue", il suo quarto album, ed è un successo di pubblico e di critica semplicemente clamoroso. C'è un momento incredibilmente assolato, su "Blue", un momento in cui sembra di poter respirare il giallo del sole e il rosso del deserto, di potersi avvolgere nella nostalgia come in una coperta. Quel momento, si chiama "California". Pochi mesi dopo è il turno di un altro quarto album, quello dei Led Zeppelin, e l'omaggio che Robert e Jimmy porgono alla Mitchell si chiama Going to California, Andando in California. È una canzone tratteggiata da una chitarra acustica che è un caldo vento dell'ovest, e da un mandolino leggero, come sacrosanto ozio sotto il sole d'estate, l'una fra le braccia di Jimmy, l'altro tra quelle di Jones. La voce di Robert è sussurro, racconto, enfasi improvvisa ed eco fra le rocce, sensuale e spirituale, sommessa e straziante, a volte tutte queste cose insieme. Alla catarsi dei ruggiti Zeppelin si sostituisce la contemplazione, all'assolo di Page solo piccole, importanti variazioni negli arpeggi. Ed è tutto qui, a definire una canzone figlia d'una relazione clandestina fra le colline gallesi e il Nuovo Mondo, un brano fatto di due livelli di lettura: uno materiale, empirico, l'altro metafisico e irraggiungibile. Da una parte c'è la California vera e reale: quella dei canyon e soprattutto dei terremoti, così spaventosi e impressionanti per un ragazzo inglese al suo primo tour Americano. Sono gli Stati Uniti vissuti dal punto di vista di quattro britannici allo sbaraglio, un po' terribili, un po' meravigliosi, proprio come le vecchie favole di una volta. Dall'altra parte, tuttavia, la California dei Led Zeppelin è un luogo tanto astratto quanto la Terra di Mezzo. Siamo andati oltre le terre di Evermore, laddove s'è tenuta la battaglia, abbiamo superato le nebbie e le montagne e abbiamo marciato al ritmo di quattro bacchette, prima d'arrivare fra picchi e deserti, boschi e oceani sconosciuti, irreali, idealizzati; una California dell'anima che di quella reale è solo l'idea, anzi, la trasfigurazione. D'altra parte, anche quello cantato da Joni Mitchell è un non luogo. Dalla biografia del suo viaggio in Europa, in Spagna e a Creta, la cantante racconta del bisogno di tornare a una California che non è la sua casa - ché quella è il Canada - ma la rappresentazione di un'arcaica divinità della Madre Terra, essenza pura di etica, spiritualità e radici. Per i Led Zeppelin, la California è invece parte di quella ricerca intima e spirituale che iniziava su Rock and Roll, da quella nostalgia per una vita che era e che adesso non è più, da quell'amore che non sappiamo chi è, o cosa è, ma che sappiamo esserci da qualche parte nell'universo. La donna mai nata di cui canta Robert Plant è la stessa che torna a ballare il rock 'n' roll, è la Regina di Maggio, è la ragazzina fumata su di un prato a una manifestazione, è il centro della mischia durante la battaglia di Evermore. Forse, è un po' Joni Mitchell, cui Robert dedica alcuni dei suoi versi migliori: C'incontreremo lassù, laddove il sentiero corre dritto verso l'alto, per trovare la regina senza re... dicono che suoni la chitarra, che pianga e che canti. Sì, questa California, ideale chiusura dell'album, non è spazio bensì tempo; è un momento, un istante della vita d'un uomo o di una donna, ma non è un traguardo, né certamente una fine. Semmai, un punto di ripartenza per arrivare ancora più in alto.

When The Levee Breaks
Quel vostro batterista ha il piede destro che pare un paio di nacchere!
- Jimi Hendrix a Robert Plant, dopo un concerto dei Led Zeppelin
La perfezione formale del disco, esemplificata nell'alternanza ineccepibile di luci e ombre, sonorità e sensazioni all'apparenza antitetiche fra loro, trova la sua cornice ideale nel brano d'apertura e in quello di chiusura, ricercando una compostezza che, negli anni '70, appartiene pure alle band più arrabbiate e pornografiche. "Black Dog" ricorda all'ascoltatore che i Led Zeppelin fanno roba bella dura, nonostante tutto, ma più di ogni altra cosa, dice: noi siamo puro e semplice orgasmo fatto musica. Il pezzo di chiusura deve quindi rimarcare questo concetto, dire: "quando gli argini collassano", è perché sta straripando quel terribile fiume in piena chiamato Led Zeppelin. Fin dal titolo, When the Levee Breaks descrive proprio quel momento, quel culmine: non l'attesa, non il fiume che invade i campi e le strade, ma l'istante esatto in cui l'argine si spezza. Il brano è ispirato a un vecchio blues di Memphis Minnie e suo marito, Kansas Joe McCoy, regolarmente e giustamente accreditati, ché gli Zeppelin non sono più dei signor nessuno e i soldi certo non mancano. Come per "Going to California", esistono due chiavi di lettura: una più intellegibile, a galleggiare sulla superficie del fiume, l'altra sommersa in profondità, nascosta tra le stesse acque che ben presto esonderanno. A una lettura superficiale siamo sulle stesse sponde di Memphis Minnie, quelle del Mississippi nel 1927. L'immenso fiume americano esce fuori dai suoi argini e causa di uno dei più eclatanti disastri naturali del ventesimo secolo. Alberi, strade, campi coltivati, interi paesi sono sommersi dalla spietata furia delle acque. Il fiume colpisce senza fare distinzione di etnia o di ceto sociale, ma se le case dei bianchi sono in larga parte riparate e resistenti, le abitazioni dei neri sono per lo più spazzate vie. Le vittime si contano a migliaia, e milioni di persone, soprattutto afroamericani, si spostano verso nord in quella che sarà ricordata come una delle più grandi migrazioni di massa del 900. Molti cercano riparo e fortuna a New York, già meta d'importanti migrazioni, altri a Chicago, dove nascerà il Chicago Blues, ridisegnando la mappa etnica dell'intera East Coast. Da parte dei Led Zeppelin, questo è senz'altro un modo per omaggiare certe radici, per ricordare al pubblico l'importanza delle basi nere del sound Zeppelin. C'è anche chi ritiene che gli Zeps vogliano sensibilizzare l'audience su temi più attuali, e che il Mississippi sia una metafora senza tempo; ma chi vuole fare critica sociale, la fa e basta, e i Led Zeppelin sono troppo giovani, e troppo sfacciati, per fare di questi giochetti alquanto puerili. No, "When The Levee Breaks" è qualcosa di molto meno borghese, di un melenso pianto su una tragedia che quattro bianchi europei non potrebbero semplicemente immaginare, al contrario: è una smargiassata bella e buona, e grazie a Dio. La seconda chiave di lettura, quella che giace sul letto di un fiume pronto ad esplodere, si chiama Celebrazione, e anticipa quella grande liturgia autocelebrativa che sarà Houses of the Holy. Dopotutto, l'avventura era iniziata con un'altra tragedia: quella del dirigibile Hindenburg, avvolto dalle fiamme e pervaso da grida di terrore, trasformato in enorme simbolo fallico in una sprezzante dichiarazione d'intenti, in una volgare e meravigliosa prova di forza e di erotismo. Erotismo che ora è definito dal sound pieno e avvolgente di Bonzo, ottenuto a Hadley Grange spostando la batteria all'estremità di un corridoio affacciato sulla scalinata, pochi microfoni piazzati in punti strategici. È un orgasmo che sale lentamente, quello di "When the Levee Breaks", un Mississippi che scorre energico e calmo come un amante sicuro di sé. L'armonica di Plant è il colore di quel sud così lontano dal mondo, e la sua voce, distante e ovattata, rapidi flash su volti bruciati dal sole, la pelle nera tesa e ruvida. Il basso di Jones, che dovrebbe essere preludio di tragedia, diviene impudente promessa d'estasi, la chitarra di Jimmy l'estasi stessa: prima mansueta, poi sempre più energica e infine irresistibile, senza tuttavia mai perdere un controllo che viaggia ancora su quella ritmica iniziale, immobile ed eterna sorgente di questo fiume impetuoso. "When the Levee Breaks" è il ritorno alle origini di una band all'apice della forma, l'acqua del più grande fiume d'America che segue le fiamme del più grande dirigibile di sempre. Gli argini sono brutalmente spazzati via, e con essi le barriere tradizionali del suono e dell'etica, e l'acqua travolge chiunque si trovi sulla sua strada, esattamente come fa la musica dai palchi di tutto il mondo abbattendosi sul pubblico inerme. Nel 1971, pare proprio non vi sia argine alcuno che possa fermare i Led Zeppelin.

Conclusioni
Eravamo solamente dei "barbari gentili"
Peter Grant
La critica s'era già ammorbidita con Led Zeppelin III... be', almeno in parte, ma con questo "senza titolo", si trova adesso a rincorrere un fenomeno che non può più permettersi d'ignorare. Il recente dilagare delle radio rock ha permesso a una nuova generazione di definire la propria dignità, glissando i borbottii di una critica ormai vecchia e intercettando le sensazioni dei più giovani. Dopotutto sono gli anni '70, e il mondo sta cambiando. Le riviste tradizionali sono impazienti di rivalutare il Dirigibile, e ne decantano la gloria senz'ombra di pudore, le vecchie stroncature nascoste sotto un velo di ottima retorica. In ogni caso, un po' di sano ricambio generazione arriva pure ai vecchi media, tant'è che un venticinquenne Lenny Kaye, futuro chitarrista di Patty Smith, scrive sulle pagine di Rolling Stone: "su otto canzoni, non ce n'è una che pesti i piedi di un'altra, non una che cerchi di strafare tutto in una sola volta". Normale, quando su otto canzoni, otto sono piccoli e grandi capolavori; in realtà, qualche brano spicca inevitabilmente sugli altri, ma nel complesso, il quarto album conquista un equilibrio raro e affatto banale, soprattutto per quattro spudorati, giovanissimi musicisti rock. Nuove e più temerarie radio garantiscono il successo degli Zeps - ancora una volta! - e in pochi anni, Stairway to Heaven diventa la canzone più trasmessa di sempre nell'etere americano, in barba ai suoi oltre otto minuti di durata e a qualsiasi tradizionale buon senso. È proprio "Stairway", carica d'una fascinazione che sfiora il culto religioso, a rendere definitivamente immortali i Led Zeppelin, consacrando la loro quarta fatica; lei, a costruire una reputazione spesso più leggendaria che reale, tanto da far dire, in futuro, che il quarto album inventa un mucchio di sonorità heavy metal, come se ai Led Zeppelin fossero mai interessate simili etichette, o peggio, come se il ben più turbolento "Led Zeppelin II" non fosse mai esistito. Ma oltre quell'armonia c'appartiene agli immortali, oltre la capacità di trasformare l'arte in religione e la realtà in leggenda, il capolavoro Senza Titolo ha in sé un elemento fondamentale, alla base del segreto del suo successo: un filo più spirituale che logico, un legame ideale che unisce ogni singola traccia senza tuttavia tradire la poetica del Dirigibile. Alla band non interessano i concept album, che pure vanno di gran moda negli ambienti intellettuali; piuttosto, preferisce tornare fra le braccia di donne spietate e sensuali, e tra queste cercare l'essenza d'un amore troppo vasto, troppo profondo per appartenere agli uomini; preferisce viaggiare ancora una volta tra le umide colline britanniche, solo per volare via, verso i caldi deserti californiani o le pianure del Mississippi, fare sue le voci di migliaia di uomini e donne dalla pelle di ebano e poi fuggire ancora, tornare a tradizioni antiche e familiari. Alla lucida chiarezza di una storia, i Led Zeppelin preferiscono l'astratta libertà della poesia. Eppure, l'immateriale filo dell'opera è a tutti evidente, e quando il vinile inizia il suo ballo su milioni di giradischi, in milioni di case in Inghilterra e nel resto del mondo, tutti, come in religiosa processione, compiono lo stesso cammino e marciano sul medesimo tragitto. Quei giovani che all'inizio affollavano i negozi alla ricerca di un album senza titolo, ognuno di loro, è adesso un cane nero, vecchio nell'anima, gli occhi rossi d'una passione esistenziale, strangolato dalla nostalgia d'un ideale che dell'amante ha solo i contorni. Ognuno di loro torna a danzare su vecchie piste da ballo, un tempo appartenute a un'altra generazione, cercando disperatamente il senso della propria, e non trovandolo s'incammina verso il suo personale campo di battaglia, laggiù a Evermore; ognuno, allora, invoca la Regina di Maggio e una rinascita che sa di primavera, rifiuta l'offerta di ciò che pare oro ma oro non è e prosegue il suo viaggio, ancora, verso montagne nebbiose e prati felici, trova nuovi amici e lascia antichi amori, e infine trova il suo nuovo, personalissimo mondo, fra terremoti della mente e deserti dell'anima, fino a deflagrare nell'immane orgasmo di un fiume impazzito. Allora a tutti questi viaggiatori è chiara una cosa: c'è un prima e un dopo quest'album, ed è un piccolo miracolo. È un miracolo specialmente nel 1971, anno graziato da opere come "L.A. Woman", dei The Doors, "Fireball", dei Deep Purple, o "Aqualung", dei Jethro Tull; o ancora, come "Who's Next", naturalmente degli Who, o come il terzo album degli Yes, per non parlare di quel gioiello di "Hunky Dory", primo, vero classico di David Bowie. Oh, e naturalmente "Imagine", di John Lennon, ultimo inno d'una generazione ingannata e tradita. Sì, i primi anni '70 sono un immane calderone di talenti e di creatività, un momento artisticamente irripetibile, eppure, i Led Zeppelin riescono nell'impresa di dare alla luce un'opera immortale, tra le più rappresentative d'un decennio appena iniziato, e una canzone, Stairway to Heaven, amata e a volte odiata, ma eletta dalla storia a immortale inno del Rock. È la vetta della montagna più alta del mondo, e da quella vetta, inevitabilmente, si può solo scendere. È il 1973: con "Houses of the Holy", i Led Zeppelin si prendono il tempo di celebrare quel traguardo, soffermandosi sulla vetta fino a un altro capolavoro, "Kashmir", il più luminoso dei gioielli incastonati su "Physical Graffiti". Lo stesso anno in cui esce quel doppio vinile, Robert è vittima d'un incidente che non lo uccide, ma lo restituisce alla mortalità. È il 1975, e se l'uomo sopravvive, il "dio dorato" è morto, qualcosa è spezzato per sempre. Nel frattempo, le dipendenze di Page iniziano a farsi ingombranti, e la nostalgia e l'alcolismo di Bonham rivelano il volto della disperazione; e, mentre Robert s'avvilisce su una sedia a rotelle in attesa di tornare sul palco, John Paul Jones, musicista puro e bisognoso di stimoli, comincia a dimenarsi nella più vacua insofferenza. Nel 1976 esce "Presence", ed è un album così squisitamente imperfetto, così umanamente straziante nel suo implicito grido di sopravvivenza, da elevarsi oltre il suo valore e divenire esempio di perseveranza, incarnazione su vinile di una missione chiamata "Musica". E poi, fra le bellezze e i limiti di quell'album c'è almeno un altro capolavoro, uno degli ultimi: "Achille's Last Stand", anche definibile come la presa di posizione di Jimmy riguardo la sua creatura, che non può e non deve morire. Ma in passato c'era chi aveva parlato di patti col diavolo, e di conti da saldare che presto o tardi sarebbero arrivati, e anche se sono le solite, puerili sciocchezze, nel 1977 pare quasi che la band sia veramente afflitta da un'oscura maledizione. Il figlio di Robert Plant, Karac, perde la vita a soli cinque anni d'età, e il cantante perde quel poco d'innocenza che l'incidente gli aveva lasciato. Tutto è in dubbio, adesso, il futuro dei Led Zeppelin è appeso a un filo. Eppure, la band sopravvive ancora una volta, e anche se Robert non è più un dio, il cantante dimostra d'essere diventato un uomo. È il 1979, tramonto di quel decennio anticipato dal primo album del Led Zeppelin. Esce In "Through the Out Door", opera dalla morbidezza rara e per molti eccessiva, ma ch'è puro atto d'amore, non solo per Karac, non solo fra le note di "All My Love", ma nella gioia di ciò ch'è stato e nella speranza di ciò che sarà; nella vitalità di quattro artisti che nonostante tutto, hanno ancora qualcosa da dire. Poi, nel 1980, muore John Bonham e il sogno s'infrange. Stavolta, per sempre. Vorremmo si sapesse che la perdita del nostro caro amico, il profondo rispetto per la sua famiglia e il senso d'indivisibile armonia provato da noi e dal nostro manager, ci ha spinti a decidere di non poter continuare com'eravamo prima. Con questo semplice, breve messaggio, ha termine il cammino della band simbolo degli anni '70, tra le più rilevanti interpreti della musica contemporanea. L'alchimia fra i musicisti era troppo importante, per pensare di andare avanti con un altro batterista, e tanta era la voglia di ricominciare da un'altra parte, lontano da quell'inferno di concerti senza fine, lontano dalla responsabilità d'essere "la più grande band del pianeta", come molti l'avevano definita, e soprattutto, lontano dai ricordi di quegli ultimi dieci anni, magnifici e terribili, carichi delle più grandi soddisfazioni che un uomo possa desiderare, e dalle più grandi sofferenze che possa patire. È il 1980, il 4 di dicembre. Precipitando, il Dirigibile rinuncia ad invecchiare, consegnandosi paradossalmente a un'immortalità che ancora lo definisce, incurante perfino delle rughe sui volti dei sopravvissuti. Un'immortalità che risuona oggi come ieri, viva in ogni canzone e in ogni disco della band, viva nell'eredità che ha lasciato a milioni d'artisti, ma tangibile e solida come la Roccia soprattutto su quest'album, il quarto: quello Senza Titolo. Qui, i Led Zeppelin trovano l'equilibrio perfetto, l'armonia ideale tra passato, presente e futuro, tra peso e leggerezza, erotismo e spiritualità. Qui, in questo 1971 sospeso nel tempo, i Led Zeppelin si consegnano alla Storia.

2) Rock and Roll
3) The Battle Of Evermore
4) Stairway To Heaven
5) Misty Mountain Hop
6) Four Sticks
7) Going To California
8) When The Levee Breaks


