GUARDIANI DELLA GALASSIA
Guardians of the Galaxy: Awesome Mix Vol. 1 (Original Motion Picture Soundtrack)
2014 - Hollywood Records, Marvel Music
Andrea Ortu
Francesco Nappi
DOPPIATORI:
Alessandro Rossi
Federico Pizzileo
Colonna sonora originale
DATA RECENSIONE:
13/05/2020
TEMPO DI LETTURA:
Introduzione Recensione
Il fenomeno pop di maggiore rilievo degli anni dieci del ventunesimo secolo, fuori d'ogni dubbio, è quello rappresentato dal cosiddetto Marvel Cinematic Universe, o MCU. Quando parliamo di Universo Cinematografico Marvel, parliamo di un fenomeno esploso nel 2008 con la prima, deflagrante opera dedicata ad Ironman, pellicola portata al successo da una buona messa in scena, una grande interpretazione da parte di Robert Downey Jr., e da una campagna mediatica capace d'intercettare i sentimenti di un pubblico contemporaneo, estremamente vasto e del tutto estraneo al mondo del fumetto. Ovviamente, i film dedicati agli eroi in calzamaglia esistevano già da decenni e la stessa Marvel aveva dato vita a successi anche notevoli, alcuni dal piglio addirittura autoriale, come il secondo capitolo di Blade a opera di Del Toro, la saga degli X-Man o lo Spiderman di Raimi. Ma è con Ironman che ha inizio l'universo condiviso in cui muoveranno gli Avengers, e che darà inizio a una serialità fino a quel momento unicamente televisiva. Nel 2009, l'acquisto della storica casa editrice da parte del colosso di Topolino, cambia drasticamente le carte in tavola e riscrive completamente le regole del gioco. Disney definisce infatti un'estetica ben precisa e delle regole imprescindibili, accollandosi le critiche più dure così come i guadagni più favolosi. Dal 2008 al 2019 i supereroi della Marvel imperversano sul grande schermo e influenzano non solo le grandi produzioni cinematografiche, ma l'immaginario collettivo tutto dall'animazione alle serie TV, dalla musica ai videogiochi, fino al culmine ideale, epico e drammatico, di Avengers: Endgame. Se a livello di pubblico il fenomeno è deflagrante, a livello di critica, come ogni opera schiettamente pop, l'MCU raccoglie molti apprezzamenti ma pure moltissime critiche. I detrattori ne criticano il format seriale, talvolta ne sminuiscono le origini cartacee, oppure mal digeriscono l'estetica generalmente preconfezionata, nonché un'impostazione visiva e concettuale pensata per vaste fasce d'età. Così, mentre nella trincea dei social si affrontano coltello tra i denti critici, appassionati delle opere a fumetti e fans dell'ultima ora, la Marvel conta i miliardi e combatte la sua battaglia ludica e mediatica contro la rivale DC Comics, contrapponendo Ironman a Batman, Capitan America a Superman e chi più ne ha, più ne metta. Con una campagna acquisti di proprietà intellettuali unica nella storia dell'intrattenimento, e con un altrettanto colossale campagna mediatica, Disney porta i supereroi Marvel sul tetto del mondo della cultura pop, frantumando storici record d'incassi a ogni singola uscita su grande schermo. L'impatto culturale è enorme, colorito, gioioso come un "parco giochi", lo stesso cui Martin Scorzese accosta a una maniera un po' caustica le pellicole della Marvel. In questo tripudio di costumi ed emozioni, di quest'euforia di massa, qualcosa, inevitabilmente, si perde: una sensazione di genuina freschezza, apparentemente divorata da una certa uniformità nella narrazione, nell'estetica e nella messa in scena. Il successo del brand, tuttavia, non pare risentirne. Messa alle strette dall'avversario, la DC tenta la mossa della controtendenza, e alla solare e scanzonata attitudine degli Avengers contrappone i suoi eroi sofferti, gotici, oscuri, senza tuttavia riuscire a ripetere la brillantezza ch'era stata della trilogia di Nolan, impantanandosi in progetti di continuity fallimentari - almeno dal punto di vista della critica - e pellicole il cui successo è principalmente merito di un preciso momento culturale, più che delle loro qualità intrinseche. Almeno, fino al clamoroso avvento del Joker di Todd Phillips nel 2019... ma questa è un'altra storia. Mentre su grande schermo imperversano ancora gli Avengers e le tante pellicole dedicate ai singoli supereroi, alcuni autori propongono e ottengono dalla stessa Marvel di realizzare film che siano decisamente sopra le righe, magari fuori della cosiddetta continuity dell'MCU. Così, Deadpool seduce col suo umorismo tagliente e la sua violenza priva di "filtro famiglia", Logan, in continuità con le parallele vicende degli X-Men, porta finalmente su schermo un eroe Marvel drammatico, stanco, terribilmente umano. Ma la "pecora nera" per eccellenza rimane quella portata al cinema nel 2014 da James Gunn, un regista che, fino a quel momento, ha diretto o scritto solo film sopra le righe. Stiamo parlando di Guardiani della Galassia, opera ispirata ai fumetti di Arnold Drake e Gene Colan e rinnovata nel corso dei decenni da un'infinità di autori e disegnatori, fino alle più recenti e brillanti versioni. Le vicende del film sono legate "spiritualmente" al fumetto pur senza esserne vincolate, così da permettere a un pubblico largamente all'oscuro dei personaggi e delle loro storie d'imparare a conoscerli, e col tempo, perfino ad amarli. Il cast è variopinto quasi quanto i Guardiani stessi: Chris Pratt, reduce da una varietà di pellicole d'ogni genere tra cui il folle "Comic Movie", ma noto alla memoria del grande pubblico come il bel faccione di The OC, interpreta Star-Lord; poco serio, furbo e abile nel combattimento, Star-Lord è l'elemento umano dell'equipaggio, e come tale, quello cui lo spettatore è portato a riconoscersi; Zoe Saldana, all'apice della popolarità grazie alle sue interpretazioni in film come Avatar, di Cameron, o lo Star Trek di J.J. Abrams, interpreta Gamora, un'aliena in lotta col proprio passato, lacerata dal contrasto fra uno spiccato senso di giustizia e la sua natura d'assassina addestrata; l'ex wrestler Dave Bautista, già noto come attore ed apprezzato per il suo ruolo nel Riddick di David Twohy, interpreta Drax il Distruttore, un personaggio insieme comico e drammatico, curiosamente caratterizzato da un uso del tutto letterale del linguaggio; Bradley Cooper, sulla cresta dell'onda dopo i due "Una Notte da Leoni", interpreta Rocket Raccoon, un procione antropomorfo che nonostante gli ovvi risvolti comici, possiede come tutti gli altri un passato terribile; Vin Diesel, impegnato nella serie senza fine di Fast & Furious, è la voce di Groot, un adorabile albero umanoide e amico di Rocket Raccoon. Lee Pace, infine, interpreta Ronan L'Accusatore: il villain di questo film, un terrorista e un fondamentalista galattico come piace al pubblico americano. Accanto al cast principale troviamo poi Michael Rooker, Karen Gillan, Djimon Hounsou, John C. Reilly, Glenn Close, Benicio del Toro, Ophelia Lovibond, Alexis Denisof e, soprattutto, Josh Brolin, interprete di Thanos, carismatico e ambiguo mandante di Ronan, nonché memorabile villain di "Avengers: Infinity Wars" e "Avengers: End Game".
Veniamo infine all'elemento attraverso il quale ripercorreremo le vicende dei Guardiani e un gran pezzo di storia contemporanea: la colonna sonora. L'original score di Guardiani della Galassia è infatti opera del compositore e produttore americano Tyler Lucas Bates, ma gran parte del sottofondo musicale viene da un vecchio walkman che Star-Lord porta sempre con sé, unico ricordo della madre e della sua infanzia terrestre. Così, la musica del protagonista, in amabile contrasto con l'universo fantascientifico che lo circonda, diventa il più solido legame tra lo spettatore e gli eventi narrati, il collante d'una sospensione dell'incredulità in perenne bilico sul filo del rasoio. La selezione delle tracce, decisamente vintage, è racchiusa nell'album del 2014 Guardians of the Galaxy: Awesome Mix Vol. 1, e attraversa circa due decenni di storia della musica americana e britannica: quella della rivoluzione culturale, dei luminosi, e insieme turbolenti anni '60 e '70. È da qui che inizia il nostro viaggio a bordo della Milano, la navicella di Star-Lord e dei Guardiani della Galassia, alla scoperta di alcuni dei pilastri della pop culture contemporanea.
Hooked On a Feeling
James Gunn e la sua partner alla sceneggiatura, Nicole Perlman, sono magistrali nel definire in meno di venti minuti i buoni, i cattivi, il loro passato e le loro motivazioni. Ora, i nostri eroi sono in prigione e a Star-Lord vengono sequestrate le sue cose, tra cui l'amato walkman. Un alieno osserva l'anticaglia, assai incuriosito, mentre dalle cuffie arriva il primitivo "Ooga Chaka" dei Blue Swede sulle note di Hooked On a Feeling. Il brano, in realtà, è una cover del classico di Mark James e Billy Joe Thomas del '68, ma è la versione che ne danno i Blue Swede nel 1974 ad essere entrata nell'immaginario collettivo, conquistando pubblico e classifiche al suono reiterato di quell'iconico "Ooga Chaka" - ma non solo. I Blue Swede, capitanati dal cantante e attore svedese Björn Skifs, sono stati una cover band con due album all'attivo tra il 1973 e il '75; non inventavano, dunque, ma neppure copiavano pedissequamente le opere degli altri. Piuttosto, rielaboravano la musica secondo uno stile ben preciso e in base alle sensazioni dei loro anni, prendono spunti di là e di qua, fino a comporre un collage al tempo stesso nuovo e familiare. Il coro che intona quel cavernicolo slogan, l'intervento del cantante mentre ancora risuona imperterrito "ooga chaka", così come buona parte dell'arrangiamento, sono presi di peso da altre versioni della stessa canzone, rispettivamente, quelle di Jonathan King del 1971 e dei Twinkle Brothers, dello stesso anno. Il risultato è la versione definitiva di "Hooked On a Feeling", quella che fa breccia nel grande pubblico e rimane fissa nella cultura di massa, citata in innumerevoli prodotti della pop culture fino ad arrivare ai giorni nostri. Nella visione del Blue Swede, il brano vive di una coralità inedita, accompagnata da un'orchestrazione ariosa e ritmata, gode d'una pulizia formale assolutamente ineccepibile e di un tempismo perfetto nelle pause e nelle ripartenze. Inoltre, dura meno di tre minuti, in ché ne fa il pezzo perfetto per un ascolto leggero e per il passaggio radiofonico. Il testo originale di Mark James, songwriter già noto per aver scritto "Suspicious Mind" di Elvis Presley, è una rappresentazione piuttosto ambigua dell'amore in chiave metaforica. "Hooked On a Feelin" significa letteralmente "agganciato, o aggrappato, a un sentimento"; quel sentimento è l'amore, e la metafora di Mark James, beh, è la droga - un soggetto piuttosto frequente, nel '68. La versione dei Blue Swede, come già quella di Jonathan King, taglia di netto il riferimento alla droga e lascia intatto l'amore, esemplificato in versi del tutto innocui e quasi "stilnovisti", lontani da quelli sfacciati, quasi pornografici delle rock band di quegli anni. Dopotutto, il romanticismo finisce comunque in secondo piano rispetto al gioco, puro e semplice, d'una canzone goliardica e leggera, disimpegnata eppure, nel suo piccolo, memorabile. Un disimpegno e una goliardia che il film pone in contrasto, squisito e ricercato, con le immagini su schermo, mentre i nostri subiscono il brutale benvenuto d'un carcere spaziale fin troppo simile a moltissime prigioni terrestri.
Go All the Way
Il secondo brano ed ennesimo classico s'intitola Go All The Way, "Andare fino in fondo", dei Raspberries. La canzone è l'apice di un momento piuttosto concitato del film: il nostro Star-Lord si è appropriato di un potentissimo e misterioso manufatto, ma i guai, naturalmente, non tardano certo ad arrivare. La fuga è rocambolesca e a suo modo demenziale, ma quando la nave di "Quill", la Milano, vira e finalmente fugge verso il pianeta Xandar, ecco che arriva all'orecchio il ruggente attacco di "Go All The Way", a rimarcare con il suo mood insieme allegro ed aggressivo tutta la furbizia - e la sconsideratezza - di un personaggio sopra le righe come Star-Lord. James Gunn, attraverso il brano in questione, riesce ad unire in maniera convincente azione e umorismo, rendendo la figura di "Quill" simpatica e divertente. Oltretutto, così facendo, il regista riporta lo spettatore a un'atmosfera piacevole e rilassata, in totale e ricercato contrasto con la sequenza precedente. Gli autori di "Go All The Way", i Raspberries, sono stati una rock band americana attiva nella prima parte degli anni '70, una formazione particolarmente influenzata dai gruppi della "British Invasion" come Beatles e The Who. Malgrado oggi siano solo gli appassionati del genere, a ricordarla, negli anni '70 la band ha goduto di notevole successo, essendo stata molto seguita dai teenager e avendo ispirato diversi gruppi pop-rock venuti successivamente. Musicalmente la canzone, come detto, è allegra e spensierata, e si imposta su uno stile che s'avvicina molto al classico. La batteria è leggera e supporta un lavoro di chitarre semplice ma efficace, che trova nella più totale melodia l'arma vincente. L'atmosfera del brano, sebbene questo sia concepito nel '72, riporta a sensazioni e cliché tipicamente anni '60, sentendosi non poco le influenze di band come i già citati Beatles o più robusti Cream. Eppure, ci sono dei passaggi di chitarra che ci ricordano che siamo nei seventies, un decennio in cui il rock è divenuto man mano sempre più aspro, trasformazione di cui i Raspberries sono ben consapevoli. La voce di Eric Carmen è calda e avvolgente, specie in quelle strofe che rappresentano senza dubbio le parti più leggere del pezzo. Nel ritornello però, all'unisono con le chitarre, ecco la voce del cantante farsi più virile e decisa, delineando una bella contrapposizione tra chorus e strofa. La scelta del regista James Gunn d'inserire tale canzone ci sta tutta. Attraverso questo brano, il regista ha voluto solamente sottolineare un frangente del film che ha visto "Star-Lord" farla franca, e bisogna dire che l'idea è riuscita. Tuttavia, non ci troviamo dinanzi ad una colonna portante della soundtrack. Le liriche non c'entrano assolutamente nulla, con il contesto della sequenza: questa vede la fuga di "Star-Lord" dai gorilla di Ronan, mentre il testo di "Go All The Way" parla di un uomo che impara ad amare. Malgrado ciò, il testo potrebbe comunque preannunciare, in maniera del tutto subliminale, l'amore futuro tra i due grandi protagonisti della pellicola. Il cantante ci racconta infatti di un individuo aspro e incattivito che, grazie all'incontro con una ragazza, impara ad amare ma non solo: trova anche della bontà in se stesso, bontà che lui stesso non pensava di avere.
Ero crudele e cattivo, ho avuto un buco nel posto dove avrebbe dovuto esserci il mio cuore, ma ora sono cambiato .
Spirit in the Sky
Non tutte le canzoni in scaletta fanno bella presenza nel film; alcune, infatti, sono parte della campagna promozionale della pellicola - elemento fondamentale del meccanismo Marvel e del suo linguaggio. È il caso di un classico di Norman Greenbaum, un pezzo particolarmente attraente per il pubblico americano che fa da sfondo al trailer di Guardiani della Galassia: Spirit in the Sky, ovvero "spirito nel cielo". Con una carriera riassumibile in quattro album realizzati nell'arco di circa tre anni, Greenbaum è il rocker americano per antonomasia: caratteristico in termini poetici, estetici e musicali, quasi stilizzato. "Spirit in the Sky" è la title track dell'omonimo debutto del 1969, e tutt'oggi rimane il brano più noto di questo cantante del Massachusetts. Sebbene non fosse propriamente "rivoluzionario", sul finire degli anni '60 un brano del genere riusciva a riassumere con incredibile lucidità tutta una serie di movimenti storici, generi musicali radicati e sensazioni a malapena nell'aria. Seducente e goliardico, decisamente adatto alle atmosfere della pellicola di Gunn, il pezzo rimane iconico per il riffing elettrico, memorabile e catartico, certo psichedelico, ai limiti dell'ipnotico. Posta in secondo piano e ciononostante ariosa e solare, la voce del singer gioca in piena sinergia con le chitarre pesantemente distorte, i cori femminili e le percussioni accentuate. Ad arricchire e dare personalità all'opera, sono musicisti di rilievo del panorama rock americano, tra cui il batterista Norman Mayell, il chitarrista Russell DaShiell ed il bassista dei Crowfoot, Doug Killmer. E data la natura intimamente gospel del rock di Norman Greenbaum, i cori sono affidati al trio di colore delle sorelle Stovall: The Stovall Sisters, la cui carriera ha visto la collaborazione con nomi del calibro di Ray Charles, Creedence Clearwater Revival, B.B. King e Funkadelic - solo per citarne pochissimi. Il sound dell'iconico riff è invece figlio di tempi in cui si sperimentava non solo stilisticamente, ma anche e soprattutto tecnologicamente, a una maniera molto diretta e perfino casareccia, ma proprio per questo fresca e penetrante. Per ottenere quel suono con la chitarra, infatti, l'artista si è semplicemente limitato a montare un distorsore direttamente sul corpo della sua Fender Telecaster. Con un formato radiofonico e un tema di fondo poco al passo coi tempi, e considerato l'insuccesso dei due singoli già estratti dallo stesso album di Greenbaum, la Reprise Records, storica etichetta discografica americana, è assai poco incline a lanciare sul mercato "Spirit in the Sky". Contro ogni aspettativa, il singolo diviene invece il più grande successo della stessa Reprise, che ne realizza perfino un videoclip - cosa rarissima, per l'epoca. Un successo per nulla scontato, in un 1969 dominato dal trinomio "sesso, droga e rock 'n' roll", per un brano dal soggetto religioso in cui Cristo è figura centrale e salvifica.
"Non sono mai stato un peccatore / ho un amico in Gesù / Così sai che quando morirò / Egli mi raccomanderà allo Spirito del Cielo".
Va tuttavia specificato che Greenbaum, americano d'origini ebraiche nato e cresciuto in una famiglia ortodossa, realizza la sua opera più famosa intorno agli stilemi d'un manierismo già scritto nella pietra, senza badare troppo al contenuto, e che in fondo è a suo modo un ribelle: come Ray Charles e altri prima di lui, anche Norman unisce il sacro del gospel al profano del blues e perfino del rock 'n' roll, accostando la salvezza di Cristo all'eredità della Beat Generation e alla rivoluzione della controcultura afroamericana, arrivando a definire il Signore a una maniera quasi pagana e in piena sintonia col movimento dei Figli dei fiori... lo "Spirito nel Cielo", appunto.
Moonage Daydream
"Cautela quando entri, roditore: non esistono regole d'alcun genere, qui"
James Gunn è un grande appassionato di David Bowie. Talmente appassionato che, dopo l'uscita di Guardiani della Galassia nel 2014, il regista vorrebbe il Duca Bianco in persona in un ruolo qualsiasi del suo imminente seguito, previsto per il 2017. Bowie, tuttavia, è costretto a negarsi. In quel periodo il cantante è malato, molto malato: il cancro lo uccide poco tempo dopo, a gennaio del 2016, ma la sua arte lascia al mondo un'eredità inestimabile. Un pezzettino di quell'eredità è parte della colonna sonora del primo capitolo cinematografico dei Guardiani, un brano leggero e che tuttavia, inserito nel suo contesto storico e artistico, è di quelli decisivi. Moonage Daydream è infatti parte di un album che arriva dopo i primi, folgoranti successi di David Bowie, riconferma essenziale della carriera del Duca Bianco e tappeto rosso verso la sua definitiva glorificazione. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, è il nome di quello storico album, uscito nel 1972 dopo quei capolavori imprescindibili chiamati "The Man Who Sold the World", del '70, e "Hunky Dory", del 1971. Brani come "Changes", "Space Oddity", la stessa title track di "The Man Who Sold the World", nel 1972 sono già praticamente parte dell'immaginario collettivo; sono opere che delineano il futuro della pop music a livello mondiale. Confrontarsi con simili gioielli non è semplice, anche e soprattutto per l'artista che li ha prodotti. Bowie, il problema, non pare neanche porselo. Piuttosto, il genio si limita a fare il lavoro del genio, a dare forma e voce alle sue idee più strampalate, stralunate, folli e visionarie, già esemplificate dall'assurdo titolo del disco e dall'idea di fondo: un concept album che narra la storia di Ziggy Stardust, una rockstar bisessuale, androgina, inviata da potenze aliene come messaggero per tutti i terrestri. Insomma, un moderno e dissacrante Cristo nell'era in cui le rockstar sono i veri Messia - e naturalmente, il perfetto alter ego per uno come David Bowie. Il brano scelto da James Gunn è insieme popolare e avveniristico, la ricetta più unica che rara che ha fatto la fortuna di Bowie. "Moonage Daydream" significa letteralmente il "sogno ad occhi aperti nell'era della luna". Bowie, come l'intera sua generazione, è ossessionato da quella corsa allo spazio culminata pochi anni prima nel piccolo, grande balzo di Neil Armostrong. Nel '72, dopotutto, si pensava che l'umanità avrebbe presto colonizzato il sistema solare. Tuttavia, il Duca Bianco va ben oltre l'attualità e la fascinazione, usando entrambe a vantaggio di una narrazione meta-testuale focalizzata su livelli distinti: quella del concept album, che riprende le vicende di un personaggio pesantemente "archetipizzato", e quella della rockstar intesa come l'agnello d'oro contemporaneo, contenitore asessuato e amorale di neo-valori che sono dei non-valori, prodotto definitivo d'una generazione affamata di Rivoluzione - probabilmente, gli stessi "children of the revolution" di cui parlava nello stesso anno il compianto Marc Bolan. Vi è poi forse un terzo livello di lettura, più sfumato, intimista e personale, fisiologico alla personificazione dello stesso David Bowie nella figura del suo protagonista, Ziggy Stardust. Un protagonista che può essere una mamma, un papà, un invasore spaziale o perfino un alligatore, libero di essere quello che vuole, libero come solo la musica della controcultura, il Rock, è in grado di essere. Nelle parole del Duca Bianco la musica è amplesso, e l'amplesso è puro spettacolo, il Tempio sacro di cui canteranno i Led Zeppelin di "Houses of the Holy"; la telecamera, è insieme una pistola laser puntata alla testa e un invito sensuale. La potente chitarra di Mick Ronson, così squisitamente orientata a certi stilemi di Jeff Beck, definisce la gran parte della canzone, sebbene siano l'orchestrazione di Bowie e i riverberi della sua voce, a dare all'insieme la sua personalità così unica, a metà fra un rock ruggente, un pop di facile ascolto sulla stessa riga di Changes, e lo straniamento cosmico della musica sperimentale, solo vagamente ancora "psichedelica". Completano con grande personalità il quadro il bassista, Trevor Bolder, e il batterista, Mick Woodmansey. Il risultato finale è un brano che supera la prova del tempo e arriva a noi pressoché intatto, pronto addirittura a superare i confini del nostro pianeta e viaggiare per la galassia, fino alla caotica Babele spaziale che accoglie i nostri eroi sullo sfondo delle parole di Ziggy Stardust.
Fooled Around and Fell in Love
La famosa ballad Fooled Around and Fell in Love, di Elvin Bishop, capita in un momento del film dove la narrazione, ma non il ritmo, rallenta per qualche minuto. Protagonisti della scena sono Gamora e Quill, con quest'ultimo che tenta l'approccio con la bella aliena, proponendole di ascoltare, attraverso il suo affezionato walkman, proprio "Fooled Around and Fell in Love". Quill rivela a Gamora l'importanza di quel vecchio cimelio, in quanto esso raccoglie una selezione dei brani preferiti della madre. Successivamente, il brano in questione è lo sfondo di una delle poche scene rilassanti del film, nonché una delle più rimantiche.
"Sul mio pianeta esiste una leggenda sulle persone come te, si chiama footlose. Parla di un grande eroe, di nome Kevin Bacon, che insegna ad una città piena di persone con un manico di scopa infilato nel culo che ballare, è la cosa più bella che ci sia".
(Quill)
La canzone è stata collocata in una scena ideale: l'atmosfera, come detto, è più leggera e si avverte che qualcosa inizia a smuoversi tra i due protagonisti principali. Ed ecco che parte questo pezzo, il quale dapprima è udibile solo in sottofondo, poi, quando "Quill" fa indossare le cuffie a "Gamora", si nota come il climax si faccia improvvisamente più intenso, con le dolci note di Elvin Bishop che avvolgono sia noi spettatori che i personaggi della scena. Elvin Bishop è un autore che, nel corso della sua pluridecennale carriera, ha spaziato per lo più tra il blues e il rock, non disdegnando tuttavia altre influenze. Nel 2015 è stato inserito nella "Rock and Roll Hall of Fame". Questa canzone, pubblicata nel 1976, fece raggiungere il successo a Bishop e ancora oggi è tra i suoi pezzi più conosciuti, se non quello più noto. Si tratta di una romantica ballata con inserti blues e rock, graziata da un andamento lento ma mai stucchevole. Il brano è sorretto da una bella linea di basso che si ode per bene mentre la chitarra, tra le strofe, si limita a tessere poche e semplici note. La batteria è lenta ma sostenuta e, in sottofondo, c'è un bel tappeto di pianoforte che sorregge l'intera impalcatura. La voce di Bishop non è calda come in altre ballate del genere, ma mantiene una certa virilità. In tal modo, il pezzo non risulta essere troppo e inutilmente sdolcinato. Anzi, il cantante e chitarrista adotta perfino uno stile vocale molto improntato sul rock, regalando dunque una performance se non altro originale. Pregevole l'assolo di chitarra, di chiara derivazione blues, scuola Jimmy Page. Il testo parla di un uomo che è stato con tantissime ragazze per il solo piacere personale e, ogni volta che questi le lasciava, loro piangevano ma a lui non importava nulla. Poi, però, l'incontro con una ragazza speciale scatena la follia chiamata Amore. Ora l'uomo vuole trascorrere tutto il suo tempo con questa fanciulla, dalla quale non riesce a stare lontano. Un tema basilare adatto ad una musica semplice e viscerale.
I'm Not in Love
- fai silenzio, I ragazzi grandi non piangono -
(10cc)
La ballad I'm Not In Love, ossia "Non sono innamorato", dei 10cc, la udiamo proprio ad inizio film, durante i titoli di testa. Siamo nel 1988 e la scena è ambientata nell'ospedale dove la mamma di Peter, ricoverata, sta trascorrendo i suoi ultimi minuti di vita. Peter, in attesa appena fuori la stanza della madre, sta ascoltando attraverso il famoso walkman proprio "I'm Not In Love". La malinconia intrinseca del brano è in perfetta sintonia con l'atmosfera, intima e struggente, della scena che va ad accompagnare. Tuttavia, preso da solo, "I'm Not In Love" è un brano piacevole, dotato di una melodia accattivante e certamente uno sfondo ideale, per i momenti più intimi con il proprio o la propria partner. Però, posta in quel preciso momento della pellicola, la canzone tende a rendere tutta la scena ancora più toccante, malgrado sfumi ancor prima che Peter veda sua madre.
Gli autori del brano, i 10cc, furono un importante gruppo inglese e raggiunsero il loro apice negli anni 70. Malgrado suonassero uno stile musicale raffinato e studiato, i 10cc non sono avvicinabili a band come King Crimson o Genesis, ma risultano più simili a gruppi come Supertramp o The Alan Parsons Project. Ebbero dunque il loro maggior momento di gloria nei seventies, salvo poi calare sempre più di popolarità, sciogliendosi e riunendosi varie volte. La pubblicazione di "I'm Not In Love" avvenne nel 1975 e il brano divenne ben presto una ballata molto nota. Si udiva spessissimo sia nelle discoteche che in radio. Musicalmente, ci troviamo di fronte ad un brano decisamente orecchiabile, sorretto per i suoi sei minuti di durata da un bel motivo di piano elettrico, caldo e avvolgente. I cori svolgono un ruolo importantissimo, in questa canzone: sono tra gli elementi cardine e costantemente presenti, eppure, mai invadenti. Tale caratteristica ricorda molto anche lo stile dei Queen, i quali erano soliti infarcire le loro canzoni con un tripudio di cori. La batteria si occupa di tessere un leggerissimo tappeto ritmico, le chitarre sono ribassate e si odono appena, mentre il basso è messo più in risalto anche, forse, per dare un tocco più ballabile all'insieme. Infine, la voce di Eric Stewart fa tutto il resto: delicata e calibrata alla perfezione, è perfetta su una base musicale del genere. Oltretutto, il cantante riesce comunque a non essere troppo smielato, mettendoci invece personalità e convinzione. Bello anche il break centrale: gli strumenti, a parte piano elettrico e basso, si interrompono mentre una melodia quasi ambient, accompagnata da ulteriori cori e dal corposo basso, apre ad una frase che recita: - Aveva detto stai zitto, i grandi non piangono - .
In seguito, il brano torna sui binari originari e procede così fino alla fine.
Il testo narra di un individuo incapace d'esternare i propri sentimenti, emotivamente traumatizzato. All'unica donna ch'esprima interesse nei suoi confronti, egli dichiara di non amarla, nonostante la foto di lei abbia un posto d'onore nella camera dell'uomo. Si tratta solo di una stupida fase di passaggio, o almeno, questo è quanto l'uomo tenta di raccontare a se stesso; in realtà, è innamorato perso della ragazza e fa di tutto per avere un qualsiasi tipo di comunicazione con lei. Purtroppo, non sapremo come andrà a finire la loro non-storia, identica a molte altre storie mai nate.
I Want You Back
Il 1969 è un anno fondamentale, per la musica: un momento di transizione irrinunciabile e marcato. Dopo la morte di Jimi Hendrix, l'hard rock - che pure trae le proprie origini estetiche e sonore dalla cosiddetta "black music" - va sempre di più a delinearsi come elemento centrale di nuove generazioni d'origine, principalmente, europea. La controcultura afroamericana - con la sua attitudine sfrontata e perfino pericolosa, con la nobilitazione di sensazioni provenienti "dal basso", dalla strada, e con i suoi suoni selvaggi e viscerali, ha dato forma e anima alla musica del '900 e a una gran fetta di movimenti generazionali - direttamente o indirettamente. Quella stessa controcultura cerca adesso, all'alba del nuovo decennio, di ritrovare suoni e colori che siano suoi e suoi soltanto, ricercandoli ancora una volta nelle radici jazz, r&b e soul, dunque nel vecchio gospel ma pure nel funk, il frutto più giovane d'un raccolto nato dalla controtendenza: se il rock diviene sempre più espressione d'una marcata centralità della chitarra elettrica, la "black music" torna piuttosto a mettere al centro basso e percussioni, favorendo la ritmica alla melodia, preferendo la partecipazione del ballo alla contemplazione passiva del suono. In questo scenario, James Brown è il re indiscusso e incontrastato, ma molti e vari sono gli artisti sulla scena, ognuno con la sua ricetta; alcuni, saranno davvero fondamentali. Tra questi artisti troviamo i Jackson 5, la formazione "incubatrice", per così dire, di uno dei più grandi geni della musica popolare contemporanea: Michael Jackson. Il pezzo scelto dall'autore di Guardiani della Galassia va ad incorniciare i titoli di coda del film, con quell'adorabile scenetta con protagonisti Groot e Drax. Parliamo del primo pezzo veramente noto dei Jackson 5, il primo a far parlare di un Michael ancora undicenne e già magnetico: I Want You Back, ovvero "ti voglio indietro", storia di rimorsi e d'amori finiti troppo presto. La gavetta dei Jackson 5 inizia nel 1965 a Gary, nell'Indiana, trascinata dal futuro Re del pop, un bambino di soli sette anni, e dai suoi fratelli più grandi: Jackie, Tito, Jermaine e Marlon. Nel 1968, i ragazzi vengono notati dal cantante Bobby Taylor e presentati al direttore della Motown Records, Berry Gordy. È lo stesso Gordy, comunicatore geniale e spregiudicato, a diffondere la leggenda che a lanciare la band sarebbe stata la cantante Diana Ross, al punto d'intitolare il primo album del gruppo "Diana Ross Presents the Jackson 5". L'esordio con dei cinque fratelli con I Want You Back si guadagna il primo posto in classifica, primo di una serie da record di primati consecutivi. La voce del piccolo Michael è ancora immatura, eppure già riesce ad eclissare metà della scena pop del suo tempo; frizzante ed elettrica, l'ugola di Michael Jackson traina il brano accompagnata da una chitarra squillante e da percussioni basilari ma incalzanti, di quelle che, a sentirle, il corpo non può fare a meno di muoversi. La coralità dei fratelli offre all'ascoltatore una catarsi positiva e solare, perfetta a definire lo spirito goliardico di "Guardiani della Galassia". Fa un po' strano ascoltare un ragazzino, a malapena in età prepuberale, mettersi nei panni di un uomo che ha lasciato la sua donna e, amaramente pentitosi, la prega di tornare da lui. La verità, però, è che il testo conta poco: è mero sfondo definito da cliché talmente abusati da farsi brusio di fondo. "I Want You Back" è la vittoria della forma sul contenuto - nel senso buono: parole che si fanno musica al di là del loro significante. Una forma, peraltro, che calza a pennello sull'innocenza quasi commovente del finale di "Guardiani della Galassia". Nel 1970, i Jackson 5 spingono la loro musica attraverso la stella in ascesa della televisione, attraverso i colori messi a disposizione dalle nuove tecnologie, e in generale attraverso una comunicazione che, ben presto, ridefinirà completamente le regole del gioco. Nel 1970, i Jackson 5 sono in tutto e per tutto i figli prediletti di una nuova generazione, incarnata nei tratti ancora infantili del futuro Re del pop.
Come and Get Your Love
Chris era piuttosto consapevole, riguardo la danza... Io avrei voluto urlargli contro - non in maniera arrabbiata, solo in modo da farlo uscire dal suo guscio per lasciarlo concentrare su qualcos'altro - così da farlo sentire libero di trovare il giusto groove. Era anche importante mantenere il suo ballo composto. Non avrebbe dovuto intrattenere nessuno se non se stesso, nel film, quindi era importante che non si mettesse a strafare.
- James Gunn
Dai titoli di coda, facciamo un lungo passo indietro e torniamo alle fasi iniziali della pellicola, alla scena attraverso la quale il regista, James Gunn, ci presenta uno Star-Lord adulto e oramai perfettamente avvezzo alla vita nello spazio. Vista la centralità della colonna sonora nell'economia della sceneggiatura stessa, il regista decide in questo caso di far danzare il personaggio di Chris Pratt in perfetta sincronia con un brano simbolo della musica folkloristica americana: Come and Get Your Love, dei Redbone. La musica che sentiamo è la stessa che Star-Lord ascolta dalle sue vecchie cuffie, mentre l'avventuriero danza allegramente tra le macerie di una civiltà estinta. Le note su cui balla sono di una band, i Redbone, veramente unica nel suo genere. Nonostante siano un calderone di etnie e culture differenti, gli Stati Uniti sono sempre rimasti artisticamente orientati verso due grandi poli: la Black Culture e la cosiddetta White America: una generalizzazione alquanto fumosa delle molteplici influenze europee e africane. I Redbone, agli inizi degli anni '70, si presentano come una formazione composta prevalentemente da nativi americani, con un sound che unisce black music, influenze europee e musica tradizionale nativa. "Come and Get Your Love" è il primo singolo estratto dal loro quinto album, Wovoka, del 1973; è un brano che nasconde la sua intrinseca vena di malinconia in un'attitudine solare e positiva, rimarcata da sonorità provenienti dall'America profonda, dalle paludi della Louisiana francese e dai quartieri neri di New Orleans, su di una base funk-rock grintosa e ballabile. Di fatto, la canzone vive per la gran parte nella sinergia tra coralità vocale e percussioni, queste ultime caratterizzate da importanti elementi etnici. Il resto lo fanno il basso e gli archi, a delineare il senso di leggerezza e movimento del brano, completati da un'esecuzione di sitar in linea con le tendenze in voga negli anni '70. Il testo, delineato da poche strofe e molte ripetizioni, è decisamente meno dozzinale di quanto possa sembrare. Se da una parte questo è pensato per passare all'orecchio come "puro suono", senza che l'ascoltatore si concentri sulle parole, dall'altra parte, nasconde una duplice e insospettabile chiave di lettura. La prima chiave ci presenta il richiamo puro e semplice di un amante alla sua donna, un invito all'abbandono d'ogni insicurezza e all'abbraccio dell'amore. La seconda chiave di lettura, nascosta fra le righe, ci racconta invece di una personalità più sofferta che, tra difficoltà e dolore, cerca di accettarsi per trovare non già l'amore di un amante, ma l'amore per sé stessa. Una contrapposizione concettuale che il regista pone come contraddizione visiva, nell'evidente contrasto tra la leggerezza sfrontata di Star-Lord, e l'antico dramma di quelle rovine tutt'intorno.
Cherry Bomb
La scoppiettante Cherry Bomb, traducibile grossomodo "Bomba alla fragola", delle Runaways, capita in un passaggio cruciale del film. Quill, Gamora, Drax, Rocket e Groot mettono a punto il piano per riprendersi l'Orb e sconfiggere "Ronan". Tutti e cinque i protagonisti sanno bene di rischiare la vita, ma vogliono battersi lo stesso, fianco a fianco. Il brano in questione, essendo molto frizzante, riesce ad alleggerire di parecchio l'atmosfera della scena, trasformando la tensione drammatica in azione umoristica. Oltretutto, la scelta di tale brano per questa scena è ideale anche per un altro motivo: in un certo senso, carica sia i protagonisti del film che lo spettatore, in vista della battaglia contro Ronan. Era proprio quello che ci voleva. Le Runaways furono una rock band tutta al femminile, attiva per un breve un periodo di tempo, dal 1975 al 1979. Hanno rappresentato uno dei complessi rock femminili più importanti e hanno influenzato tante donne che nella loro carriera si sarebbero dedicate al rock and roll. Nella loro line-up, si segnalano quelle che forse sono state le icone femminili più note del rock, ossia Joan Jett, qui alla chitarra ritmica, e Lita Ford, qui alla chitarra solista. "Cherry Bomb", pubblicato nel 1976, è uno dei brani più noti della band ed è un incrocio tra l'hard rock più grezzo e il nascente punk rock. Le qualità tecniche che le ragazze potevano vantare all'epoca erano davvero essenziali, ma, secondo la tradizionale regola punk, con una canzone dotata di un paio di accordi e dalla durata di circa centoquaranta secondi, le musiciste sono riuscite a cogliere nel segno. Il brano si sorregge su un semplicissimo, ma robusto, giro di chitarra elettrica e una batteria dal classico andamento rockeggiante. La voce di Cherie Currie è di forte impatto, aggressiva e grintosa. Sicuramente è l'arma vincente di questo pezzo. Il ritornello è di quelli tipici da cantare a squarciagola: possente, diretto e con le chitarre che si induriscono ulteriormente. Troviamo anche un assolo di Lita Ford, il quale garantisce un minimo di varietà alla canzone. Insomma, un pezzo che se fosse stato realizzato da degli uomini, probabilmente, avrebbe avuto un sapore assai più sciapo, essendo pensato fin dall'inizio per la grinta tutta al femminile delle Runaways.
Il testo è tipicamente adolescenziale e narra di questa ragazza che, con una certa sfacciataggine, si affaccia al mondo esterno. Saluta suo padre, saluta sua madre e va ad esplorare la strada e tutte le avventure che essa offre.
Ciao papà, ciao mamma, sono la tua bomba alla ciliegia!
(The Runaways)
In cui "Bomba alla ciliegia", cherry bomb, è probabilmente un'espressione che indica una sessualità piuttosto sfacciata. Volendo trovare una pur labile connessione col film, e in particolare con la scena cui tale brano fa da sfondo, si potrebbe dire che i protagonisti, nello sfidare "Ronan", possiedono la stessa sfacciataggine e la stessa incoscienza della ragazza del testo delle Runaways.
Escape (The Piña Colada Song)
- Lui è davvero impressionante, sarà un astuto alleato nella battaglia contro Ronan. Compagno, cosa sei andato a recuperare?
(Drax)
La celeberrima Escape (The Piña Colada Song), in italiano "Fuga (Canzone della piña colada)", di Rupert Holmes, è situata in uno dei momenti più divertenti del film. I nostri eroi fuggono dal carcere di Kyln, non prima però che "Quill" non abbia recuperato il suo amatissimo walkman, rischiando di farsi uccidere. James Gunn ha scelto la canzone col titolo perfetto, in quanto "escape", in italiano, significa "fuga": esattamente quella che attuano i nostri protagonisti. Inoltre, il motivo estremamente allegro di questo pezzo, rende tutta la sequenza decisamente spassosa, con "Quill" che torna apposta per un motivo così apparentemente puerile, e i suoi compagni che sono costretti ad aspettarlo rischiando di non riuscire più a fuggire. Rupert Holmes è un musicista che raggiunse la fama tra il 1979 e il 1980 proprio grazie a questo pezzo famosissimo. Un brano pop venato di reggae, che riuscirebbe a mettere di buon umore chiunque. Peccato che Holmes sia ricordato solo per questo e un solo altro brano, ma ancora oggi "Escape (The Pina Colada Song)" è una canzone che ascoltiamo spesso - magari senza neanche farci caso. Il brano è sorretto da un caldo e leggero motivo di tastiera, suonata dallo stesso Holmes, e da una chitarra molto soft, a metà tra pop e funky. La sezione ritmica dà quel tipico andamento reggae di cui si diceva prima. Rupert Holmes fa una prova vocale di alto livello, in quanto colpisce subito l'ascoltatore col suo timbro caldo e solare. Ma l'elemento che senza dubbio caratterizza la performance vocale di Holmes, è l'allegria che il cantante dà al brano. Non a caso, questo pezzo è stato utilizzato spesso al cinema e in particolare nelle commedie. James Gunn però, ha scelto di utilizzare questa canzone in un modo un tantino differente, ossia, inserendola in una scena che senza nessun tema musicale in sottofondo potrebbe suggerire addirittura tensione, ma che proprio con l'aggiunta di tale pezzo assume connotati completamente differenti, decisamente comici. Anche il testo è molto umoristico, in quanto narra di un uomo che, a causa di una convivenza con la sua donna diventata noiosa, sbircia tra gli annunci personali su di una pagina di giornale e nota la lettera di una ragazza che promette divertimento. L'uomo allora risponde all'annuncio, stabilendo l'incontro con questa misteriosa donna in un bar. Il giorno dell'appuntamento, l'uomo si presenta sul posto, scoprendo che la donna dell'annuncio sul giornale altri non è che la sua stessa compagna. Alla fine i due, dopo un momento di smarrimento, scoppiano a ridere insieme.
O-o-h Child
- Che cosa fai? Una gara di ballo, io e te.
(Dialogo tra Ronan e Quill)
La traccia O-o-h Child, in italiano letteralmente "O-o-h bambino", dei The Five Stairsteps, la troviamo nel finale del film, in un momento cruciale. Ronan è intervenuto su Xandar, mandando momentaneamente a tappeto i guardiani e preparandosi a rendere gli abitanti del posto suoi schiavi. Tuttavia, Quill rinviene e improvvisa un diversivo che distrae Ronan, mettendo in scena uno dei siparietti più surreali del film sulle note di "O-o-h Child". Ne segue una spettacolare colluttazione. Il contesto sembra piuttosto drammatico, con i nostri eroi apparentemente impotenti contro la furia distruttrice di "Ronan". Star-Lord, tuttavia, non rinuncia al suo humor e alla sua musica, facendone un'arma. In tal modo, la scena, da drammatica si fa improvvisamente divertente, seguendo un compatto filo logico e narrativo. Un'ottima trovata, quella del regista, che ancora una volta riesce a rendere simpatica una sequenza tragica, avvalendosi nuovamente di un brano allegro e solare. I "The Five Stairsteps", autori del brano, sono conosciuti come la prima famiglia afroamericana di musica soul, e si sono formati a Chicago nel 1965. Sono considerati tra i massimi esponenti del chicago soul e, quando pubblicarono "O-o-h Child" nel 1970, il successo fu clamoroso. Sono rimasti in attività fino al 1976, per poi riformarsi nel 1979 sotto un altro nome e sciogliersi definitivamente nel 1981. "O-o-h Child", scritta dal produttore Stan Vincent, è sorretta da un soffice motivo di pianoforte, il quale funge da perfetto tappeto per le voci, calde e delicate, dei fratelli Burke. Si tratta di un brano allegro e pacato, ma avente un groove batteristico possente, che cambia più volte durante il corso della canzone. L'elemento migliore del brano, però, è l'alternanza tra cori e voci solista: le strofe sono cantate con morbidezza e, se vogliamo, con una certa femminilità. Il ritornello è un tripudio di cori che conferisce al brano connotati vicini al gospel. James Gunn si è dunque orientato su una canzone che apparentemente potrebbe sembrare inadatta, per "Guardiani della Galassia", eppure, una volta inserita nella messa in scena, tutto fila liscio e naturale. Dopotutto, due ore circa di film hanno abituato lo spettatore agli scenari più strambi. Il testo è molto semplice ed è riferito a una ragazza in difficoltà, sia materiale che soprattutto emotiva. Le viene allora detto che prima o poi le cose diventeranno più facili, che arriveranno tempi migliori. Un giorno, canta la voce vellutata, lui e lei cammineranno sotto i raggi lucenti del sole, godendosi la vita. Volendo interpretare il testo, si potrebbe ipotizzare sia riferito al razzismo che, ai tempi, ancora imperversava in America come fosse una cosa normale. Le parole del cantante lasciano poco spazio ai dubbi: prima o poi tale piaga sociale finirà e arriverà il momento in cui anche la gente di colore potrà girare libera, sotto la luce del sole, senza essere discriminata.
Ain't No Mountain High Enough
La sinergia, anzi, la simbiosi tra il film e la sua colonna sonora raggiunge l'apice proprio nel finale di "Guardiani della Galassia". Dopotutto, la vera resa dei conti, per Star-Lord, non è mai stata quella col cattivo di turno, ma quella con se stesso. Il suo passato, il ricordo della madre e il senso profondo d'un abbandono forzato, vissuto attraverso il senso di colpa, travolgono il protagonista in una catarsi liberatoria che ha il senso finale della maturazione, il superamento d'un infanzia rimasta inchiodata a quel letto di morte e mai del tutto superata. La canzone è parte integrante di quella catarsi, e il suo testo è il senso stesso di quella liberazione, poiché nonostante la morte, gli anni, la distanza, nonostante gli sbagli, il nostro anti-eroe ora è cosciente che l'amore di una madre per suo figlio non conosce barriere, "non ci sono montagne abbastanza alte" - ovvero, come recita il titolo di questo gioiellino anni '60, Ain't No Mountain High Enough. Autrice della canzone è la coppia Ashford & Simpson, mentre a darle voce è un'altra coppia leggendaria: Marvin Gaye e Tammi Terrel. Nickolas Ashford e Valerie Simpson sono marito e moglie e la loro unione si riflette ampiamente sui loro testi, compreso quello di questo brano. Nella loro lunga carriera di scrittori e performer, la Simpson e il marito hanno realizzato brani per artisti come i The 5th Dimension, Ray Charles, Aretha Franklin e molti altri. I due cantanti non sono da meno. Marvin Gaye è semplicemente una figura mitica, nell'immaginario afroamericano, universalmente ricordato uno dei più grandi innovatori della scena soul; il New York Times disse che "ha fuso la musica soul della scena urbana con un beat da cantante gospel dei vecchi tempi, tracciando potenti influenze sulla musica pop". Tammy Terrel è nota proprio per i suoi tanti duetti con Marvin Gaye, per la sua potentissima voce e per la sua morte prematura: nel '67 era sul palco proprio con Gaye, quando perdeva i sensi e scopriva, poco tempo dopo, l'inizio di un cancro al cervello che l'avrebbe uccisa a soli venticinque anni. Il suo compagno di palco e amico più caro non avrebbe mai del tutto superato il trauma, cadendo nella depressione e la droga, dando però vita ad alcuni dei suoi album più scuri ed introspettivi. Ognuno di questi artisti, scrittori e cantanti, sul finire degli anni '60 è parte della scuderia della Motown, etichetta discografica nota per aver promosso e diffuso una grossa fetta di black music. "Ain't No Mountain High Enough" esce nel 1967 ed è un grande successo, ma entra nel mito nel 1970, quand'è portata a fama internazionale da un vero peso massimo della scena americana: Diana Ross. Nel tempo, verrà suonata da un'infinità di artisti d'ogni colore e nazione. La musicassetta di Star-Lord ospita la versione originale di Marvin Gaye e Tammi Terrel, la cui potenza è tutta nella sinergia corale dei due cantanti, nella loro incredibile chimica, passione ed innata energia. La ritmica gioca un ruolo fondamentale nel rimarcare i momenti più ariosi, quelli evocativi e quelli catartici, entrando in perfetta comunione con la metrica delle strofe, lasciando ad archi e piano un ruolo senz'altro secondario, ma comunque determinante a dare colore a suono e parole. Il testo di Ashford & Simpson è una pura e semplice dichiarazione d'amore, la promessa che due amanti fanno l'uno all'altra; laddove lui le giura che nessuna barriera, né la montagna più alta o il fiume più ampio, lo terranno lontano da lei, e che per lei è pronto a superare ogni ostacolo, la cantante risponde con gli stessi versi e la stessa passione, anima gemella che nessuna distanza può scoraggiare. Un amore la cui sola potenza esecutiva spoglia d'ogni possibile banalità, un amore che trascende il piano fisico e supera le barriere dello spazio, del tempo, e forse, perfino quella della morte.
Conclusioni
Penso che per me fare questo film sia un po' come una canzone dei Nirvana. È lento e lungo, quindi grande e veloce, lento e lungo, grande e veloce. Penso che sia un bel film cinematografico e per me è stato davvero emozionante.
- James Gunn
Al termine della prima avventura dei Guardiani della Galassia, una cosa è certa: la pellicola di James Gunn è tra le più originali e riuscite dell'MCU, simile nello spirito a quelle dedicate agli Avengers eppure, al tempo stesso, completamente differente. Soprattutto, è un film che o lo si ama, o lo si odia, e non un prodotto pensato semplicemente per piacere a quanto più pubblico possibile. Il regista riesce a centrare tutti quei traguardi che si era posto sin dall'inizio: la sua pellicola diverte, intrattiene e soprattutto gode di un umorismo trascinante, diverso da quello che pure imperversa negli altri film della Marvel. Nei vari Iron Man, Thor, Captain America, l'umorismo è usato per spezzare la tensione di una storia che ha la pretesa di prendersi sul serio. Guardians of the Galaxy non si prende mai sul serio, ed è piuttosto il dramma che, spesso, deve spezzare la costante umoristica del film. Il regista ha volutamente puntato tutto sul lato comico, servendosi di vari espedienti come dialoghi, battute, situazioni spassose e personaggi unici, con un occhio di riguardo per gli stilemi della più classica commedia americana. Il materiale cartaceo originale, ovviamente, deve averlo aiutato parecchio. Sono proprio i tanti ed incredibile personaggi, nati per lo più fra le pagine dei fumetti, la fonte di maggior successo del film: il regista è infatti riuscito a delinearli uno ciascuno, dando a tutti lo spazio che meritavano e contestualizzandoli bene all'interno della narrazione. Ogni personaggio ha una personalità ben precisa, dando il tal modo la possibilità allo spettatore di inquadrare meglio ciascuno di loro: Peter Quill è il tipico soggetto all'apparenza sciocco e impulsivo, ma in realtà, la sua intelligenza è seconda solo alla sua sfacciataggine, un atteggiamento sfrontato che, spesso, è proprio la sua arma vincente. Gamora è apparentemente fredda, combattiva per natura, ma sotto-sotto nasconde una grande fragilità, frutto di un passato burrascoso. Rocket Racoon è per molti il personaggio più simpatico di tutti, e probabilmente, anche quello più iconico. È decisamente un brontolone, vuole essere visto dagli altri come un pirata egoista ed opportunista, ma cela un animo ch'è tutto il contrario, come dimostra la sua tenera amicizia con Groot e il rapporto che, alla fine, instaurerà coi suoi nuovi amici. Il suo passato drammatico viene appena accennato, così da restare una carta giocabile nelle pellicole seguenti. Lo stesso Groot è un personaggio importante, anzi: simbolico. L'albero umano è la rappresentazione muta dello spirito dei Guardiani, la prefigurazione di ciò che sarà, metafora della simbolica morte e della resurrezione dei suoi compagni; ognuno infatti, alla fine, farà i conti col proprio passato e inizierà una vita nuova. C'è perfino chi ha paragonato il personaggio al Cristo Redentore, metaforicamente parlando. Drax, infine, è un personaggio surreale: all'apparenza il classico tipo tutto muscoli e poco cervello, ma con una curiosa propensione a prendere ogni affermazione alla lettera e a parlare come un libro stampato. Vive con lo scopo di uccidere Ronan e anche lui, come tutti gli altri, porta dentro un dramma personale in pieno contrasto con l'umorismo dell'opera. Insomma, una squadra tanto amabile quanto stramba, capace di fare breccia nel grande pubblico - e non solo nei seguaci della Marvel. "Guardiani della Galassia", dopotutto, non è propriamente un film di supereroi; proprio come Star Wars, è un classico fantasy d'ambientazione fantascientifica, sebbene l'epica classica, qui, ceda il passo all'azione pura, e la grossa differenza la fanno i personaggi: i protagonisti non sono supereroi, non hanno reali superpoteri, eppure, alieni o meno, sono più umani di tanti terrestri dell'universo Marvel. L'elemento determinante di tutta la pellicola, tuttavia, rimane la colonna sonora. La soundtrack è incentrata infatti su brani storici della canzone popolare contemporanea, un elemento che già di per sé avvicina lo spettatore all'umanità dei protagonisti. Rispetto al sovrumano Superman o all'implacabile Batman della rivale DC, dopotutto, il punto forte degli eroi Marvel è sempre stato nella loro più marcata umanità; "Guardiani della Galassia" elimina quindi del tutto la barriera tra uomini e semi-divinità, offrendo allo spettatore la squadra di anti-eroi più iconica degli ultimi anni. La DC tenterà qualcosa di simile con Suicide Squad, con ben più deludenti risultati. James Gunn ha scelto sapientemente una manciata di canzoni entrate nell'immaginario collettivo, applicandole con sapienza alla sua pellicola. Infatti, pur facendo un uso accorto e spesso parziale di tali brani, il regista riesce a contestualizzarli in maniera assolutamente perfetta in ogni scena girata. Gunn, che di questo film è autore a tutto tondo, ci porta a riflettere sull'immortalità di certa musica, su ciò che la musica è in grado di trasmettere e su quello ch'essa può rappresentare per ognuno di noi, nel nostro intimo più profondo; il suo talento, ciò che realmente rende unica la sua colonna sonora, è proprio il significante che ogni singolo brano infonde alla messa in scena, interagendo con la narrazione a una maniera molto più incisiva, che non quella d'un semplice sottofondo. Ovviamente, le coordinate tipiche della grande casa produttrice sono ben presenti, ma l'autorialità che - per una volta - la Disney concede al regista, fanno la differenza tra la mega-produzione preconfezionata, e l'intrattenimento di qualità. In effetti, è solo in anni più recenti che il dibattito sulla qualità dei film Marvel si è fatta più presente, e forse, determinante: proprio al termine di un processo di saturazione dell'immaginario collettivo, e più prosaicamente, delle sale cinematografiche. "End Game", che tra le altre cose ha portato a conclusione la parabola di Thanos e di altri personaggi, è stato il film col maggiore incasso nella storia del cinema, ma la polemica, partita da Scorsese e proseguita fra i tweet e le interviste di altre leggende della vecchia scuola, nonché il successo di un cinecomic come Joker, hanno portato il grande pubblico ad interrogarsi sulle dinamiche narrative e di mercato del colosso di Topolino. C'è chi questi film li adora, anche e soprattutto i più giovani, ma non manca il pubblico adulto e quello che, cresciuto con i fumetti Marvel, vede in questi film il riscatto d'una passione un tempo ghettizzata. Poco male se gli effetti speciali e l'azione priva di pause si mangino i personaggi e le loro storie; poco male, se salvo eccezioni eclatanti, i prodotti MCU sono più simili a dei luna park che a dei film, come suggerito dal regista di "Taxi Driver". La polemica che oggi investe Marvel sta tutta nell'inconsistenza di personaggi che all'esordio avevano un'anima, e che, in virtù di una sempre più massiccia escalation narrativa ed economica, hanno finito col perdere di spessore e per divenire vuole macchiette, protagonisti di sceneggiature in cui tanto l'elemento drammatico quanto quello umoristico, pur presenti, finiscono per essere appiattiti dall'inconsistenza della narrazione. Una narrazione dettata da una ben precisa scaletta di marcia, e naturalmente, al maggior profitto possibile. Una sorta di dittatura dell'immaginario collettivo che a una fetta piuttosto rinomata di Hollywood inizia a stare stretta. Mentre l'opinione pubblica si divide via web in varie fazioni, come sempre avviene sui social, la Disney si prepara alla seconda fase del suo grande universo condiviso. L'auspicio non è che la recente polemica porti alla fine dei cinecomic Marvel - che nel bene e nel male hanno regalato la più grandiosa saga cinematografica degli ultimi decenni, nonché alcune pellicole d'innegabile bellezza - ma che le critiche possano portare il pubblico a una maggiore consapevolezza: a capire la differenza tra cattivo e buon intrattenimento, tra Cinema e baraccone, a pretendere di più, portando la Disney a concedere a tutte le sue pellicole la stessa libertà autoriale che, nel 2014, aveva concesso a James Gunn. Nel frattempo, Guardiani della Galassia si staglia al di sopra delle critiche insieme a pochi altri film Marvel, e la sua colonna sonora, così determinante nell'indicare il senso profondo della narrazione stessa, è un successo discografico: "Guardians of the Galaxy: Awesome Mix Vol. 1", è infatti la prima colonna sonora composta da brani non originali a conquistare la cima della classifica, dove si piazza per undici settimane consecutive vendendo quasi due milioni di copie. Un risultato pazzesco, per una soundtrack, superato solo dalla più commerciale colonna sonora di Frozen... sempre della Disney, guarda caso.
Il secondo episodio della saga, "Guardiani della Galassia Volume 2", è uscito nel 2017. Ancora una volta graziato dalla messa in scena di Gunn, il film ha riportato sullo schermo gli stessi protagonisti del primo film, qualche ingresso nuovo e lo stesso umorismo. Attualmente, pare sia in lavorazione un terzo capitolo, con uscita prevista tra il 2020 e il 2021.
Di Andrea Ortu e Francesco Nappi
Idea e supervisione di Jader Lamberti
2) Go All the Way
3) Spirit in the Sky
4) Moonage Daydream
5) Fooled Around and Fell in Love
6) I'm Not in Love
7) I Want You Back
8) Come and Get Your Love
9) Cherry Bomb
10) Escape (The Piña Colada Song)
11) O-o-h Child
12) Ain't No Mountain High Enough