FRATELLO, DOVE SEI?

O Brother, Where Art Thou? - Soundtrack

2000 - Lost Highway/Mercury

A CURA DI:
Andrea Ortu
Michele Alluigi

DOPPIATORI:
Alfonso Zarbo
Federico Pizzileo
MUSICA DI SOTTOFONDO:

DATA RECENSIONE:
17/05/2021

TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Come ogni forma d'arte, la musica è comunicazione. Interpretazione e comunicazione. E come ogni forma di comunicazione, la musica possiede intrinseca una Narrazione che ne rappresenta la nascita, le radici, l'avventura, la crescita, la maturità, e infine la rinascita. Mai la morte. Perché la musica, l'arte, rappresentano lo slancio dell'uomo all'eternità, alla divina immortalità. Questa narrazione è pura Epica nella sua più ancestrale accezione, scolpita e raccontata attraverso gli artisti e le loro vite, i loro drammi, l'intrecciarsi delle loro vicende con i movimenti generazionali e gli sconvolgimenti sociali. Con la storia. In epoca contemporanea, la più grande narrazione epica della storia dell'arte porta il nome di Rock, e no, non stiamo parlando di quell'etichetta da incollare su un prodotto a uso e consumo della sua vendibilità, a vantaggio di un mercato che ha bisogno di catalogare con cura ogni singola sfumatura dell'umano talento, ma di un vero e proprio fenomeno globale, sociale e generazionale, un Movimento storico che ha unito continenti e genti lontane, ibridandosi e arricchendosi a ogni passo, stratificandosi, sedimentandosi nel costume solo per trasformarsi ancora e ancora, prendendo infine le forme che conosciamo oggi e che definiamo in una moltitudine di generi, tra hard rock, pop, metal, funk, hip hop e via dicendo, tentando come sempre di porre ordine nel caos. Tanti nomi, un'infinità di stilemi musicali e poetici, usi, costumi e culture differenti. Eppure, quest'apparentemente caotico ramificarsi di musica e d'umanità ha in comune un solo, immenso e coriaceo albero, sorretto a sua volta da radici antiche e profondissime, ben piantate sull'unica terra che l'uomo conosca. L'epica narrativa che chiameremo Rock nasce da quella terra, come ogni altra cosa, e passa da quelle radici, attraversando un ligneo e frastagliato tronco fatto di guerre, scoperte scientifiche, schiavitù, avventura, discriminazione razziale, sogni di gloria, miserie, rivoluzioni artistiche e rovesciamenti sociali senza precedenti, raggiungendo infine le più verdeggianti fronde - e i più oscuri recessi - che si possano immaginare. Quel grande e tortuoso tronco, noi lo chiamiamo "900". All'apice di questo percorso e alla fine di un millennio, a due passi da un'epoca nuova e tutt'ora piena d'incognite, un film all'apparenza leggero, fantasticamente disimpegnato, tenta di raccontare quest'incredibile narrazione attraverso le sue radici americane, in una terra la cui storia recente è già mitologia, insieme rilucente e oscura, facendo proprio il concetto stesso di Epica alle sue più antiche fondamenta. Il nome del film è Oh Brother, Where Art Thou, arrivato in Italia col titolo di Fratello, Dove Sei?. Chi ha visto film come Fargo e Il Grande Lebowski conosce bene lo stile e il talento di Joel ed Ethan Coen, ben più noti semplicemente come Fratelli Coen, registi dall'intuito geniale e dal tocco a dir poco folle, del genere che non piace a tutti ma, proprio per questo, sempre sopra le righe e con un piede rivolto all'avanguardia del cinema, l'altro, ben piantato nella tradizione. Sono loro ad aver scritto e diretto "Fratello, Dove Sei?", dando così alla pellicola lo spessore dell'opera autoriale, ma alla genuina follia della loro poetica, qui i registi preferiscono la solidità di una narrazione dai toni classici e rassicuranti, esemplificata da quella che per i Coen è stata la principale fonte d'ispirazione: L'Odissea, di Omero. Chiariamoci, il film non manca di stravaganza e a tratti è squisitamente delirante, in pieno "stile Coen", ma ogni elemento immaginifico e interpretativo richiama stilemi consolidati, consacrati da decenni di cinema e letteratura che i registi mescolano sapientemente tra loro, dando vita a una pellicola che unisce la commedia alla crime story sulla falsa riga di una sorta di documentario storico, un viaggio avventuroso tra i personaggi e i luoghi topici dell'America degli anni '30 che trasporta lo spettatore attraverso un intero continente e la sua storia. Ma al netto delle risate che il racconto è capace di strappare, oltre la parossistica caratterizzazione dei personaggi e in barba a una narrazione apparentemente disimpegnata, la base omerica offre al film la profondità narrativa dell'Epica classica, epica che i registi riconoscono non solo nella turbolenta società americana della Grande Depressione, ma soprattutto negli albori di quel Movimento che la storia ha chiamato rock 'n' roll, e che noi definiamo unicamente "Rock", sia nelle sue radici folk ed europee che in quelle nere, afroamericane. Già, perché "Fratello, Dove Sei?" non è solo epica, commedia e crime story d'ambientazione storica, è perfino musical, a modo suo, pur senza fare propri gli elementi strutturali del genere, ma solo i suoi significanti simbolici. Ogni momento del film, ogni situazione che sia comica, drammatica o totalmente folle, è definita da un sottofondo musicale ricercato e caratteristico, volto non soltanto a definirne la messa in scena, ma a contestualizzare e descrivere lo spirito dell'opera e di ogni sua singola sequenza, dando forma a quella che potremmo indicare come una continua "simbologia sonora". Non è un caso che tra i personaggi storici più o meno romanzati che popolano il film, i Fratelli Coen diano risalto alla figura di un musicista di colore dal nome evocativo: Tommy Johnson, omonimo del chitarrista blues che secondo la leggenda vendette l'anima al diavolo in cambio di un talento sovrannaturale alla sei corde, la cui storia si fonde con quella, identica, del ben più famoso Robert Johnson, padrino contemporaneo di un'attitudine oscura cara a molta musica pesante. Entrambi i musicisti, il cui passato rimane tutt'ora oscuro esaltando così il loro fascino, sono realmente esistiti ed è facile confonderli, ed entrambi sono indicati da molti come i capostipiti di sonorità alla base non solo del blues, ma di ciò che sarebbe stato chiamato Rock, sebbene nella sua forma più primordiale. Interpretato dall'attore - nonché musicista blues - Chris Thomas King, questa versione un po' stramba di Tommy Johnson accompagna i tre assurdi protagonisti del film: Ulysses Everett McGill, interpretato da un George Clooney al top della forma e della carriera, Pete Hogwallop, interpretato da John Turturro, già vecchia conoscenza dei Fratelli Coen, e infine il piccolo ma a suo modo saggio Delmar O'Donnel, interpretato magistralmente da Tim Blake Nelson. I tre sono detenuti in fuga, all'avventura nell'ancora selvaggio entroterra statunitense, spinti dal sogno di un tesoro nascosto tanti anni prima e che a giorni rischia di scomparire, inghiottito dalla costruzione di una diga e quindi, metaforicamente, dal progresso che avanza. Ulysses è la mente del trio, o almeno crede di esserlo; è belloccio e intelligente, sempre alla ricerca della sua marca preferita di gel per capelli, anche nelle situazioni più improbabili. Il suo nome non è certo casuale, e proprio come Ulisse, tenta di dare a ogni cosa una spiegazione razionale, osservando il mondo con la logica - ma anche la stolta supponenza - dell'uomo moderno, finendo esattamente come Ulisse per essere regolarmente travolto dagli eventi, preda mortale di ciò che i greci chiamavano "Fato". Pete, dal canto suo, è un bestione scontroso ma buono che mal sopporta la leadership di Ulysses, troppo intellettualoide e artefatto per i suoi gusti, dimostrandosi però fedele compagno di viaggio e di disavventure, perfetta sintesi  del burbero ma gentile uomo di campagna. Infine, Delmar è il compare di mezzo, in costante imbarazzo tra le scelte e i dissapori dei suoi due compagni. È un ometto dalla mente semplice e superstiziosa, così tonto da suggerire che soffra di un vero e proprio ritardo mentale, eppure, proprio per la sua naturale predisposizione a lasciarsi travolgere dal destino, è spesso il più saggio dei tre e colui che funge da collante del gruppo, l'elemento pacificatore. I protagonisti, come d'altra parte ogni personaggio che li circonda, sono all'apparenza solo belle macchiette, personaggi ideali a una narrazione comica, il che, però, è vero solo in parte. Infatti, Ulysses, Delmar e Pete sono soprattutto archetipi, metafora necessariamente stilizzata dell'America degli ultimi e dei diseredati, uomini dal cui spirito e dalla cui intraprendenza nasce il concetto stesso di "Sogno Americano", e non solo; essi sono anche il simbolo di quell'atavico anticonformismo che la vita sulla breccia della legge, della povertà e della ribellione ha infuso a generazioni di musicisti americani, artisti che da quel momento in poi avrebbero pian piano sfuggito la patinatura della società perbene in cambio di suoni selvaggi, capelli lunghi e scapigliati, abiti provocatori e aggressivi, inventando, in poche parole, l'estetica del Rock. La loro vicenda, che a un certo punto li trasforma in musicisti bluegrass, un termine che raccoglie a sé ogni genere di sonorità americana che vada dal delta blues al folk britannico, è permeata e resa in qualche modo eterea da ore e ore di musica, raccolte in una colonna sonora capace, a suo tempo, di collezionare la bellezza di otto dischi di platino. Chiamata semplicemente Oh Brother, Where Art Thou - Soundtrack, l'opera ha infatti venduto fino ad oggi qualcosa come otto milioni di copie, nonostante l'era della pirateria e del digitale sia ormai di casa da un bel pezzo, dimostrando non solo di essere in grado di tradurre la pellicola dei Coen in puro suono, ma perfino di superarne il valore e l'incisività, tanto il messaggio della musica è intenso e permeante oltre ogni immagine o parola. Realizzata dal musicista e produttore Joseph Burnett III, per amici e fans T-Bone Burnett , la colonna sonora è una lunga immersione nelle origini musicali degli Stati Uniti d'America, tra root music, folk irlandese e scozzese, delta blues e tutto ciò ha unito genti altrimenti divise da origini, ideologie e pregiudizi, un calderone di popoli e costumi trasformato dai Fratelli Coen in un nuovo Mediterraneo di miti, sirene, banditi e sognatori, e che T-Bone Burnett sintetizza in una selezione di tracce dei più disparati autori di quell'epoca turbolenta che, oggi, assurge a teatro della moderna Mitologia. 
Sarà attraverso questi autori e le loro canzoni che ripercorreremo, musicalmente parlando, il viaggio di Ulysses e dei suoi compagni, un viaggio che parte con la citazione che avete udito all'inizio, esordio dell'Odissea di Omero. O almeno, della sua versione americana, com'è giusto che sia.

Po' Lazarus

La sinergia, perfetta e puntuale, tra il film e la sua colonna sonora è evidente fin dalle primissime riprese: i Fratelli Coen infatti mettono letteralmente in scena il testo della traccia d'apertura, e con esso la sua tematica e il suo significato. Il sole brucia la terra dello stato del Mississippi e arroventa le rotaie su cui decine e decine di detenuti, incatenati e impolverati, battono incessantemente i loro martelli sotto lo sguardo vigile delle guardie (suono dei martelli e voci sullo sfondo). I detenuti, cantano. Nonostante il caldo intollerabile e la fatica immane, nonostante tutto, cantano; proprio come facevano gli schiavi neri solo alcuni decenni prima, in quel sud baciato dalla bellezza della natura e rovinato dagli uomini. La loro canzone narra di un uomo di nome Lazzaro e della sua fuga dallo sceriffo, ma le loro parole, all'apparenza semplici, nascondono sentimenti ben più ampi e profondi. Sullo schermo osserviamo e udiamo i prigionieri, ma noi sappiamo che non sono davvero loro, a cantare, bensì un gruppo di veri galeotti conosciuto come James Carter & The Prisoners, e che la canzone non è un oscuro coro andato perduto nell'oblio della disperazione, ma è il brano conosciuto come Po' Lazarus, un'opera che a suo modo ha fatto la storia della musica contemporanea. Dico "a suo modo" perché non parliamo di una canzone "originale", in termini prettamente musicali: è una performance corale quasi parlata, estremamente minimale, senza strumento alcuno. Solo voce, passione e rassegnazione. Ma il semplice fatto che una cosa del genere, con un testo così carico di riferimenti al lato più oscuro degli Stati Uniti, sia riuscito ad emergere dall'oblio del pregiudizio e della miseria, colpendo al cuore la società perbene e artefatta dell'America benestante, basta e avanza per fare di "Po' Lazarus" un'opera alla base del rock e del suo spirito difforme. Dopotutto, lo stesso James Carter era uomo ben sopra le righe, e una miniera d'oro per un'industria radiofonica ancora realmente vitale, all'assalto dei suoi crescenti ascoltatori. La storia, ormai trasfigurata in mito, racconta che Carter era un detenuto al carcere agricolo di Parchman, nel Mississippi, una sorta di fattoria detentiva nel cuore della terra che ha visto nascere il blues, e che ad un certo punto sia stato notato da Alan Lomax e Shirley Collins. Lomax era una ben strana figura, non uno squalo del settore discografico, ma un antropologo ed etnomusicologo impegnato in una missione a dir poco incredibile: udire, registrare e catalogare ogni forma musicale del pianeta. Era una missione impossibile, e come tale rimase, ma non senza regalare al mondo una raccolta unica nel suo genere, enorme, e soprattutto capace di dare voce a realtà altrimenti invisibili e soprattutto, per molti, spaventose. Un documento storico inestimabile. James Carter e i prigionieri da lui coordinati al penitenziario furono registrati sul "Southern Journey LP" di Lomax, ma mentre il disco diveniva fonte d'ispirazione per innumerevoli artisti americani, Carter scontava la sua pena e finiva dimenticato. Fu solo più di quarant'anni dopo, e proprio grazie al successo della colonna sonora di "Fratello, Dove Sei?", che Carter uscì dall'anonimato. Fu la figlia di Alan Lomax, Anna, a trovarlo e a rivelargli che il disco con la sua canzone aveva sbaragliato perfino Michael Jackson e Mariah Carey, perché a distanza di decenni, Carter, di quella canzone sfondo di una delle tante giornate di lavoro coatto, non aveva neanche memoria. Nonostante ciò, ricolmo di stupore e di orgoglio, volò a Los Angeles, presenziando alla consegna del Grammy Award alla colonna sonora del film, scoprendo ormai vecchio il peso che il suo canto aveva avuto per migliaia di artisti. Se non è Epica moderna, questa! Come suggerisce il titolo, "Po' Lazarus" narra di un individuo che proprio come Lazzaro aspira ad una simbolica "rinascita" spirituale, rifuggendo alle catene di una società oppressiva e assassina. Ma Lazarus è anche un ricercato e un fuggitivo, e sulle sue tracce vi sono uno sceriffo ed il suo vice... lo stesso sceriffo, vien da pensare, che dà la caccia ai protagonisti del film. Finisce male, e al contrario del mitologico Lazzaro, il fuggitivo perde la vita senza possibilità di resurrezione, colpito a morte dalla calibro 45 dello sceriffo: "...ebbene, lo sceriffo dice a Lazarus, vengo: ti porto via, vivo o morto. Ebbene, Lazarus disse allo sceriffo, disse: non sono mai stato arrestato, da nessun uomo". Nel frattempo, sullo schermo, Ulysses e i suoi compagni fuggono a perdifiato per le campagne, uniti fisicamente e simbolicamente dalla stessa catena, partendo verso la loro e la nostra avventura.

Big Rock Candy Mountain

Così come l'inquadratura si allontana dal desolante scenario dei galeotti in catene, muovendo verso campi sterminati dall'erba alta e fitta, allo stesso modo il canto di James Carter e i suoi prigionieri sfuma lentamente, lasciando spazio ad un brano perfetto per la campagna americana e al sentimento di libertà ch'essa ispira: Big Rock Candy Mountain, traducibile grossomodo come la "Grande Montagna Rocciosa delle Caramelle". Hanno dunque inizio i titoli di testa, incorniciati da disegni dal gusto vintage, intervallati da sequenze di fuga a perdifiato e siparietti comici. La comicità, tuttavia, serve solo a darci un'idea dello spirito del film, poiché i fratelli Coen godono a spezzare crudelmente le nostre risate con la tensione dell'inseguimento, un inquietante alone di oppressione che, in un modo o nell'altro, riempie ogni momento della storia. L'alternanza fra titoli e rapide sequenze, gioca sulla contrapposizione della musica con le scenette che vediamo su schermo: calma e ottimista la prima, concitate e disperate le seconde. Tuttavia, il legame immaginifico tra la messa in scena e la canzone è evidente. Così come i nostri protagonisti scappano all'avventura, con la lontana ma ottimistica prospettiva di rifarsi una vita e trovare un tesoro, allo stesso modo "Big Rock Candy Mountain" racconta di vagabondaggio, speranza e ottimismo. L'autore del brano è uno di quei personaggi eclettici e vagamente rinascimentali, a loro modo, della più selvaggia America rurale, un po' poeti, un po' musicisti, un po' scrittori, tutto all'occorrenza; parliamo di Harry McClintock, noto ai posteri come Haywire Mac. Nato da una famiglia di onesti e duri lavoratori, Harry è scappato di casa appena adolescente per unirsi ad un circo, scegliendo una vita da railroader, un giramondo per il quale le rotaie sono una bussola, e il treno un fugace passaggio gratuito. Inseguendo questa vita oggi impensabile, Haywire Mac ha visto la sua terra e poi l'Africa, imbarcandosi come marinaio; ha conosciuto la guerra portando soccorso ai soldati americani impegnati nelle Filippine e in Cina, durante la cosiddetta "rivolta dei Boxer", per poi tornare negli Stati Uniti inseguendo nuovamente l'avventura, come un contemporaneo menestrello itinerante, oppure come lavoratore nei più disparati settori industriali, impegnato anche a livello politico con le primissime associazioni per i diritti dei lavoratori. Seriamente impegnato anche contro la discriminazione razziale, Harry dava tuttavia voce a canzoni dal sottotesto ironico e beffardo, eccellendo laddove oggi tentenna il politically correct, e "Big Rock Candy Mountain" è un ottimo esempio. Il testo, infatti, narra del sogno americano dal punto di vista di un vagabondo, com'era lo stesso Harry McClintock, o del migrante, all'epoca irlandese o italiano; non che avesse importanza la provenienza, tra uomini uniti dalla medesima povertà e dai medesimi sogni. E il sogno, in questo caso, è Big Rock Candy Mountain, immaginaria località dai contorni eterei e irreali, archetipo delle più irrealizzabili fantasie di benessere di intere generazioni di americani. L'ironia non manca, ad ascoltare questo ragazzo raccontare, convintissimo, di questa terra in cui "il tuo compleanno ricade più o meno una volta a settimana, ed è Natale ogni giorno! C'è un cavallo bianco e ti è permesso cavalcarlo, se lo vuoi, e puoi saltare così in alto da toccare il cielo". Un luogo, continua a raccontare, in cui le prigioni sono di morbido stagno, e puoi uscire quando vuoi. Ah, la cinica e insieme delicatissima ironia del nostro Harry! La musica ha il sapore del folk europeo insaporito da un'accorta spruzzata di country, sebbene all'epoca non vi fossero vere e proprie distinzioni tra questa o quella musica popolare. L'insieme, tuttavia, ha decisamente l'andatura di una spensierata quanto sarcastica cantilena, a rimarcare le innocenti illusioni del vagabondo e la sua vita di pura e semplice libertà. Tutto questo è delineato in pochi accordi di chitarra, voce e null'altro, a seguire una narrazione che ha il sapore della conversazione tra compagni di viaggio, sperduti per l'America nel vagone merci di qualche treno. Sullo schermo, contemporaneamente, è proprio un treno che Ulysses e i suoi compari stanno inseguendo disperati, sullo sfumare della canzone e degli ultimi titoli di testa.

You Are My Sunshine

Peccato che i nostri, il treno, lo perdano. Giunge allora un profeta, sulle rotaie, anziano e cieco, un'apparizione che ha il sapore del miraggio e della favola, come non facesse parte della realtà, in contrapposizione al realismo quasi crudo con cui i Fratelli Coen ridanno vita all'America anni '30. Il vecchio offre al trio un passaggio e una profezia, e anche se ci viene presentato come un uomo di colore nel bel mezzo del Mississippi, non è difficile intuire il perché della sua aura impalpabile e irreale: quell'uomo è Omero. Egli è la voce narrante, e come tale è al di fuori della storia e ne conosce già gli sviluppi, ugualmente a tanti altri profeti le cui parole guidavano gli eroi ellenici. Il ritorno alla cruda realtà porta lo spettatore a contatto con l'America degli ultimi, contadini e allevatori. Siamo nel 1937, ma paradossalmente dalla radio del cugino di Pete giunge la melodia di un pezzo del '39: You Are My Sunshine, ovvero "Sei la Mia Alba", di Jimmie Davis per la voce dell'autore contemporaneo Norman Blake. Ed è davvero un grande classico, proprio come implicitamente suggerito dalla voce alla radio; sfido chiunque, infatti, a non aver sentito questa canzone almeno una volta nella vita, anche solo per sbaglio. Scritta nella sua forma originaria dai fratelli Rice e in seguito acquistata da Davis - pratica comune, in quel periodo - "You Are My Sunshine" è divenuta un caposaldo della programmazione radiofonica americana per decenni, assurgendo addirittura a inno dello stato della Louisiana. Be', in realtà uno dei vari inni, per come funzionano le cose da quelle parti. Negli anni seguenti è stata reinterpretata un po' da tutti, da Ray Charles a Tina Turner, da Johnny Cash a Cat Stevens, passando per Aretha Franklin e Chuck Berry, solo per citarne alcuni, finendo su ogni genere di media: pubblicità, varietà televisivo, radio, cinema, teatro. Il brano inizia con melodie di strumenti a fiato prima squillanti, poi delicati, quando attacca la voce suadente ed evocativa del singer, tipicamente southern vecchia maniera. Arpeggi di Banjo rendono il suono vagamente esotico, all'ascoltatore moderno, offrendo alle visioni di bellezza e amore suggerite dal testo un che di quasi irreale, sognante. Non a caso, certe sonorità sarebbero tornate negli anni '60 col cosiddetto surf rock, benché totalmente decontestualizzate. Segue una parte più concitata, adatta ad infuocare un poco le danze di paese, ritmata dalla chitarra e gestita in maniera morbida ma "sporca", come si conviene a un'opera che fa della provenienza popolare il proprio vanto. Fra le righe, Davis canta il proprio amore attraverso metafore abbastanza banali e finanche stucchevoli, caratteristiche di una musica cui era richiesto un certo disimpegno e, soprattutto, inoffensività. Non manca però la malinconia, evocata nella solitudine di un uomo che sogna la propria donna per risvegliarsi da solo, tra le lacrime. È proprio questa donna, idealizzata secondo canoni quasi stilnovistici, a rappresentare la nostra "dolce alba". Infine, il brano si spegne così com'era iniziato, sebbene la messa in scena ne spezzi la melodia con la voce di un certo "Pappy": "E con questo concludiamo "passa i biscotti", l'ora della farina di Pappy O'Danel. IO, sono Puppy O'Daniel, e spero che abbiate gradito queste ballate dei bei vecchi tempi andati. E ricordate, quando avete voglia di cucinare qualche frittella, o di sfornare una valanga di biscotti, usate acqua fresca e limpida... e la farina genuina di Pappy O'Daniel!" Non è per niente casuale la scelta di un brano di Davis come introduzione a un personaggio, quel Pappy O'Daniel che presenta la canzone alla radio, che si rivelerà fondamentale agli sviluppi della trama. Così come Pappy, nel film, è governatore dello stato del Mississippi, Davis fu governatore della Louisiana per il partito democratico, all'epoca, a differenza di oggi, legato all'ala conservatrice. D'altronde, lo stesso Menelaus "Pappy O'Daniel è ispirato a Wilbert Lee O'Daniel, detto anch'egli Pappy, realmente governatore del Texas fra il '39 e il '41. La scelta di un brano che all'epoca del racconto di Ulysses ancora non esisteva, è un ulteriore citazione al personaggio reale e alla sua storia: O'Daniel, quello vero, era infatti un grande appassionato di radio e di musica popolare, ed un imprenditore, ma come Davis era anche un razzista, favorevole alla segregazione a partire dalle scuole pubbliche; sebbene, va detto, pare che Davis non fosse a proprio agio nel dover difendere le istanze segregazioniste. Come vedremo in seguito, i fratelli Coen si divertono a invertire molti personaggi realmente esistiti nel tentativo di fare della storia americana, oscura e travagliata, un moderno mito a lieto fine, proprio come l'Odissea.

Down to the River to Pray

Il viaggio di Ulysses, Pete e Delmar riprende decisamente col botto! Le disavventure dei nostri, ancora braccati e in fuga per le campagne sterminate, li portano a vivere un'esperienza dall'alone mistico e surreale, dai contorni perfino fatati, a spezzare ancora una volta un realismo delineato dalla natura rigogliosa, dai volti sporchi e impolverati, dai modi spicci dei paesani. In effetti, rompere improvvisamente la percezione che ha lo spettatore di un dato schema narrativo, è una caratteristica di cui i Coen fanno ampio uso non solo in questa pellicola, ma un po' in tutta la loro filmografia. Epopea classica e mitologia cristiana si fondono in questo scenario irreale sulle note di Down to the River to Pray, ovvero "Giù al Fiume a Pregare", un titolo che sembra quasi descrivere la scena stessa. Benché la base dell'opera rimanga l'Odissea, il poema omerico è in realtà una mera base, un pretesto per mettere in scena la mitologia cui i Coen sono realmente interessati: quella americana. E il mezzo, ancora una volta, è la musica. Fin dall'approdo della Mayflower a Cape Cod, la storia americana è andata di pari passo con la retorica e la mitologia cristiana, con i concetti ebraici di punizione e di redenzione. Quest'ultima, la redenzione, è stata il punto centrale di tanti avventurieri che nella conquista del Nuovo Mondo vedevano il riscatto da una vita di miserie e di peccati, di ex fuorilegge, o ex soldati, che in un pezzo di terra e del bestiame vedevano il segno di un perdono divino. Questo sentimento ha fatto radici nell'America bianca in una chiave filosoficamente individualista e soggettiva, mentre per la comunità afroamericana, per la quale il concetto di Redenzione è stato ugualmente centrale, esso ha avuto e ha tutt'ora una valenza soprattutto collettiva, descritta nell'epopea della schiavitù e della liberazione del popolo nero. In mezzo secolo, il rock ha fatto propri molti elementi cristiani, a volte sovvertendoli, altre volte usandoli a uso e consumo di una post-poetica dalle molteplici radici, ma il concetto di redenzione è rimasto sostanzialmente invariato, figlio soprattutto del gospel, ovvero dell'incontro fra le liturgie protestanti - meno arcaiche e più permissive di quelle cattoliche, nonché derivative di una tradizione soprattutto gaelica - e la spiritualità afroamericana, volta all'enfasi emotiva e perfino alla totale catarsi dei sensi. "Down to the River to Pray" è la perfetta sintesi di tali origini, di dinamiche capaci di sedimentarsi nella cultura americana fino a guidarne le dinamiche politiche e sociali. Una voce solista femminile apre a una seconda, poi a una terza, stavolta maschile, finché pare sia una moltitudine a intonare la canzone, in un lento, morbido ma inesorabile climax spirituale. È un'esecuzione magniloquente e pregnante che rende appieno l'idea di illuminazione mistica, e sebbene venga da un classico traditional, il merito di questa splendida resa è della musicista americana Alison Krauss, classe 1971, interprete delicata e geniale di sonorità bluegrass, country e R&B, nonché uno tra i nomi più importanti nella moderna riscoperta della musica folkloristica statunitense. Come vedremo, "Down to the River..." non è l'unica traccia della nostra soundtrack a godere del talento della Krauss, la quale tuttavia non appare nel film per sua espressa volontà, essendo, all'epoca delle riprese, nel bel mezzo di una gravidanza. La maestosità del canto si fa assoluta e totale, quando il coro, trascendentale e onirico, recita "Oh peccatori, scendiamo giù, andiamo, oh peccatori, giù al fiume, a pregare. Peccatori che sono fratelli, padri, madri, sorelle... e perché no, magari tre poveri fuggiaschi. La redenzione non fa per Ulysses, dominato dalla ragione e dalla logica, alla stessa maniera con cui l'eroe omerico sfidava le punizioni degli Déi, e l'ineluttabilità del fato; ma per i suoi compagni è diverso, e il battesimo che ha luogo è identico a quello che ricevette Cristo da San Giovanni Battista, identico a quello di innumerevoli americani nei recessi ombrosi di un continente dominato dalla superstizione e da una spiritualità quasi disperata, nonostante il progresso scientifico tutt'intorno. Una contraddizione insieme meravigliosa e spaventosa, tutta americana. 

I Am a Man of Constant Sorrow

L'avventura prosegue e alla combriccola si unisce momentaneamente un ragazzo di colore, uno dei tanti personaggi storici che popolano la mitologia americana nella visione dei fratelli Coen; parliamo di Tommy Johnson, colui che vendette l'anima al Diavolo per suonare la chitarra come nessun altro. Confondersi col più famoso Robert Johnson è facile, poiché le vicende di entrambi i musicisti hanno in comune un patto col Diavolo e un talento sovrannaturale alla sei corde, una confusione rimarcata dalla sostanziale oscurità intorno la loro vita privata, in un'epoca in cui le voci giravano di bocca in bocca e le leggende nascevano fra strade di campagna e ghetti claustrofobici. Il mito di Robert Johnson fu anche e soprattutto postumo... molto postumo, nel momento in cui l'artista venne indicato come il primo nome eccellente del tristemente noto club dei 27, la famigerata lista dei musicisti morti a ventisette anni. A Tommy andò un po' meglio, essendo arrivato alla sessantina, e chissà, forse fu proprio questa fortuna ad eclissarne la fama a favore di Robert. Nonostante ciò, il suo stile ha influenzato bluesman del calibro di Robert Nighthawk e Howlin' Wolf, musicisti che a loro volta sarebbero stati fondamentali per i tutti grandi pilastri dell'hard rock, dai Grand Funk Railroad ai Led Zeppelin. È a questo punto della vicenda che i toni del film assumono il sapore del musical: ovvero quando i Coen riescono a mettere su una messa in scena tale che lo spettatore nemmeno si chiede come mai, di punto in bianco, Ulysses e compagni si rivelino cantanti straordinari. Che i due registi sappiano giocare con la sospensione dell'incredulità del pubblico, è fuor di dubbio. Nascono così del tutto per caso i Soggy Bottom Boys, la band immaginaria che dà voce all'ennesimo brano traditional: I Am a Man of Constant Sorrow, letteralmente "sono un uomo di costante dolore", scritta in realtà da Richard Daniel Burnett ai primi del '900. Dick Burnett, come veniva semplicemente chiamato, è stato cieco quasi tutta la vita e ha viaggiato in lungo e in largo a fianco del violinista Leonard Rutherford, portando la sua musica in ogni angolo degli Stati Uniti d'America... un po' come faceva Omero, cantore di eroiche gesta presso le corti elleniche. Considerato un genio, in quasi un secolo di vita ha influenzato la musica di un intero continente alle sue radici più profonde, senza tuttavia mai piegarsi alla patinatura del mercato, rimanendo nel cuore menestrello itinerante di musica folk. Il proprietario non vedente della radio in cui si esibiscono i nostri, probabilmente, è un omaggio alla sua gigantesca figura. Quanto ai Soggy Bottom Boys, la fittizia band di George Clooney, l'ispirazione proviene dalla bluegrass band conosciuta come The Foggy Mountain Boys, attiva tra la metà del secolo scorso e gli anni '60, ma il successo del film ha portato una notorietà tale, a questo gruppo inventato, che i musicisti reali dietro le labbra degli attori si sarebbero in seguito riuniti per suonare dal vivo il repertorio della colonna sonora. Intorno agli anni duemila avremmo dunque avuto modo di goderci l'esibizione dei "veri" Soggy Bottom Boys attraverso artisti come Ralph Stanley, John Hartford, Alison Krauss, Emmylou Harris, Gillian Welch e Chris Sharp. E il loro cavallo di battaglia sarebbe stato proprio questa canzone, considerata a buon titolo il capolavoro di Dick Burnett. I Am a Man of Constant Sorrow, nella reinterpretazione degli artisti contemporanei che danno voce a Clooney e colleghi, è un brano dall'atmosfera classica così ricercata, così volutamente tradizionale, da palesare immediatamente la sua origine moderna. È una contraddizione che potrebbe indebolire l'opera, ma l'esecuzione è portata in scena e su disco con tale gusto che il risultato è comunque un gioiellino, una svirgolata di tre minuti di sola chitarra e sinergia corale, semplice eppure meravigliosamente articolata, capace di trasmettere insieme gran tiro e malinconia, a suggerire strade desolate e assolate perdersi nell'orizzonte sconfinato. Il testo, nella sua apparente semplicità, è pregnante e commovente, poiché il protagonista è una figura che unisce quella disperata spiritualità tutta americana alla biografia dell'autore, Dick Burnett. Il brano infatti narra di un uomo che proprio come Burnett ha dovuto abbandonare il Kentucky per vagabondare, seguendo il corso delle rotaie ed una via di solitudine e dolore, lasciando dietro di sé amore e affetti. Non vi sono riferimenti diretti alla perdita della vista, ma il "costante dolore" che ammanta questa sorta di biografia lascia poco spazio a dubbi. Le parole dell'uomo sono rivolte a una donna che, lui già lo sa, si dimenticherà perfino il suo volto, ma quelle parole non sono né di rimprovero né di condanna, bensì quasi d'auspicio: è così che deve andare, il suo vagabondare è l'unico destino possibile e probabilmente morirà in mezzo a una strada, senza rivederla mai più. Chissà se Burnett, al tempo in cui scriveva questa canzone, avrebbe mai immaginato di vivere quasi cent'anni! Lo scrittore chiude nella consapevolezza amaramente consolatoria che in fondo si sarebbero rivisti, prima o poi, alla "Riva Dorata di Dio", mentre in scena Tommy Johnson porta a termine gli ultimi, magistrali accordi di chitarra.

Hard Time Killing Floor Blues

L'incontro con Pappy O'Daniel è casuale e apparentemente ininfluente, ma emblematico di una parte del messaggio di questo film: il progresso e la disillusione che vi è intrinseca. Per Ulysses, personaggio emblema della ragione e del retaggio illuminista, il progresso è portatore di civiltà, ma il senno di poi dello spettatore contemporaneo sul quale i Coen fanno leva suggerisce altro: un'idea di progresso più ambigua, fatta di grandi traguardi ma anche macchiata di sangue, ingiustizie, disuguaglianze. I fratelli Coen fanno leva sulla consapevolezza moderna contrapponendola a personaggi di un'altra epoca, ma dalla loro opera non trapela giudizio, o retorica conservatrice, solo amara ironia e un vago senso di nostalgia, come di chi conosca i frutti più dolci, ma anche i vermi, della pianta chiamata "progresso", e si diverta con un po' di cattiveria a prendere in giro i troppo ottimisti. Un po' come gli déi si divertivano a prendersi gioco di Ulisse, mandandolo da una parte all'altra del Mediterraneo. Ma a questo mondo dominato da un cambiamento inarrestabile e sempre più veloce, a questo futuro che è il nostro presente, i Coen contrappongono il presente dei protagonisti, un'era agli sgoccioli ma ancora viva e vitale, di uomini e di terra. Così è il momento dell'intimismo e della riflessione, dei boschi e della notte, delle voci sussurrate, e soprattutto delle note di Hard Time Killing Floor Blues. Intraducibile, almeno letteralmente, in realtà il titolo cela da solo il senso del brano: "killing floor" è infatti un termine gergale in uso negli anni '30 per indicare i macelli, mentre "hard time" indicava e indica un momento difficile, faticoso, umiliante. È il blues degli ultimi, dei poveracci, e come vedremo, anche un triste tassello dell'America che fu. Mentre i fuggiaschi aprono il loro cuore e parlano dei propri desideri, cullati dal rumore di insetti notturni e dallo scoppiettare del fuoco, Tommy pizzica la sua chitarra e dà voce al suo malinconico blues, frutto dell'interpretazione di Chris Thomas King ma ad opera di Nehemiah Curtis James, conosciuto e passato alla storia come Skip James. Entrambi, non per caso, sono musicisti di colore. Chris è un artista contemporaneo, come altri dedito alla riscoperta di autori significativi e alla diffusione della loro opera, mentre Skip James, be', lui è uno di quegli autori. Nato nel 1902, James è stato lavoratore precario ma infaticabile, nonché musicista rivoluzionario e a suo modo oscuro, pur senza vantare leggende sul demonio o cose simili. Oscuro era infatti il suo modo di suonare, basso e vagamente lugubre, caratterizzato da un intricato finger picking e da testi sopra le righe, ben poco in linea col disimpegno richiesto dal mercato borghese e benestante. "Hard Time Killing Floor Blues" parla infatti di quelli come lui, costretti a vagare di città in città, di porta in porta, alla ricerca di un'opportunità che non sia di successo o di ricchezza, ma semplicemente di sopravvivenza. La schiavitù era finita da un bel po', ai tempi di Skip James, e molti afroamericani erano migrati verso quel nord che li aveva liberati in cerca di fortuna, ma solo per trovare pregiudizi, segregazione e porte chiuse. Intere generazioni sono cresciute forzatamente ghettizzate, lasciate all'indigenza e all'ignoranza in un circolo vizioso durato fino a tempi recenti, alimentato dal pregiudizio prima, e all'iniquità del sistema statunitense, poi. "I tempi duri sono qui e ovunque tu vada, tempi più duri di quanto non siano mai stati". Per molti di quei ragazzi, intorno agli anni '20, non restavano che quei lavori tanto spesso celati agli occhi della gente cosiddetta perbene, relativamente invisibili perfino al giorno d'oggi, epoca della comunicazione di massa; fra questi rientrava senz'altro il lavoro nei macelli, un ambiente sporco ed alienante, già all'epoca massificato e proteso al massimo profitto in un contesto lavorativo in cui, naturalmente, "diritto" era una parolaccia. Unico spiraglio era la musica, per James come per molti altri. La Paramount Records registrò grossomodo tutto quello che ci rimane di lui, ma l'arrivo della Grande Depressione subito dopo, ne determinò l'insuccesso commerciale. A volte, il destino, sa essere davvero crudele e beffardo. Il sogno americano tradito si mescola con quello ad occhi aperti dei compagni di viaggio di Ulysses, mentre risuona la reinterpretazione di Chris Thomas King, più intima e pregnante di quella di Skip James, ma anche travisata, non più genuinamente disperata e malinconica ma solamente rappresentativa, derivativa. Insomma, un vecchio classico da intonare nei pressi di un falò. Il rumore della notte, della radura, risuona infatti perfino nella versione in studio del brano, sottofondo ambientale per gli accordi lenti e profondi dell'artista e per la sua voce ricca, intensa e sensuale. Quella di "Fratello, Dove Sei?" è una canzone ideale allo spirito della messa in scena, ma se volete cogliere il senso Più drammatico delle strofe dell'autore, l'ascolto dell'originale è assolutamente consigliato.

I Am a Man of Constant Sorrow (strumentale)

Siamo fermi, accampati dinanzi l'ennesimo falò, nel mezzo dell'ennesima notte. Ne sono successe di cose, ai nostri compagni d'avventura, ma alla fine d'ognuna di esse è il momento dell'introspezione, della pausa necessaria alle domande fondamentali e al punto della situazione. Dinanzi a noi, l'ennesimo personaggio storico di quest'America controversa e combattuta, figlia del sogno e del sangue: Lester Joseph Gillis, alias George "Baby Face" Nelson, interpretato dall'italoamericano Michael Badalucco. Dopo alcune scene degne del più folle action a sfondo criminale, con un Baby Face quantomeno esaltato e sopra le righe, i Coen spezzano la tensione con un momento d'intimismo ancora più morbido e malinconico di prima, stavolta sulle note di un pezzo già sentito: I Am a Man of Constant Sorrow, ma in versione strumentale. L'uomo "dal costante dolore" questa volta è proprio George Nelson, un gangster conosciuto come "Baby Face" per via della sua bassa statura e i tratti infantili del viso, ma credetemi, ben pochi avrebbero osato chiamarlo in quel modo in sua presenza, nel film come nella realtà dei fatti.  Se l'opera dei Coen descrive Nelson come un pazzo divertente, una macchietta disonesta ma in fondo simpatica, la cronaca lo ricorda invece come un individuo seriamente pericoloso, senza alcuno scrupolo morale. La sua... "carriera", per così dire, ha inizio fra le gang e il piccolo contrabbando di alcol, per passare rapidamente alla rapina a mano armata, all'aggressione e infine l'assalto alle banche, ma il suo nome diviene veramente famoso quando aiuta John Dillinger, uno tra i più noti gangster del suo tempo, ad evadere di galera in una fuga passata alla storia per la sua spettacolarità. Nelson, all'epoca già capo di una gang tutta sua, diviene così uno dei boss affiliati al più potente Dillinger e alla sua rete criminale, guadagnandosi insieme ad essa l'appellativo di "nemico pubblico numero uno"; un trofeo niente male, per uomini del genere. La sua vita da allora è pura e semplice epopea criminale, roba da far impallidire qualsiasi opera di fantasia, giustamente immortalata in decine di romanzi ed opere cinematografiche. Tuttavia, è un'avventura che finisce come finiscono tutte le storie di coloro che vivono la propria vita sulla breccia, nel bene come - soprattutto - nel male. Non è facile stabilire quante persone siano rimaste ferite o uccise durante l'intera attività della banda, ma riguardo Nelson, siamo certi di almeno tre omicidi: quello dell'agente Baum, trucidato prima della fuga di Dillinger, e poi gli agenti federali Herman Hollis e Samuel P. Cowley, morti durante l'ultima, clamorosa sparatoria di Baby Face. Nonostante le gambe maciullate da almeno sette pallettoni e una ferita da mitragliatore al petto, Nelson riesce a scappare e a morire nel suo letto, a fianco della moglie. Era il 27 novembre 1934, ovvero alcuni anni prima degli eventi narrati dai Coen. Dopotutto, che l'universo di "Fratello, Dove Sei?" sia una sorta di realtà alternativa in cui è possibile imbattersi nei personaggi che hanno segnato l'America, a prescindere da qualsiasi logica temporale, è oramai fatto assodato. Il film non giudica la strada intrapresa da George "Baby Face" Nelson, non si perde nella retorica, ma si limita a mostrare il lato irrimediabilmente vuoto di quel mondo e dei suoi protagonisti, la profonda solitudine di uomini incapaci di fermarsi e costruire qualcosa, anziché distruggere. Tutte questo, sulle malinconiche note di Norman Blake e della sua reinterpretazione strumentale, genuina e casareccia come fosse realmente suonata intorno a un fuoco, tra amici e compagni di viaggio. Come dice Ulysses, "per quelli sempre in cerca di brividi, la vita è un altalena, un attimo sul tetto del mondo, l'attimo dopo negli abissi della malinconia. Sissignore!". 

Keep On the Sunny Side

Si delinea, a questo punto della colonna sonora, una caratteristica intrinseca dell'intera pellicola: una sorta di ambigua contrapposizione fra brani stradaioli e sopra le righe, caratterizzati da testi dall'implicita denuncia sociale, e canzoni dal piglio inoffensivo e piccolo-borghese, allegre e zuccherose. Queste ultime, sebbene facciano parte della cultura e del retaggio dell'America popolare, solitamente quella di matrice squisitamente anglosassone, sono proposte come sottofondo a personaggi ambigui, impercettibilmente ipocriti, ugualmente sorridenti e falsi, come se l'ideale positività di questa musica celi malamente il lato più ipocrita e sanguinario dell'America "perbene", quella intenzionata a "fare piazza pulita". Si delinea così allo spettatore la lotta per il potere tra Pappy O'Daniel e il suo rivale al ruolo di Governatore, Homer Stones, il cui nome rappresenta una citazione priva, stavolta, di qualsiasi velleità simbolica. I Coen ci mostrano un Pappy anziano e retorico, capitalista, incattivito da decenni di attività politica, ed un rivale più giovane e dall'aspetto rassicurante, pulito, un po' più "cittadino". Eppure, non riusciamo a toglierci di dosso l'ambiguità quasi minacciosa che traspare dalle liete e inoffensive note di Keep On the Sunny Side. Anche qui, il titolo dice tutto: "persevera sul lato soleggiato", continua a guardare il buono, qualcosa del genere. Chiariamoci, ripulito dello strano alone che il film gli conferisce, parliamo di un brano onesto e gradevole, per i suoi tempi, reinterpretato davvero magistralmente dalla band contemporanea conosciuta come The Whites, composta da Buck White e le sue due figlie, Sharon e Cheryl. Particolarità davvero deliziosa, la canzone originale è stata resa celebre da un'altra band, diciamo, a "gestione familiare", la Carter Family, composta da Alvin Carter, da sua moglie Sara e dalla cognata, Maybelle Addington. In realtà però "Keep On the Sunny Side" è ancora più antica, risalendo addirittura al 1899, figlia della penna di Ada Blenkhorn e delle musiche di J. Howard Entwisle, peculiarità che ne fa uno dei brani più datati di tutto l'album. Leggenda vuole che la Blenkhorn abbia tratto ispirazione dalle parole del nipotino disabile, sempre alla richiesta di essere portato, con la sua carrozzina, sul lato soleggiato della strada. Il risultato è una canzone dall'ottimismo quasi trascendentale, spirituale e religiosa a una maniera tutta protestante, individualista e propositiva, trasfigurata dai Coen, tuttavia, in una sorta di patina dolciastra, a malcelata maschera d'ipocrisia. L'effetto, va detto, funziona benissimo, anche se dispiace assistere a una bella canzone deformata ad un significante negativo che non le appartiene, zuccherosa o meno che sia. Il senso profondamente spirituale del brano è delineato dalla metafora alla base della contrapposizione fra luce ed oscurità, così, la scelta di trovarsi sul lato soleggiato della strada, lasciando quello in ombra, rappresenta la scelta che ogni individuo, uomo o donna, deve compiere nella vita: quella tra il bene e il male. Tale simbologia si palesa del tutto solo alla fine nella chiara citazione a Cristo Salvatore, tratteggiando definitivamente l'opera come il frutto dell'America cristiana e di quel conflitto, rigorosamente tra forze opposte e prive di sfumature, che ne ha sempre caratterizzato la narrazione. "Keep On the Sunny Side" è alla fine dei conti un bel pezzo di musica popolare d'altri tempi, aperta dal mandolino di Buck ma supportata da una più moderna accoppiata di basso e chitarra, opera rispettivamente di Cheryl e Sharon, interpreti magistrali di voci e di caratteri d'un epoca ormai lontana. La propensione a toni gioiosi, ad un crescendo corale che non arriva mai ad una reale catarsi, è in linea con la natura di opere cui era richiesta sia un vena di sano divertimento, sia rispettosa cura di elementi religiosi e demagogici. Quest'ultima caratteristica, nel bene e nel male, ha permesso ai Coen di lavorare sulla deformazione e reinterpretazione di elementi topici della cultura americana, smascherandone alcuni dei lati più ipocriti ed oscuri.

I'll Fly Away

Gli squali del grande oceano radiofonico e discografico si sono accorti dei Soggy Bottom Boys, e la loro canzone va a ruba. Sembra che tutti, ma proprio tutti, nello stato del Mississippi, vogliano muoversi sulle note di "I Am a Man of Constant Sorrow", reinterpretata a loro modo da Ulysses, Delmar e Pete... solo che i nostri eroi non ne sanno nulla! Inconsapevoli di quanto avviene, i tre ricercati continuano nel loro viaggio attraverso l'America rurale, regalandoci alcuni degli scorci più belli di tutto il film, merito dell'enorme occhio alla fotografia di Roger Deakins, storico collaboratore dei fratelli Coen. A fare da sfondo a sequenze che profumano di libertà e di felicità, un classico del 1929 chiamato I'll Fly Away, "volerò via". Un titolo azzeccatissimo per una canzone assolutamente perfetta, per queste scene, tripudio di bucolica bellezza e naturale innocenza, perfino negli episodi di oggettiva disonestà da parte dei Nostri. Non a caso, il brano originale è opera di Albert Brumley, la cui gioventù è stata tutto cotone, campagna e lavoro nei campi, prima che il futuro compositore entrasse all'Hartford Musical Institute, in Arkansas. Brumley era anche membro della Chiesa di Cristo, elemento che conferisce a ogni sua creazione un alone sacrale e una poetica liturgica, compresa "I'll Fly Away. Volare, infatti, è qui metafora di morte, ma se credete che un dettaglio del genere renda oscura la canzone, o quantomeno dolceamara, vi sbagliate di grosso; al contrario, il sonno eterno è descritto come liberazione e innalzamento, meritato incontro con Dio che si contrappone a una vita di dolori e di miserie: "quando le ombre di questa vita si dissolveranno, volerò via, come un uccello da questa prigione, volerò via... volerò via". Ovviamente, i fratelli Coen decostruiscono e reinterpretano il significante del brano in chiave? un pelo più leggera, diciamo, adatta a descrivere il senso di libertà di tre uomini finalmente liberi dalle loro catene, solide e reali. "I'll Fly Away" è a tutt'oggi un grande classico, onnipresente ad eventi e jam session d'ogni genere, nonché tra gli inni funebri più amati dagli americani, proprio perché in fondo, di funebre, ha davvero poco, specialmente se paragonato ai ben più tetri canoni europei. La colonna sonora di "Fratello, Dove sei?" va ancora oltre, e ne fa paradossalmente un vero e proprio inno alla vita, energico nella performance dell'ormai familiare Alison Krauss e della cantante Gillian Welch, accompagnata come sempre dal chitarrista David Rawlings, qui solo ai controcanti. A completare il quadro e arricchire il suono, fanno mostra di talento Mike Compton, al mandolino, e Chris Sharp, alla chitarra. Occorre tuttavia sottolineare un'importante precisazione: la versione incisa sulla soundtrack è differente da quella del film, opera invece delle Kossoy Sisters e presente nel loro primo album, "Bowling Green", del 1954. Se vi interessa recuperare qualcosa di queste due artiste, sappiate che le gemelle sono ancora in giro a suonare. La nostra versione di "I'll Fly Away" si apre invece con il mandolino di Compton e la chitarra di Sharp, seguiti ben presto dall'accoppiata perfettamente sinergica delle due voci femminili. La reinterpretazione del brano non si discosta dall'atmosfera bucolica e solare delle sorelle Kossoy, ma è forte di un sound più moderno e pregnante; pieno, per così dire. L'aggiunta di musicisti e competenze fa il resto, ponendo la versione su disco come decisamente più adatta al mercato contemporaneo, rispetto a quella su pellicola, ideale invece all'ambientazione vintage della storia. Oltre ad alcuni momenti di catarsi strumentale, l'intera performance regge sui continui scambi vocali, fino a sfumare e concludersi con lo stesso mandolino con la quale era iniziata, mentre, nel frattempo, i nostri sgommano a tutto gas sull'ennesima macchina rubata.

Didn't Leave Nobody But the Baby

Il folle senso narrativo dei fratelli Coen gioca ancora con lo spettatore, sconvolgendo nuovamente i suoi schemi mentali e la sua sospensione dell'incredulità, ma stavolta, ad essere increduli, sono anche Ulysses e i suoi compagni, completamente incantati, assolutamente privi di parole, dinanzi al canto delle leggendarie sirene. No, non sirene nel senso realmente mitologico del termine, ma in quello simbolico, sì, e neanche tanto velatamente questa volta. Dopotutto quale fanciulla offrirebbe le sue grazie con tanta facilità a bruti del genere, se non una fanciulla molto, molto pericolosa? E le tre sirene di questo film, più simili a ninfe dei boschi, nella loro eterea apparizione, pericolose lo sono di certo. A dar voce alla sinistra bellezza di queste donne misteriose sono ancora Alison Krauss e Gillian Welch, cui si aggiunge l'ugola, centrale e determinante, di Emmylow Harris, una cantante dal curriculum immane di cui cito, tanto per fare un esempio tra mille, le collaborazioni con nomi del calibro di Roy Orbison, Bob Dylan, John Denver, Neil Young e Ryan Adams, tra i tantissimi. Il loro canto ha un nome le cui origini si perdono nella tradizione americana, ed è Didn't Leave Nobody But the Baby, un titolo che tradotto letteralmente non significa nulla, ma che nel contesto del brano indica un vuoto colmato unicamente da un bambino, figura centrale che, nell'interpretazione cinematografica delle strofe, assume tutt'altro significato . Non v'è alcuna strumentale, nessun artificio d'alcun genere, solo alchimia corale di voci che s'intersecano tra loro, suadenti e lascive... senza dubbio fatali, per tre pover'uomini a digiuno da chissà quanto tempo, se afferrate cosa intendo. Anche il liquore di mais, comunque, fa la sua parte. Il sonno in cui sprofondano i fuggiaschi è lo stesso del bambino protagonista del brano, oggetto di una vecchia ninnananna di cui nessuno conosce le origini. C'è chi afferma fosse una nenia degli schiavi, chi una melodia popolare fra i ceti più disagiati, ma l'unica cosa davvero certa è la sua natura ipnotica e anestetizzante... e intima, anche: più un soliloquio che un messaggio realmente rivolto a qualcuno, come di una mamma che parli al figlio per parlare soprattutto a sé stessa. O forse un padre, altro elemento poco chiaro su cui le voci femminili non debbono trarre in inganno. "Tua mamma è andata via e tuo padre resterà", afferma infatti il testo, continuando a descrivere un quadro sempre più desolato, solitario: "Sono andati tutti fra il cotone e il grano", tutti tranne il bambino. O la bambina, non lo sappiamo. Il riferimento alle scarpe rosse non è chiaro, come neanche quello al diavolo. Molti pensano che la madre sia una prostituta, altri una schiava e che il rosso sia quello del sangue, il diavolo lo schiavista stesso. Per altri, il senso di maternità che trapela dalle strofe è quello di una donna che trova un altro bambino, un trovatello, dopo che il suo è andato via, presumibilmente morto. Quale che sia il senso di una canzone che molto probabilmente affonda le sue radici nella guerra civile americana, i fratelli Coen cambiano totalmente le carte in tavola. Nella reinterpretazione che va in scena sul film, i bambini da ninnare sono Ulysses e i suoi compagni, ipnotizzati come l'Ulisse dell'Odissea, mentre alcuni riferimenti testuali assumono un sapore erotico o ambiguo, sottilmente inquietante. In particolar modo, il diavolo assume le più oscure ma concrete sembianze dello sceriffo, lo stesso che ha freddato Lazzaro e che insegue i nostri, lo stesso demone bianco, con due caverne come occhi e la voce profonda di cui parlava Tommy, quello che gira sempre con un vecchio cagnaccio cattivo. E le sirene, dall'ingannevole voce di tre splendide cantanti, rappresentano i suoi emissari.  

In the Highways

In The Highways è un brano che nella sua breve durata, poco più di un minuto e mezzo, incarna la mentalità dell'America dei primi anni Venti e Trenta; in essa infatti sentiamo quella forte convinzione in Dio e nella fede cristiana che ha guidato per secoli gli abitanti del Nuovo Continente, dai primi coloni fino ad oggi, ed è proprio attraverso le voci delle Peasall Sisters, che in questa sede eseguono un brano originariamente scritto da Maybelle Carter, che possiamo respirare a pieni polmoni lo spirito country blues delle assolate terre attraversate dal Mississippi. Come accennato, la penna originale di questa breve lirica è quella di Maybelle Carter, nota ai più per essere stata parte della Carter Family e successivamente delle Carter Sisters, due gruppi cardine del panorama country americano, ma per la partecipazione del film, la composizione venne eseguita da un altro trio country, quello appunto delle Peasall Sisters, tre giovani e candide voci che come un piccolo coro parrocchiale ci riportano alla mente le navate della chiesa del nostro quartiere, dove siamo cresciuti e nei cui cortili abbiamo passato ore ed ore a giocare dopo il catechismo. La chitarra e il banjo sono gli unici strumenti presenti, due anime acustiche le cui corde, mosse dalle dita delle giovani musiciste, creano la perfetta base per una ballata che possiede anche un pizzico di caratura gospel. Il testo si compone di appena quattro frasi, una sequenza semplice da ricordare che anche le persone incolte potevano facilmente tenere a mente, concatenate da una melodia tanto allegra quanto piena di speranza che anche nei momenti più bui dell'esistenza non fa mai perdere la fede nel Signore, che veglia su di noi dall'alto e che ci protegge con una mano sulla nostra testa: "Nelle strade, fra le siepi, sarò da qualche parte a lavorare per il signore... se mi chiama risponderò, da qualche parte lavorerò per il mio signore". Un testo semplicissimo, al limite della filastrocca per bambini, ma nelle cui parole si cela una serie di metafore particolarmente suggestive: le highways e le hedges, ovvero le grandi strade e le siepi, due elementi atti ad indicare il progresso, le grandi città, e la natura con la sua campagna e la sua vita rurale, i due poli opposti che costituivano gli Stati Uniti di inizio secolo ma che pur nella loro profonda diversità confluivano tutti nella fede in Dio. La voce protagonista, che qui vive attraverso le limpide corde vocali di Sarah, Hannah e Leah, accetta la propria sorte ed affronta il futuro con il sorriso nel cuore: ovunque ella andrà a finire, egli lavorerà sodo per soddisfare il Signore, ed il generico "da qualche parte" indica che in fondo, comunque vada, non importa, perché la fede sarà il faro guida che illuminerà il cammino dei credenti anche attraverso le selve più oscure. La frase successiva, inoltre, quella che recita "se mi chiama risponderò", rappresenta in maniera più che lampante la rassegnazione con la quale l'uomo è sottoposto al proprio destino, poiché quando Dio chiama bisogna rispondere, e non ci si può tirare indietro; qualunque sia l'età raggiunta, all'arrivo della chiamata dall'alto bisogna rispondere e andare, ma i nostri cari non abbiano a rattristarsi, perché il Signore ci elegge a membri del suo gregge nell'alto dei cieli. A riascoltare questo brano oggi verrebbe da dissentire su alcuni concetti, ma si sa, il 2018 è un'epoca ben più progressista e, se vogliamo, "illuminista" nell'affrontare certi temi, ma nell'America della Grande Depressione la fede era un qualcosa che andava al di là di ogni eventuale dissidenza politica. Dio era la guida di ogni presidente, generale, operaio o soldato semplice che calpestasse il ruolo della madre patria, e proprio melodie come questa tenevano alto il morale di tutti coloro che erano in qualche modo oppressi. Le sorelle Peasall hanno poi partecipato attivamente al film, non solo attraverso l'inclusione della canzone nella colonna sonora, ma anche prestando le loro voci alle Wharvey Girls, le figlie di Ulysses Everett McGill, il personaggio interpretato da George Clooney. Nel film, questo particolare brano viene eseguito proprio dalle piccole come inciso durante il comizio del politico Howard Strokes, concorrente alla carica di governatore contro Pappy O' Daniel, attualmente in carica; la feroce retorica politica, il cui fine ovviamente è quello di screditare l'avversario agli occhi dell'opinione pubblica, si intervalla così a questa breve e delicatissima piece, il cui testo pieno di fiducia nel futuro e nella misericordia di Dio addolcisce un momento di velato fuoco politico; le fiamme dunque sono immediatamente spente dall'acqua di questa canzone, ma qualcosa arde ancora sotto la cenere...

I Am Weary, Let Me Rest

La soundtrack prosegue con I Am Weary, Let Me Rest, ovvero "Sono Stanco, Lasciami Riposare". È una canzone che nel contesto del film si rallaccia pochissimi istanti dopo la traccia precedente, quando Ulysses ha appena ascoltato cantare le sue figliole. Ad accompagnare la melodia sono ancora una volta gli strumenti a corde, in particolare il banjo e la chitarra acustica; l'andamento della traccia è quello della tipica ballata folk, pochi accordi che si susseguono ciclicamente al fine di sostenere la melodia vocale, vera protagonista indiscussa del componimento. Gli autori originari di questo brano sono i The Cox Family, un gruppo bluegrass originario della Louisiana, perfetto a delineare il pathos e l'intensità delle atmosfere di quegli anni, e benché nel complesso la musica sia placida e tranquilla, per non dire rilassante, la lirica originariamente scritta da Pete Roberts porta con sé un forte senso di malinconia e rassegnazione di fronte alla morte. Non si parla infatti di stanchezza intesa in senso fisico, ma del vero e proprio svanire dell'influsso vitale, del proverbiale ultimo respiro prima che si faccia buio per sempre. Le delicatissime voci di Evelynn, Lyn, Sidney e Suzanne Cox si fanno qui interpreti di una bambina che, probabilmente colpita da un male incurabile, sta per passare a miglior vita e cerca la consolazione e l'ultimo bacio della madre: "Baciami, mamma, bacia la tua piccina, appoggia la mia testa sul tuo petto, poni le tue amorevoli braccia intorno a me, sono stanca, lasciami riposare". Già il primo verso della canzone si rivela particolarmente struggente, eppure, ad addolcire questa scena intensissima che ci riporta alla mente la morte di Cecilia ne " I Promessi Sposi", troviamo un accompagnamento musicale limpido, caldo e a suo modo quasi allegro, come a simboleggiare che la morte, in fin dei conti, non è altro che una fase successiva alla vita, un momento nel quale si cessa di esistere sotto umane spoglie e si inizia la nostra seconda vita ultraterrena in qualità di puro spirito. La fede torna nuovamente ad essere il cardine di questo genere musicale, non atmosfere lugubri o commoventi, ma serene ed in qualche modo posate, perché quando una persona cessa di vivere essa si colloca nell'eterna gloria dell'alto dei cieli e, se il suo cuore si è dimostrato puro, allora non c'è da temere poiché tutti saremo accolti fra le braccia misericordiose del Signore. La canzone prosegue sostenuta sempre dallo stesso giro di accordi, elemento assai tipico per i generi musicali di origine popolare, ed ecco che nel secondo verso viene descritto il momento decisivo, quando la luce si spegne: "La luce sembra si stia spegnendo dolcemente, una scena più splendente mi si mostra, adesso. Sto aspettando lungo un fiume, che gli angeli mi portino a casa"; su questa particolare porzione di testo è interessante l'idiosincrasia religiosa che viene ricreata: la luce si sta lentamente spegnendo, la piccola sta per esalare l'ultimo respiro ed ecco che, immediatamente, ella si rivede lungo un fiume ad aspettare. La metafora del defunto che aspetta lungo il fiume è stata ripresa in diverse forme, all'interno delle tradizioni antiche, dalla mitologia classica alla Commedia dantesca; le anime infatti attendono sulle rive del fiume Acheronte il nocchiero Caronte, colui che traghettava i trapassati nell'Ade, il regno dell'Oltretomba. Trovandoci ora di fronte ad una ripresa in chiave cristiana, a portare l'anima della bambina non sarà l'arcigna figura di stampo classico, ma saranno gli angeli provenienti dal cielo, e l'anima dunque non sprofonderà più nell'Abisso ma ascenderà al cielo in quanto simbolo di purezza ed innocenza. Il terzo verso, che si intervalla ad altrettanti ritornelli, è costituito dal congedo della piccola, che rivolgendosi un'ultima volta alla madre la ringrazia per il suo amore durante la sua breve vita e di come abbia cercato di salvarla, ma adesso le è venuto un gran sonno, è stanca, ed è giusto che riposi nella sua piccola tomba. Questa ballata romantica compare in una scena chiave del film in cui, come accennato, Ulysses Everett McGill ha da poco ritrovato le sue figliole, che subito ricambiano il padre del saluto con un tono amaro; la madre infatti, per nascondere alle bambine l'incarcerazione del padre, ha raccontato loro che è stato travolto da un treno, ed ecco come mai questa "dolce ballata di morte" viene inserita a questo punto del film. Il tono dolce del brano della Cox Family in qualche modo rappresenta la voce delle bimbe che dicono al papà, con tutta la semplicità di questo mondo, che a quanto ne sanno dovrebbe essere morto. Immediatamente dopo Ulysses rivede Penny, sua moglie, che si sta per risposare, e qui non si può non cogliere il richiamo al poema Omerico, quando Ulisse torna ad Itaca e trova sua moglie Penelope circondata dai proci intenti a chiederle la mano.


I Am a Man of Constant Sorrow

I Am a Man Of Constant Sorrow rappresenta il leit motiv del film, il filo conduttore dell'intera trama che accompagna Ulysses, Pete e Del attraverso la loro personale odissea. Non è infatti difficile percepire tutto il senso di ansia e frustrazione che provano i tre protagonisti nel loro incessabile peregrinare da una città all'altra nel tentativo di arrivare alla loro meta. Il tempo tuttavia stringe: il 21 del mese verrà sbarrato il fiume che sommergerà per sempre il famoso tesoro di cui Ulysses non fa altro che parlare ai suoi compagni, ma dal 17 i giorni sembrano passare sempre più veloci, e al sogno di poter finalmente spartirsi mezzo milione di dollari, realizzando così i propri sogni, si intervalla il senso di sconfitta dei tre che appena sembrano arrivare vicini all'obiettivo vengono ogni qualvolta fermati da qualche nuovo imprevisto. "Sono un uomo perennemente addolorato, vedo guai ogni giorno", non poteva esserci apertura più chiara per descrivere la vicenda di "Fratello, Dove Sei?", ma dopo l'avvincente interpretazione dei Soggy Bottom Boys e quella strumentale suonata dalla chitarra di Norman Blake, questa terza versione del brano sembrerebbe essere la più vicina all'originale. La tradizione non ne individua un autore certo, se non Dick Burnett, che non la scrisse di suo pugno ma fu il primo musicista a pubblicarla nel lontano 1913. Sull'origine della composizione vi sono alcune congetture, di cui la più accreditata vuole che il brano esistesse già verso la fine dell'Ottocento e che giunse negli States per mano di Cameron O' Makin, un musicista errante che la importò nel nuovo continente dall'Irlanda. La versione interpretata da George Clooney e dai suoi compagni di ventura è senz'altro la più spettacolare, se consideriamo il termine con un'accezione più "cinematografica", ma non dimentichiamoci che essa fu ripresa anche da artisti del calibro di Bob Dylan, nel suo primo album datato 1962, e anche dai Rolling Stones, che ne ripresero i versi nel brano "Let It Loose". Sul disco della colonna sonora, ad interpretare questa canzone è il musicista americano John Cowan Hartford, celebre violinista e suonatore di banjo conosciuto nell'ambiente folk e bluegrass proprio per la personalità artistica, con la quale ha saputo rielaborare gli elementi tradizionali della musica di inizio secolo; le pagine di critica del settore evidenziarono soprattutto come Hartford seppe attualizzare i temi e le sonorità di un passato solo apparentemente desueto, ed oggi, grazie al suo operato, quelle strutture compositive semplici, "terra terra", realizzate oltre un secolo fa tornano a vivere attraverso le mani dell'artista di New York e suonano particolarmente attuali. È risaputo che il violino di per sé sia uno strumento particolarmente malinconico, benché il suo range tonale sappia anche animare le gustose melodie di stampo occitano, ed è proprio sul lato più cupo che Hartford conduce le sue corde: il suo archetto si muove sinuoso e leggero, lasciando che le note si distendano completamente per far vibrare all'unisono con loro anche le corde della nostra anima. È la lunghezza quindi l'elemento portante di questa esecuzione, anche se non mancano rapidi incisi in cui l'archetto scorre rapido e serrato, quasi ricreando il singhiozzare di un pianto disperato. Come per la versione chitarristica di Norman Blake, anche in questa traccia vi è la completa assenza di testo, e a cullarci nei meandri più profondi dell'animo umano è solo quell'attitudine bluegrass, cruda e di pancia, che esorcizza i propri demoni attraverso il suono di uno strumento rimediato da qualche parte e imparato a suonare solamente grazie all'istinto e al cuore, magari con qualche dritta proveniente da un musicista gitano, ma senza l'uso di alcun testo didattico. Il motivo principale della composizione si ripete pressante e sempre più ricco di pathos, prendendoci per mano e conducendoci quasi in una foresta durante una notte desolata, come quella che fa da ambientazione alla scena del film in cui compare questa canzone: Ulysses e Delmar hanno ritrovato Pete, lo hanno liberato dalla sua ennesima carcerazione e sono fuggiti tutti e tre nel bosco, ma alla gioia dell'essersi riuniti fa seguito il senso di colpa di Clooney, che non potendo più portare quel peso dentro di sé, confessa ai compari la verità sul tesoro nascosto: egli non ha svaligiato nessun furgone portavalori, la sua colpa è solo quella, ben più puerile, di aver esercitato l'avvocatura senza licenza, lo specchio perfetto di un uomo che ritiene se stesso un intellettuale pur senza alcun merito reale. Una ballata malinconica è proprio l'ideale, per questa scena: a dominare su tutte le emozioni è infatti il rimorso.


O Death

Restando in ambito di composizioni soliste troviamo O Death, "O Morte", un canto tradizionale qui interpreto dalla voce calda e tipicamente blues del musicista americano Ralph Stanley. Come nel caso precedente troviamo in scena un unico strumento, la voce appunto, che pur non avendo accompagnamento musicale si dimostra con enorme successo un'interprete degna dell'occhio di bue che la illumina. In questa performance percepiamo infatti tutta la vena dura delle lande del Mississipi, dove il sole brucia e il fiume si rivela un giustiziere più oltranzista degli sceriffi; la voce "attempata" di Staley, arricchita da una lieve "s" sibilante, ci consente di immaginare di fronte ai nostri occhi un uomo anziano, una specie di saggio, che ormai giunto al culmine della sua esistenza invoca la morte; da un lato per chiederle clemenza, dall'altro però per porre fine alle sue sofferenze. Quest'ambivalenza si rivela particolarmente interessante, soprattutto se, volendoci riallacciare alla libera interpretazione che i fratelli Coen realizzano dell'Odissea, proviamo a pensare che l'anziano saggio sia appunto un Omero riportato ad inizio secolo, che seduto su una sedia a dondolo, immerso nel frastuono delle cicale e nel fragore delle pietre che chiedono pietà ad un clima sempre più arido, canta nella sua desolazione questa litania dalle tinte blues. La protagonista di questo canto è appunto la morte, invocata a gran voce con un forte tono vocativo; ad essa Stanley si rivolge direttamente, e nel contempo descrive come il cupo mietitore sleghi per sempre gli esseri umani e le loro anime dal mondo terreno: la nera signora non risparmia nessuno e non è per nulla intenzionata a rimandare l'appuntamento con il protagonista, neanche per un anno. Il cantore sente quindi il tocco di una mano gelida posarsi su di sé: ella è la morte e nessuno può scendere a patti con lei, che ha il potere di aprirci la porta del Paradiso oppure dell'Inferno. "Potresti aspettare solo qualche altro giorno?" chiede Stanley con il tono rassegnato di chi già sa di ricevere una risposta negativa; per quanto i bambini preghino al catechismo, guidati dai loro precettori, nessuno può sottrarsi al destino ineluttabile, nemmeno i pargoli più innocenti, perché il tempo e la misericordia sono concetti che vanno al di là della nostra comprensione, e quando tutto è deciso ecco che la morte si posa su di noi, ci chiude gli occhi per non vedere, ci sistema i piedi nella cassa, poiché tanto non dovremo più camminare, e ci chiude la mandibola, perché non dovremo più neanche parlare, ormai ci attendono solo il buio e la quiete eterna. La morte è come un soffio di vento che passa, si prende la nostra anima e svanisce, lasciando sul letto solo il nostro corpo svuotato e freddo che adesso non è altro che cibo per i vermi. "O Morte, non mi risparmierai per un altro anno", riprende Stanley, sempre più rassegnato; ormai, che il turno del vecchio saggio sia giunto è già scritto, e stoicamente egli resta seduto ad aspettare, anche se nel suo pianto malinconico traspare comunque un minimo di paura per l'inevitabile. Se c'è una cosa che caratterizza la morte è il suo essere equa con tutti, con il ricco e con il povero, con il malato e con chi è in salute, con il giusto e il disonesto: quando è scritto che è giunta l'ora di qualcuno la morte agisce senza rimorsi. L'ultima parte di testo consiste nella descrizione del cantore morente: la madre, qui utilizzata per riportare il protagonista all'infanzia, e quindi a una figura ancora più innocente, corre a mettergli una pezza tiepida sulla fronte perché scotta dalla febbre, anzi, è bollente, ma i suoi piedi sono freddi, proprio perché sono stati già toccati dalla gelida mano del mietitore. Questo particolare canto compare nel film durante la scena del raduno del Ku Klux Klan, la setta razzista che vuole eliminare i neri poiché ritenuti da essa una minaccia alla purezza dei bianchi; i membri della setta hanno catturato Tommy Johnson e vogliono ucciderlo, e così, ecco che questa trenodia di Stanley diventa il perfetto canto del condannato in marcia sul proprio miglio verde. Il musicista di colore, in lacrime, continua a chiedere che cosa può aver fatto di male ai suoi aguzzini, dato che nemmeno li conosce, ma intanto i suoi carcerieri lo stanno portando verso una pira.

In the Jailhouse Now

Torniamo verso lidi più folk con la successiva In The Jailhouse Now, un titolo che suona come un ordine perentorio, come a voler dire ai nostri protagonisti: "in galera, adesso!". Questa ballata, originariamente scritta da Blind Blake e Jimmy Rodgers, viene riportata in auge niente popo di meno che dai Soggy Bottom Boys, che si improvvisano una band folk durante la serata di gala per la campagna elettorale di Howard Strokes, il concorrente di Pappy O' Daniel alla carica di governatore dello stato del Mississippi. Dopo una serie di stratagemmi i tre si ritrovano camuffati sul palco, e Del richiede ai musicisti di eseguire "In The Jailhouse Now" con la naturalezza di chi quel pezzo lo ha sempre conosciuto. Senza troppo indugio i musicisti iniziano la loro esecuzione ed i tre cantanti, che non si sono ancora rivelati, iniziano la loro performance. A condurre la traccia sono ora il banjo ed i violini, arricchiti da un giro di accordi di chitarra acustica; l'incedere è decisamente più sostenuto e frizzante, rispetto al brano precedente, e il tono del cantato possiede quel tocco ironico e pregno di agrodolce allegria capace di farci sorridere nonostante si tratti della narrazione di una vera e propria serie di disavventure. La voce narrante ora è di Del, che racconta la sua storia con un vocione così grave da rendere quasi irriconoscibile il personaggio. Come tutte le ballate blues, la narrazione avviene in prima persona: il protagonista apre la strofa dicendo di essere amico di un certo Ramblin' Bob, "Bob l'arraffone", che era famoso per essere un ladro ed un imbroglione,  il classico soggetto che pensa di essere il più furbo di tutti ma che naturalmente, alla fine della fiera, viene arrestato ed incarcerato. Il nostro Delmar si rammarica di aver scoperto troppo tardi che tipo di personaggio fosse, lasciando intendere d'essersi messo nei guai anche lui... ci ha provato a dissuaderlo dal giocare d'azzardo, ma è stato tutto inutile. A spezzare questo momento di rassegnazione ecco che arriva lo stacco di yodel, tipico canto nordeuropeo eseguito nel film da John Turturro, che con quel pizzico di allegria folk ci consente di staccare momentaneamente dalla trama per immergerci in un'atmosfera agreste, sempre sostenuta dal banjo. Dopo questa parentesi, che possiamo considerare un ritornello, si ritorna al racconto malinconico: Bob ha sfidato un certo Dan Yoker a Poker, ma tutti già sanno che Dan a tirare i dadi è un vero fenomeno, lasciandoci ben immaginare come sia andata a finire per Bob, che adesso è in prigione ed ha rifiutato la multa, bruciandosi così ogni possibilità di clemenza con il giudice. Con l'approssimarsi del ritornello ecco di nuovo la rassegnazione della voce narrante: "gli ho detto di lasciar perdere il gioco d'azzardo, ma adesso è in prigione", ed ecco aprirsi nuovamente un avvincente inciso in yodel. L'accostamento di liriche dalle tonalità blues con musicalità in allegro andante di banjo, violino e chitarra, ricrea un sensazionale effetto paradosso, che come abbiamo accennato ci strappa comunque un sorriso benché si tratti delle vicissitudini che hanno condotto il narratore della canzone nei guai fino alla reclusione. È proprio durante la strofa finale che veniamo a scoprire come il protagonista della lirica si sia cacciato nei guai, ed anche se non ce lo dice in maniera esplicita, ci lascia comunque intendere che abbia esagerato fino a varcare i confini della legalità: "Lo scorso martedì sono uscito con una ragazza, si chiamava Susie, le dissi che ero il ragazzo più magro in circolazione ed iniziammo a spendere i miei soldi". Sorvolando su come sia stato ottenuto quel denaro, Susie non esita a portare il suo uomo per locali e saloni di lusso, ma proprio quando sembra arrivare il punto focale della situazione, la narrazione si spezza, chiudendo con amabile e sarcastico cinismo: "ora siamo tutti e due in prigione". Insomma, tutto lascia intendere che quelle nottate di bagordi con Susie siano sfociate in attività non del tutto lecite, ma Del, da voce narrante, sembra riderci su, accompagnato dalle sonorità agrodolci di questa ballata che trasuda blues e bluegrass in ogni suo passaggio.

I Am a Man of Constant Sorrow

Giungiamo ora al momento clou della colonna sonora e del film stesso con la quarta e ultima versione di I Am a Man Of Constant Sorrow, eseguita live dai Soggy Botton Boys i quali, finalmente, si rivelano al pubblico. A dire il vero i tre detenuti non affermano esplicitamente di essere il gruppo tanto ricercato in tutti i negozi di dischi della contea; semplicemente, partono senza dire nulla con la loro hit e subito il pubblico va in visibilio. Il brano nella sua versione in studio può essere eletto all'unanimità il pilone portante di tutta la pellicola, ma questa ennesima veste, che potremmo definire live a tutti gli effetti, si rivela senz'altro la più accattivante e la più trascinante. Com'è d'obbligo nelle esecuzioni on stage, il tiro generale dell'esecuzione è leggermente più sostenuto e in aggiunta alla chitarra acustica, ora ci sono anche il banjo, il contrabbasso ed il violino, che conferiscono al tutto un'armonia più ricca e nel complesso una completezza di suono decisamente più riscontrabile. Il senso di sconfitta che traspare dalla lirica assume un tono particolarmente brioso, in questa traccia; come abbiamo detto, infatti, il testo è costituito da un forte senso di autocommiserazione e sconfitta nei confronti del destino, ma grazie al brio di questa rivisitazione le parole sembrano ora assumere un senso di speranza nei riguardi dell'avvenire. Il protagonista apre sempre il testo dicendo di essere un uomo costantemente addolorato, che affronta guai tutti i giorni  e che è stato costretto dalle circostanze ad abbandonare la sua terra natia, il Kentucky, eppure sembra quasi che a Ulysses, che per certi versi rappresenta il frontman della band, poco importi di tutto ciò perché all'orizzonte, guardando di fronte a sé lungo il cammino, scorge nonostante tutto uno spiraglio di luce e subito gli si infiamma il cuore. Abbiamo detto che "I Am A Man Of Costant Sorrow" rappresenta perfettamente la condizione di Ulysses, Del e Pete, e nulla meglio della seconda strofa potrebbe dar loro ragione: il protagonista, come loro, è stato nei guai per sei lunghi anni e non ha trovato un piacere che fosse uno su questa terra, arida ed ingrata come poche, sulla quale è costretto a vagare errabondo senza nemmeno una meta. I controcanti sulle frasi conclusive delle strofe arricchiscono ulteriormente il tutto, innalzando inoltre la tonalità del brano grazie ai cori eseguiti in falsetto; il rimpianto del protagonista ora si rivolge all'amante di vecchia data, colei che non vedrà mai più perché costretto a fuggire dai suoi guai, salendo su un treno diretto a nord sul quale probabilmente morirà, come dire, in pratica, che non potrà nemmeno finire i suoi giorni a casa sua, ma come un moderno Foscolo dovrà morire in esilio. Che fare allora di quel corpo?, verrebbe spontaneo chiedersi, e Ulysses, in qualità di voce narrante, chiede che il suo venga sepolto in una valle profonda, al fine che ci si possa dimenticare di lui e che la sua donna possa imparare ad amare un altro, mentre egli giace finalmente nella sua tomba dopo una vita errante. Gli amici di lei pensano che ormai lui sia un estraneo, un capitolo chiuso da lasciar sbiadire nella memoria, ma di questo ramingo echeggerà la promessa conclusiva del testo, quando rincontrerà la sua amata sulle dorate sponde del Paradiso dinnanzi a Dio. Siamo arrivati al momento chiave del film, i Soggy Botton Boys ormai non sono più un mistero, ma non passa un attimo e già vengono screditati: viene fuori che sono tre detenuti ed il chitarrista che li ha accompagnati, Tommy, pare che abbia venduto l'anima al diavolo; sono quindi dei veri e propri reietti, ma visto il successo che hanno riscontrato tra il pubblico, presente e non, immancabilmente la loro storia e le loro figure verranno strumentalizzate per una bieca campagna elettorale... ce lo si poteva aspettare? Sì, ma del resto si sa, in politica tutto è permesso, anche elogiare tre detenuti evasi, pur di assecondare una folla di elettori che ha appena ballato sulle loro canzoni. I Soggy Bottom Boys sono quindi una band che esiste e non esiste, agli occhi della gente; un po' come gli Spinal Tap, hanno inciso per caso un'unica canzone "cantando dentro un barattolo," come dice Ulysses, eppure quel pezzo si è scavato un'apposita nicchia nel cuore degli americani, che vanno errando di negozio in negozio cercando disperatamente una copia di "I Am A Man Of Constant Sorrow". Sono partiti in catene ed ora sono stati addirittura perdonati ufficialmente dal governatore, tutte le loro colpe sono perdonate, tutto è lasciato alle spalle, tutto grazie a questo brano. I Fratelli Coen delineano con intelligenza una chiusura assai amara, per la vicenda politica del film, mettendo in luce non solo il marcio e l'ipocrisia del cattivo, affiliato ai suprematisti bianchi, ma anche quella del cosiddetto buono, Pappy, mecenate e progressista per mero interesse politico. Un quadro che, oggi come allora, rispecchia le due facce di una medaglia tutta americana.

Indian War Whoop

Passiamo ora a Indian War Whoop, letteralmente "L'Urlo Di Guerra Indiano", con cui torniamo indietro nel tempo all'era dei pionieri, i quali giunsero dall'Europa alla scoperta del Nuovo Mondo. Musicalmente parlando siamo sempre all'interno della musica Country, come genere, ma ciò che ascoltiamo adesso non è una ballata, bensì una quadriglia, una composizione decisamente più movimentata e ballabile di quelle ascoltate finora. Senza scendere troppo nei dettagli tecnici di settore, "Indian War Whoop" è la classica musica da fiera del bestiame, la musica di quella realtà contadina così grezza ma al tempo stesso genuina, fatta di persone che si spaccano la schiena tutto il giorno nei campi, che si presentano magari un po' sporchi e rozzi nei modi di fare ma che dietro quell'aspetto burbero nascondono tuttavia un animo d'oro. Ad eseguire questa musica tipica della tradizione statunitense è di nuovo il violinista John Hartford, che abbiamo avuto modo di apprezzare in una rivisitazione di "I Am A Man Of Constant Sorrow", che questa volta muove le sue corde in maniera decisamente più briosa e spensierata. Come già sottolineato, il talento di questo musicista fu proprio quello di aver conferito al violino, e in generale al suo utilizzo nell'ambito Folk e Bluegrass, una versatilità del tutto nuova ed attuale: dalla malinconia della ballata principe di "Fratello Dove Sei?", eccolo ora lanciarsi in una quadriglia a dir poco funambolica, che dopo essere stata introdotta da un accordo tenuto e da un urlo in sottofondo parte subito allegro e deciso, facendoci venire la voglia di danzare e battere le mani in alternanza con le pacche sulle gambe. A sostenere il violino troviamo un giro di mandolino e chitarra acustica, una serie di accordi che si mantiene sempre uguale fatta eccezione per un solo cambio di tonalità, in modo da consentire ad Hartford di sbizzarrirsi nelle sue acrobazie soliste. Ma non ci sono solo gli strumenti: il brano si chiama infatti "Urlo di guerra indiano", e prontamente ecco fare la loro comparsa anche degli incisi distesi in falsetto, un omaggio estemporaneo a quelle che erano appunto le urla di guerra dei nativi americani che si lanciavano contro gli occidentali, pronti a potare scalpi. Ad ascoltare bene questa quadriglia non ci riesce difficile immaginare le scorribande dei Sioux o degli Apache intenti a saccheggiare i villaggi degli invasori; la frenesia della composizione, infatti, lascia pensare a qualcosa di concitato e senza sosta, che in una situazione più pacifica si trasforma appunto in una festa di paese piena di gente con le coppie schierate sulla pista da ballo. All'interno del film questa canzone compare però in maniera marginale, giusto per pochi secondi: una volta che i Soggy Botton Boys escono in strada dopo il successo ottenuto, ecco che passa una folla intenta ad accompagnare al patibolo una vecchia conoscenza, il bandito George "Babyface" Nelson, alla cui testa troviamo appunto i musicisti ed il criminale in catene, che però non è assolutamente spaventato, anzi, balla e canta in preda all'euforia di aver raggiunto finalmente il suo obiettivo, morire di una morte da vero bandito. Il tiro festaiolo della composizione si rende quindi la soundtrack ideale per colui che ha cercato tutta la vita di farsi temere come rapinatore senza mai riuscirci, suscitando anzi il riso nella gente per il suo aspetto goffo da bambinone impacciato, eppure eccolo lì, "il grande George Nelson", a cui è giunta la sentenza capitale per elettroshock: sarà il primo detenuto a morire sulla sedia elettrica ed è felice, poiché se ne andrà "sputando fuoco e fiamme", moderno sacrificio umano al progresso in piena espansione. Non sarà un guerriero indiano, ma su questa quadriglia il rapinatore potrà finalmente far sentire al mondo il suo urlo di guerra.

Lonesome Valley

Dall'euforia per una morte "eroica" accompagnata da una quadriglia, sprofondiamo ora nelle atmosfere più cupe dell'abisso con la seguente Lonesome Valley, ovvero "La Valle Solitaria", una spettacolare piece gospel dal sapore rythm n' blues eseguita dai Fairfield Four, un ensemble nato nel 1921 nella chiesa battista di Fairfield a Nashville, nel Tennessee, che porta avanti la propria attività da oltre novant'anni. Si parla di una simbolica valle dai tratti immaginifici, ovvero la valle della morte dalla quale nessuno fa più ritorno, così ecco che si rende necessario il più assoluto silenzio per ricreare la perfetta atmosfera dei cancelli dell'aldilà che si spalancano dinanzi a noi; il brano viene eseguito unicamente da quattro voci armonizzate fra loro, che dai registri più baritonali si impennano verso stoccate più alte, decise e sofferte. Ascoltando questa performance non si prova tuttavia una sensazione di freddo, come verrebbe da immaginarsi per un brano dalla tematica così lugubre, anzi, sentiamo letteralmente  il calore di queste quattro voci che ci avvolge e che dalle roventi sponde del Mississippi ci getta nel fuoco e nello zolfo infernale. Ad aprire la marcia verso l'Oltretomba è una voce in solitaria, che cinicamente sentenzia: "Devi andare nella valle solitaria"; il cantante si rivolge direttamente a noi, dicendo che è giunta la nostra ora e dobbiamo andare nella valle della morte, non c'è più nessuna redenzione per le nostre colpe, ormai siamo stati condannati ed è arriva la nostra ora. Le voci restanti si alternano in degli avvincenti vocalizzi ed incisi, che fanno non solo da contorno alle parole della lirica, ma si rendono inoltre dei metaforici lamenti di compianto, proferiti dai cantori che inermi osservano il detenuto recarsi al cospetto del boia. È il momento, dobbiamo andare nella valle solitaria, ci dovremo arrivare con le nostre gambe, percorrendo il metaforico miglio verde che separala nostra cella dalla morte, nessuno potrà andarci al nostro posto; non ci resta altro da fare che chiedere perdono a Dio per i nostri peccati. In vita lo abbiamo tanto denigrato e rifiutato ed ora il padre eterno si rivela la nostra unica e sola speranza di ottenere una qualche grazia, nessuno potrà intercedere per noi, ormai siamo solo noi e l'Onnipotente, faccia a faccia, in attesa che egli possa provare un minimo di misericordia per dei gaglioffi come noi. I vocalizzi proseguono, la suspense aumenta, che vi sia un qualche spiraglio? No, il coro riparte dall'inizio, a quell'assoluta necessità di raggiungere la Valle Solitaria, il dado è tratto, la sentenza è stata eseguita, che inizi la nostra marcia verso l'Inferno. Siamo alle battute finali della pellicola, i tre protagonisti arrivano nel luogo dove, in teoria, si sarebbe dovuto trovare il tesoro, ma ad attenderli vi è lo sceriffo con i suoi uomini, che ha già preparato tre forche pronte per loro. Nello sgomento, i tre si difendono dicendo che sono stati perdonati per volere del governatore del Mississippi in persona, e che la notizia è stata trasmessa anche su tutte le radio, ma lo sceriffo non sente ragioni e risponde freddamente "noi non ce l'abbiamo la radio", come dire che a lui non interessa nulla, se non vedere quei tre appesi ad un albero per il collo. I becchini hanno preparato tre fosse, ma loro sono in quattro, dato che c'è anche Tommy al loro seguito, poco male, vorrà dire che il chitarrista dividerà la fossa con uno dei suoi compagni. Sul fragore delle pale, intente a togliere le ultime porzioni di terra, ecco che i becchini si allineano con fare solenne ed intonano proprio "Lonesome Valley": il destino ormai è scritto, sembra non esserci via di scampo e i quattro ormai sono in ginocchio intenti a chiedere perdono a Dio per i loro peccati. O piuttosto, forse, al Diavolo.

Angel Band

La colonna sonora di "Fratello, Dove Sei?" si conclude con Angel Band, letteralmente "Il Gruppo Degli Angeli", canzone che accompagna le ultime scene del film venendo intonata prima dalle figlie di Ulysses, che la cantano saltellando dietro al padre e alla moglie da poco riunitisi, e poi dai The Stanley Brothers, un noto duo bluegrass composto dai fratelli Carter e Ralph Stanley. La traccia si apre con un giro melodico eseguito dal mandolino, le cui pennate di plettro spiccano immediatamente lampanti grazie sia alla sottigliezza delle corde, sia quella della tonalità raggiunta, unita anche al taglio del plettro che ci regala un'apertura al tempo stesso tagliente e frizzante. A compensare le alte tonalità del primo strumento troviamo la chitarra acustica, che per riempire la gamma di frequenze del brano si porta su un giro di terzine di accordi su tonalità più gravi, rendendo l'accompagnamento di questa ballata bluegrass una sorta di valzer dalle tinte blues. A scaldare ulteriormente la composizione vi sono poi i cori vocali, che si aggiungono alla voce principale di Carter e alle armonizzazioni del fratello, dando quindi una maggiore completezza all'arrangiamento d'insieme. La canzone scorre via limpida e delicata, cullandoci letteralmente grazie ai riuscitissimi intrecci canori dei due musicisti e al loro tocco morbido e quasi etereo sugli strumenti. Scorrendo quindi così vellutata al nostro ascolto, viene difficile immaginare che anche "Angel Band" sia un canto della tradizione statunitense che affronta nuovamente il tema della morte, eppure sì, avete letto bene, queste voci melodiose si rendono metaforicamente quelle degli angeli che scendono sulla terra per prendervi per mano ed accompagnarvi alle soglie del Paradiso. L'ultimo sole del giorno sta rapidamente calando, e la grande corsa della vita è quasi giunta al suo crepuscolare traguardo. Sulla scena però resta ancora un'ultima voce, quella del protagonista narrante, ad animare il silenzio con questo suo canto di speranza e di fede: le prove più dure sono ormai passate, e il distacco da un'esistenza di lotta, stenti e ingiustizie, è una liberazione, la ricompensa del Paradiso il meritato trofeo. Scendete quindi dal cielo, o gruppo degli angeli, invoca il cantante, ed avvicinatevi a lui per portarlo via sulle vostre ali candide come la neve verso le porte del Paradiso. Conducetelo verso quella che per volere del destino diverrà la sua prossima casa per l'eternità, egli ormai sa di essere vicino ai suoi cari perduti in gioventù, agli amici scomparsi prima del tempo e a tutti i suoi avi che finalmente avrà modo di raggiungere. La seconda strofa si apre con una metafora molto suggestiva, egli infatti ha "spazzolato la Rugiada sulle rive del Giordano", arrivando simbolicamente ad attraversare il fiume nel quale venne battezzato Gesù, le simboliche acque "d'origine" dell'intera cristianità. La dimora celeste ormai è prossima e nel cielo si alza solenne il canto delle anime di coloro che sono stati premiati con l'eterna beatitudine. Giunti ai cancelli celesti, al nostro protagonista si fanno incontro i santi, che prontamente lo accolgono con una ritualità che riporta alla mente le scene descritte da Dante nel Paradiso della sua Commedia; angeli, portate ora il cuore del nuovo arrivato a colui che ha sanguinato sulla croce ed è morto per la redenzione dell'umanità intera, il suo sangue colato nella coppa sacra appena la lancia venne estratta dal suo costato purificherà  gli eletti con l'eterna misericordia, donando loro la vittoria sul regno del male. Non è un caso che questo testo, ricco di speranza supportata dalla fede in Dio, accompagni le battute di chiusura della pellicola: i tre protagonisti hanno a lungo peregrinato attraverso mille peripezie, e dopo una loro personalissima odissea sono giunti ai loro lidi; non saranno sbarcati ad Itaca come Ulisse, ma hanno riconquistato la libertà e si sono guadagnati un biglietto di sola andata verso un nuovo futuro, gli angeli si sono in qualche modo presentati anche a loro, donandogli però la chiave per farsi una nuova vita.


Conclusioni

La colonna sonora di Fratello, Dove Sei? è una di quelle soundtrack talmente particolari e raffinate da essere apprezzate pienamente anche senza aver mai visto il film; ovvio, se avete anche assistito alle avventure di Ulysses, Del e Pete riuscirete a calarvi decisamente meglio in quanto proposto dal disco, ma queste diciannove canzoni rappresentano ciò che si potrebbe definire una vera e propria summa dell'America di inizio Novecento: con questa tracklist infatti torniamo indietro a quelle che fondamentalmente sono le radici di tutto: il Blues, il Soul, il Gospel ed il Bluegrass, fino ad arrivare a sonorità più estese come quelle del Country, e attraverso quest'accurata selezione, siamo in grado di compiere anche noi una nostra odissea attraverso gli Stati Uniti della Grande Depressione. Queste canzoni infatti non parlano di scenari zuccherosi o di quanto sia bella la vita, al contrario, raccontano di quanto fosse dura e di quanto facesse schifo trascinare avanti la propria esistenza, specialmente se, invece di vivere in una bella città e con un buon lavoro, si era dei detenuti dello stato del Mississippi; laggiù la vita non è decisamente né rose né fiori, anche perché il protagonista medio di queste storie non è il colletto bianco con la camicia firmata, ma è il contadino nullatenente che si spacca la schiena ogni santo giorno nei campi, vero motore della conquista dell'ovest e dell'ambiguo sogno americano, oppure lo sfruttato operaio di fabbrica, fino ad arrivare, andando ancora più a ritroso, allo schiavo di colore tenuto in catene a lavorare nelle piantagioni di cotone. La fede in Dio, perfino oggi baricentro dei valori americani, diventa allora l'unica ancora di salvezza cui aggrapparsi per riuscire a stringere i denti e tirare avanti, visualizzando davanti a sé un traguardo che ci premierà con la gloria celeste. Nel caso specifico del film si parla di tre detenuti che evadono di prigione, e non certo da una bella cella confortevole, bensì da un campo di lavoro al quale vengono portati ogni maledetto giorno a spaccare pietre, sotto il sole rovente e con la gola che brucia per la sete. Quell'evasione tanto meditata e bramata sembra impossibile, ma basta un momento di distrazione della guardia che immediatamente, quei campi di granturco simbolo dell'America e della sua maestosa e libera natura, si rivelano il posto più ospitale della terra per nascondersi, fuggendo a balzelloni dai propri carcerieri; durante la prima scena della loro fuga viene quasi spontaneo ridere, nel vedere la goffaggine con cui i tre saltellano cercando di stare al passo l'uno con l'altro, ma d'altra parte provate voi a correre con le caviglie incatenate ad altre due persone, vincolati ad ogni loro movimento. Inoltre, le condizioni della reclusione sono talmente insostenibili che basta riuscire a correre ed è già tutto di guadagnato. Eppure Ulysses, Delmar e Pete ce l'anno fatta, sono riusciti a scappare, ma d'ora in avanti si prospetta una nuova salita davanti ai loro occhi, ricca di imprevisti e delusioni, ed ecco come la loro versione di "I Am A Man Of Costant Sorrow", estemporanea e improvvisata, diventa immediatamente la canzone simbolo dell'intero film. La sfortuna la fa da padrona, ma nonostante ciò la fiducia nei propri obiettivi e i fortunati incontri lungo la strada, come quello con il chitarrista Tommy, danno lo stimolo per affrontare ogni avversità con il coltello fra i denti, senza mai lasciarsi abbattere. La melodia di questa ballata, benché non faccia certo segreto del senso di frustrazione e disillusione, evidenzia comunque come ogni cantore di quel brano abbia tuttavia nel suo animo l'energia e l'attitudine blues di esorcizzare, attraverso la musica, tutto il male che ha dentro e quello che, invece, l'opprime all'esterno. La musica come maieutica per tirare fuori di sé tutto ciò che si nasconde nei recessi dell'anima, dalle paure più recondite fino a quei pensieri che nemmeno si pensava di avere piantati nel cervello, e ciò diventa possibile anche di fronte al più temibile ed invincibile degli avversari: la morte. Ripensiamo alla bimba di "I Am Weary, Let Me Rest", al saggio di "O Death", oppure ai becchini gospel di "Lonesome Valley"; essi, ognuno a proprio modo, affrontano il cupo mietitore guardandolo dritto nel volto, certo con un po' di paura, dopotutto chi non ne avrebbe?, ma anche con un invidiabile stoicismo che fa affrontare la fine della vita con un onore pari a quello dei samurai davanti al seppuku. E non solo. Dopotutto, quella dei Coen non vuole essere una sorta di epopea criminale, non un'opera di redenzione né tantomeno di giudizio critico, ma un'esaltazione dello spirito libero e ribelle in cui gli americani identificano loro stessi e le loro radici, e da cui nasce e si sviluppa l'anima del Rock; pensiamo ai grandi bluesman di colore, ostracizzati per il solo colore della pelle, al loro sound selvaggio e alla poetica oltre ogni buon costume, oppure alle musiche e alle sensazioni della tradizione rurale, popolare, intrisa di morte e spiritualità come anche di piaceri carnali e alcol, e andiamo oltre, ai sensuali movimenti di bacino di Elvis e al suo mitico ciuffo, alla stile stradaiolo della beat generation, alla psichedelia delle prime rock band inglesi, eredi e di quelle americane, e al loro dialogo sull'uso di droghe, ai capelli lunghi e alle giacche in pelle, alla provocazione sempre più ricercata e sempre più estrema della musica contemporanea. Ebbene, nasce tutto da lì, dagli uomini e le donne raccontati nel film e nella sua colonna sonora, e quali figure migliori se non dei detenuti, reietti per definizione, poveri e campagnoli per origine, per raccontare quella che nel rock s'è trasformata in orgogliosa diversità, difforme filosofia di vita e di pensiero? I Coen non fanno sconti, mostrando il lato ribelle e più vero dell'America ma anche quello più subdolo, incarnato da politici marci, ipocriti e razzisti, o finti progressisti interessanti solamente a sfruttare il fascino che il diverso ha sulle masse, mentre lo sceriffo, figura dai tratti così eterei da essere identificata nel demonio stesso, smette di essere semplice forza dell'ordine per divenire metafora d'oppressione per eccellenza, quella parte d'America che per bigotteria o per deviati principi morali ha sempre messo un freno agli spiriti liberi, dando loro la caccia e tarpandone l'arte. L'enormità della nostra soundtrack è proprio quella di riuscire a catturare con invidiabile sintesi le radici di ciò che oggi definisce l'America contemporanea, e di riflesso, almeno in parte, l'intera società occidentale. Le tracce di questa colonna sonora hanno il merito di essere caratteristiche, suggestive ed incredibilmente ricche di pathos pur nella loro semplicità strutturale: in un'epoca in cui le nostre orecchie sono abituate ad ascoltare brani articolatissimi, ricchi di orchestrazioni e macchinazioni digitali, tornare indietro alle origini del sound americano, e con esso del Rock, attraverso queste sonorità bluegrass e country, ci permette di riscoprire in tutto il suo splendore l'assoluta potenza espressiva della Musica e delle sue più umili radici. Una voce da sola, un violino, oppure un piccolo ensemble con al massimo 4 strumenti, sono in grado di creare una magia più viva ed intensa di quella di un'orchestra sinfonica, l'ideale per darvi man forte durante una fuga in un campo di granturco con una palla di ferro al piede, per esempio, o per sfuggire alle attenzioni di un demonio armato di revolver e distintivo. Queste canzoni sono le litanie di chi non aveva niente e desiderava tutto, e che dal niente è arrivato ad ottenere, se non tutto, quantomeno un posto al sole e uno scopo nella vita. "Fratello, Dove Sei?" è un film che sicuramente merita di essere visto, ma altrettanto meritevole di essere ascoltata, apprezzata, capita e vissuta è la sua colonna sonora, forse il vero gioiello dell'intera opera. Se il film infatti è un grande ritratto d'autore di un popolo e della sua epica, i limiti imposti dal linguaggio della commedia agli elementi di critica sociale e politica, presenti sotto varie forme e perfino determinanti, rendono la pellicola leggera e tutto sommato disimpegnata. Non solo: la pulizia formale suggerita dalla narrazione storica americana, vero e proprio insormontabile cliché hollywoodiano, impone ai registi di limare almeno un poco la loro proverbiale vena di follia per una resa più sobria, solida e quadrata, ma anche irrimediabilmente meno autoriale. Insomma, se "Fratello, Dove Sei?", pur nella sua geniale narrativa e le sue memorabili gag, non può dirsi il capolavoro dei Fratelli Coen, possiamo tranquillamente definire tale la sua colonna sonora, così enorme da superarne fama, vendite e riconoscimenti. Un vero gioiellino di pura epica, americana ma soprattutto umana, raccontata in musica. 

kw: alfonso zarbo, audiorecensione 


1) Po' Lazarus
2) Big Rock Candy Mountain
3) You Are My Sunshine
4) Down to the River to Pray
5) I Am a Man of Constant Sorrow
6) Hard Time Killing Floor Blues
7) I Am a Man of Constant Sorrow (strumentale)
8) Keep On the Sunny Side
9) I'll Fly Away
10) Didn't Leave Nobody But the Baby
11) In the Highways
12) I Am Weary, Let Me Rest
13) I Am a Man of Constant Sorrow
14) O Death
15) In the Jailhouse Now
16) I Am a Man of Constant Sorrow
17) Indian War Whoop
18) Lonesome Valley
19) Angel Band