ASIA
Arena
1996 - Bullet Proof

SANDRO PISTOLESI
07/11/2022











Introduzione Recensione
Con l'avvento di John Payne il sound degli Asia si era allontanato decisamente da quel progressive rock che in qualche maniera affiorava nei primi due storici album, puntando dritto verso un raffinato AOR di gran classe dove predominano le tastiere, atte a colorare ritornelli ammalianti e strofe ben delineate. Nonostante i primi due album dell'era Payne siano lavori più che ottimi ed il sound molto easy listening, i nostri non sono però riusciti ad avvicinarsi neanche lontanamente al successo planetario ottenuto con il sempiterno album di debutto. Con il blasone che stava evaporando, gli Asia hanno dovuto affidare per gioco forza la propria musica a piccole label indipendenti che non hanno saputo valorizzare al meglio i due dischi. In sede live le cose non andarono certo meglio. Fatta eccezione per le quarantadue date in supporto all'album "Aqua", dove la presenza di Steve Howe sul palco attirava anche i vecchi fan, dal 1994 al 1996 le performance live degli Asia erano ridotte al lumicino. Le poche vendite di "Aria", che vi ricordo negli Stati Uniti fu inspiegabilmente pubblicato un anno dopo e la scarsa affluenza del pubblico durante i primi concerti di supporto all'album, costrinsero i nostri ad interrompere il tour dopo solamente sei date, per la precisione due in Germania e quattro in Giappone, nazione che bene o male ha sempre dimostrato calore verso gli Asia. Come se non bastasse, Al Pitrelli fu ingaggiato dai Savatage, e i nostri si trovarono nuovamente senza un chitarrista. Payne, Downes e Sturgis che volevano provare ad uscire dal circolo vizioso dell'AOR e tornare a spruzzare un po' di progressive rock sulle nuove composizioni, provarono a ricontattare Steve Howe, ma il nostro era appena rientrato negli Yes, andando a ricomporre la storica formazione con Anderson, Squire, Wakeman e White, e declinò gentilmente l'invito. Payne è sempre stato un discreto chitarrista, ma di certo non poteva sobbarcarsi di un ulteriore carico, visto che era già estremamente impegnato al basso ed alla voce. Decisero di ridurre la formazione ufficiale a tre soli elementi ed ingaggiare due chitarristi che figureranno come musicisti aggiuntivi. Il primo ad essere ingaggiato fu Aziz Ibrahim. Nato da genitori pakistani il 16 marzo del 1964 a Longsight, un sobborgo di Manchester Aziz -Ur-Rahman Ibrahim non è fra i più famosi e ricercati chitarristi britannici, di lui sappiamo pochissime notizie, se non quella di aver fatto parte dei Simply Red dal 1986 al 1987 e degli Stone Roses poco prima di entrare negli Asia. A dargli manforte fu chiamato il prestigioso turnista americano Elliott Randall, classe 1947. Qui il curriculum è di maggiore spessore, in quanto il talentuoso e versatile chitarrista ha prestato i suoi servigi a svariati artisti del rock, Peter Frampton e The Doobie Brothers giusto per citarne un paio. I palati fini lo considerano uno dei migliori interpreti della sei corde in ambito rock. Nel 1980 rifiutò clamorosamente la richiesta di David Paich e Jeff Porcaro di entrare a far parte dei Toto e rispose picche anche a John Belusci, che lo voleva come direttore musicale per la colonna sonora della sempiterna pellicola "The Blues Brothers". Con i due nuovi chitarristi le composizioni per il sesto album in studio intitolato "Arena", furono contaminate da esotiche influenze latino-americane e mediorientali e videro un clamoroso un ritorno a quel progressive rock che i nostri sembravano aver smarrito per strada. Ma gli special guest non finiscono qui. Per un ulteriore arricchimento del sound fu chiamato il percussionista portoghese Luis Jardim, che nel lontano 1981 aveva lavorato con Geoff Downes ai tempi dei The Buggles. Nato nella bellissima Isola di Madeira il 4 Luglio del 1950, Jardim durante la sua prestigiosa carriera ha collaborato con moltissime stelle della musica pop e rock. Robbie Williams, Frankie Goes To Hollywood, Eric Clapton, Spandau Ballet e David Gilmour sono solo una minima ma convincente parte del suo ricchissimo curriculum. L'ultimo ospite dai sentori esotici è il chitarrista giapponese Tomoyasu Hotei, uno dei musicisti più famosi e acclamati del Sol Levante. Il suo prezioso contributo però si limiterà solamente alla opener strumentale. Già dalla splendida copertina disegnata da Rodney Matthews (che analizzeremo accuratamente più avanti) possiamo intuire che il sound di "Arena" è agli antipodi rispetto ad "Aria", senza ombra di dubbio il lavoro più oscuro della band. Qui le influenze latino-americane e mediorientali conferiscono insieme a qualche nota di jazz e reggae un sound caloroso e affascinante all'album nonché un gradito ritorno al progressive rock. Visto il poco successo ottenuto con il per me ottimo "Aria", gli Asia erano determinati a risollevare le sorti del gruppo, pare che stessero addirittura rinchiusi in studio per quasi quindici are al giorno, cercando di rendere più articolate e particolari le nuove composizioni, in modo da poter recuperare i vecchi fan persi per strada durante la parentesi AOR. È giunto il momento di tuffarsi nella bolgia dell'Arena e scoprire quali segreti cela il sesto album in studio degli Asia.

Into The Arena
L'album si apre con la suadente "Into The Arena (Dentro L'Arena)", una bellissima opener strumentale contaminata dal jazz che sprizza classe da tutti i pori e che a tratti ricorda il caloroso sound latino di Carlos Santana. È uno dei tre brani che non vedono la firma esclusiva dell'ispirato duo Downes-Payne, coadiuvati nell'occasione da Elliott Randall e dallo special guest Tomoyasu Hotei, che nel brano suona la chitarra solista. Le suggestive percussioni dal sound acquatico di Luis Jardim aprono le danze, anticipando di qualche istante il soffice tappeto di tastiera che avvolge le calde note dal retrogusto latino della chitarra acustica di Elliot Randall. Ma il punto di forza del brano è la splendida chitarra solista di Tomoyasu Hotei. Le sue note emanano magia e ci fanno dimenticare che siamo di fronte ad un brano strumentale, intrecciandosi con gli intarsi acustici e le esotiche percussioni di Jardim. Per tre minuti gli Asia ci fanno sognare ad occhi aperti, la magia della musica ha il potere di trasportarci sulle spiagge di un'isola sperduta dell'Oceano Pacifico, dove bellissimi ragazze indigene addobbate di fiori servono cocktail a base di rum intorno ad un falò. Poco prima della metà del brano, le raffinate tastiere di Downes rubano la scena al Chitarrista Nipponico, che gentilmente si fa da parte per alcuni secondi, per poi tornare ad incantarci con le sue melliflue melodie dall'affascinate retrogusto orientaleggiante che tornano ad intrecciarsi magicamente con le cristalline trame della sei corde acustica. Nel finale la canzone cresce per pochi secondi, come se avesse un ultimo sussulto prima di esalare l'ultimo respiro, lasciando poi il compito alle affascianti ed esotiche percussioni di Luis Jardim di accompagnarci fino al brano successivo. Quando la classe non è acqua.

Arena
Notevole la title track "Arena", brano che a tratti rievoca le fantastiche atmosfere del progressive rock americano della seconda metà degli anni Settanta, molto più melodico e fluido e meno sinfonico rispetto a quello inglese. Le melanconiche tastiere di Downes ci catapultano dritti dentro l'arena, dove poi veniamo assaliti da un travolgente pattern di organo, ben ritmato dal tagliente charleston di Mike Sturgis. Nella strofa calano vistosamente i bpm, le percussioni di Luis Jardim si fondono perfettamente con lo zoppicante lavoro della sezione ritmica. Le vellutate tastiere avvolgono la voce di Payne come un soffice kimono di seta, il nostro ci conduce all'interno di un'arena, dove in passato i gladiatori si battevano fino all'ultimo respiro per soddisfare il volere delle classi benestanti. Payne usa le sanguinolente sabbie dell'anfiteatro come metafora per descrivere le dure battaglie che dobbiamo affrontare durante il duro e tortuoso cammino della vita ma anche durante una relazione di coppia. Messaggi positivi e lordi di speranza ci esortano a non mollare, ai gladiatori potevano portare via la carne ma non l'anima, dice poeticamente il nostro. Le spaziali tastiere del bridge spalancano i cancelli all'inciso. È l'organo, insieme al basso a reggere in piedi il ritornello che ostenta frasi facilmente assimilabili e che ti entrano subito in testa, pronte ad essere ricanticchiate. Geoff Downes è particolarmente ispirato, in questo brano dove la chitarra si limita e sottilissimi ricami, è lui a portare avanti la baracca. Al minuto 02.43 inizia a far capolino l'anima latente del progressive rock. Tastiera e chitarra dialogano con dolcezza, lasciando poi il campo ad un melanconico pattern di pianoforte che fa momentaneamente calare le tenebre sul brano. I preziosi fraseggi della chitarra di Elliott Randall si insinuano magicamente fra le meste note del pianoforte. Un trascinante e vetusto pattern di organo riaccende la canzone annunciando una suggestiva versione del bridge, dove brillano interessanti controcanti ed eleganti contrappunti di chitarra che vanno a ricamare originali licenze poetiche (Bella Nova). Dopo un ultimo passaggio dell'inciso, Elliott Randall mette l'ombrellino nel long drink e suggella il brano con un breve ma intenso assolo di chitarra.

Heaven
Il livello si mantiene alto anche con "Heaven (Paradiso)", brano ricco di avvolgenti melodie ben riempito dalle chitarre a dalle tastiere. È sicuramente fra i momenti che più si avvicinano all'AOR dell'album precedente. Non mi risulta che sia mai stato estratto un singolo dall'album, ma "Heaven" aveva tutte le carte in regola per esserlo. Aziz Ibrahim apre con un ammaliante riffing di Gilmouriane memorie, bombardato da spaziali fiammate di tastiera. Successivamente, Geoff Downes domina dall'alto del suo castello con un micidiale mix di suoni ricamato timidamente dalla chitarra. Nella strofa le tastiere si sgonfiano, oscuri accordi di pianoforte armonizzano il machiavellico lavoro della chitarra valorizzando al massino l'ammaliante linea vocale di Payne. Il brano è interessante anche dal punto di vista delle liriche; il Paradiso è sempre stato una chimera inseguita vanamente dall'uomo nel corso dei tempi, cercato senza successo negli angoli più disparati della Terra è sempre stato vicino a noi, nascosto nei meandri della nostra mente. Basta seguire il magico sentiero tracciato dagli alisei in un mare in tempesta e lo troveremo, dice poeticamente il nostro. L'inciso non avrebbe stonato su un brano di "Aria", solare e triste allo stesso momento, con gli strumenti che si miscelano magicamente mettendo in risalto la calda voce di John Payne. Nella mente, tutti siamo in grado di trovare il nostro Paradiso, disegnando un mondo perfetto fatto su misura per noi. Le tastiere thrilling ci riportano verso la strofa, arricchita da inquietanti armonie vocali che ci prendono per mano e ci accompagnano nuovamente verso l'inciso, dopo il quale troviamo un interessante assolo di chitarra di John Payne, assolo molto scolastico ma che calza a pennello con la fluida struttura della canzone. Successivamente tastiera e chitarra disegnano un limbo che ci tiene sospesi per qualche istante, prima di catapultarci all'interno del Paradiso sonoro disegnato dagli Asia. Vocalizzi e intarsi da parte di tutti gli strumenti colorano questa bellissima sezione conclusiva che ci porta piacevolmente fino al paradisiaco finale che conferma Downes fra i migliori tastieristi in circolazione.

Two Sides Of The Moon
"Two Sides Of The Moon (Le Due Facce Della Luna)" è un insolito brano lordo di sorprese che inizialmente rivisita in chiave Asiatica il pop rock degli anni'80, lo si intuisce dal delicato riff a la "Every Breath You Take" che apre il brano, prima che le tastiere dai sentori orientaleggianti prendano il sopravvento. Glaciali accordi di chitarra bombardano la voce di John Payne, che attraverso delle liriche criptiche ci parla di una relazione fra due persone che possono considerarsi agli antipodi, proprio come le due facce della Luna. Sembra che il testo sia stato scritto appositamente per entrarti in testa, con una attenzione meticolosa alla metrica ed una certosina ricerca di termini che sembrano esser messi lì solo per fare rima. Comunque sia, leggendolo attentamente possiamo intuire che la relazione che si è instaurata è fra due persone di etnie e culture totalmente diverse, la ragazza che viene dal Sol Levante, sembra fare fatica ad accettare usi e costumi del mondo occidentale, ma la forza dell'amore risulta essere sempre la più potente e grazie ad essa anche gli ostacoli apparentemente insormontabili possono essere superati, permettendo alla relazione di andare avanti, nonostante le due persone abbiano una cultura differente, proprio come le due facce della Luna, gemelle ma diverse, una sempre in bella vista, l'altra avvolta nel mistero. Geoff Downes fa un grandissimo lavoro in tutto il brano, aiutato dalle incredibili evoluzioni in contro tempo sul charleston di Mike Sturgis, che a me fanno impazzire. Scintillanti pattern di tastiera fanno crescere il brano nell'effimero bridge, che ci catapulta precipitosamente fra le soffici ed avvolgenti atmosfere dell'inciso sorretto dalle fiabesche trame delle tastiere. Uno spaziale interludio strumentale in cui domina Mr. Downes ci separa dalla strofa successiva, dove brillano i preziosi intarsi di Elliott Randall. Ma gli Asia 2.0 che volevano allontanarsi dall'AOR e progredire il loro sound potevano limitarsi ad un banale pop rock dal piacevole retrogusto ottantiano? Certo che no, ecco che dopo un altro passaggio dell'affascinate ritornello, il brano si sposta verso lidi più progressive. Un malvagio riff di chitarra viene assalito dalle percussioni tribali di Luis Jardim. Elliott Randall si esibisce con un assolo caotico e malsano che spazza via prepotentemente le soffici atmosfere respirate fino a pochi istanti prima. Il duo ritmico Sturgis-Jardim dimostra di essere in perfetta sintonia ed accompagna con una ritmica da paura che è impossibile da descrivere. Al minuto 03.33 un magico interludio dove primeggiano le tastiere dai sentori fantasy riporta la calma, spalancando nuovamente le porte all'inciso, impreziosito dalle fanfare di Downes. Quando il brano sembra volgere al termine ecco un'altra sorpresa, un ultimo interludio strumentale dove i nostri sconfinano nelle calde e rilassanti sonorità del reggae e ci salutano poi con una versione Marleyana dell'inciso. Anche questo è progressive. Nel 2005 la Inside Out ha rilasciato una versione allargata dell'album dove troviamo una particolare versione acustica del brano; con i bpm notevolmente ridotti, il pianoforte riprende il main theme, subito affiancato da una sferragliante chitarra acustica. Nel contesto unplugged, la linea vocale della strofa perde un po' di magia, molto meglio bridge ed inciso, enfatizzati da un paradisiaco tappeto di tastiera. La seconda parte della canzone, che poi sarebbe la più interessante progressivamente parlando, viene sostituita da un vigoroso strumming acustico che accoglie un assolo di organo, il quale sembra provenire direttamente dagli anni Settanta e ci accompagna verso l'epilogo. Non strappatevi i capelli se come non siete in possesso della ristampa made in Inside Out, visto che l'altro inedito è presente sulla raccolta "Archiva 2" e questa versione acustica lascia il tempo che trova.

The Day Before The War
Dall'alto dei suoi 9:09 minuti, "The Day Before The War (Il Giorno Prima Della Guerra)" è ad oggi e per distacco la canzone più lunga dell'intera discografia Asiatica. Solitamente brano lungo è sinonimo di progressive e gli Asia confermano la regola, affacciandosi di tanto in tanto sulle gelide ed insidiose sonorità del Teatro Dei Sogni. Cambi di tempo, sbalzi atmosferici, un drumming da paura, preziosi ricami di chitarra e terrorizzanti pattern di tastiera caratterizzano la traccia numero cinque, dove i nostri ostentano tutto il loro amore verso il progressive rock. La struttura della canzone vede alternarsi strofe melanconiche ad interludi strumentali dalle atmosfere thrilling, rendendo fluido l'ascolto; quando arriviamo al termine, facciamo fatica a credere che siano passati oltre nove minuti, è come se gli Asia ci avessero rapito e rilasciati alla fine del brano, in stile X-Files. Geoff Downes apre le danze con un solenne pattern di tastiera commemorativo. L'intro si fa poi più minacciosa, glaciali accordi di chitarra acustica e lamenti di Howeiane memorie danzano all'interno di una nebbia oscura dispensata dall'eccellente Tastierista di Stockport, è un sinistro crescendo Rossiniano che apre i cancelli al violento proseguo dell'introduzione. Epiche tastiere vengono bombardate dai potenti power chord sparati da Aziz Ibrahim. L'agghiacciante organo poi con prepotenza si sostituisce alle tastiere muovendosi in perfetta sintonia con la chitarra elettrica, Mike Sturgis fa crescere esponenzialmente il brano con un drumming deciso per poi farlo esplodere definitivamente, trascinando tutti con un martellante tappeto di doppia casa. Mai gli Asia si erano avvicinati così tanto al progressive metal. Intorno al minuto 02:13 l'ira degli strumenti si placa; trasportato da un solenne tappeto di testiera, lentamente si avvicina il glaciale strumming di chitarra acustica di John Payne, ben ricamato dal basso. Il nostro, attraverso profonde licenze poetiche cerca di trasmetterci le spiacevoli sensazioni provate prima, durante e dopo un conflitto bellico. L'effimero e triste ritornello si limita ad un paio di "The Day Before The War" recitati con una struggente interpretazione da oscar, trasportati da gelide tastiere e colorati da un glaciale e cristallino arpeggio di chitarra acustica. Bellissime le parole della strofa successiva, dove Payne si interroga sui postumi della guerra, chiedendosi chi curerà la carestia dopo che i leoni hanno banchettato. Il nostro poi cala un magnetico hook con "In the name of Jesus, In the name of God" frase dal potere lobotomizzante che si installa in maniera indelebile nella nostra mente, provocando una buona dose di brividi, mettendo pericolosamente in nero su bianco come troppo spesso le guerre vengono innescata da questioni religiose. La mestizia dell'inciso viene appesantita da oscuri controcanti dai sentori clericali. Mezzo secondo di assordante silenzio e poi incontriamo il primo interludio strumentale dove brilla un epico pattern di tastiera che si intreccia magicamente con le chitarre, ben supportato dal basso e dai prolungati fil di Mike Sturgis. Un brillante fraseggio di chitarra acustica ci riporta verso le melanconiche atmosfere della strofa. La guerra ha portato la morte, i fiumi si sono colorati di rosso, cadaveri e colpi di cannone hanno cancellato in un batter d'occhio i bellissimi paesaggi disegnati da Madre Natura, paesaggi che purtroppo qualche giovanissima creatura non ha avuto il tempo di ammirare. Il triste ritornello ci separa dall'ultima strofa, dove Payne dipinge un ultimo straziante quadretto a tema bellico. Le forze armate giungono anche dal mare, portando altro dolore. Agghiacciante l'ultimo verso "You were a friend of mine... (Eri un mio amico?)", cinica frase che sottolinea come spesso una guerra metta di fronte due amici a combattere per ideali diversi. Il ritornello finale è più corposo e gli ultimi versi vengono recitati da Payne con una buona dose di teatralità, aprendo i cancelli al gran finale. Il terrorizzante riffing di tastiera sembra uscito da un disco dei Goblin. Aziz Ibrahim, che fino ad ora era stato ben attento ad avvicinarsi il più possibile allo stile di Steve Howe, ci sorprende con un lancinante assolo di chitarra, le note lorde di mestizia sembrano piangere di fronte allo scempio della guerra. Brividi. Le evoluzioni della tastiera e della chitarra ci accompagnano verso l'epilogo evaporando molto lentamente in fader, lasciandoci con un sorriso sulle labbra; nonostante le tematiche tristi delle liriche, la bellezza della musica riesce a trionfare. Chapeau. Purtroppo, non ci fu un tour a supportare il disco, a causa delle fiacche vendite e di una sconsiderata mancanza di promozione, di conseguenza i fan non hanno potuto assaporare le essenze di questo spettacolare brano in sede live, dove sono straconvinto avrebbe spaccato. Stranamente non venne riproposto nemmeno durante il tour di "Aura", un vero peccato, visti i numerosi bootleg live targati Asia usciti in quel periodo, sarebbe stato interessante poter ascoltare una versione dal vivo della canzone.

Never
E dopo questa bomba di emozioni, si scende inevitabilmente di livello, si calmano le acque con "Never (Mai)", brano poco Asiatico e molto orecchiabile che punta forte sul contrasto fra la strofa funkeggiante a la Toto ed un ritornello grintoso rock-blues con un vetusto organo Hammond che si diverte a scozzare con la chitarra elettrica. Geoff Downes apre con un solare pattern di tastiera old style, bombardato da power chord e sezione ritmica. A seguire una strofa atipica per i nostri, con gli arabeschi di Aziz Ibrahim che sconfinano nel funky, seguendo i freddi e decisi accordi di pianoforte. Elliott Randall ricama con fraseggi felini. Il brillante lavoro della sezione ritmica rende comunque piacevole l'ascolto. John Payne affronta per la prima volta il suo rapporto con Dio. C'è stato un momento che la sua fede ha vacillato e si è sensibilmente allontanato dall'Onnipotente. La sua caduta verso il baratro sembrava inarrestabile e per salvarsi ha dovuto tornare sui propri passi e riallacciare quel rapporto con la religione che spesso è in grado di dare forza ai fedeli per superare momenti difficili. Downes chiude la prima strofa con una briosa fanfara che grida forte anni Ottanta. Il bridge fa crescere il brano, preparandoci all'energico ritornello, dove i blueseggianti fraseggi di Aziz Ibrahim ingaggiano una dura lotto con il ruggente organo di Purpleiane memorie. Payne rassicura il suo Dio che non perderà mai la fede, potrà allontanarsi ma non gli volterà mai le spalle in maniera definitiva. Il brano scorre liscio come l'olio con la classica formula strofa-bridge-ritornello, quest'ultimo ci viene presentato anche in una versione strumentale che precede un interessante intermezzo strumentale che va a giustificare l'elevata durata del brano, che vi rammento si protrae oltre i cinque minuti e mezzo. Oscuri accordi di pianoforte accolgono un bellissimo dialogo fra l'organo e uno spaziale pattern di tastiera. È un crescendo Mozartiano che spalanca i cancelli a Elliott Randall. Sfruttando il vetusto tappeto di organo, il delicato tocco del chitarrista americano si avvicina molto alle parti soliste di Howe, contaminando il brano con una vivace spruzzata di jazz e scolastici passaggi in blue che evaporano molto lentamente in fader insieme alle calde armonie vocali

Falling
Sulla medesima falsariga si muove la successiva "Falling (Cadere)", canzone orecchiabile contaminata dall'affascinante sound degli anni Settanta. Un'eterea nebbia che esala dal castello di tastiere anticipa il riff portante di Geoff Downes dal piacevole retrogusto settantiano, ricamato dai caustici fraseggi di Mr. Elliott Randall. Ma per chi scrive il punto di forza della strofa è il brillante drumming di Mike Sturgis con suoi peculiari e strabilianti controtempi sul charleston. Con una linea vocale lorda di piccoli hook lirici e canori, John Payne ci parla di una relazione amorosa piuttosto complicata, quasi sull'orlo del baratro, ma tenuta in vita da un sottile filo che rischia di spezzarsi da un momento all'altro. Il nostro usa il falsetto nel bridge, i Supertrump sono dietro l'angolo e ci accompagnano verso il mellifluo ritornello dove perdura l'ossessivo pattern di tastiera. Dopo un breve break di organo dai sentori circensi, si continua; il brano scorre tranquillamente nonostante musicalmente risulti abbastanza monotono rispetto agli standard asiatici. Strofa bridge e ritornello vengono comandati dalle uggiose tastiere di Downes, è l'eccellente lavoro canoro di Payne a rendere il tutto più interessante. Dopo circa tre minuti un interludio strumentale spezza la monotonia. Geoff Downes crea un avvolgente limbo con le tastiere, dove danzano celestiali armonie vocali e ruvidi fraseggi di chitarra. Con classe, Sturgis fa crescere molto lentamente la tensione, spalancando poi le porte al ritorno dell'inciso che ci accompagna piacevolmente verso l'epilogo. Non siamo di fronte ad un brano fondamentale della discografia Asiatica targata Payne, ma questo non è sinonimo di pessima canzone.

Words
Il potente attacco di "Words (Parole)" ci fa intuire che il livello si innalza nuovamente, siamo di fronte ad un interessante brano che contiene alcune reminiscenze progressive già sentite su "Aqua" e oscure atmosfere a la "Aria". Il bellissimo pattern di pianoforte dai sentori gotici viene quasi oscurato dai fil di Mike Sturgis e dai power chord sparati da Aziz Ibrahim, che nella strofa fa calare la tensione con un solare strumming con la sei corde acustica. Epiche tastiere Yessane annunciano l'ingresso del Vocalist Di Luton, le liriche sono ridotte al minimo indispensabile ma lorde di profonde licenze poetiche e ci parlano dell'importanze delle parole in una relazione amorosa. Se sono sincere permetteranno ai due innamorati di invecchiare insieme e di assaporare tutte le essenze del rapporto, se si tratta di bugie, beh, lo sapete anche voi come andrà a finire. L'inciso è strumentale, l'ammaliante refrain di chitarra suona come un inno, che preso per mano dalle tastiere si insinua immediatamente nella nostra mente, vi sento, lo state già fischiettando. La strofa successiva viene impreziosita da spaziali fiammate di tastiera, poi dopo una seconda dose di ritornello arriva lo special, con lo scolastico salto di tono. Le tastiere ed il riffing hard di chitarra spingono in alto John Payne, che poi va ad interpretare con dolcezza l'ultima strofa, prima di disimpegnarsi egregiamente in un assolo di chitarra ben costruito a tavolino. Senza eccedere nell'autocelebratismo, Payne tocca le corde giuste, le note della chitarra si muovono sulla linea melodica disegnata dal basso e dalle tastiere risultando gradevoli all'ascolto. Nel ritornello successivo il tema portante di chitarra viene scimmiottato da un'armonia vocale dai sentori Aquatici che ci porta dritti verso il ritorno della oscura introduzione pianistica sentita nei primi istanti del brano che va ad annunciare il trascinante gran finale. Basso e chitarra guidano la carovana con un potente riffing all'unisono che trasporta inquietanti armonie vocali bombardate dalle fiammate della tastiera. Sul finale, John Payne va a riprendere il suo precedente assolo che molto lentamente va ad estinguersi in fader.

U Bring Me Down
Con i suoi oltre sette minuti, "U Bring Me Down (Mi Butti Giù)" è il secondo brano più lungo del platter e aggiungerei fra i più altisonanti. Il progressive torna prepotentemente a galla, i nostri mixano brillantemente nozioni Purpleiane e Zepelliniane con piacevoli venature di musica mediorientale ed un'altra gradita sorpresa. Il brano è firmato dal triunvirato Payne-Downes-Ibrahim, e la presenza di quest'ultimo affiora in maniera decisa nella parte centrale, dove il nostro ostenta con fierezza le sue origini pakistane. Dal castello di tastiere di Lord Downes esala una nebbia sepolcrale dove albergano affascinati trame di chitarra dai sentori arabeggianti che rievocano le fantastiche atmosfere di "Le Mille E Una Notte". Spoglio del basso, Mike Sturgis picchia duro come mai non aveva fatto e traccia la linea ritmica seguita dal terrorizzante ed ossessivo riffing all'unisono di chitarra e organo Hammond. Con un'ammaliante linea vocale, lorda di licenze poetiche e con una puntigliosa attenzione alla metrica, John Payne racchiude nei testi tutti i peggiori demoni che albergano sul pianeta Terra: invidia, egoismo, menzogna, denaro, industrializzazione. Sono questi tutti i mali che trascinano sul fondo l'essere umano, come dice il nostro nell'inquietante ritornello. Un rocambolesco passaggio all'unisono annuncia il primo cambio atmosferico. Calano i bpm, la scena è tutta per uno stratosferico Geoff Downes che ci ipnotizza con uno spaziale mix di suoni, Sturgis accompagna con delicatezza, gli accordi arpeggiati di Ibrahim armonizzano l'inquietante interpretazione di Payne che auspica una rivoluzione che riporti tutte le cose al posto giusto e cacci via tutti i maledetti demoni dal Pianeta, una rivoluzione dove gli ultimi diventeranno i primi, dice il nostro, citando passi importanti del Vangelo secondo Matteo ed accendendo una scintilla per un futuro migliore. L'ossessivo main theme ci riporta dritti verso l'inciso, stavolta arricchito da una trascinante coda dove John Payne esplora inaspettatamente l'universo del rap. Calano nuovamente i bpm e siamo risucchiati nuovamente nell'affascinate limbo creato da Geoff Downes, la magia della musica ci tiene sospesi fino a che un passaggio progressive guidato da Sturgis mette in bella mostra il riff portante di organo. Al minuto 04:40 sale in cattedra Aziz Ibrahim tastiera e batteria calano l'intensità, lasciando il palco al chitarrista di origine pakistane che ci ammalia come un incantatore di serpenti con un magico intreccio di chitarra acustica ed elettrica che rievoca le affascinanti melodie della tradizione musicale del Medio Oriente. Geoff Downes si aggiunge alla carovana guidata da Mike Sturgis con uno spettrale pattern di tastiera; se chiudiamo gli occhi, veniamo catapultati fra le torride dune di un deserto in groppa ad un cammello, all'orizzonte, delle palme verdeggianti nascondono l'inciso, lasciando che il cantato rappato di Payne ci accompagni lentamente verso l'epilogo. Questa trascinante coda viene arricchita da scintillanti fiammate di tastiere e da un caustico assolo di Aziz Ibrahim, che molto lentamente sfuma in fader, facendoci dimenticare che sono passati più di sette minuti di emozionante musica di gran classe. Chapeau.

Tell My Why
Si continua con "Tell My Why (Dimmi Perchè)", ottimo brano che stilisticamente si avvicina al brillante AOR di "Aria", dove troviamo il prezioso lavoro di tutti e tre i chitarristi presenti sul platter. Le paradisiache tastiere di Downes anticipano un ammaliante e cristallino arpeggio acustico che presumo sia opera di John Payne, che con una linea vocale di quelle che raggiungono prepotentemente il centro del cuore e ti entrano nel cervello, ci parla di come spesso i mezzi di disinformazione riescano a trasmette un innaturale ed inopportuno terrore che troppo spesso si trasforma in odio. Nonostante le liriche risalgano a più di cinque lustri fa' è incredibile come risultino ancora attuali; il terrore mediatico che ha caratterizzato questo ultimo scorcio ed i lavaggi del cervello che hanno tentato di farci negli ultimi periodi ne sono la prova, per fortuna, una piccola porzione della popolazione è riuscita a non cadere nel ben architettato tranello. Una dolce armonia vocale a la Yes annuncia l'inciso, dove trasportato dal brillante refrain di Aziz Ibrahim, Payne esterna tutti i suoi dubbi e chiede spiegazioni plausibili. Da brividi la strofa successiva, dove la sezione ritmica entra a pieno regime e le tastiere riempiono i pochi spazi vuoti lasciati dalle chitarre e dal basso. Il secondo inciso risulta più corposo, Aziz Ibrahim sporca con il distorsore il refrain di chitarra quanto basta per renderlo più interessante. Dopo una doppia dose di ritornello, arriva Elliott Randall con un breve ma caloroso refrain di chitarra che anticipa un bellissimo interludio strumentale comandato dall'organo Hammond, dove finalmente il basso di Payne, finora fin troppo in sordina, diventa protagonista, spianando la strada a Mr. Randall per un trascinante assolo di chitarra ricco di melodia e ben supportato dal convincente giro di basso e dalle epiche fanfare di Geoff Downes. Il brano sfuma lentamente in fader, confermando la regola del platter, che prevede brani raramente al di sotto dei cinque minuti che non risultano mai noiosi e si lasciano piacevolmente ascoltare fino all'ultimo secondo.

Turn It Around
Nei crediti di "Turn It Around (Cambiare Le Cose)" oltre al tirannico duo Payne-Downes compare anche Michael Sturgis, a cui è stata data gentilmente l'opportunità di contribuire alla composizione, ogni musicista ha in sé perlomeno una brillante composizione che merita di essere resa pubblica. La canzone trasmette quel piacevole senso di malinconia sempre presente sul precedente "Aria", esistono buone possibilità che il brano sia stato concepito intorno al 1994. Lo scolastico ma vincente refrain di tastiera sparato da Geoff Downes ti entra subito in testa, se vogliamo fare un paragone, è come quello di "Another Day In Paradise" di Phil Collins, talmente banale quanto bello, in grado di attirarti come un potente magnete. La linea vocale ammonente di Payne ci dice di lottare sempre a denti stretti per una gloriosa risalita. È una costante dell'essere umano quella di trovare le forze per poter risorgere quando tutto sembra perduto. Nella prima strofa il nostro dipinge un triste quadro che ritrae una città fantasma, forse resa tale da una calamità naturale. Purtroppo, l'essere umano ha da sempre dovuto combattere con le tremende vendette inflitte da Madre Natura, il Mondo ne è testimone e purtroppo anche il Bel Paese sovente ha dovuto fare i conti con la incontrastabile violenza della Natura, portata allo stremo dall'inarrestabile marcia del progresso industriale. Le tastiere ed il brillante drumming di Sturgis, ci portano dritti all'inciso, dove brillano le tastiere di Downes e traspariscono forti messaggi positivi che esortano alla rinascita. Il bellissimo intreccio delle chitarre emerge nella seconda strofa, che attraverso l'ammaliante bridge guidato dalle tastiere ci porta dritto verso l'inciso, che devo dire non è fra i più convincenti del repertorio Asiatico. Intorno al terzo minuto, Geoff Downes disegna un fiabesco limbo atto ad accogliere il suadente assolo di Elliott Randall. Il nostro lega le note con una naturalità disarmante, destreggiandosi fra le spaziali trame della tastiera. Quando il brano sembra esalare il suo ultimo respiro, le melanconiche tastiere di Downes e le tristi evoluzioni canore di Payne allungano il brodo per un ulteriore minuto.

Bella Nova
I nostri ci salutano con "Bella Nova", una strumentale made in Geoff Downes dall'affascinate titolo che rievoca le opere dantesche ma allo stesso tempo i misteri del cosmo. Per definizione la "nova" è "un'enorme esplosione nucleare causata dall'accumulo di idrogeno sulla superficie di una nana bianca, che fa sì che la stella diventi molto più luminosa del solito". È doveroso specificare che il termine "nova" può indicare sia la causa del fenomeno sia la stella stessa al momento dell'esplosione. Curiosamente John Payne, ha inserito l'affascinate licenza poetica "Bella Nova" nella parte finale della title track. Musicalmente parlando, "Bella Nova" si avvicina molto ad una calorosa carola natalizia, con le dolci e squillanti tastiere ritmate dai freddi battiti della drum machine. Il brano riesce ad emanare messaggi lordi di positività, che bene o male è il contesto di tutto il platter. Le squillanti tastiere di Geoff Downes hanno lo stesso effetto dei tiepidi raggi solari che si fanno strada dopo una intensa nevicata, valorizzando al massimo uno degli spettacoli più belli offerti da Madre Natura. È possibile che il main theme risalga ad uno dei vecchi jingle pubblicitari scritti in passato da Geoff Downes, perché sinceramente le simpatiche calorose e scintillanti melodie del brano si avvicinano sicuramente di più ad un jingle pubblicitario o ad una colonna sonora per documentari che ad un brano degli Asia. Con tutto il rispetto, se fossi costretto a votare il brano che meno mi piace dell'intera discografia Asiatica, voterei per questo, simpatico e carino sì, ma inconcludente. Quando affronteremo le recensioni delle due raccolte denominate "Archiva" vi renderete conto che sono state scartate alcune composizioni nettamente superiori a questa, per chissà quale motivo.

Conclusioni
Se l'album si fosse mantenuto sugli altissimi livelli di "U Bring Me Down" e "The Day Before The War" che si candida prepotentemente come miglior brano Asiatico dell'era Payne, ci troveremmo di fronte ad un vero e proprio master pièce. Non fraintendetemi, "Arena" è un album più che discreto, ma lo trovo meno compatto ed omogeneo rispetto ai due precedenti. Oltre ai due brani sopracitati ci sono almeno altri quattro pezzi di alto livello, mentre il resto della track list, pur non essendo male non riesce ad incidere in quella maniera brillante come i nostri ci hanno ormai abituato dall'avvento del nuovo frontman. Detto questo, è più che gradito il ritorno alle sonorità progressive, che nel corso degli anni si erano affievolite. È possibile che la sensazione di una amalgama meno incisiva rispetto ad "Aria" sia dovuta alla mancanza di un vero e proprio chitarrista di ruolo, anche se è doveroso sottolineare che i due chitarristi ospiti sono musicisti di alto livello. Aziz Ibrahim ha portato un'affascinante ventata di profumi speziati mediorientali nelle nuove composizioni e dimostra classe e tecnica nonostante non sia fra i chitarristi più conosciuti del Pianeta, come lo è invece il collega di reparto Elliott Randall, un musicista poliedrico dal tocco raffinato, capace di spaziare in maniera disarmante da un genere all'altro e che spruzza piacevoli note jazzate in qua e là. Anche John Payne dà il suo apporto con le chitarre, sia ritmica che solista, disimpegnandosi in maniera più che soddisfacente. La sua prestazione alle quattro corde invece è meno appariscente rispetto al passato. Sulle sue capacità canore invece, ormai da tempo non ci sono dubbi, è un grande vocalist. Come sempre, a dominare sui dischi degli Asia sono le tastiere di Geoff Downes, vera colonna portante di ogni singolo brano. Più che passa il tempo e più mi convinco che Michael Sturgis è un grande batterista, raffinato ma anche potente quando le circostanze lo richiedono. Registrato fra giugno e dicembre del 1995 presso gli Electric Palace Studios di Londra, "Arena" è stato rilasciato dalla Bullet Proof il 17 Febbraio del 1996 per il mercato giapponese e il 4 Marzo del medesimo anno in Europa e Regno Unito. Clamorosamente ed inconcepibilmente l'album non fu rilasciato per il mercato degli Stati Uniti, ragion per cui i nostri decisero di non allestire un tour a supporto di "Arena", un vero peccato aggiungerei io. Come ormai di consuetudine, nel 1998 la Snapper Music ha rilasciato la sua versione con il brano "The Season" come bonus track, brano che analizzeremo accuratamente con le prossime recensioni. Come sempre è più ricca la versione rilasciata dalla Inside Out Music nel 2005, che oltre all'inedito "The Season" contiene una sorprendente versione acustica di "Two Sides Of The Moon". L'esotica produzione è opera dell'ormai consolidato duo Downes-Payne, coadiuvati dall'ingegnere del suono John Brough. Per l'artwork i nostri si sono affidati nuovamente al geniale Rodney Matthews, che aveva già lavorato con la band in occasione di "Aqua". Viste le calde e affascinati sonorità influenzate dalla musica latina e medio orientale, l'Artista di Paulton ha optato per un dipinto dove domina il color arancio, in tutte le sue svariate sfumature che svariano dal giallo ad un marrone tenue. Per apprezzare al cento per cento l'opera è necessario aprire il booklet per esteso. Nella prima pagina il protagonista è uno splendido esemplare di leone alato che osserva un paesaggio alieno, dove librano in cielo strane macchine volanti che ricordano vagamente i mezzi volanti Covenant della serie videoludica Halo. Prospicente alla fiera, sopra un'altra roccia troviamo un minaccioso esemplare di cobra dalle sembianze aliene. Sullo sfondo possiamo intravedere una città fra le montagne, mentre in cielo una serie di inquietanti lune teschiformi, mentre si allontana in prospettiva, gradualmente prende la forma del caratteristico simbolo del nucleare, realizzato nel 1946 presso il Radiation Laboratory dell'Università della California. In basso il titolo dell'album in un affasciante font appositamente ideato da Matthews, mentre in alto campeggia il logo storico della band made in Dean. Nel back su una riproduzione in rosso del disegno, campeggia la track list in giallo. L'artwork è stato assemblato poi dal tecnico grafico Brian Burrows. Nonostante siamo di fronte ad un ottimo prodotto, l'uscita quasi in sordina di "Arena" non portò risultati di vendita incoraggianti fatta eccezione di una onorevole quarantottesima posizione raggiunta in Giappone e una posizione numero cinquanta in Svizzera. Detto questo, pur essendo un album che ho ascoltato molto e ascolto tutt'oggi, se pur la classe non manca, lo trovo un pelino al disotto dei due suoi predecessori, ma visto l'eccellente qualità di alcuni brani, non posso esimermi dall'affibbiare una valutazione alta. "The Day Before The War" da sola vale il prezzo del biglietto. Consigliatissimo a chi da tempo auspicava un ritorno al progressive da parte dei nostri e a tutti coloro che amano le venature latine e mediorientali inserite ad arte nella musica rock.

2) Arena
3) Heaven
4) Two Sides Of The Moon
5) The Day Before The War
6) Never
7) Falling
8) Words
9) U Bring Me Down
10) Tell My Why
11) Turn It Around
12) Bella Nova


