ASIA
Archiva 1
1996 - Resurgence Records
SANDRO PISTOLESI
01/12/2022
Introduzione Recensione
Ci eravamo lasciati con un gradito ritorno al progressive rock da parte degli Asia, ma purtroppo le affascinati sonorità contaminate dalla musica etnica non riuscirono a risollevare gli Asia come avrebbero meritato. Con la scena musicale in continua evoluzione, ormai i nostri si stavano lentamente tramutando in una sorta di gruppo di nicchia, seguito da pochi irriducibili fan, come il sottoscritto. Ma come recita un atavico proverbio, "al peggio non vi è fine". Alla fine dell'Inverno del 1995 un freddo innaturale si abbatté sulla città di Londra, dove era ubicato lo studio personale degli Asia, l'Electric Palace. Fu uno degli Inverni più rigidi della recente storia dell'Europa causato da una gelida ondata di correnti glaciali provenienti dalla zona artica russa. In molti si ricorderanno l'eccezionale nevicata dell'Aprile del 1995 che imbiancò inaspettatamente gran parte dell'Italia. Ma torniamo nelle fredde lande della terra di Albione. Le bassissime temperature, ben al disotto dello zero, causarono prima il congelamento e poi la rottura di una tubatura dell'acqua al piano superiore dell'Electric Palace, con susseguente disastroso allagamento che causò tragicamente la quasi totale distruzione delle preziose e tecnologiche attrezzature. Il Primo Gennaio del 1996, John Payne e Geoff Downes, al rientro dalle vacanze invernali, decisero di recarsi allo studio per registrare del nuovo materiale. I due musicisti furono invasi da una sensazione di orrore ed impotenza quando una volta aperta la porta dello studio videro oggetti che galleggiavano in un a sorta di laghetto artificiale, e migliaia di sterline in attrezzatura andati in fumo, o meglio, in acqua. I due si rimboccarono le maniche ed una volta eliminata l'acqua, cercarono di salvare il salvabile. Fra le poche cose che non furono danneggiate, emerse una scatola contenenti vecchi nastri dove i due avevano archiviato canzoni e idee che non erano rientrate nelle track list dei primi tre album dell'era Payne. Invero l'archivio conteneva anche vecchie registrazioni di Downes e di Payne, risalenti al periodo pre-Asiatico. Con gran parte dell'attrezzatura distrutta, i due pensarono di recuperare qualche sterlina con l'unica cosa che era riuscita a sfuggire all'inesorabile forza distruttiva dell'acqua. Si misero alacremente al lavoro su quei vecchi nastri presso i Loco Studios ubicati nel Monmouthshire, affascinante contea del Galles, non lontano da dove vive Geoffrey Downes. Il lavoro portò alla luce ben ventiquattro tracce inedite che vennero racchiuse in due raccolte ben distinte e pubblicate l'una a pochi giorni di distanza dall'altra e denominate "Archiva1" e "Archiva 2". Chissà se senza lo spiacevolissimo incidente della tubatura, questi brani sarebbero venuti mai alla luce, forse tutto il male non vien per nuocere. Questa tipologia di antologia è il sogno di ogni fan, molto meglio dei tradizionali greatest hits rilasciati durante il periodo natalizio che offrono poco o nulla dal punto di vista delle novità. I cultori più accaniti della music rock vanno sempre a caccia di introvabili rarità e stavolta Downes e Payne ce le servono su un piatto d'argento, per di più in doppia dose. Cosa chiedere di meglio. È chiaro che prodotti del genere contenenti vecchie demo e canzoni scartate dalle track list degli album in studio non sono paragonabili ad un vero e proprio album di inediti, anche se pur di questo si tratta, visto che i due "Archiva" non includono remix, versioni live o unplugged di brani già sentiti, fatta eccezione della già sentita b-side "Reality" e di qualche traccia che era precedentemente apparsa sul secondo album in studio di Downes risalente al 1992 ed intitolato "Vox Humana", canzoni che però all'epoca non erano state cantate da John Payne, che comunque dette il suo contributo su un paio di tracce. In questo affascinate percorso oltre che a musicisti che avevamo dimenticato e gradite ricomparse, incontreremo alcune canzoni destinate a finire nel dimenticatoio, ma scavando a fondo troveremo anche qualche piccolo gioiello che non ha affatto meritato di rimanere fuori da un album, rischiando di non venire mai alla luce. Iniziamo dalla prima delle due raccolte, "Archiva 1".
Heart Of Gold
L'opener di un disco spesso può essere determinate per l'acquisto del medesimo e gli Asia sparano subito una delle loro migliori cartucce, "Heart Of Gold (Cuore D'Oro)". Si tratta della seconda canzone in assoluto composta da Downes e Payne durante le sessioni di "Aqua", precisamente nel Giugno del 1991 presso gli Advision Studios di Brighton, poi a causa di una sovrabbondanza di composizioni è rimasta fuori dalla track list definitiva dell'ottimo album che vide il debutto di John Payne alla voce. Venne composta immediatamente dopo "Lay Down Your Arms", e direi che stilisticamente le due canzoni sono molto simili, orientate verso un ammaliante AOR ricco di melodia. Il brano si apre con un raffinato refrain all'unisono sparato dalle chitarre di Al Pitrelli e dallo special guest Anthony Glynne, che all'epoca dette un piccolo contributo su "Aqua". Subito dopo arriva il riff portante, bombardato dai colpi della sezione ritmica, seguito da un mesto pattern di pianoforte che annuncia l'avvento della strofa, che inizialmente gira ad un numero di bpm ridotto. Le liriche, positive ed ambientaliste si riallacciano a "Who Will Stop the Rain?", ripercorrendo però il cammino dell'uomo, che è stato abile a sopravvivere nel tempo a differenza di altri animali, sfruttando la propria intelligenza ed una incredibile capacità di adattarsi alle circostanze. Ma i valori che hanno contribuito alla sopravvivenza e alla crescita della razza umana hanno causato anche molti errori che si ripercuotono sulle generazioni future. Nel bridge il drummer Nigel Glockler aumenta i giri del motore, preparando la strada al solare ritornello, interpretato con una discreta dose di istrionismo da John Payne, peculiarità che il nostro ha saputo sapientemente limare con il passare degli anni. L'inciso è lordo di messaggi positivi ed invitano l'essere umano a cercare risultati per una rinascita nel cuore d'oro, lasciando momentaneamente da parte la mente d'acciaio. Con il secondo passaggio della strofa apprezziamo il grande lavoro tastieristico di Geoff Downes. Il successivo ritornello viene riproposto in doppia dose ed impreziosito da stuzzicanti controcanti. Subito dopo troviamo un bellissimo assolo di chitarra di Mr. Pitrelli, che come sempre tocca le giuste corde. È poi il turno di Geoff Downes, il pattern di tastiera sembra provenire dal passato, rievocando i fasti gloriosi del supergruppo albionico. Dopo un ultimo passaggio dell'inciso, i nostri ci salutano con un'ammaliante limbo dove le note delle chitarre e del pianoforte danzano leggiadre come farfalle su un campo fiorito in Primavera.
Tears
"Tears (Lacrime)" è un pop rock ottantiano lordo di tastiere e melodia firmato Downes-Warman risalente al Febbraio del 1988 e che avevamo già sentito nel 1992, in quanto presente sull'album solista di Geoff Downes intitolato "Vox Humana". All'epoca la canzone era cantata da Max Bacon, brillante ugola dei GTR. Inevitabilmente ci sono sostanziali differenze fra le due versioni, visto e considerato che le timbriche di Bacon e Payne possono considerarsi agli antipodi, cristallina la prima, piacevolmente sporca la seconda. Se comunque dovessi scegliere fra le due, voto per la versione originale. Qui il nuovo mixaggio mette in evidenza i glissati del basso e il riffing di chitarra di Payne, ma stranamente vengono eliminate un bel po' di tastiere affievolendo quel piacevole retrogusto eighties. Le liriche lasciano il tempo che trovano e puntano su banali licenze poetiche che hanno però il potere di far colpo sull'ascoltatore. Le lacrime che scendono copiose sono il risultato di una delusione amorosa, si parla di un rapporto di coppia volto al tragico epilogo, epilogo che entrambi le parti non hanno assimilato in egual maniera. Semplici frasi adolescenziali del tipo " Dove vai quando l'Estate è finita?", "Puoi vedere i miei sogni sul pavimento" e "Riesci a guardare il cielo quando il Sole non splende?" riescono comunque in maniera esaustiva a farci capire lo stato d'animo del protagonista, che senza la sua amata è scivolato in un oscuro baratro senza fine. L'interpretazione teatrale di Payne appare forzata rispetto al naturale e brillante cantato di Bacon. Ma quel che più perplime è la scelta di esecuzione del primo inciso, brillante con tastiere sfavillanti e solari armonie vocale l'originale, oscuro nella versione Asiatica, con un riffing di chitarra e un tappeto minimale di archi in sottofondo ad accompagnare la nuda voce di Payne. Purtroppo, quando siamo abituati a sentire una canzone da anni, certe licenze musicali possono essere fonte di fastidio. Sicuramente chi non conosce la versione originale apprezzerà di più la canzone, ma a me ha fatto uno strano effetto. Ad ogni modo, il brano scorre comunque liscio e veloce, con la batteria di Glockler che prende fiato nelle avvolgenti strofe, lasciando spazio alle tastiere. La sensazione di disagio provata in precedenza viene in parte smorzata nel secondo ritornello, dove se pur meno incisive troviamo le solari armonie vocali femminili a dar manforte ad un Payne che stranamente pare spaesato nell'eseguire un brano che evidentemente non è nelle sue corde. Il ritornello viene proposto a più riprese, con gli istrionici vocalizzi di Payne che ben si intrecciano con le luminose armonie vocali, il tutto ricamato sapientemente dalle tastiere di Downes. Il brodo viene allungato con una fin troppo prolungata sfumatura in fader. La canzone in origine è stata registrata presso gli Advision Studios di Londra.
Fight Against The Tide
Sin dal primo ascolto, "Fight Against The Tide (Combatti Contro La Marea)" mi ha ricordato il brillante AOR sinfonico di Robby Valentine, talentuoso polistrumentista olandese chiaramente ispirato da Queen, E.L.O. e Beatles, e di conseguenza suddette influenze vengono prepotentemente a galla in questo brano che porta la firma di John Payne e Andy Nye, registrato nell'Agosto del 1991 presso gli Upstairs at Andy's Studios di proprietà di quest'ultimo, che si è occupato anche del drum programming oltre a suonare alcune tastiere aggiuntive. La canzone era stata composta durante le sessioni di "Aqua", ma sinceramente così com'è la trovo in netto contrasto con le affascinanti sonorità dell'album e trovo giusto che sia finita in questa raccolta di archivi perduti. Interessanti le liriche che attraverso intelligenti licenze poetiche lanciano forti messaggi di positività, che ci esortano a combattere duramente quando tutto sembra andarci contro, in modo da poter salvarsi in corner e tentare una dura risalita verso la gloria. Si parte con un Queeneiano inciso intonato a cappella, dove i nostri ci esortano a lottare duramente contro la forza incontrastabile della marea, se riusciremo ad uscire indenni, sopravviveremo a qualsiasi cosa. Forse il paradigma per eccellenza per lanciare un messaggio positivo. Di seguito un mellifluo pattern di tastiera accompagna la triste linea vocale di Payne, i Beatles sono dietro l'angolo e si fanno più presenti con l'avvento della drum machine. Improvvisamente un brioso movimento operistico delle tastiere rompe l'idilliaca atmosfera dai sentori natalizi. Le evoluzioni pindariche di Downes vengono accompagnate dalla chitarra elettrica, poi un innaturale abbassamento dei bpm ci porta dritti verso l'inciso, dove l'istrionica interpretazione di Payne viene ben sorretta dal pianoforte e ricamata da Disneyane armonie vocali. La strofa successiva si fa più energica grazie ad un immenso lavoro del Tastierista di Stockport. Nel successivo brillante interludio operistico, Payne si disimpegna con un tagliente assolo di chitarra, mettendo nel mirino l'inconfondibile stile di Sir Bryan May. L'assolo di chitarra lascia poi il campo alle tastiere, i funambolici passaggi sui denti d'avorio da parte di Downes ricordano uno stormo di uccelli che si libra in volo, colorando il cielo con fantastici disegni. L'artificioso rallentamento della drum machine (vero e proprio punto debole del brano) riporta la calma. Le note della tastiera diffondono una pace paradisiaca, poi un crescendo Rossiniano ci porta verso una versione operistica dell'inciso, con armonie vocali d'altri tempi a fare da eco ad un John Payne in versione eunuco; il nostro una volta indossata la sua abituale veste da teatro, ci accompagna poi verso l'epilogo, lasciato nelle mani di Downes, che ci saluta con una dolcissima e tenera ninna nanna. La canzone suona più come un simpatico tributo verso tre grandi band che senza ombra di dubbio hanno influenzato John Payne.
We Fall Apart
Passiamo ora a qualcosa di più recente, "We Fall Apart (Cadiamo A Pezzi)" è una composizione firmata Payne-Downes datata Marzo 1995. Registrata presso gli Electric Palace Studios di Londra è stata una delle prime canzoni composte per "Arena". Nelle note del booklet i nostri ci dicono che è stata esclusa dalla track list definitiva a causa delle atmosfere troppo industrial rispetto agli standard dell'album. Bè, essendo un grande fan dei Rammstein oltre che degli Asia, penso che le sonorità industrial siano tutt'altra cosa. Io parlerei più di un piacevole elettropop che a tratti rievoca reminiscenze ottantiane che possono condurre verso i Duran Duran e gli Alphaville dei tempi d'oro, mentre condivido in pieno la nota che sottolinea la bellissima interpretazione di Payne a tratti molto vicina allo stile del Duca Bianco. Qualche venatura industrial la capto invece nelle liriche, stranamente criptiche e cupe rispetto agli standard Asiatici. Testi gotici che trasmettono messaggi ambientalisti ed una gran vogli di rinascita, una voglia di riportare in alto i valori che l'uomo si è perso per strada durante un percorso caratterizzato dal progresso e dall'industrializzazione. Le nuove generazioni devono trovare la forza di sfondare il sottile guscio del muro del progresso, prima che l'intera umanità cada in maniera definitiva, con poche possibilità di risorgere. La canzone praticamente non è stata nemmeno presa in considerazione una volta determinata la line-up di "Arena"; quindi, troveremo una glaciale drum machine made in Downes, mentre le parti di chitarra sono suonate da John Payne. Sin dai primi istanti siamo assaliti da una tempesta elettronica trascinata da un vellutato tappeto di tastiera. Gli oscuri suoni della tastiera e le pastose note del basso cercano di dare vita ai freddi battiti della drum machine. Nella strofa dove regna l'elettronica, la tetra linea vocale di Payne viene impreziosita da suadenti e delicati falsetti a la David Bowie. Si respirano arcane atmosfere lontane anni luce dal peculiare sound Asiatico, che però viene fuori nell'inciso, dove nonostante perduri il predominio elettronico, riusciamo a percepire le calde atmosfere di "Arena". Il brano scorre piacevolmente, con interessanti fraseggi di basso che tentano di farsi largo nella marea elettronica. Dopo il secondo ritornello troviamo un avvolgente interludio strumentale che grida ai quattro venti eighties. Le pompose tastiere duellano con sferraglianti schitarrate a la Andy Taylor; alla battaglia si unisce poi uno stralunato assolo di chitarra. Le note sparate da Payne, rimpinzate all'inverosimile di effetti, vanno a esplorare sonorità che si erano perse nel tempo, rievocando quei peculiari glaciali assolo del pop rock ottantiano. Un rocambolesco passaggio all'unisono, guidato da una drum machine programmata in maniera impeccabile, annuncia un ultimo passaggio del solare ritornello, con i suoi forti messaggi positivi che esortano le nuove generazioni a lottare per risollevare la razza umana. I nostri ci salutano con una fredda coda strumentale, dove i caustici fraseggi della chitarra e le stellari tastiere sfumano lentamente in fader.
The Mariner's Dream
"The Mariner's Dream (Il Sogno Del Marinaio)" è una brevissima strumentale firmata John Payne, nata nel Marzo del 1994 durante le sessioni di "Aria". Rimasta poi in stand by, è stata portata a fine nel 1996 nei Locos Studios in Galles. Si tratta di una struggente escursione sulla chitarra acustica a la Steve Howe, accompagnata timidamente dalla drum machine e dalle tastiere di Geoff Downes. È veramente un peccato che questa triste ed emozionate melodia acustica non sia stata sviluppata per dar corpo ad una canzone più lunga e completa perché nonostante non sia arrivi al minuto e mezzo, le melanconiche note della sei corde acustica di Payne riescono ad emanare intense vibrazioni e a dare una buona dose di emozioni. Quando si dice "toccare le corde giuste". Payne mixa perfettamente un triste arpeggio dai sentori gotici, supportato in maniera raffinata dal basso, con una intricata esecuzione solista sempre rigorosamente acustica che lascia affiorare in qualche maniera influenze spagnoleggianti, pur mantenendo sempre un'aura triste e sinistra. Nonostante l'effimera durata, il brano non passa di certo inosservato.
Boys From Diamond City
Passiamo ora ad uno dei pezzi più altisonanti di questo affasciante florilegio, "Boys From Diamond City (I Ragazzi Della Città Di Diamanti)" è una vecchia composizione risalente al 1987, scritta da Geoff Downes e Andy Warman per l'effimera formazione del dopo "Astra" con John Wetton, Mike Sturgis e Scott Gorham. In origine fu cantata sia da John Wetton che da Max Bacon, ma fu portata a termine solamente nel 1988 presso gli Advision Studios di Londra e guarda caso la versione finale fu ben interpretata da John Payne, un chiaro ed inequivocabile segno del destino. Siamo di fronte ad un dinamico pezzo hard rock lordo di tastiere e melodia e con una buona dose di cattiveria conferita dalla chitarra di Scott Gorham e dal martellante drumming di Mike Sturgis ben supportato dal basso. Downes apre con una dolce e fiabesca introduzione di tastiera che lentamente si avvicina al riffing portate formato da un perfetto mixing di chitarra e tastiera. L'incessante drumming di Sturgis colorato dal basso rende più accattivante il brano. Con una linea vocale grintosa, trasportato dai power chord, Payne ci parla dei ragazzi della città di diamante, ovvero gli amanti della musica rock. Ai tempi odierni non è più così, ma qualche decennio fa, rocker, metallari e punk non erano ben visti dalla società, il mitico e adoratissimo Eddie Munson di Stranger Things ne è l'esempio lampante. Costretti ad una vita underground a venerare i loro idoli, questi giovani rockers brillano però come preziosi diamanti nascosti nelle viscere della Terra. L'abito non fa il monaco, e anche se il maligno è presente in ogni angolo del Pianeta, solitamente dietro al duro look di un metallaro si nasconde una persona d'oro. Il brillante bridge ci porta dritti all'accattivante ritornello, con un graffiante riff di chitarra che lotta con le diamantine note della tastiera. Dopo un secondo passaggio di strofa-bridge-ritornello troviamo un bellissimo assolo di chitarra; Scott Gorham mixa la grinta dell'hard'n'heavy alla melodia, dando un tocco suggestivo con il mitico tremolo, ultimamente considerato un effetto desueto ma molto in voga nei mitici eighties. Al minuto 03:41 l'ira degli strumenti si placa, sale in cattedra Geoff Downes che dà vita ad un avvolgente limbo. Le tastiere tornano a disegnare quelle fiabesche atmosfere disneyane sentite ad inizio brano. Con raffinatezza John Payne interpreta le poche righe, mentre i preziosi intarsi chitarristici di Gorham sono vicini come non mai al peculiare stile di Steve Howe. Dopo questo affasciante interludio, il brano con un crescendo Rossiniano si avvicina al ritornello, riproposto prima in versione strumentale dove dominano le tastiere di Downes, per poi salutarci nella sua veste naturale evaporando lentamente in fader.
A.L.O
L'acronimo "A.L.O." sta scherzosamente per Asiatic Light Orchestra. Infatti, la canzone, scritta da John Payne e Andy Nye nel Settembre del 1989 e registrata presso gli Upstairs At Andy's Studios, era stata concepita per il progetto E.L.O. Part II, al quale era in procinto di partecipare John Payne. Il titolo originale era "Quest For The Key" ed il produttore Jim Steinman era molto entusiasta del brano. Poi, la lunga diatriba ricca di acredine fra i vari membri degli E.L.O. relativa al nome del progetto, fece saltare i nervi a Payne, che declinò gentilmente l'invito ed accettò l'allettante offerta di Geoff Downes di entrare a far parte degli Asia. Durante le sessioni di "Aria" il brano fu rispolverato, ma per fortuna non fu inserito nella track list finale, sottolineo per fortuna, in quanto al contrario del produttore Jim Steinman, il brano non mi entusiasma per nulla, anzi?. Siamo di fronte ad un brillante quanto banale rock'n'roll a la Elvis Presley, inopportunamente colorato da sinfonici pad orchestrali in pieno stile E.L.O., che rendono il brano una sorta di divertente parodia dei medesimi. I violini di Downes trillano nell'aria insieme ad una avvolgente armonia vocale, il che potrebbe essere interessante, se non venisse spazzato prepotentemente via dallo scolastico riffing di chitarra sparato da Payne, tallonato da un martellante pianoforte in stile honky tonk. I tre banali accordi di chitarra vengono trascinati da una fin troppo veloce drum machine. Nell'inciso, supportati dalle sedicesime sparate dal basso, i luciferini violini scalzano momentaneamente dal palco la chitarra elettrica colorando armonie vocali d'altri tempi. Per interpretare al meglio il brano, John Payne si traveste da Elvis The Pelvis, e con tanto di nostalgici vocalizzi in stile anni Cinquanta. Le liriche sposano in pieno la banalità della musica e attraverso dozzinali licenze poetiche ci illustrano una storia d'amore non del tutto corrisposta collocata negli anni'50, con tanto di brillantina, mocassini scamosciati e pantaloni di velluto a coste larghe. Ovviamente il tutto si svolge in un convenzionale venerdì sera dell'epoca, scomodando come se non bastasse due icone degli Stati Uniti come Marilyn Monroe e Jimmy Dean. La chiave agognata presente nel titolo primordiale del brano, è quella che serve ad aprire il cuore di una bella quanto irraggiungibile ragazza. Questi 3:41 minuti sembrano durare un'eternità, fino all'innaturale e brusco rallentamento della drum machine che annuncia il sospirato epilogo. Meglio passare oltre.
Reality
Decisamente meglio, ma non ci voleva molto, la successiva "Reality (Realtà)" canzone risalente al Novembre del 1993 e firmato Downes-Payne. Il brano, registrato ai Parkgate Studios di Catsfield e che rievoca il brillante synth pop dei The Buggles, non è un vero e proprio inedito, in quanto fu scelto come b-side del primo singolo tratto dall'album "Aria" "Anytime". Nonostante siamo di fronte ad una discreta canzone, penso che la scelta di estrometterla dalla track list finale di "Aria" si condivisibile in pieno, poiché è lontana anni luce dall'oscuro ed avvolgente sound che pervade su tutto l'album. I primi colpi di batteria di Mike Sturgis ricordano forse volutamente l'incipit di "Take On Me" degli A-ha, altra band che ha influenzato chiaramente le frizzanti sonorità eighties della canzone. La progressione di quattro accordi che compone il riff portante era il frutto di un'idea su cui stava lavorando John Payne, poi è stata rielaborata in chiave tastieristica da Geoff Downes, il quale ha confessato che dopo la prima registrazione, la band non ha dedicato poi molto tempo al brano, limitandosi a pochi ritocchi durante il mixaggio. John Payne riesce a districarsi bene dalla ragnatela di suoni spaziali sparati da Downes, addentrandosi negli affascinati meandri della realtà virtuale e mettendo nel mirino pay-tv e sistema, che con messaggi subliminali trascinano al di fuori della realtà molti giovani, facendogli vedere ciò che vogliono vedere e sentire ciò che vogliono sentire. Payne con messaggi positivi esorta i giovani a trovare forza e coraggio per rimanere ancorati alla loro realtà, seguendo i propri pensieri ed evitando di farsi trascinare fuori strada dai canali di disinformazione. Nell'inciso guidato dai glaciali accordi distorti che odorano di sintetico sparati da Al Pitrelli, salta fuori l'affascinate e robotico vocoder di Geoff Downes, suo peculiare vecchio compagno di mille battaglie, che devo dire si sposa perfettamente con le fantascientifiche sonorità della canzone, la quale si lascia ascoltare piacevolmente, sfruttando la marea elettronica dispensata da Downes e forse la mediocrità della traccia precedente. Al minuto 02:49 con una maestria disarmante, Al Pitrelli riesce a incastonare perfettamente un assolo di chitarra rock in un contesto prettamente elettronico, sfruttando fraseggi lordi di melodia e chiudendo perfettamente con un brillante finale Van Haleniano. Successivamente il brano si calma in maniera surreale, dal castello di tastiere di Lord Downes esala un'eterea nebbia; Sturgis fa crescere il brano fino al ritorno dell'inciso, con il vocoder ed i suoi robotici "Reality" che sfumano lentamente in fader.
I Can't Wait a Lifetime
Si continua con "I Can't Wait a Lifetime (Non Posso Aspettare Una Vita)", struggente ballata orchestrale firmata Payne-Nye e risalente al Maggio del 1989. Registrata presso gli Upstairs At Andy's Studios, è stata presa in considerazione per entrare a far parte delle track list finali di "Aqua" e "Arena". Con i dovuti ritocchi, stilisticamente aveva le potenzialità per essere inserita nel primo long playing dell'era Payne, ma c'erano fin troppe ballate di ottimo livello e fu estromessa. Con il caloroso sound di "Arena" ha poco a che vedere; quindi, rimase chiusa in una scatola fino a che Poseidone decidesse che era giunto il suo momento. Per un arrangiamento più emozionale, venne presa in considerazione l'idea di ingaggiare un vero quartetto d'archi in modo da enfatizzare al massimo le atmosfere classicheggianti, ma l'idea naufragò quando la band decise di estrometterla da "Aqua". Geoffrey Downes apre le danze con una triste trama di archi, aiutato dal collega Andy Nye, che si è occupato anche della programmazione della drum machine, mentre stando ai credits, le per me impercettibili parti di chitarra sono suonate da John Payne. Con una discreta interpretazione, Payne sposa le tristi atmosfere delle tastiere e ci parla di un amore non corrisposto. Il cuore batte forte per una ragazza che le ha rubato letteralmente la vita, come dice il nostro con un importante salto di tono nel bridge. Nonostante la tristezza delle liriche, l'inciso è solare, valorizzato dalle inconfondibili fanfare di Downes. I freddi colpi della drum machine cercano di dare energia e spingere il più alto possibile Payne, che ormai esausto, grida ai quattro venti che non è più disposto ad aspettare. Nella seconda strofa, Downes aggiunge un solenne pattern di tastiera che sprigiona tristezza da tutti i pori, prima che le fanfare ed i controcanti dell'inciso tornino a far splendere un timido e pallido Sole. Il brano si avvia tristemente verso l'epilogo. È fin troppo evidente, che per finire su uno dei due album per i quali è stata presa in considerazione, la canzone aveva bisogno di molti ritocchi, in primis un batterista in carne ed ossa e una sontuosa partitura di chitarra a contrastare la tristezza dei pad orchestrali, oltre che ad un assolo di chitarra e qualche altra trovata geniale made in Downes.
Dusty Road
"Dusty Road (Strada Polverosa)" è la rivisitazione di una vecchia traccia strumentale risalente al Gennaio del 1988 che Geoffrey Downes aveva composto in occasione di un clinic presso gli Studios della Yamaha. Il titolo originale era "Burning Chrome". Successivamente Max Bacon provò a scriverci sopra un testo e lentamente il brano iniziò a prendere forma, smettendo le vesti di canzone strumentale. La canzone fu poi ultimata presso gli Advision Studios di Londra, con John Payne alla voce ed al basso, il carneade Adrian Dessent alla chitarra e Nigel Glockler dietro al drum set. Siamo di fronte ad un brano dalle affascinatni atmosfere eighties che a mio avviso è rimasto nascosto ingiustamente per troppo tempo. La canzone ha enormi potenzialità e mi sarebbe piaciuto fosse stato preso in considerazione ad esempio per "Aqua", chissà cosa ne sarebbe venuto fuori con l'apporto di due estrosi chitarristi come Steve Howe ed Al Pitrelli. Nei primissimi secondi la canzone lascia intuire facilmente che era nata come brano strumentale. Le brillanti note della tastiera che suonano come un jingle pubblicitario, lasciano poi la scena ad un ammaliante refrain di chitarra che sembra provenire direttamente dagli inizi degli anni Ottanta. La tastiera poi va a riprendere brillantemente la linea melodica disegnata in precedenza da Adrian Dessent, emergendo sull'intricata ragnatela elettronica costruita da Mr. Downes. L'arcana linea vocale di Payne ci porta lungo una strada polverosa, ovvero uno di quei tanti momenti della vita in cui tutti ci gira contro, ma il nostro non si perde d'animo e ci esorta a cercare forza e coraggio per andare avanti in modo da raggiungere la luce in fondo al tunnel. Nel bridge, vellutati power chord fanno crescere l'intensità e spalancano le porte al ritornello, decisamente ottantiano, con dolci armonie vocali che si intrecciano con il grande lavoro tastieristico del Maestro Downes. Dopo un secondo passaggio di strofa e bridge, che devo dire non sono affatto male, troviamo un arcano interludio strumentale. Fiammate di tastiera cercano di far luce nella tenebrosa nebbia che è piombata sul brano, preparando la strada ad Adrian Dessent, che si prende qualche secondo di gloria con un effimero assolo di chitarra. Dopo un ultimo passaggio di ritornello, i nostri ci salutano con una interessantissima coda strumentale. Trascinate dallo zoppicante drumming di Nigel Glockler, colorato dal basso sleppato di Payne, arcane trame di pianoforte si intrecciano con scintillanti pattern di tastiera. Adrian Dessent va poi a riprendere l'effimero assolo sentito in precedenza, che stavolta inizia a prendere le sembianze di un vero e proprio assolo di chitarra, le idee sono buone, ma a mio avviso lo sconosciuto chitarrista manca di mordente e grinta.
I Believe
Nel 1985 John Payne ebbe l'onere e l'onore di partecipare come backing vocals nell'album "Under a Raging Moon" di Roger Daltrey, voce solista dei The Who che ha avuto anche una soddisfacente carriera solista. Fu un'esperienza elettrizzante per il nostro, che un paio di anni più tardi decise di scrivere un brano in omaggio a Roger Daltrey. La canzone, intitolata "I Believe (Credo)" fu scritta insieme al vecchio amico Andy Nye e registrata presso gli studi casalinghi del medesimo nell'Agosto del 1987. Siamo di fronte ad un energico rock and roll con l'organo e la chitarra protagonisti, che in qualche maniera rievoca le sonorità dei mitici The Who. Il pattern di organo che apre il brano ricorda vagamente il celebre incipit della sempiterna "Baba O 'Riley", brano scritto da Pete Townshend presente su "Who's Next", quinto album del combo londinese, datato 1971, le cui liriche vanno ad omaggiare il guru spirituale indiano Meher Baba. Il martellante riffing dell'organo viene trasportato dalla batteria elettronica che viaggia spedita come un treno. Senza ombra di dubbio, in ambito di drum programming, questa è la migliore performance di Andy Nye (che suona anche le tastiere aggiuntive) fra quelle sentite fino ad ora. I graffianti power chord sparati da John Payne si amalgamo perfettamente all'organo, replicando in maniera soddisfacente il peculiare sound dei The Who. Nella strofa comanda il martellante e vetusto organo di Geoff Downes, Payne nel suo piccolo indossa l'abito del guru e lancia profondi messaggi lordi di positività che ci esortano a credere sempre nei nostri mezzi per riuscire a coronare anche quei sogni che ci sembrano irraggiungibili. È evidente che per un musicista alle prime armi, poter collaborare con una stella del rock del calibro di Roger Daltrey è stata un'esperienza unica e fondamentale che ha contribuito fortemente alla crescita esponenziale del musicista John Payne. Nell'inciso il nostro grida a squarciagola "I Believe" lanciando convincenti messaggi positivi, evidenziati da un'armonia vocale dal piacevole sentore retrò. A dividerci dalla seconda strofa troviamo un effimero interludio strumentale, dove l'organo e la chitarra elettrica si danno battaglia. L'incessante andatura della drum machine fa scorrere veloce il brano, sempre guidato dal trascinante organo Hammond di Downes. Dopo un secondo passaggio del ritornello troviamo uno scolastico assolo di chitarra eseguito in maniera impeccabile da John Payne. Il ritornello, che alla lunga può diventare stucchevole, ci accompagna verso l'epilogo, alternandosi con brevi interludi solistici di chitarra, sempre ben supportati dall'organo.
Ginger
Se ben vi ricordate, durante le sessioni di "Arena", i nostri provarono a coinvolgere nuovamente Steve Howe, che però era impegnatissimo con gli Yes, ritornati clamorosamente sulla scena con la formazione originale a proporre il loro inimitabile progressive rock. Il Chitarrista di Holloway non chiuse però la porta in faccia agli Asia, e chiese se potessero inviargli i nastri dell'album a cui mancava una intro strumentale, promettendo di lavorarci sopra nei pochi ritagli di tempo lasciati liberi dagli Yes. Purtroppo, quando Steve Howe consegnò la sua "Ginger (Zenzero)" gli Asia avevano già registrato "Into The Arena" con Elliott Randall e Tomoyasu Hotei e la canzone rimase rinchiusa nella famigerata scatola che è riuscita miracolosamente a salvarsi dal catastrofico allagamento degli Electric Palace Studios, dove era stata registrata. Come già sottolineato non tutto il male non vien per nuocere, e l'incidente ha fatto sì che le nostre orecchie potessero essere deliziate dall'ennesima perla acustica targata Steve Howe, che da grande professionista, anche se da remoto, è riuscito perfettamente ad allacciarsi alle suadenti sonorità di "Arena", contaminate dalla musica etnica e dall'affascinate sound latino. "Ginger", se pur la ritengo leggermente inferiore alla bellissima "Aqua Part I", non avrebbe certo sfigurato su "Arena" donando quel tocco Asiatico in più all'album, senza nulla togliere alla suadente opener dai sentori etnici. Sicuramente sarebbe stata una degna conclusione dell'album, nettamente superiore alla dubbiosa e dimenticabile strumentale "Bella Nova". L'eterea nebbia esalata dalle tastiere di Downes accoglie la struggente esecuzione sulla sei corde acustica del Maestro Howe, che pur mantenendosi fedele al caloroso sound latino che sovente era presente su "Arena", riesce a trasmettere una piacevole sensazione di tristezza, toccando magicamente le corde come solo lui sa fare. Era veramente un peccato che questa splendida composizione acustica, che a tratti ha dei sussulti classicheggianti, non trovasse posto su un disco degli Asia. Come dicevano i Metallica, ?And Justice For All?.
Conclusioni
Release come "Archiva 1" sono il genere di operazioni che fanno letteralmente impazzire i fan. Noi stiamo parlando di una band ormai di nicchia, uscita ingiustamente fin troppo presto dai palchi più prestigiosi della musica rock, ma pensate se un'operazione del genere fosse lanciata da band con un seguito planetario come Iron Maiden o Metallica, giusto per fare un esempio. Dare ai fan l'opportunità di poter ascoltare vecchie registrazioni con Paul Di Anno o Dennis Stratton mai venute alla luce prima d'ora, o vecchie composizioni di Cliff Burton rimaste per chissà quale motivo rinchiuse in una vecchia scatola. Per quanto mi riguarda un affascinante florilegio di inediti di Iron Maiden o Metallica sarebbe un successo planetario, basta pensare al clamore che ha suscitato la pubblicazione di "Face It Alone" da parte dei Queen, un vecchio inedito cantato dall'indimenticabile ed unico Freddie Mercury. Fatta questa premessa, per il sottoscritto i due "Archiva" non sono una mera operazione per racimolare qualche sterlina, ma il più grande regalo che Geoff Downes potesse fare ai fan degli Asia. Artisticamente parlando non siamo di fronte ad un prodotto eccellente, vecchie demo prive di arrangiamenti, versioni primordiali con la drum machine non possono avere la perfezione con cui ci hanno abituato ultimamente i nostri. Ma qui stiamo parlando del fascino che queste tracce possono emanare. Ascoltandole possiamo fantasticare, è come se i nostri ci avessero aperto le porte della sala prove dandoci l'opportunità di poter vedere in che maniera nascono i brani degli Asia. Quindi, se dovessi valutare "Archiva" sotto il punto di vista affettivo, non potrei esimermi da affibbiargli un'alta valutazione. Ricordo che acquistai i due "Archiva" durante un'affascinate itinerario dell'Est Europa. Mi trovavo a Budapest, era il 1996 molti in Italia consideravano l'Ungheria un paese retrogrado, ma si sbagliavano. Perlomeno sotto il punto di vista della cultura musicale. I negozi di dischi erano fornitissimi, special modo nel campo del progressive rock. Se non rammento male, durante quella vacanza tornai a casa con oltre quaranta CD, fra i quali questi due preziosi "Archiva", dei quali non ero nemmeno a conoscenza dell'uscita. In quegli anni, per avere notizie attendibili sui nostri beniamini, dovevamo aspettare l'uscita di fanzine di culto come l'indimenticabile Paperlate, che conservo ancora gelosamente. Ricordo come se fosse ora che mi brillavano gli occhi appena inserii i CD nel mio stereo, leggendo con attenzione le poche ma esaustive note che i nostri hanno inserito nel booklet alla fine di ogni brano, dandoci notizie su come ogni singola traccia è nata e gli artisti che hanno contribuito. "Archiva 1" è stato rilasciato dalla divisione austriaca della label Resurgence Records il 3 Settembre del 1996. Registrata nei vari studi dettagliatamente menzionati in fase di track by track, la produzione è opera dell'affiatato duo Downes-Payne. Essendo una crestomazia che racchiude brani di varie epoche, gli ingegneri del suono che hanno contribuito sono diversi: Greg Jackman (tracce 2,6,10), Spike "Mike" Drake (traccia 6), Pete Craigie (traccia 1), Andy Railly (traccia 8) e Andy Nye (tracce 3, 7, 9, 11). Per l'artwork i nostri si sono rivolti nuovamente a Rodney Matthews. Stavolta l'illustratore britannico è riuscito a catturare perfettamente l'essenza dell'album, mettendo al centro della copertina un mostruoso ragno gigante dalla livrea azzurrognola a guardia dei vecchi nastri contenenti le preziose registrazioni degli Asia. Sul dorso, che replica una mappa del globo terrestre, spicca il simbolo del nucleare che già avevamo incontrato sulla copertina del precedente "Arena". Non so se Matthews si sia ispirato alla celebre saga di John Ronald Reuel Tolkien, ma la terribile creatura che domina nell'artwork, ricorda molto da vicino Shelob, la gigantesca aracnide che vive negli oscuri cunicoli di Cirith Ungol, a Mordor. In alto campeggia in rosso il logo storico made in Dean. Sotto la terribile creatura, in un tetro font in stile black metal, troviamo il titolo. Nel back di copertina, oltre alla track list in un simil comic sans giallo, troviamo alcune note che ci mettono al corrente dello spiacevole incidente che ha dato il via a questa fantastica operazione. Interessante il booklet interno, dove troviamo poche ma dettagliate notizie per ogni singolo brano. È curioso il fatto che le due uniche piccole foto presenti, vedano la presenza di Steve Howe. Nella quarta di copertina troviamo una foto risalente al periodo di "Aqua" che ritrae Geoff Downes insieme a John Payne e la sua folkloristica tuba e Steve Howe con in mano la sua inseparabile Gibson. Nella settima, sotto al brano "Ginger", una foto di Steve Howe mentre suona, illustra i cenni storici del brano. Come di consueto, nel 2005 la Inside Out Record ha rilasciato la sua versione, ma qui, trattandosi già di una miscellanea di inediti, si poteva aggiungere poco o nulla. Ci sono comunque due tracce in più, la single version di "Anytime" ed una versione unplugged di "Open Your Eyes" dove le eteree tastiere di Geoff Downes trasportano un magico intreccio di pianoforte e chitarra acustica. Discreta la struggente interpretazione di John Payne. Interessante anche la versione pianistica a bpm ridotti dell'inciso. Il brano, con dolcezza si dipana per oltre sei minuti, con il pianoforte e la chitarra acustica che tentano di replicare in una nuova veste i fantastici momenti strumentali del brano. Nel gran finale, il pianoforte e le tastiere di Downes disegnano trame struggenti, che nonostante la mancanza della grinta che aveva la versione originale, hanno il suo perchè. In conclusione, "Archiva 1" è un album consigliatissimo solo ai cultori compulsivi del monicher Asia. Se come me amate alla follia la band, questo lavoro vi farà brillare gli occhi come ad un bambino che scarta il suo regalo di Natale.
2) Tears
3) Fight Against The Tide
4) We Fall Apart
5) The Mariner's Dream
6) Boys From Diamond City
7) A.L.O
8) Reality
9) I Can't Wait a Lifetime
10) Dusty Road
11) I Believe
12) Ginger