Arthuan Rebis
Sacred Woods
2021 - Black Widow Records

FERNANDA SERUFILLI
02/11/2021











Introduzione
La musica esiste dall'alba dei tempi: dapprima creata e replicata da Madre Natura, la quale continua a dimostrarsi ancora la più grande artista persino ai giorni nostri; successivamente germogliata spontaneamente nell'uomo che da sempre cerca di rendere giustizia alla grazia e forza della creatrice, tentando di placare questa fame di arte senza mai raggiungere la soddisfazione; che siano le imperfezioni umane la causa di questo "fallimento" ma anche la linfa dalla quale la musica trae nutrimento e vita per poter continuare la ricerca della perfezione, è cosa nota. Se c'è oggi una progenie dell'arte in grado di rappresentare a pieno titolo questa celebrazione sacra, è proprio "Sacred Woods", che ha visto la luce grazie all'ispirazione di Arthuan Rebis e all'intuizione acuta di Black Widow Records che lo ha prodotto avventurandosi al dilà del seminato, in quanto si tratta di un genere (un mix esotico di musica folk, celtica, motivi orientaleggianti e canti gutturali delle fredde terre nordiche, davvero non etichettabile ed è giusto così) lontano dalle altre produzioni dell'etichetta. Siamo nel 2021, periodo storico vissuto all'insegna della modernità e del progresso, in cui il contatto con le nostre radici è fragile e spesso poco -o per nulla- ricordato; non certo il tempo più adatto per un lavoro come questo si potrebbe pensare, in quanto già il titolo ci riporta alla mente proprio quelle solide radici legnose tristemente sostituite dalle fondamenta in muratura, invece è proprio questo il momento giusto per qualcuno che al contrario non ha perso il legame con l'origine di incoraggiarci verso una riflessione approfondita che ci strappi alla dimenticanza. Sarò onesta: ho vissuto un'esperienza mistica ascoltando questo album e non sono sorpresa notando che tale esperienza si ripeta parimenti alla prima volta ripetendo l'ascolto; è come se avesse risvegliato in me una consapevolezza lontana e innescato la capacità di percepire il mondo in modo diverso ed è proprio questo ciò di cui parlo. Da un punto di vista puramente tecnico (e se vogliamo artistico) tutti possono ascoltare questo album e secondo me dovrebbero, ma per farlo c'è sicuramente bisogno di una certa apertura mentale, per comprenderlo a fondo, di una notevole sensibilità. Non si tratta di un ascolto semplice: è un ascolto prepotentemente immersivo nonostante la sua incredibile delicatezza nelle melodie, non ti lascia la possibilità di scegliere se concentrarti, aprire il cuore e assorbirne il messaggio; ti imprigiona e ti trascina nella voragine costringendoti a un viaggio al termine del quale ti svegli e comprendi, o ti svuoti. Tutto in questo album parla di radici comuni e ci ricorda in che misura su questo pianeta siamo tutti figli della stessa madre; traendo ispirazione da una varietà di culture diverse viaggiando dal nord europa al cuore dell'Asia centro-meridionale, cantando liriche in lingue diverse che danzano su motivi generati da così tanti strumenti diversi i cui suoni sono legati insieme come fratelli, dipinge un'immagine colorata che può essere definita come la fotografia dell'umanità. In questo nugolo di elementi non poteva quindi mancare la partecipazione di vari ospiti che menzionerò nel corso dell'analisi ma del resto, Arthuan stesso incarna il concetto di moltitudine essendo un artista poliedrico nel senso più puro del termine; dopo aver scoperto che da solo suona gli strumenti di un'intera orchestra e che si dedica alle occupazioni più disparate, ho avuto modo di appurare che sia opera sua anche il bellissimo ed evocativo artwork corredato dalle numerose illustrazioni, essenziale nello stile ma anch'esso carico di significati. Incorniciato da un motivo decorativo ispirato al mondo celtico -più specificatamente ai libri di cultura gaelica- e strutturato come a voler richiamare un portale, c'è questo albero cosmico sospeso nell'universo che spicca per il suo colore dorato, luminoso (rispetto ai colori freddi scelti per gli altri elementi e il testo), le cui radici sono volutamente simili alle fronde rifacendosi al concetto "come sopra, così sotto". Il tronco di questo albero è disegnato in modo da ricordare elementi essenziali di varia estrazione culturale quali la spirale del DNA, il bastone di Asclepio, il serpente della Kundalini ma soprattutto, più importante di ogni altra, la figura femminile di una dea madre: possiamo infatti riconoscere la forma di un petto femminile dal quale partono due braccia rivolte verso l'alto, un ventre rotondo dal quale nascono le radici ed il capo sormontato da corna di cervo; il corpo della dea inclusa nell'albero è inoltre formato da tre spirali, come rappresentazione della triade e in generale come trasposizione del numero tre, culturalmente molto importante in molti ambiti diversi. Si tratta di un'immagine di grande forza simbolica che può essere interpretata come un seme; il potenziale indeterminato racchiuso nell'infinitamente piccolo (un seme, appunto) che possiede la capacità creativa dell'universo intero. Tutte le illustrazioni presentano delle caratteristiche comuni, come ad esempio l'essere in silhouette, in quanto si tratta di immagini notturne; l'intera parte grafica dell'album richiama visioni ed ambientazioni notturne, in primis i due colori dominanti, nero e blu. Attualmente, il lavoro conta anche quattro video che personalmente trovo ampiamente apprezzabili sia per la loro semplicità che per il luogo particolare in cui sono stati girati: all'ombra di una quercia particolare e dalla storia interessante che si trova vicino Lucca, per via della quale le quattro produzioni prendono il nome di ciclo della "Grande Quercia".

Albero Sacro
"Quando sei capovolto hai radici celesti
e rami nella terra e sei madre e padre"
Torna -o forse sarebbe meglio dire prosegue- nel primo brano il tema dell'albero, in fondo era inevitabile che l'album iniziasse con un pezzo dedicato a questa figura che nel corso della storia dell'uomo ha costituito il fondamento delle culture provenienti da ogni remoto angolo del globo; è questo ciò che il componimento rappresenta al meglio, riuscendo ad estrapolare il senso più profondo della figura dell'albero nell'immaginario antico comune. In questo caso l'artista si assume la responsabilità di rendersi un tramite, una sorta di ponte fra cultura antica e moderna, per palesare agli occhi di questa tecnofila epoca di cemento quale sia in realtà la vera casa di ogni essere. L'intero disco è un tributo alla foresta quale luogo oltre il tempo, lo spazio, inserito in una dimensione propria indipendente in cui poter trovare rifugio e risveglio spirituale e l'albero ne è il simbolo; pertanto, il brano è composto in prevalenza da un testo narrato che si rivela essere un'ispirata descrizione di cosa esso rappresenti nel suo concetto più puro: una figura rassicurante, pacifica, immobile e insensibile ai conflitti; silenziosa, capace di vivere per molti secoli e per questo custode di grande saggezza e storie cristallizzate fra gli anelli del suo tronco. La casa primordiale che in sé racchiude la sintesi degli elementi e che sempre rinasce, abbastanza forte da sostenere il mondo ma altresì capace di dare sollievo con gentilezza e cura migrando attraverso le epoche. A parer mio il connubio creato dalla narrazione dai toni volutamente pacati e dall'accompagnamento dal marcato sapore tribale -soprattutto le percussioni- rende con precisione la sacralità di cui è intriso questo simbolo e così, mentre la melodia ti riporta lontano in dietro nel tempo, nella mente figura l'immagine di un germoglio che fa capolino dal terreno e inizia a crescere, sempre di più, accompagnato dal progredire della narrazione fino ad assumere, durante la parte cantata (la quale cita le prime lettere dell'alfabeto ogamico), la forma di una rigogliosa quercia secolare della quale è impossibile distinguere i rami dalle radici.
A questo brano hanno partecipato Nicola Caleo Timer Shine (sequencer e percussioni), Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass), Paolo Tofani Krsna Prema Das (voce narrante) e Gabriele Gasparotti (synth).

Driade
"Nella foresta tutt'uno con le foglie
La driade della quercia sta,
La sacra unione con il dio dei boschi
Lo specchio d'acqua svelerà"
"Driade" è la traccia con la quale ho conosciuto Arthuan Rebis come artista, la scoprii proprio il giorno della pubblicazione del video e forse è proprio per questo che ha avuto un forte impatto su di me, non saprei dirlo, ma per qualche ragione mi è rimasta nel cuore; si tratta infatti di una delle quattro canzoni (assieme a "Come foglie sospese". "Elbereth" e "Fairy dance") i cui videoclip già rilasciati sono stati girati all'ombra di una quercia secolare molto particolare, unica nel suo genere (la Quercia delle Streghe). Il brano parla dell'unione ancestrale di due essenze, una maschile e l'altra femminile, qui raccontata scegliendo come attori il dio dei boschi e una driade (le driadi sono figure appartenenti alla mitologia greca, specificatamente le ninfe delle querce -dalle quali deriva il loro nome, successivamente utilizzato per indicare tutte le ninfe degli alberi in generale-). Tale ricongiunzione garantisce l'equilibrio in Natura e da esso dipende poi l'esistenza del mondo e l'intento della canzone è proprio di celebrarla; non ci è dato sapere cosa dica il testo nella seconda parte sebbene i nomi di Freyr e Freya aleggino nell'aria e non c'è da stupirsi, essendo due divinità riconosciute come "selvagge" nell'aspetto e nei modi. L'intera composizione ha un forte sapore mistico che rievoca fedelmente la solennità della riconciliazione e la voce calda di Arthuan che viaggia prevalentemente su tonalità basse -ma in alcuni momenti sale in un exploit carico di pathos- risulta abbastanza ipnotica. L'intro alla chitarra crea una certa suspense e i corvi gracchianti in sottofondo non migliorano la situazione, naturalmente il loro inserimento non è casuale: il verso "cado nell'occhio dei corvi" ci dice chiaramente che si tratta dei corvi associati al dio Odino, chiamati Huginn (pensiero) e Muninn (memoria), i quali hanno il compito di viaggiare per il mondo con lo scopo di raccogliere informazioni da riportare al dio al loro ritorno. Devo ammettere di trovare questa canzone molto romantica, non nel senso di romanticismo comunemente riconosciuto, bensì nella poesia concettuale dell'unico essere le cui essenze sono separate soltanto apparentemente. Driade ricorda un po' il pendolo di Schopenhauer, oscillando fra la trascendentale meraviglia di due esseri che possono essere completi soltanto insieme e una sottile allure cimiteriale ansiogena che trovo molto accattivante; comunque, quel canto simile ad un mantra lo ascolteresti all'infinito.
A questo brano hanno partecipato Nicola Caleo Timer Shine (bodhrán, sequencer e percussioni) ed Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass).

Kernunnos
Poteva mancare, in un album come questo, un brano dedicato al signore delle foreste? Se c'è una canzone in grado di rendere perfettamente l'idea della bellezza selvaggia della natura, nello specifico della sua attrattiva magnetica e dei suoi potenziali rischi, è proprio questa: il canto di Mia Guldhammer (voce dei danesi Virelai) unito al sound tribale che ricorda antiche danze cerimoniali e all'invocazione al dio silvano Kernunnos (spirito divinizzato degli animali maschi nella mitologia celtica) crea un'atmosfera foràstica che rimanda parimenti alla ritualità legata al dio e alla natura dello stesso; si tratta di uno dei vari omaggi contenuti in questo lavoro, troviamo una voce femminile piena che canta un testo in danese (nel booklet è presente anche la traduzione) tratto dalla ballata "Den bagvendte vise", il quale parla del cervo che vola (connesso al fungo sacro che ritroviamo nell'illustrazione sul booklet) e di animali di potere, in piena celebrazione della forza brutale della natura e dei suoi figli; un canto dall'impronta atavica che comunica direttamente con l'entità primordiale interna a chi lo ascolta. In un certo senso, si potrebbe definire come la traccia più "colorata" dell'album, quella in cui si sente il maggior numero di elementi partecipanti e di variegate interazioni fra gli stessi; contiene i suoni della foresta, le sue regole non scritte, le sue storie incise nei tronchi degli alberi e cantate dal vento, il rincorrersi delle stagioni. C'è qualcosa in questa traccia che va a solleticare quegli elementi maschili presenti in ogni essere umano, a prescindere dal suo genere, risvegliando una sorta di istinto animale profondamente legato agli elementi naturali: si possono percepire chiaramente danzare all'unisono nell'etere e sebbene questa traccia non tratti specificatamente il tema della danza, tutto in essa sembra danzare ininterrottamente; in fondo si tratta di una manifestazione energetica che fa parte della fenomenologia naturale dalla notte dei tempi: l'universo stesso si è formato in una danza di particelle subatomiche, la creazione della musica ne è stata la diretta conseguenza.
A questo brano hanno partecipato Nicola Caleo Timer Shine (bodhrán, sequencer e percussioni), Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass), Vincenzo Zitello (santur) e Mia Guldhammer (voce).

Runar
"Rúnar munt þú finna / Rune tu troverai,
ok ráðna stafi / lettere chiare,
Mjök stóra stafi / lettere grandi,
Mjök stinna stafi / lettere possenti,
Er fáði fimbulþulr / che dipinse il terribile vate,
ok Gerðu ginnregin / che crearono i supremi numi,
Ok reist Hroftr rögna / che incise Hroptr degli dèi."
Questo brano nasce con la volontà di essere un omaggio all'origine delle rune. Le liriche, che ho riportato per intero con la traduzione, sono tratte dall'Edda Poetica (canto 142), testo tradizionale fondamentale per la conoscenza della cultura norrena e fa riferimento proprio al momento della nascita del linguaggio runico: il dio Odino -qui definito con un epiteto particolare di cui non si conosce il significato specifico (Hroptr)- appeso capovolto all'albero del mondo resta lì per nove giorni e nove notti per acquisire questa sapienza, sacrificando sé stesso per sé stesso. Le rune sono simboli puri, l'origine stessa di ogni potere e ogni conoscenza, custodi di significati fino ad allora sepolti nell'inconscio; i due sensi chiave del canto sono l'autosacrificio, il rinunciare a un pezzo importante di sé per elevarsi e raggiungere una conoscenza superiore e la prospettiva capovolta, la quale offre un nuovo punto di vista e consente di vedere cose a cui l'altrui vista non ha accesso e, se e quando questa condizione apparentemente avversa viene accettata e se ne riesce a trarre vantaggio, permette di raggiungere l'illuminazione. Il testo, nel booklet, presenta una particolarità fortemente simbolica: è inscritto nel simbolo dell'energia universale sul quale è riportato il Fuþark (Futhark), l'antico alfabeto runico accompagnato dal Valknut, conosciuto anche come "nodo di Odino" composto da tre triangoli intrecciati che rappresentano l'inferno, il paradiso e la terra nonché i nove mondi dell'antica mitologia norrena; in sostanza, l'artista ha voluto racchiudere l'universo, la sua genesi e ogni sua possibile evoluzione nello spazio di una pagina cristallizzando nella mente di chiunque la veda, magari durante l'ascolto, il concetto "tutto inizia qui". Se è vero che la genesi delle cose è già all'interno del nostro inconscio e la sola contemplazione del linguaggio divino essenziale possa condurre alla conoscenza, che sia questo il modo di trasferire tale conoscenza nella sua interezza all'interno dell'a mente non cosciente di ognuno? Chissà. Magari era solo un vezzo figurativo. La caratteristica sonora fondamentale di questo brano è il ritmo cadenzato, scandito all'osso, ritualistico che di più non si può -grazie fujara, grazie bodhrán-; in effetti più che l'ascolto di una canzone sembra la partecipazione protagonista in un rituale ancestrale, l'intera traccia è pervasa da questa verve di ritualità occulta che personalmente non mi dispiace per niente, trovo che si coniughi alla grande con il testo scelto. Durante l'ascolto si percepiscono delle vibrazioni strane, probabilmente dovute alle voci armonizzate in quel canto così cavernoso che va a toccare delle corde particolari nel profondo, proprio in quel recesso del tuo "io" adibito a cella d'isolamento in cui recludi quella parte di te che non dovrebbe proprio mai vedere la luce; lì, nel giro di pochissime note, senti un "click" e la serratura si apre, tu perdi la presa e non puoi far altro che cercare di arginare la bestia. Se ce la fai. Ma non ce la fai, fidati.
A questo brano hanno partecipato Nicola Caleo Timer Shine (bodhrán, sequencer e percussioni), Vincenzo Zitello (fujara) e Gabriele Gasparotti (synth).

Elbereth
"O Elbereth che accendi le stelle,
A te canterò
Da questa parte del grande mare"
Nella quinta traccia dell'album l'artista ha omaggiato Tolkien portandolo in musica; autore universalmente riconosciuto come genio letterario avendo creato un intero universo con la sola penna, dal suo magnum opus si può pescare a piene mani per trarne ispirazione e così è stato fatto. La creazione di "Elbereth" è infatti stata ispirata dal suggestivo mondo elfico e dalla sua origine spirituale, nello specifico dalla malinconia scaturita dai ricordi della loro perduta dimora; si tratta di un canto in lingua elfica rivolto alla dea delle stelle Elbereth, la quale rappresenta in sé la dimora ancestrale ormai perduta, osservabile ma non più raggiungibile, il cui calore continua però ad avvolgerci e scaldarci da lontano, proprio attraverso i ricordi. In questo brano avviene però una sublimazione del sentimento negativo, che muta e si trasforma in un'emozione positiva trascendendo il significato originario; questa sorta di dualità è stata accuratamente riprodotta in musica in quanto nel sound si sente la malinconia grazie all'intonazione cantilenante della voce e alla melodia molto tranquilla ma si percepisce anche quel sostrato positivo negli accenti soavi dell'accompagnamento musicale. Possiamo dire che si tratti di una traccia più "semplice" di altre in un certo senso, meno impegnativa come ascolto, un intermezzo più fantasy ma che fa parte della nostra storia culturale letteraria a pieno titolo; è evidente la ricerca, da parte dell'artista, di un effetto sonoro che fosse verosimilmente associabile al folklore elfico e che empatizzasse con l'ascoltatore suonando amabile e al contempo solenne. Ciò che apprezzo particolarmente è la capacità di far diventare una lingua inventata attivamente parte di un contesto linguistico storico cantandola, interpretandola e usandola come se fosse invece una lingua realmente esistita, permettendole di assorbirne le caratteristiche. L'effetto che ha avuto per me è stato strano, in senso positivo: si tratta di un tuffo in un mondo sconosciuto (anche per chi conosce e legge Tolkien) restando però ben piantati a terra nella realtà concreta, una specie di viaggio imaginifico fra limpidi cieli, colori brillanti, paesaggi incantevoli pur essendo così diversi dai nostri, suoni di un linguaggio incomprensibile ma suadente e musicale senza però mai perdere il contatto con la realtà cosciente. Il mondo in un paio di cuffie, così come Tolkien a suo tempo seppe "imprigionarlo" fra le pagine di un libro. Mi sento di dire che Arthuan sia riuscito a rendere giustizia a Tolkien con una composizione elegante e raffinata nella sua essenzialità.
A questo brano hanno partecipato Paolo Tofani Krsna Prema Das (voce narrante) e Gabriele Gasparotti (synth).

Come Foglie Sospese
Come molti, o forse tutti, anch'io ho inizialmente pensato che questa canzone fosse una dedica composta dall'artista pensando a una persona specifica e invece no: la canzone racconta la vicenda agrodolce di un uomo che, osservando attraverso il velo che separa due mondi, riconosce la sua amata e assiste al momento della sua morte. Nella vita che hanno vissuto insieme erano entrambi due Deva (esseri celesti, divini), lui è morto pochi istanti prima di lei e così, in questo attimo in cui si fondono passato, presente e futuro, la osserva nel momento in cui sta per lasciare il corpo dopo una lunga era di felicità e splendore mentre lui, dall'altra parte, è rinato nel mondo umano molte volte; il tempo nelle due dimensioni scorre diversamente, nel mondo umano sono trascorsi molti secoli, mentre nel regno dei Deva solo alcuni istanti. Nel testo è lui a parlare, rivolgendosi prima a sé stesso e poi a lei in una riflessione solitaria sull'evento e le sue conseguenze; con le sue parole descrive l'estetica della donna come quella di una dea, traspare chiaramente la luminosa purezza del legame esistente fra questi due esseri. Potrei definirla una canzone rilassante, il sound efebico "alleggerisce" lo spirito e ti conduce per mano in quella foresta incantata ordinariamente celata all'uomo in cui tutto è utopia; esistono vari tipi di relax (relax meditativo, relax creativo, ecc.) e questo è esattamente quel tipo di distensione fisica e mentale che termina nel sogno: in effetti, questa sorta di alone onirico avvolge l'intera traccia. Durante l'ascolto ti viene spontaneo chiudere gli occhi e cantare insieme alla voce, sembra la cosa più naturale del mondo, mentre quasi recita le parole più che cantarle e ti invoglia a lasciarti andare seguendo il flow. Il testo è seguito da una lunga outro evocativa durante la quale sembra di trovarsi davanti agli occhi l'immagine di lui che sorride gioioso osservando la sua metà, fino poi al momento del loro ricongiungimento nella propria dimensione originaria; è curioso come l'ascolto risulti soddisfacente in quanto al termine ci si sente "pieni" di luce, come se lo stesso atto di ascoltare ci permettesse di assorbire quei sentimenti positivi e quella luminosità non umana per renderla parte integrante di noi stessi e canalizzarla per irradiare l'ambiente circostante. Assolutamente magistrale Zitello all'arpa, che conta più partecipazioni in altri brani dell'album con strumenti diversi, ma per me questa resta al primo posto sul podio. La bellezza di questa esperienza è che dopo averti cullato attraverso un sogno, la parte finale dell'outro col suo sound carezzevole sembra riadagiarti delicatamente al suolo nella dimensione terrena come farebbe una madre premurosa.
A questa canzone ha partecipato Vincenzo Zitello (arpa bardica).

Fairy Dance
Proprio per dare un'idea di quanto lo stile di Arthuan sia singolare, questo brano arriva con un'ispirazione unica nel suo genere: da un punto di vista compositivo è infatti pensato come omaggio alla New Wave in chiave dark fantasy folk; pensereste mai ai The Cure ascoltando un brano folk che vuole celebrare le danze degli esseri fatati? Direi di no, eppure aguzzando l'udito si può sentire la chitarra fare dei fraseggi in quello stile, così come prestando attenzione si può sentire quella lieve impronta anche nel synth. Una connessione non immediata in quanto rimane sul fondo, va scoperta e capita, ma una volta notata porta l'apprezzameto a un nuovo livello. La traccia ruota attorno a una caratteristica distintiva degli esseri fatati: quando sono felici danzano ed è proprio così che si esprimono anche; tutti da bambini abbiamo avuto a che fare con creature fantastiche e mitologiche e ci è capitato di incontrare le fate nelle storie con cui siamo cresciuti, tutti abbiamo sentito dire che quando una fata è felice non lo esprime direttamente, bensì dice "sto danzando" e non solo: nelle loro raffigurazioni più classiche in qualsiasi testo, se in un momento di allegrezza, sono raffigurate danzanti. In questo contesto la danza è intesa come massima espressione di gioia, ha un ruolo catartico ed è prerogativa degli esseri ultraterreni, tema che poi ritroviamo nella penultima traccia dell'album. Come in ogni danza che si rispetti le emozioni viaggiano prevalentemente attraverso la musica, veicolate dalle note e dall'energia del movimento; infatti questa traccia presenta una forma testuale davvero molto breve, che si definisce tale un po' a fatica. In questo caso si tratta di una danza notturna ("At night I dance with you, and shadows in a Fairy Land") ma apprezzo che ciò non si possa evincere dal sound generale: ascoltandola, non si riesce a definire se si tratti di un evento notturno o diurno perché la musica non tradisce sonorità cupe o "fredde" né di fatto sonorità particolarmente frizzanti che potrebbero ricondurre la mente a contesti diurni; sembra un qualcosa a metà, come ad esempio potrebbe essere il primo bagliore di un'alba, un setting dai contorni non delineabili che contribuisce a rendere il feeling generale molto più magico, proprio agli esseri fatati. La mia parte preferita della canzone è l'intro, ti teletrasporta in uno scenario in cui possosi può scorgere il cielo inziare a diventare un po' più azzurro sopra le alte ombre del bosco, fra le cui forme astratte si scorgono queste creature dai delicati bagliori luminosi danzare con grazia ipnotica; non vorresti andare più via.
A questo brano hanno partecipato Nicola Caleo Timer Shine (sequencer e percussioni) ed Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass).

Danzatrice Del Cielo
"Yeshe Tsogyal
Khandro
Khandro Yeshe Tsogyal"
Vi è mai capitato di dover parlare di una canzone e trovare difficoltà nello smettere di seguire la musica, aprire gli occhi e recuperare la lucidità necessaria a mettere in fila le parole? A me è successo. Ammetterò candidamente che si tratta della mia preferita in questo album, potrei ascoltarla in loop per tutta la vita (e in effetti lo sto già facendo? Sigh); sarà l'arpa, sarà la calda energia dinamica che trasmette, sarà quel che vi pare ma questi 6 minuti volano via troppo velocemente, senza neppure accorgersene. Partirò col dire che si tratta di un omaggio alle Dakini e che si tratta del perfetto esempio di quanto si possa dire senza utilizzare neanche una parola. Ci troviamo infatti di fronte a una traccia strumentale, le uniche parole che possiamo udire sono il nome di Yeshe Tsogyal e l'appellativo onorifico "Khandro" che vuol dire "colei che si muove nel cielo"; non c'è testo e sinceramente non se ne sente la mancanza: si tratta di uno di quei casi in cui le parole risultano del tutto superflue. Le Dakini sono manifestazioni di aspetti puri della mente in forma femminile di cui Yeshe Tsogyal -persona realmente esistita- è l'esempio perfetto in forma umana e questo componimento è dedicato a tutti gli esseri femminili, riconducendone le molteplici sfaccettature all'unitario archetipo della dea Madre Terra che in sé racchiude e sintetizza tutte le qualità positive. Ogni canzone di questo album ha un'illustrazione dedicata e quella propria a questa canzone rappresenta una Dakini danzante di fronte alla Luna in mezzo al cielo trapunto di stelle; non ne possiamo riconoscere i tratti in quanto si trova in ombra, ne distinguiamo pertanto solo la forma del corpo leggiadro e sinuoso in un'immagine evocativa tanto quanto il sound generale di tutta la traccia alla cui onda coinvolgente è impossibile sottrarsi. I caratteri distintivi principali del brano sono la delicatezza del suono di quest'arpa assolutamente magnifica e la possibilità di scindere il componimento in due metà: nella prima parte il suono emesso dalle corde pizzicate ricorda tante gocce d'acqua che collidono con la superficie, "pioggia" che si va intensificando man mano che ci si avvicina alla parte centrale del pezzo; un'ultima nota ci lascia col fiato sospeso e al minuto 3:00 (preciso, perfetto e a quanto pare non voluto consciamente) parte un ritmo incalzante che innesca un'immediata voglia di danzare, restare fermi è davvero difficile. Tale ritmo è sapientemente scandito dal bodhrán -quanto lo amo, mio dio-, qui è tutto perfetto: il tocco, la ritmica, il sound, il mood, l'accompagnamento all'arpa è assolutamente geniale e non fa altro che valorizzarla ancora di più, sebbene nella sua magistrale strutturazione sarebbe anche potuta essere sola; la sua linea è così variopinta, piena, ricca che può rendere benissimo senza alcun tipo di contorno e in effetti, esistono video di alcune occasioni live che testimoniano le mie affermazioni. L'effetto ottenuto dal punto di vista sonoro è un accento molto arioso, che ricorda le correnti della delicata brezza di fine primavera, quando la stagione calda è alle porte e la natura si è risvegliata nel pieno delle sue facoltà; di tale risveglio si ha chiaramente l'impressione al morbido ma vitale attacco della seconda parte, il quale scatena lo spirito. Proprio di questo si tratta, siffatto brano è puro spirito, pura emozione, parla direttamente al cuore senza passare per i filtri della ragione; non c'è volontà -se non quella celebrativa-, è pura e semplice gioia scivolante che si insinua nell'essere e ti dà l'impressione di poter levitare e danzare in aria. Ti perdi. Tutto questo, preceduto dall'invocazione introduttiva iniziale che, da sola, fa più di un intero testo.
A questo brano hanno partecipato Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass), Giada Colagrande (voce) e Glen Velez (bodhrán).

Diana
Il pezzo di chiusura dell'album non è predente sul booklet ed è una sorprendente cover del brano dei Comus, band britannica degli anni 70; dico sorprendente per via della maestria con la quale Arthuan sia riuscito a far sua una canzone composta da altri artisti in modo così verosimile da non sembrare una cover (ascoltandola, chi non conosce la canzone originale non potrebbe mai pensare che si tratti di una cover, in quanto l'ha "calata" perfettamente nel contesto del suo album e soprattutto nello stile) pur mantenendola perfettamente aderente all'originale, non snaturandola come purtroppo succede in molti casi udibili a giro. Per me, questa canzone costituisce una delle tante sorprese da cui questo prodotto artistico è arricchito, perché proprio non ci si aspetterebbe una scelta del genere: nell'album a cui appartiene la canzone originale, i Comus sono una band diametralmente opposta ad Arthuan nello stile; con un sound molto audace per il periodo e convenzionalmente collocati nel prog rock/folk, all'interno delle loro composizioni ci sono temi molto dark e un sound strano, fra lo psichedelico ed il "cosa diavolo sto ascoltando?", un mix all'insegna della distopia che mal si abbina alle sonorità morbide e armoniose di "Sacred Woods". È proprio questo che trovo sorprendente, volendo fare un paragone, da una parte troviamo la difficoltà nell'ascolto di un pezzo durante il quale ti senti come se qualcosa non andasse e dall'altra, quasi un inno con un sound molto più pulito che si sposa perfettamente con lo stile e la tematica trattata nell'intero lavoro. Il contrasto maggiore all'udito risulta essere quello vocale; la voce originale è lamentosa, sofferta, a tratti quasi inumana, mentre in questa nuova veste la voce è decisamente più melodiosa, eufonica. Ad un primo ascolto sembrerebbe che il testo faccia riferimento alla figura mitologica della dea cacciatrice Diana che tutti conosciamo, per via della presenza di alcuni richiami simbolici legati ad essa (il bosco, i segugi che abbaiano mentre inseguono la preda, il sentiero alberato, le vesti bianche) ma in questo caso l'apparenza inganna alla grande perché in realtà il testo parla di tutt'altro. Qui, Diana incarna la Virtù che viene inseguita da quello che viene presentato come un mostro, il cui scopo è distruggerla, di fatto si tratta di un'allegoria che contiene un messaggio ben preciso -infatti l'ispirazione originale era proprio una rappresentazione teatrale chiamata Masque nel quale si inscenavano vicende allegoriche volte a denunciare realtà scomode del periodo, siamo fra 1600 e 1700- in quanto al termine della vicenda, la Virtù sembra salvarsi. La fortunata presenza di questo brano nella tracklist è dovuta ad una brillante proposta dell'etichetta, accolta dall'artista in quanto estimatore della band; del resto, hanno uno stile che ben si adatta alla malcelata anima prog di Arthuan.
A questo brano hanno partecipato Emanuele Ysmail Milletti (fretless bass) e Federico Sanesi (tabla).

Conclusione
È difficile spiegare per quale motivo credo che tutti dovrebbero dedicare del tempo all'ascolto di questo lavoro, esattamente come non è affatto semplice trarre le somme dell'ascolto di un album così profondo ed eterogeneo, che di conseguenza trasmette sensazioni complesse; il concept attorno al quale è costruito è fortemente filosofico e non pienamente comprensibile a tutti, tuttavia non è necessario conoscere approfonditamente tutti i concetti e gli elementi inseriti per goderne l'ascolto e anzi, credo fermamente che possa sortire lo stesso effetto su chiunque (abbia un'apertura mentale sufficiente) a prescindere dal background culturale e vi invito ad approfondire la conoscenza dell'artista, vi si aprirà un portone che affaccia su una dimensione artistica sperimentale tutta nuova, una scelta di cui mai vi pentirete. Arthuan è un uomo dalle molte abilità che ha la capacità di sintetizzare la sua vastissima cultura personale (non solo in ambito musicale) e utilizzarla per creare e/o arricchire le sue opere artistiche, non solo offrendo al pubblico la possibilità di utilizzarle come canale per ampliare la propria conoscenza, ma anche di apprezzare un prodotto oggettivamente ben realizzato e di rientrare in contatto con l'io primordiale e profondo presente in ognuno di noi in quanto figli di Madre Natura. Questo album ne è l'ottimo esempio proprio perché riesce a scavare a fondo nel nostro corpo sottile e risvegliare quella consapevolezza sopita a causa dello stile di vita che conduciamo; non è un album "come gli altri": per il singolo è una sorta di percorso spirituale di sublimazione dell'essere volto ad allontanare da noi l'ossessione materiale, per la collettività è un giusto riconoscimento e ringraziamento a chi ci ha creati. È il frutto di un ampio studio e della ricerca del connubio perfetto fra concetto e suono, fra "uno" e "tanti": è infatti un lavoro variegato che contiene molteplici elementi sonori delle provenienze più disparate e che spazia fra influenze di generi diversi (vedi ad esempio il ritornello vagamente beatlesiano della cover "Diana" e gli strumenti musicali coinvolti nella composizione), cercando però sempre di mantenere un'omogeneità di fondo ruotando attorno a due assi immaginari, se così vogliamo definirli, relativamente alla simbologia -naturale: es. la foresta, gli alberi- e al suono -con stilemi ricorrenti-. Per me ci è riuscito alla grande, a tratti sembra più un rito magico che un album, spesso il canto è ragionevolmente associabile a un mantra il cui effetto sullo spirito è, garantisco, purificatore e ti senti un po' come se rimettesse a posto l'equilibrio biochimico del tuo corpo, è una sensazione particolarissima che non avevo mai provato. È un album che va oltre, trascende la sola arte musicale e per chi vuole approfondire, offre un buon punto di partenza per dedicarsi allo studio di alcuni culti antichi, correnti filosofiche e diramazioni gnoseologiche spirituali; se siete persone inclini al contatto con la natura vi consiglio fervidamente di ascoltarlo proprio in un contesto di immersione in essa, che sia un bosco o una radura con uno specchio d'acqua o magari l'alta montagna, sono in assoluto i setting migliori e vi garantirebbero un'esperienza mistica a 360 gradi (fidatevi sulla parola, io l'ho fatto e l'esperienza è stata impareggiabile). Non c'è un singolo dettaglio di questo disco che non sia collocato nel punto giusto al momento giusto, da un punto di vista meramente tecnico non c'è davvero nessun appunto che potrei fare, se non che mi sarebbe piaciuto durasse di più! Tipo tre o quattro ore diciamo, giusto per lasciare un po' di tempo ad altre attività al di fuori dell'ascolto. Si adatta bene anche a un mood più meditativo, accompagnerebbe benissimo un percorso in tal senso, di fatto è sempre uguale ma sempre diverso: contenendo al suo interno la sintesi dell'origine del mondo (materiale e non) tradotta in musica, l'ascolto è ogni volta sempre differente dal precedente; assume forme nuove, sfumature inedite, sensi che deviano dal principale sebbene sia fisicamente impossibile che la musica incisa possa mutare da ciò che è.

2) Albero Sacro
3) Driade
4) Kernunnos
5) Runar
6) Elbereth
7) Come Foglie Sospese
8) Fairy Dance
9) Danzatrice Del Cielo
10) Diana
11) Conclusione

