ARTHEMIS
The Damned Ship
2001 - Underground Symphony
LORENZO MORTAI
18/12/2015
Introduzione Recensione
Amore, passione, sacrificio, ore piccole passate di fronte ad un mixer, con in mano il proprio strumento, cercando di migliorarsi di volta in volta, di superare il limite che era presente nella precedente sessione, e di comporre qualcosa di assolutamente inedito, e maledettamente devastante. E' questo che alla fine distingue un musicista da qualcuno che vive di parole, è il sacrificio che spinge chi ama veramente le note messe in fila a fare qualsiasi cosa per ricercare il sound perfetto, per dare al pubblico in pasto qualcosa che sia una vera e propria scossa tellurica nelle loro orecchie, un mix di generi, accordi, riff, parti cantate e sessioni ritmiche che faccia drizzare i capelli. Ed è questo che probabilmente oggi, in tante realtà (non in tutte, per fortuna) si sta perdendo, la voglia di infilare le mani nel fango, la ricerca di quella perfezione che invece ha contraddistinto (con le dovute limitazioni a non tutti i campi, generi o artisti, sia chiaro) i precedenti 40 anni di musica. Si aveva, una volta, l'incontrastata ed atavica sete di dare alle stampe una musica che fosse al contempo personale, devastante e mai sentita, e questo portava tante persone che imbracciavano uno strumento, a diventare dei veri e propri chimici del suono, mischiando fra loro note e liquidi, per formare questa creatura demoniaca. Ed è una storia questa che la band capitanata dal carismatico e propositivo axeman Andrea Martongelli, band che risponde al nome di Arthemis, sa molto bene; per iniziare a raccontare questa storia, dobbiamo fare un passo indietro, fino agli inizi di questo decennio che ci accompagna ancora oggi, anzi, esattamente ad un anno prima, il 1999. Quelli erano decisamente anni strani per la musica; l'elettronica aveva preso ormai definitivamente piede nella testa della gente, soprattutto dei giovani, schiacciando molti dei generi storici che avevano occupato gli scaffali dei negozi fino a non molto tempo prima. Il tanto amato/odiato Grunge nel '99 era ormai alla sua abbondante fine (anzi, era proprio finito, qualche anno prima), e le band che lo avevano messo in piedi, o si erano sciolte, o avevano virato (si veda la voce: Pearl Jam) verso sonorità diverse, producendo qualcosa che si discostasse da quegli inizi di anni '90 in cui la melanconia rabbiosa del Grunge aveva preso piede in tutto il mondo. E' anche il periodo questo in cui si cominciano ad etichettare svariati generi con un monicker che al contempo è sinonimo di nostalgia canaglia, e pura e semplice ramificazione forzata di ciò che la musica è, parliamo di "post". Post Hardcore, Post Grunge, Post qualsiasi cosa, l'importante era sottolineare che certi movimenti, certe ideologie, e soprattutto certe tipologie di musica, appartenevano al passato, adesso c'era linfa nuova che scorreva nelle vene dei musicisti, eppure, nonostante la nuova vita, quel Post era sempre succeduto da un rimando al passato, come se la voglia di non dimenticare certi modelli fosse talmente radicata da rappresentare una delle poche vie di fuga dalle solite strutture. Un bel calderone dunque quello che si presentava agli occhi della band italiana alle soglie del tanto atteso/temuto 2000 (erano gli anni del Millenium Bug, delle rivoluzioni, crisi interne in tantissimi paesi, una decostruzione e ricostruzione della società che continua ancora oggi, e che come capita assai spesso, non ha portato né tante novità, né soprattutto molti vantaggi), ed i nostri, proprio nel 1999, fanno capolino nella testa degli ancora tanti metalheads che affollavano le strade, comprese le nuove leve emergenti (cresciute dalle vecchie, ovviamente) con il loro primo full lenght, autoprodotto ed uscito grazie ai soli sforzi dei componenti della band. Il disco era si grezzo, primordiale ed embrionale sotto molti aspetti, ma al contempo era pregno di un'energia magica, una sorta di catarsi si operava su chi si metteva ad ascoltarlo; si veniva trasportati in questo mefitico mondo fatto di suoni apparentemente inconciliabili fra loro, e si oscillava come bronzei pendoli fra Power, venature Thrash, matrici Heavy che non se ne volevano andare neanche se gli veniva chiesto gentilmente, il tutto sormontato da chitarre aggressive e vetrose, voce altisonante, ed un sound generale da manicomio. Un esordio che valse alla band di Maertongelli subito una piccola notorietà, un "ciao" al mondo di tutto rispetto, ma che ancora ovviamente soffriva dell'autoproduzione e dei limiti imposti da essa. L'intensa attività live della band certamente aiutò i componenti a pensare che adesso era il momento di fare ancora più sul serio, sormontare il muro dell'autoproduzione, e dare vita a qualcosa che fosse ufficiale, un brand unico nel suo genere, il primo, vero, disco da Arthemis in poche parole. Non c'è da dimenticare inoltre che, agli inizi del 2000, i nostri musicisti nord-italici avevano neanche 20 anni, e a quell'età , come racconta anche Andrea stesso, non si sa bene come funzionano certe cose, parliamo ovviamente di avere a che fare con un'etichetta, organizzare le sessioni per registrare il disco, promuoverlo ecc ecc. Si ha infatti quella sana leggerezza giovanile che ti porta semplicemente a voler suonare come e quando vuoi, essere il più aggressivo e pesante possibile, e dimostrare al mondo intero che cosa sai fare. Negli anni poi questa cosa cambia, si matura, si cresce e si fanno esperienze, ma una buona parte (e chi segue sia gli Arthemis, ma anche Martongelli "da solo" sa molto bene) di quella aggressività giovanile permane, perché alla fine la vera fiamma che arde nel petto di un musicista, quella che ti ha invogliato da ragazzo ad imbracciare il tuo strumento, o ad imparare a stare di fronte ad un microfono, non si spegnerà mai del tutto, anzi, se la sai coltivare, continuerà a bruciare praticamente in eterno. Dunque, siamo alle soglie del nuovo millennio, ed è necessario entrare in sala prove, le menti sono ferventi e il clangore dei loro strumenti non aspetta altro che cozzare con l'incisione del disco. Poco dopo la pubblicazione di Church Of the Holy Ghost, il primo disco autoprodotto, vi è un cambiamento anche nella formazione degli Arthemis, cambiamento che poi varrà anche durante le sessioni in sala prove; cambia il microfono, che passa dalle mani di Alberto Caria a quelle di Alessio Garavello. Il nuovo frontman ben si integra da subito con l'atmosfera che si respira all'interno del gruppo, ed i New Sin Studio di Loria erano pronti ad accoglierli per formare il nuovo mostro (i New Sin a quei tempi ospitavano solitamente le band che in quegli anni rappresentavano l'eccellenza Metal italiana, come i Labyrinth, Vision Divine, Athena, Eldritch, tutte band che hanno fatto la storia della musica alternativa di questo paese, e quindi per i nostri giovani metalheads scanzonati e pieni di giovanile voglia di fare, entrare in un tempio sacro come quello rappresentava un vero onore). Andrea ha giustamente sottolineato quanto questo secondo album li abbia fatti decisamente maturare rispetto alla prima autoprodotta versione di loro stessi (tutto questo senza contare le scanzonate e demenziali sessioni fuori dalla sala prove, in cui i nostri musicisti hanno dato prova del loro estro e della loro giovane età, facendo casino e raccogliendo dissenso e divertimento da parte degli altri); nel nuovo album infatti si puntò molto sulla produzione, un meccanismo che gli Arthemis usano ancora oggi, e cioè quello di scrivere e produrre canzoni che, per quanto siano relegate alla fredda realtà di un CD, sappiano rendere esattamente come in sede live. E, come dicevamo prima, questa regola i nostri musicisti la applicano ancora oggi; se si va a sentire un qualsiasi disco che faccia parte del loro roster discografico, si può evincere quanto esso sia altezzoso (in senso buono) ed echeggiante, le canzoni sono epiche, trascinanti, e la produzione ne esalta ogni tassello, al fine di scatenare un vero e proprio concerto nella stanza di chi lo ascolta, rimanendo semplicemente seduto di fronte allo stereo. In questa nuova fatica inoltre, compaiono anche alcuni musicisti che hanno dato il loro sano contributo alla causa dell'album, scrivendo e suonando alcune parti di altrettanti slot presenti nel lavoro (fra cui spiccano senza dubbio i nomi di Alex Stornello ed Anna Pesarin). Finite le sessioni in sala prove, questo nuovo demone affamato di pubblico era pronto all'azione, mancavano solo due cose all'appello, un nome ed una casa che volesse produrlo e distribuirlo in tutto il mondo. Alla prima si sopperì in modo abbastanza facile, barcamenandosi in qualcosa che ti fa sentire letteralmente alla deriva fra i flutti del mare, aggrappato ad una sudicia asse di barca ormai affondata, mentre un nero vascello con le tele strappate emerge dagli abissi, pronto a catturarti; fu scelto il nome di The Damned Ship, un brand assai Power nel suo insieme, e che richiamava comunque aspetti sia della giovane età dei componenti, ma anche delle influenze presenti sul disco stesso. Al secondo problema, quello della casa discografica, venne in soccorso dei nostri Arthemis la grande Underground Symphony, label italiana che produrrà altri due album con la band. Altro dato da non sottovalutare però, è che questo album non è uscito solo per la casa di produzione italiana, ma anche per la ben più grande Avalon Marquee, giapponese, e che negli anni aveva accumulato sotto di sé una formazione di tutto rispetto, in cui figuravano nomi come quelli degli Stratovarius, Edguy e Megadeth. Il disco uscì prima in Giappone che nel resto del mondo (come ormai è tradizione immemore quando un album viene prodotto anche da una casa del Sol Levante), ed aprì agli Arthemis un mercato che ancora oggi è assai florido (in Giappone infatti, la band è assai conosciuta ed apprezzata, anche molto di più che nel nostro stivale), un sodalizio che porterà il gruppo svariate volte negli anni a suonare per il pubblico orientale, accumulando fama e fortuna. Ufficialmente l'album è uscito il 21 Settembre 2001 per la Avalon, e poco tempo dopo per la Underground, andando così a completare il tutto. Un album nettamente di transizione questo, fra l'ignoranza (positiva) del primo full lenght, e la strada spianata per la leggenda che avrebbero avuto da lì in poi; lo possiamo definire senza problemi come il vero primo disco "da Arthemis" (come anche Martongelli stesso ha sottolineato), ma bando ad ulteriori indugi, il ligneo ponte della nave maledetta ci aspetta, quindi, tuffiamoci in questa nuova avventura.
Quest For Immortality
L'album si apre subito in medias res, veniamo investiti da una pioggia di batteria, che ci introduce a Quest For Immortality (Sfida per L'Immortalità): le pelli rullano furentemente, quasi in trigger, dando un ritmo che, seppur apparentemente pare essere asettico ed "artificiale", conserva dentro una grande energia, e la sprigiona ad ogni nuovo passaggio. Alle rocciose rullate iniziali della batteria si unisce la chitarra, che man mano inizia a ricamare sempre più, prima con alcuni passaggi all'unisono con la doppia cassa, e poi progredendo nell'ascolto si staglia momentaneamente da sola, sparando un riff dietro l'altro, fino al trionfale ingresso della voce. Voce che fin dai primi accordi è alta e mai troppo sforzata, le corde di Alessio sono spesse e piene di talento, riesce senza problemi a passare da un cantato lineare, seppur sempre pregno di forza, ad acuti presi direttamente dalle tradizioni Power Metal tanto teutoniche (stile Helloween e simili), quanto da quelle made in USA (che, per inciso, vanno molto più a braccetto con la musica di sottofondo). Peculiarità di questo brano (il più lungo di tutto il pattern, con i suoi sette minuti di durata), è quello di alternare parti nettamente più veloci, ad altre che, pur rimanendo sempre su frequenze e bpm certo non groove o abbassate, risultano essere più ritmiche; ci troviamo quindi ad oscillare fra questi due tomi, almeno nella prima parte di brano, supportando il tutto con la carismatica voce che ci accompagna e narra la storia contenuta all'interno dello slot. Possiamo riconoscere le classiche influenze, così come per le corde vocali, anche per gli strumenti che vengono suonati: è un brano tagliente e deciso, che ti colpisce duro in faccia come un colpo ben assestato, e ti lascia con denti ed ossa rotte. Il brano procede con questo andante circa fino a due minuti e mezzo di riproduzione, quando un brusco stop, segnalato da un piccolo ricamo di chitarra da parte di Andrea, ed un seguente colpo di campana da chiesa, segnano l'inizio di una variazione, e di una nuova parte. Nuovo elemento che si va ad aggiungere è un brusco abbassamento dei toni, con la ferrea campana a morto che ci da il tempo assieme alla batteria, Alessio che con i suoi "oh,oh,oooh" rende il tutto decisamente onirico e magico, finché la chitarra non si stanca di accennare riff e basta, e si inalbera in un enorme assolo ricolmo di Heavy classico e qualche piccola venatura Speed e Power qui e là, le mani si muovono veloci sul manico, saliscendi a non finire e il nostro cuore comincia a perdere colpi per stare dietro a tutto questo ritmo. Il solo di protrae apparentemente all'infinito, con chitarra ritmica, basso e batteria che dietro continuano a dare il tempo, quasi in disparte, per lasciare libero sfogo all'estro della sei corde. Ed in conclusione, esattamente come la variazione ritmica era arrivata, una forte rullata di piatti la fa finire, e si torna a correre come forsennati dietro al ritmo similare a ciò che abbiamo sentito in apertura di brano; veniamo trasportati così degnamente alla conclusione dell'intero slot, dove gli Arthemis, dopo averci vessato ancora un po' col loro incedere così energico e pieno di note, si concedono anche un traghettamento verso il finale che sbuffa ed assume ancora più potenza, la voce si acquieta per un attimo, e gli strumenti diventano sincopati e incatenati fra loro, un crescendo via via sempre più forte, finché il brano non sfuma dolcemente, ed il mare su cui viaggia il vascello sembra aver ritrovato la pace. L'immortalità, un concetto che ormai attanaglia la mente degli uomini fin da quando essi hanno memoria; la grande sete di conoscenza, la durevolezza infinita della vita, ed al contempo la consapevolezza piena di quanto il corpo umano sia macchina ben fragile ed incline a rompersi con semplice mossa di qualsivoglia essere vivente dotato di artigli, denti o qualsiasi altra cosa. Nel testo si narra di un uomo, probabilmente un guerriero, che sta cercando la giusta strada per arrivare alla vita eterna; la strada è una china, tortuosa e piena di ostacoli, niente di semplice si frappone fra lui e la cima di questa enorme salita, ma la sua spada affilata, il suo coraggio, e la voglia incontrastata di arrivarvi, lo porteranno a scalare anche il cielo, e strappare le viscere di Dio in persona a mani nude. C'è anche un palpabile e costante duello fra bene e male per tutta la durata del pezzo, luce ed ombra si scontrano, così come la voglia di immortalità degli uomini, fin dalle notte dei tempi, e la vittoria non è mai stata appannaggio di una parte o di un'altra, ne disparità ne parità regna fra questi due elementi, solo un eterno e fragoroso scontro. Si narra di cavalcare le alate spalle di Pegaso, il grande destriero mitologico protagonista di tanti racconti, per poter raggiungere la cima del cielo e vincere la sfida, si parla di guerrieri e battaglie, lo scintillio delle spade che si confonde con quello delle lucenti armature, e nel caos della battaglia una luce illuminerà il condottiero scelto dagli astri, per guidare il suo esercito fino alla vittoria. Perfettamente in linea con la musica suonata, questo incipit di disco risulta essere assai coinvolgente; quelle parti così veloci che occupano la maggior parte del brano, ci fanno pensare di essere davvero a cavallo di un alato destriero, destinazione universo in tutta la sua interezza, mentre quella meravigliosa parte ritmica centrale, rappresenta la riflessione del protagonista stesso, spada fra le mani, che cerca di capire quanta strada ancora deve fare per arrivare alla cima, nessuno lo sai, neanche lui.
Voice Of the Gods
Di ben altro intro invece, decisamente più Heavy che Power, è la traccia seguente, intitolata Voice Of the Gods (La Voce degli Dei); il brano inizia con un riff di chitarra graffiante e ritmato, a cui, dopo alcuni secondi, segue la voce che ci investe nuovamente con la sua energia ed il suo carisma, iniziando ad arringare la folla. Ciò che abbiamo detto in apertura, e cioè la voglia degli Arthemis di sfornare brani su CD che avessero lo stesso impatto di un live, qui risulta essere davvero corretta. Già un intro così risulta essere accattivante, e l'ottimo lavoro di missaggio operato sul brano, fa si che piuttosto che essere in camera nostra a sentirci l'album, siamo in mezzo ad una oceanica folla di persone, tutte in fibrillazione, corna e mani al cielo per la band sul palco, sentiamo quasi anche gli scrosci di applausi a fine ascolto. Il brano procede così, mutando piano piano da un sound prettamente Heavy dei primi vagiti, ad un mix fra Metal classico e Power nella parte centrale, Power che si registra soprattutto nella batteria e nel basso, che si muovono a velocità folle, rallentando soltanto quando è necessario dare più spazio alla chitarra per farla esibire al massimo delle sue capacità. Le linee vocali continuano ad essere, anche in questo secondo slot, ispirate ai pilastri di questi generi, e pur mantenendo un tipo di cantato alto si, ma comunque non articolato, ci appaiono comunque epiche nella loro resa, grazie soprattutto alla musica che viene suonata dietro al microfono. Questo oscillare, nel primo brano era fra ritmico e veloce, e qui fra parti estrapolate dal cemento armato dell'Heavy, e dalla pomposità del Power tedesco ed europeo soprattutto (in questo secondo brano le parti americane vanno un po' in carenza, a vantaggio di quelle di altre matrici), rendono l'ascolto fluido e semplice, senza troppi fronzoli, solo pura energia che scaturisce dal gruppo. Nella parte centrale, dopo uno stop da parte della voce, trova spazio un altro gargantuesco solo di Martongelli, stavolta meno ricamato del precedente, al tapping che aveva contraddistinto la prima traccia si sostituiscono pennate alternate e nuovi saliscendi, senza l'ausilio di troppi effetti. Tuttavia, ed è un elemento assai interessante, dietro alla chitarra trova spazio anche una elettronica e organistica tastiera (suonata da Nicola Quaglia), che rende l'intera parte epico/cavalleresca, dandole un sapore in più ed una marcia più alta. Anche qui, come nel precedente ascolto, l'assolo si prolunga per diverso tempo, variando e mutando mentre lo ascoltiamo, si passa da un ritmo assai veloce dei primi accordi, ad una melanconica parte centrale, alla rabbiosa che invece macchia l'ultimo segmento, prima dell'effettivo rientro della voce e della ripresa del pezzo. Martongelli qui da fondo alle sue conoscenze ed ai suoi gusti personali, inanellando combo e mettendosi al centro della scena, spremendo al massimo la sua sei corde, e concedendosi un intimo momento con lei per infiammare ancor di più la folla. La chiusura del brano, o almeno la sua ultima parte, è un continuo crescere di tutti gli strumenti, soprattutto della batteria, che dalle rullate ritmiche a cui ci aveva abituato nelle prime due parti di pezzo, adesso diventa quasi blast, con colpi sempre più marci e furenti, famelici come un cane dagli occhi iniettati di sangue. Alessio continua a vessarci fino all'ultimo secondo, o quasi, infatti pare essere peculiarità degli Arthemis far esplodere il finale del brano con un ultimo piccolo petardo sparato nelle nostre orecchie, e se nel primo slot era stato affidato ad un ritmo cadenzato e sincopato, qui invece si preferisce dare fondo alle ultime energie Heavy Metal del pezzo, che ci lascia nuovamente col fiato corto ed il cuore che scoppia. Torna ancora una volta il tema cavalleresco, ma stavolta, invece di darci alla filosofia ed alle riflessioni, siamo in marcia per cercare Dio, anzi, in questo caso gli Dei, o per sopperire alla loro mancanza. Marciamo nella neve, il freddo che ti entra nelle ossa e le gela al punto da non farti più muovere, col peso dell'armatura che grava sulle spalle e sulle gambe, marciamo nel caldo più torrido, con il sole che cuoce la nostra testa e fa diventare i pensieri incubi, marciamo ovunque e comunque, perché è questa la nostra missione, Dio ci ha scelto, ci ha chiesto di andare in battaglia per lui. Eppure, dubbi atroci attanagliano la nostra mente; e se fosse tutta una menzogna? Una menzogna messa in atto da purpurei uomini che si sfregano le mani con monete d'oro, e se loro stessi avessero interpretato a loro vantaggio il volere di Dio e ci avessero mandato alla morte? Nessuno potrà mai saperlo con certezza, quel che conta è che noi continuiamo a marciare. Ed andiamo avanti, siamo pronti a morire, combattere finché l'ultimo respiro non verrà esalato dal nostro petto, le nostre spade appuntite si conficcheranno nella carne di un altro uomo, ma la conquista di qualcosa di nuovo, un mondo, una terra inesplorata, una civiltà mai vista da anima viva, valgono il prezzo. Le voci degli Dei ci parlano, entrano nella nostra testa, ci danno ordini e ci dicono di continuare a combattere senza freno, senza ritegno, senza fermarci mai, la nostra missione è unica, e come tale, deve essere pagata con la vita; già un milione di soldati sono morti, ma non ci fermerà neanche questo, ciò che abbiamo dentro la nostra sudicia anima di credenti, è più forte del più duro acciaio, la fiamma che arde dentro di noi non si spegnerà mai, ma al contempo, peccheremo di vana gloria finché la nostra vita non finirà.
Sun's Temple
Adesso è arrivato il momento di dare una sonora scossa alle nostre orecchie, ed in soccorso della nostra voglia di energia arriva qualche pennata Thrash o pseudo tale, a salvarci la vita, introducendoci a Sun's Temple (Il Tempio del Sole); alle prime battute di ritmo Thrash segue un andante molto simile a ciò che abbiamo ascoltato nel primo brano, tutto diventa trascinante e ripetitivo (in senso buono), la batteria produce il suo ritmo così colpo di potere, le chitarre si inalberano fra loro, ramificando le note e rendendole intrecciate e piene di pathos, mentre la voce di Alessio, che ormai come di consueto entra dopo i primi battiti del brano, qui sceglie un cantato meno altisonante, ma comunque pulito e pieno di fresca energia, prendendo spunto dalle solite ispirazioni basilari del genere. Gli Arthemis ci tengono a farci sanguinare le orecchie, tutto in questo disco diventa subito aggressivo e forte, schiaffi musicali che volano come uccelli nel cielo, ed il lavoro fatto in post-produzione ne permette di carpire ogni essenza, ogni aspetto ed elemento, niente sfugge al nostro orecchio. Si procede così, con l'andamento a cui ormai siamo abituati fin dal primo accordo di brano, seppur con qualche variazione da parte delle chitarre, che se nel primo slot erano solo Power, nel secondo quasi Heavy, qui, come detto in apertura di descrizione, scelgono la via del Thrash. Thrash che però non risulta essere né di ispirazione europea, né americana, pare più essere di quella scuola sperimentale/innovativa messa in piedi da gruppi come Overkill o Annihilator, in cui elementi basilari di questo genere così aggressivo, venivano ammorbiditi da alcuni inserimenti Heavy, creando un tipo di Thrash Metal tutto particolare, ed unico nel suo genere. La variazione arriva, come sempre, al centro, con un abbassamento dei toni ed un andante ritmico e senza troppi ricami di mezzo, solo un rapido scambio fra batteria e chitarra, con la voce al centro che intona il suo coro, reso ancora più epico da un effetto al microfono; la variazione qui ha lo scopo di farci calmare un attimo prima di ricominciare da capo, ma anche saggiare a fondo l'abilità della chitarra, così come della batteria, dando una piccola frustata all'ascolto, ed anche un sensibile innalzamento del livello emozionale. Alla variazione ritmica segue l'assolo di Martongelli, che stavolta è caratterizzato da un ritmo pieno di artigli (ricorda alcuni dei suoi lavori, seguenti, da solista), piccolo sprazzi di Blues si fondono all'energia metallica data dalla presenza di matrici Heavy, Thrash e Power, fuse insieme in un sound unico e mai sentito; all'assolo segue una scala di tutta la band, che percorre il pentagramma prima in alto, poi in basso, un piccolo e possente coro annuncia il trasporto all'ultima parte, in cui si riprende in mano il ritmo iniziale, ma lo si infarcisce con alcuni ricami nuovi della sei corde, che prendono un sapore quasi Hard'n Heavy in alcuni punti. Il cantato riprende per intonare l'ultima strofa e narrarci la fine della storia, mentre dietro il resto del gruppo si scatena e da gli ultimi ritocchi all'opera musicale; trova spazio anche nuovamente la tastiera, che nella prima parte dell'ultimo segmento da un piccolo tocco di classe all'esecuzione, prima di sparire e lasciare il posto alle due asce che sprizzano scintille fino alla fine, dapprima con una esecuzione rocciosa e carica di eco, e poi sul finale esplodendo (sembra davvero un vizio per gli Arthemis) e picchiandoci sulla testa un'ultima volta prima di lasciarci andare e farci riprendere un attimo fiato. Il Tempio del Sole non è altro che la personificazione edilizia del desiderio di rivalsa che circonda il nostro protagonista; siamo in una terra vessata crudelmente da un tiranno, gli uomini ormai sono assoggettati completamente al suo volere, l'ordine e la pace sono concetti lontani nel tempo, ma si sa, quando si viene schiacciati, prima o poi ci si rialza. Ed è proprio il nostro protagonista a cogliere la palla al balzo e decidere di far fuori il tiranno, affrontarlo faccia a faccia per guardare il suo sguardo diventare vacuo e senza vita, abbandonare le sue spoglie mortali per bruciare all'inferno. E quando finalmente il despota sarà morto, allora il sole potrà tornare a splendere sul tempio, che altri non è che la vita stessa dei vessati che hanno avuto questa sfortuna; è una canzone che , col suo ritmo preciso e diretto, ci fa sentire dapprima il dolore di chi sta soffrendo per le ingiustizie subite, e poi, dalla parte centrale fino alla fine, vediamo letteralmente il protagonista prendere vita di fronte a noi, alzarsi in piedi e non piegare la schiena al volere di chicchessia. Egli è disposto a sacrificare la sua vita per difendere il suo popolo e la sua gente, la lucente armatura che indossa splende alla luce di un pallido sole, la spada rivolta al cielo, pronto alla carica per liberare gli oppressi, e far tornare finalmente la luce in questo mondo funestato dalle tenebre. Temi semplici, musiche articolate si, ma mai troppo, e sempre dirette come un cazzotto, ecco il cocktail micidiale degli Arthemis, e considerando tutto ciò, ed il successo ottenuto, è una miscela che sicuramente funziona.
Starchild
Le prossime porte infernali ci vengono aperte da un sapore che invece vira per un attimo verso l'Epic (sempre di matrice europea), e ci ritroviamo, dopo pochissimo, a correre nuovamente in quello che forse è uno degli slot più ferventi di tutto il disco, Starchild (Figlio delle Stelle). All'inizio pseudo Epic Metal di cui sopra, segue il classico 4/4 del Power a cui ormai abbiamo decisamente fatto l'orecchio dall'inizio dell'album; l'incedere del brano è veloce, ritmico, energico ed aggressivo, ma stavolta, rispetto agli slot precedenti, si è preferito puntare di più su una cattiveria di base che aleggia per tutto l'ascolto, cattiveria che viene innalzata, anche se con toni non gutturali, dalla voce. Si ha la netta sensazione di trovarsi alla deriva in questo brano, fluttuiamo nello spazio profondo, senza sapere dove stiamo andando, né tantomeno che cosa incontreremo lungo il tragitto (ed anche qui tornano, specialmente nella sei corde di Andrea, elementi che, molti anni dopo, ritroveremo nei suoi lavori solisti, in questo brano si sentono distintamente, sia a livello di influenze, che di resa finale del sound). Con i suoi cinque minuti, il brano riesce a regalarci momenti davvero alti, con questa batteria che pesta come una dannata, la doppia cassa che si sente ed anche molto bene, piatti che vibrano sotto le poderose botte di bacchette, quasi fossero suonate direttamente con le mani. E va ancor più sottolineato quanto, nonostante questo tipo di Power suonato dagli Arthemis (quello che, nonostante le inclinazioni USA, si rifà principalmente a quello europeo), abbia il grosso difetto di risultare subito piatto ad un distratto ascolto. In molti gruppi accade, ed anche la formazione italiana non è da meno; tuttavia, ad un ascolto più viscerale, si riesce pienamente a cogliere che non è affatto così, anzi. Le influenze di Martongelli alzano il tiro ad ogni occasione che capita sotto le sue possenti mani, e rende l'intero sound scivoloso e mai banale, conservando comunque i canoni di fondo di questo particolare genere. Niente variazione melodica o rallentata per questo brano, solo una lunga cavalcata di cinque minuti in cui ci ritroviamo succhiati nel caloroso vortice delle note, con gli Arthemis a farci da guida; gli unici momenti in cui il sound cambia, sono quelli in cui viene lasciato ampio spazio al solo di chitarra, specialmente nella seconda parte, solo che rappresenta un'altra dose di malvagità direttamente nelle nostr vene, e che prende spunto stavolta tanto dall'Heavy, quanto da altri generi più o meno estremizzati. La struttura di questo brano è semplice, ed al contempo geniale; sembra che ci troviamo alla deriva si, ed allo stesso tempo navighiamo verso mondi inesplorati con la sicurezza che la colonna sonora sia all'altezza, mentre le stelle ci guardano passare. E' forse uno dei momenti più alti del disco, sicuramente uno dei brani migliori, nonché uno dei più malvagi: bellissima ad esempio l'enorme accelerata finale, con una quasi virata verso lo Speed di matrice moderna, tutti gli strumenti aumentano il passo progressivamente, poco prima di staccare del tutto la spina e finire il brano. Encomiabile qui anche lo sforzo di Alessio, che come abbiamo detto poco fa, sceglie un tipo di cantato lineare, inframezzato dai suoi soliti acuti all'ultima ugola; rende l'ascolto ancor più fluido, e si fonde perfettamente con la musica di sottofondo, andando a rimpolpare gli spazi vuoti e creando un sound granitico e compatto, che ti investe in pieno. Testo pieno di riferimenti, in cui si va dall'apocalisse più controversa, alla vessazione del diverso, fino al ritorno di colui che è stato cacciato perché ritenuto figlio del Demonio, ma che adesso è pronto a calcare di nuovo il suolo, e a far di noi ciò che vuole. Il mondo finirà fra le fiamme, ed il figlio delle stelle non potrà salvarci dal nostro atroce destino, del resto, siamo stati noi coloro che lo hanno allontanato, e che hanno pensato prima a sé stessi che agli altri. Palle di fuoco, fiamme eterne che ardono sotto i nostri piedi, vulcani in eruzione ed in cima la luce che illumina i nostri pallidi volti, ormai segnati dal dolore; le stelle ci guidano verso la nostra fine, e la deriva che sentivamo prima ancora non ha accennato ad andarsene, anzi, forse è divenuta ancora più forte e ricolma dentro il nostro petto, siamo persi, persi e pentiti per i nostri peccati, ma ormai è troppo tardi. Ci salveremo solo sacrificando la nostra vita, chiedendo l'aiuto di Starchild, voliamo sopra l'universo e lo vediamo esplodere in tutta la sua forza, col suo carico di odio e battaglie vane, non possiamo fare altro che guardare, osservare con scioccante sguardo di paura ciò che sta accadendo, l'efferato momento in cui il mondo è giunto al suo ultimo respiro. Brano che va in linea col proprio testo anch'esso, e che, come l'apocalisse annunciata, scatena un vero inferno nella nostra testa; la voce di Alessio pare rappresentare il grido di dolore per tutti coloro che non si salveranno, mentre la parte chitarristica vomita cattiveria su cattiveria, rappresentando il potere maligno che si sta scatenando, pronto ad afferrarci con la sua canuta ed unghiata mano infuocata.
The Wait
Il successivo minuto è occupato da un oscura e melanconica parte di pianoforte classico (suonato da Anna Pesarin), che viene intitolata The Wait (L'Attesa); esso funge da intermezzo fra le due parti principali del disco, e non è altro che una lunga progressione sugli eburnei ed ebano tasti del pianoforte, scala dopo scala, movimento dopo movimento, ci immaginiamo un uomo che attende chissà cosa, forse l'anima gemella, o forse il calare delle tenebre. Quello che è certo è che egli è lì, immutabile ed immobile, in piena catarsi di sé stesso, cercando il significato di ciò che sta facendo; si domanda come mai aspettare, perché è giusto sprecare le proprie energie nel veder passare le ore ed i minuti uno dopo l'altro, perché soprattutto bisogna sempre piegarsi al volere di qualcun altro, quando forse si potrebbe essere un po' egoisti. Bellissima parte che, paradossalmente, chiude un cerchio, quello del primo segmento di album, dandoci un po' di fiato e permettendoci anche di apprezzare la vena compositiva degli Arthemis; l'idea di inserire una parte di pianoforte classica, così breve peraltro, in un disco Power/Heavy Metal, risulta essere ficcante ed estrosa, ma al contempo apprezziamo lo sforzo di averlo fatto, e ci godiamo la nostra Anna passare dal tono alto al tono basso del suo strumento, in una interminabile corsa contro il tempo, che si conclude bruscamente e si lega al brano successivo, quando l'attesa è finita, cala la notte, ed i demoni sono pronti ad uscire.
The Night Of the Vampire
Demoni che occupano i solchi della canzone numero sei, intitolata The Night Of the Vampire (La Notte del Vampiro); il brano viene introdotto da un altro speed moment ai massimi livelli da parte di tutta la band, a cui si aggiunge la cara tastiera sentita qualche brano fa, che in brano del genere si sta a pennello; da quell'alone di oscurità e mistero che mancava in una canzone che parla di creature vampiresche, sangue e morte. Il pezzo continua, si aggiunge la voce di Alessio, e si può continuare a martellare la testa degli ascoltatori con un ritmo serrato, nel quale la chitarra di Andrea viene deflorata a più non posso dalle sue mani, e portata ad alti livelli di esecuzione. Trovano spazio alcune variazioni piccole, qualche sfumatura di Heavy e Thrash che si vanno ad intrecciare con mamma Power che aleggia per tutto l'ascolto, finché, dopo due minuti circa di esecuzione, un enorme assolo di Martongelli non ci arriva dritto nel viso, e ci fa scordare tutto il resto. Si tratta di un solo che riprende in parte le dinamiche del primo slot, tapping a non finire, saliscendi, power chords che piovono sulle nostre teste come un vero ciclone, il tutto supportato dal tappeto di batteria che non accenna a rallentare neanche per un secondo; anzi, dopo l'assolo si trova anche il tempo per un altro duetto fra le due parti, con bruschi cambi di tono e velocità, interruzioni a cui seguono riff, un altro piccolo solo, il tutto senza l'ausilio della voce. E' una meccanica che ormai gli Arthemis utilizzano fin dal primo pezzo; intro, parte cantata con sottofondo, variazione, assolo, ritorno al main theme con voce, esplosione finale e fine. Il tutto risulta però essere così ben fatto, che nonostante la struttura sia sempre la stessa, ogni volta abbiamo un suono diverso, un accordo non sentito, e lo apprezziamo grandemente; dopo la progressione di chitarra fatta da Andrea, una rullata di batteria da destra a sinistra da lo stop a questo momento, ritorna la voce di Alessio a spron battuto e si riparte col tema portante del brano, per arrivare man mano alla fine del pezzo stesso. Finale che arriva dopo altri due minuti di ascolto quasi, minuti nei quali la band si scatena e pompa il pezzo con tutta l'energia rimasta, finché non trova spazio anche una combo organo e band sul finale, per dare ancora voce a quel tema sentito in apertura. L'organo incede con delicatezza, e fa calare la notte su tutto il brano, mentre la band abbassa i toni e diventa cadenzata, ritmica e molto Groove nella sua resa; l'organo, così come è arrivato, se ne va, ma stavolta si porta dietro di sé gli strumenti, si sfuma piano piano, e pensiamo che il brano intero sia finito. Sbagliato: si trova ancora spazio per un'ultima, struggente parte di pianoforte classico, a cui si aggiunge la voce di Alessio che qui, per la prima volta in tutto l'album, da prova di voce lineare e calma, anzi, quasi portandola a livello demoniaco in alcuni punti, per sottolineare il tema portante del pezzo. E si finisce così, con questo strascico di musica infernale e dolce che ci abbraccia con le sue avvolgenti mani, ma è pronta da un momento all'altro ad arrivare al nostro collo. Tutti sappiamo o abbiamo almeno una volta letto qualcosa sui vampiri; i principi delle tenebre che vagano sulla terra in cerca di un collo da azzannare, carpirne la vera essenza e succhiare via la sua anima direttamente dalla pelle, lasciando la vittima esanime, o volendo trasformandola direttamente in un altro vampiro. In questo brano in particolare il vampiro viene posto in una condizione di dolore straziante, il controllo della sua mente sta man mano andandosene, la sete di sangue si fa sempre più incresciosa, cresce nel suo petto come i morsi di una fame a cui non si pone rimedio, ed il nostro signore oscuro piange lacrime amare di sofferenza, perché sa la bestia che è diventata, e che non può smettere di essere. Si vede anche descritto il punto di vista di una vittima, la notte porta alla comparsa degli spiriti del male, e tali spiriti ghermiscono le prede più indifese, facendole loro e lasciandosi dietro solo una scia di caldo e fumante sangue, che nella notte assume il colore della pece, nero più della notte: la vittima inizialmente scappa, si affanna per trovare salvezza, ma sa che essa non c'è, non è possibile averla, e quindi (ed è il momento musicale in cui incede il pianoforte col suo carico di emozioni), decide di lasciarsi andare. Parla al vampiro stesso, dice che è pronto a morire, quindi non deve far altro che azzannarlo, un unico colpo e tutto sarà finito, niente può impedirlo, solo la voglia del signore maligno si frappone fra la sua vita, e la sua inevitabile dipartita. Un urlo cacciato nella notte ed è tutto finito, il sangue scorre nei denti del vampiro, la vittima cade, occhi sbarrati, e il pipistrello umanoide se ne va volando, rimarrà nascosto, finché la sete non si impossesserà di nuovo di lui.
Earthquake
Arrivato il momento del secondo slot strumentale dell'album, ma stavolta non si tratta di una piccola sessione di pianoforte, bensì di un vero e proprio brano completo, dal terrificante titolo di Earthquake (Terremoto): si tratta sostanzialmente di un omaggio che Martongelli fa a tutte le influenze che lo hanno accompagnato ed accompagnano ancora nella sua carriera musicale: questa scossa tellurica inizia con un intro energico ed aggressivo di batteria, a cui poi segue la chitarra subito dopo, che aumenta il passo e da ancor più velocità a tutta l'esecuzione. Si procede nell'ascolto sentendo il basso e la batteria che si relegano per un attimo a metronomo, invece di accompagnare danno il tempo, pur essendo esso molto veloce, mentre la chitarra comincia a susseguire combo e corde infiammate per ogni secondo che passa. Si va da un ritmo Power, ad una strimpellata in tapping dopo il primo minuto, fino ad un andante maledettamente Heavy nella parte centrale, ci si scatena, e la terra sotto di noi si apre sotto i possenti colpi della chitarra. Martongelli infiamma la sua sei corde con ogni mezzo possibile, si da da fare in ogni modo, e noi ci troviamo a correre come disperati per stargli dietro e seguire il suo passo, anche se è assai difficile. Durante la sessione di tapping si sente quasi una pioggia di sottofondo, ad alzare ancor più il livello di epicità del brano, finché non si trascende e si scende in un rapido scambio di battute di matrice quasi Core, e si fa seguire il tutto da un solo melodico e pieno di sentimento, Blues ed Heavy al tempo stesso, a cui si aggiungono piatti e tom. Pare la calma prima della tempesta, ed infatti, neanche a farlo apposta, a questo passaggio melodico segue, dopo una lunghissima progressione che si interseca in mille modi, passando dal dolce all'amaro, dall'acido all'eclettico, e dall'old school al moderno, un elemento ancor più veloce dell'iniziale, con cui si va piano piano a chiudere l'intera sessione. Sessione che si chiude con un riff Power che si imbraccia assieme alla batteria, con energia nuova e velocità smodata, e che ci prende per mano e ci trascina letteralmente al finale, in cui tutto tace ed il terremoto sembra finito. Ascoltando il brano infatti, si ha proprio l'impressione di trovarsi in mezzo ad una scossa di assestamento terrestre; inizia con la velocità, e cioè nel momento esatto in cui la scossa prende il sopravvento sulla terra stessa, vittime che scappano cercando di salvarsi, persone che gridano ed urlano come disperate, ed una unica certezza, quella di non farcela. Poi, a scossa finita, pare che tutto sia tornato calmo, e quel ritmo melodico potrebbe significare l'uscita del sole del mattino, dopo una notte di terrore, tutto si sta placando, la terra non trema più. Eppure la paura continua a pervadere l'animo della gente, come se non fosse finita; infatti, neanche il tempo di riprendere fiato, che la terra comincia a tremare di nuovo, prima sommessamente, e poi, sul finale, tornando ad aprire ferite profonde nel terreno, e stavolta non viene risparmiato nessuno, caos totale e basta. Una scelta azzeccata quella di mettere un brano strumentale in un disco del genere, dato che la voce è una componente importante, si è scelto di metterla da parte per alcuni minuti, al fine di saggiare ancor più a fondo le abilità dei musicisti, dando vita ad un sound particolare, e fondendo fra loro varie correnti di pensiero e di esecuzione.
Noble Sword
Due brani soli ci separano dalla meta, la fine di questo viaggio sul vascello maledetto, ed il primo ostacolo che incontriamo sulla strada porta il nome di Noble Sword (Spada Nobile). Brano che ci viene introdotto da un massiccio ed energico intro di chitarra elettrica, dal ritmo sostenuto e che entra subito in testa; all'intro della sei corde incede subito la batteria ed il basso, che come al solito aumentano i bpm all'inverosimile, portando il brano su un altro pianeta. La voce arriva dopo i soliti 20/30 secondi, ed arriva stavolta con un tono fin dai primi battiti alto ed incisivo, acuti a non finire che ci piovono addosso come pioggia incandescente, e ci bruciano la pelle. Passata l'introduzione, il brano si assesta sul solito andante di batteria, ma stavolta la chitarra, invece di seguire, ricama ancor di più il riff sentito in apertura, dandogli un tono più alto e complesso, grazie all'ausilio anche di qualche effetto. Nuovamente ottimo il sapore del missaggio, preciso e compatto, il sound esce in tutta la sua interezza, e neanche una nota va sprecata; dopo poco più di un minuto trova spazio anche il momento sinfonico, mai sentito fino a questo momento. Ad un certo punto infatti entra in scena la tastiera, che si mette a dare il tempo al posto della batteria, facendo seguire il ritmo sia alla chitarra, che alle pelli, ma anche alla voce di Alessio, in un turbine di suoni che ci prende alla testa. Il momento dura qualche attimo, il tempo di alcuni passaggi e la batteria riprende il controllo, tornando in cattedra a battere sul ferro, e con il primo ritornello si passa al main theme sentito prima della variazione, veloce e ritmico al tempo stesso. Trova spazio anche il solito assolo di Andrea, articolato ed effimero, con la sua carica di potenza ed energia che ci pervade, mentre il resto del brano conta di altre variazioni, come una parte solo cantata nel terzo segmento, poco dopo il solo di chitarra, a cui segue un ritmo che diviene decisamente Epico, con un movimento ondulatorio e continuo fino alla fine, in cui come sempre l'intera strumentazione esplode sotto i colpi dei musicisti, ed in dissolvenza il brano se ne va esattamente come era arrivato. Torna il tema della rivoluzione, stavolta seguita da quello della guerra vera e propria; si imbracciano le armi e si va a combattere contro il potente di turno che vuole schiacciarci sotto i suoi piedi, non lo permetteremo. Noi siamo l'esercito degli oppressi, di coloro che sanno cosa vuol dire fame, sete e corruzione, quelli che hanno visto la stessa società cadere in disgrazia e mangiarsi con le proprie mani, fino a divenire un ricettacolo di inezie, mali ed inutilità. E si analizza qui anche l'aspetto da parte di coloro che si vedono arrivare la massa inferocita; migliaia di uomini con lo sguardo di rivalsa negli occhi, lo sguardo di chi ormai non ha niente da perdere, ma vuole solo alzarsi e combattere per i propri diritti e la propria vita, senza fermarsi di fronte a niente; le loro spade ed i loro bastoni brillano alla luce del sole, ed illuminano la loro via come un cammino segnato. La morte non li spaventa, essa è soltanto un altro passaggio della vita, e quando si lotta per una giusta causa, si va incontro e si ride direttamente in faccia alla nera signora con fare spavaldo, perché il nostro sacrificio è ricolmo di significato. Si risvegliano gli spiriti naturali per aiutare questo esercito di martiri, il vento soffia sotto i loro piedi, la forza della natura si scaglia contro i loro nemici, il fulmine colpisce e con un sordo botto fa saltare le mura del castello, ormai la battaglia è iniziata, e niente potrà fermare quest'orda; la spada nobile di chi sa cosa vuol dire si conficca nella carne e fa più male di qualsiasi altra lama, perché il sentimento con cui viene infilata è straripante di odio e voglia di vincere, più di tutto il resto.
The Damned Ship
Chiude il cerchio la traccia che da il titolo all'album stesso, ovvero The Damned Ship (La Nave Maledetta): si inizia con un piccolo coro di Alessio e degli altri membri, che si trasforma, grazie all'ingresso degli strumenti, in un andante quasi piratesco, in linea con l'atmosfera del brano, e con il suo significato. Si abbandona per un attimo il Power teutonico per concentrarsi su formazioni come i mitici Running Wild, ed il loro suonare cadenzato e possente la fa da padrone per i primi momenti di ascolto, con Alessio che si scatena alla voce ed alza il tiro ad ogni momento che gli sembra più opportuno. Il brano continua a trascinarsi in questo ritmo da marcia piratesca, abbandonando sia il Power, ma anche tutte quelle contaminazioni Thrash o Heavy che abbiamo sentito fino ad ora; dalle stelle ci troviamo sul pontile di una nave, benda sull'occhio e puliamo per terra, guardando il mare sbuffare sotto la chiglia. Anche il ritornello risulta essere abbastanza epico, con uno scambio fra chitarra e batteria, coadiuvato dalla voce, davvero degno di nota; tuttavia, nonostante l'abbandono momentaneo di certe sonorità, il solito assolo di Andrea trova la sua collocazione, esattamente dopo quasi tre minuti dall'inizio del brano, ed è un assolo lento e pieno di sentimento, che si ricollega molto più alle progressioni sentite nel brano strumentale, piuttosto che alle dinamiche a cui ci eravamo abituati durante gli altri brani. L'assolo gonfia come la spuma del mare, si interseca con la batteria ed il basso, ma anche con la chitarra ritmica, duellando con essa e trovando lo spazio per esprimersi al meglio delle sue possibilità. All'assolo segue nuovamente il cantato di Alessio, che dapprima ritorna al fil rouge iniziale, e poi si scatena in un ritmico andamento sempre in tono Pirate Metal, con un sentore di epicità e cadenzata qui e là, aiutato anche dagli altri membri, sia al coro, che all'accompagnamento musicale. Il mare si gonfia ancora di più, la nave si incrina e i fulmini colpiscono lo scafo, affondiamo mentre il brano continua ad imperversare come la tempesta maledetta, e quando finalmente se ne va, dopo un continuo susseguirsi di ritmi serrati e cadenzati, arriva il sereno con una dolce chitarra acustica che ci trasporta al finale del brano, intermezzo acustico che viene reso fantasmagorico dalla tastiera elettronica di sottofondo, che con alcuni effetti stile synth, da l'impressione del mare che dalla tempesta è tornato al sereno, prima della dissolvenza finale e della chiusura intera del disco. Per una musica così epica e trascinante, anche il testo non poteva essere da meno; si parla dello sfortunato viaggio di un vascello, partito con uomini e rifornimenti per un lungo ed estenuante viaggio alla ricerca di qualcosa, ma il suo destino purtroppo è segnato fin dai primi momenti della traversata, l'equipaggio sta andando incontro al suo efferato destino. Sono uomini coraggiosi, che darebbero la vita per il mare, ma la loro sfrenata passione sarà anche la loro rovina, i flutti della loro nave affondata diventeranno la loro tomba, mentre il vascello scuro si incrina sotto il potere dell'acqua, che non perdona. Si narra che ogni uomo sia in realtà affascinato dal mare, la sua maestosità, il suo essere così grande, attrae come una calamita decine di migliaia di persone, ma bisogna stare attenti, tutto ciò che facciamo, ha delle conseguenze. E le conseguenze di questo equipaggio sfortunato sono state quelle di imbarcarsi sulla nave maledetta, un vascello destinato alla fine; si chiede a Dio cosa hanno fatto per meritare questo, ma Dio non risponde, non c'è, se ne è andato, ed ha lasciato la nave e gli uomini in balia del loro destino. Verranno ricordati per sempre, la loro morte sarà monito per tutti, ed il loro sacrificio, tutto sommato, non sarà stato vano; ogni volta che altri vascelli solcheranno i mari, ci si ricorderà di quel viaggio maledetto, e di tutto ciò che di malvagio ha portato la sua scomparsa, le onde del mare ci parlano, raccontano storie, terribili si, ma che è bene saper ascoltare. Una degna conclusione di un epico disco, si è scelto un tema poco usato, o comunque usato solo da una falange ben distinta di metalheads, condendolo con ritmi presi dalle basi di questo filone narrativo, e mettendoci una vena di personalità inserendo le partiture melodiche o ritmiche, ed il finale col suo carico di sentimento, un grande finale dunque, che non ci lascia affatto l'amaro in bocca, finiamo il viaggio così come l'abbiamo iniziato nove tracce fa, aggrappati ad un asse in balia del mare.
Conclusioni
Un album che ha segnato sicuramente la carriera degli Arthemis, dandogli la prima, vera, notorietà della loro vita; importante perché è stato il primo album in cui abbiamo imparato veramente che cosa sia il "sound Arthemis", un miscuglio di parti veloci e melanconiche, unite a filo doppio fra loro da una voce al top della sua forma, con acuti trascinanti e parti che fanno drizzare i peli sulle braccia a causa della loro eccessiva potenza. Un disco che, come abbiamo detto in apertura di recensione, ha aperto alla band anche il prolifico mercato giapponese, dandogli una nuova venatura su cui far scorrere le proprie note, e conquistando ulteriore fama. Prodotto da ragazzi, ma non per ragazzi, questo album consta anche di un missaggio eccellente sui pezzi, l'ignoranza che aveva contraddistinto Church Of ormai è sparita, da questo disco si inizia a fare sul serio. E sul serio infatti è stato il mood che ha accompagnato tanto le sessioni in studio, quanto quelle in sede live di questa parte della carriera degli Arthemis; senza dimenticare ovviamente i classici episodi da ragazzi che da sempre contraddistinguono persone che hanno neanche venti anni, e che certamente non possono (né devono) fare sempre i seriosi. Un disco che non deve mancare in ogni collezione del fan di quello che viene chiamato "metallo tricolore", e che sia degno di chiamarsi tale, è un disco frizzante, aggressivo, spacca i timpani ad ogni ascolto, e ad ogni nuova messa sul piatto, ancora le emozioni volano quando sentiamo gli intro e le progressioni di questo secondo lavoro firmato da Martongelli e gli altri. Testi epici e aulici si intrecciano con musiche articolate, canzoni lunghe e trascinanti, e trovano spazio anche due strumentali a completare il tutto, per non farci mancare proprio niente. Insomma, un disco che va comprato e consumato, i suoi solchi devono portare il segno di tutti gli ascolti che ci sono stati fatti sopra, deve essere mangiato con le orecchie, deve entrarti in testa e non uscirne più; perché in mezzo a tutto quel tricolore che segna la vita dei nostri Arthemis, si respira anche una buona parte di USA, specialmente nell'esecuzione di alcuni brani. E tutto questo rende The Damned Ship un disco ancor più trasversale di quanto già non lo fosse in partenza, abbraccia un pubblico più ampio (e la scelta di cantare in inglese, cosa che ai tempi molte metal band italiane non fecero, lo rende nettamente universale), e lo stesso pubblico se lo mangia a colazione, sparandogli note in faccia come se non ci fosse un domani. Parlavamo nell'incipit di sacrificio e sudore per arrivare in fondo a qualcosa, per definirsi musicisti nel vero senso del termine, beh, questo album trasuda sacrificio da ogni poro; si sente che, nonostante la giovane età dei componenti, e tutto ciò che ha segnato "l'outside" rispetto alla sala prove, quando essi si sono ritrovati di fronte al mixer, hanno saputo spremere con maestria ogni singola goccia dai loro strumenti, dando vita a qualcosa di personale, assolutamente non ridondante, aggressivo e magico, un disco che, in poche parole, ti fa arrivare alla fine con quella assoluta voglia di ricominciarlo da capo.
2) Voice Of the Gods
3) Sun's Temple
4) Starchild
5) The Wait
6) The Night Of the Vampire
7) Earthquake
8) Noble Sword
9) The Damned Ship