ARTHEMIS

Church of the Holy Ghost

1999 - independent

A CURA DI
MARCO PALMACCI
23/11/2015
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Forza, energia, passione, voglia di affermarsi senza mai dimenticare che, prima di tutto, Lei deve sempre essere messa in pole position: la Musica, musa ispiratrice in grado di dare alle nostre vite quel qualcosa in più che in molti ancora cercano, e che noi abbiamo già ottenuto. Quella scintilla che pian piano si tramuta in un fulmine capace di squarciare il cielo e di arrivare dritto nel nostro cuore, quel momento in cui appoggiamo la puntina del giradischi su quel vinile che, con la sua copertina così estrema e di impatto, ci aveva già colpiti. Da quel momento al ritrovarsi come posseduti dal Metal, il passo è breve. Ci ritroviamo a dimenare la nostra testa al ritmo di cotante bordate sonore, completamente rapiti da quel demone in motocicletta che ha afferrato al volo la nostra anima e mai più la lascerà andare. Cosa potremmo chiedere, di meglio? Nulla, esclamerà in coro chi, oggi più che mai, a bordo di quella moto viaggia ancora a velocità sconvolgenti, per nulla intenzionato a fermarsi. Una metafora che ben descrive la tellurica attitudine di un gruppo come gli Arthemis, realtà tutta Italiana che nel corso della sua più che ventennale carriera è riuscita ad imporsi in maniera potente, ritagliandosi uno spazio di tutto rispetto all'interno di un panorama che ha saputo regalarci band straordinarie, invidiateci da tutto il mondo. La tenacia, la forza e la sfrenata passione di un uomo come Andrea Martongelli (mastermind del progetto e da sempre uomo simbolo del gruppo) sono difatti riuscite a portarlo laddove molti non sono mai riusciti neanche a pensare arrivare, proprio perché gli Arthemis hanno da sempre beneficiato della carica positiva e dirompente del loro front-man, un metallaro come noi prima che un chitarrista di successo. Non mollare mai, essere tenaci e capaci di esprimere quel che si ha dentro, condendo il tutto con una passione pressoché sconfinata per le chitarre veloci, i bassi frastornanti e le batterie scalmanate; tutto questo sono proprio gli Arthemis, che in questo 2015 hanno superato il traguardo dei vent'anni di carriera e che sembrano poterne affrontare altri venti ancora, preparandosi successivamente per un terzo ventennale, tante è l'energia che tutt'oggi Andrea ed i suoi riescono  scatenare, profondendo Metallo allo stato puro e riuscendo ancora più che mai a coinvolgere un pubblico che dopo il loro show riesce a tornare a casa più che soddisfatto (il concerto tenuto dagli Arthemis lo scorso Marzo, in quel di Modena a supporto di Gus G. e raccontatovi proprio su queste pagine ne è la prova eloquente), più che mai gasato da quella scarica di note che mai hanno perso lo smalto e che, soprattutto, non si sono mai scordate l'intento principale del Metal: le note che sanno farti divertire e vibrare l'anima, che ti fanno venire voglia di alzare le corna al cielo e cantare a squarciagola pezzo dopo pezzo. Non è Rock 'n' Roll, dopo tutto, se non ti spinge a muoverti. "Up and Down your spine", direbbero i Motorhead. Compiamo quindi un passo più che mai decisivo, accingendoci ad iniziare un percorso che ci porterà a descrivervi nel dettaglio la Storia di questo nostro complesso, italianissimo fino al midollo ma di caratura a dir poco mondiale. Come già detto, gli Arthemis hanno superato proprio in questo 2015 il traguardo dei vent'anni: nascono infatti nel 1994, dalla sinergia di un gruppo di ragazzi che si dividevano fra i banchi di scuola e l'ascolto di quella magica e velocissima musica che pian piano li stava conquistando. Erano gli anni in cui, vagando ancora con sguardo adamitico nel mondo della musica Metal, si provavano sulla propria pelle le prime scottature: la violenza del Thrash Metal, la maestosità dell'Heavy, le melodie trascinanti degli Iron Maiden e la rugginosa velocità di Megadeth, Metallica, Sacred Reich ed Anthrax. Un mix di band che riusciva a far sognare uno studente oppresso dalle interrogazioni e dai compiti in classe, un vero e proprio mezzo per rendere sopportabile una vita che proprio in quegli anni comincia a presentarci i primi obblighi, i primi conti da pagare. Una valvola di sfogo come poche altre, dischi ascoltati in compagnia ed una sala prove nella quale si comincia a pestare duro sui propri strumenti. Questo è l'inizio dei giovanissimi Arthemis, che dopo aver testato vari nominativi (fra i quali Laguna, Anarchy Project e Nemhesis) giungono a considerare lo storico monicker come unico e definitivo, la bandiera da issare per partire alla conquista dei sette mari del fato, per dirla alla Rolf Kasparek. Come abbiamo già detto e come ogni Metallaro sa, ritornando un po' indietro nel tempo, gli anni della scoperta sono quelli nei quali siamo maggiormente accesi e caricati a mille: Andrea ed i suoi compagni, votatisi al Dio Metallo, decidono immediatamente di voler emulare i loro eroi, divenendo anch'essi dei musicisti e cominciando immediatamente a comporre pezzi propri, da affiancare alle cover che promuovevano durante le loro prime esibizioni. Ricorda Andrea come la Passione fosse comunque supportata da un forte senso di volontà e di impegno: gli Arthemis arrivavano a provare per la bellezza di cinque ore al giorno tutti i giorni, senza fermarsi neanche per il week end, proprio perché la voglia di suonare e di arrivare a proporre un qualcosa di proprio era incontenibile e soprattutto inestinguibile; si suonava e ci si impegnava, senza mai accusare la fatica, senza mai avere timori o esitazioni. La buona sfrontatezza della gioventù, inoltre, forniva a questi ragazzi un'arma invincibile, ovvero la libertà: giovani metallari liberi di guidare le loro moto sulle strade che volevano, fregandosene dei giudizi e dei consigli non richiesti, con le chiome al vento e le toppe sul chiodo. Liberi come delle Aquile, orgogliosi come dei Re, nulla poteva fermare l'avanzata di una band che tutt'oggi mantiene inalterata quest'attitudine pura e scevra di secondi fini o biechi interessi. Dopo tutta una serie di cambi di formazione ed una Demo risalente al 1996 ma mai pubblicata si arriva al 1998, anno in cui i Nostri vedono il sempiterno Andrea sempre più nelle vesti di master mind del progetto nonché chitarrista, affiancato da Matteo Galbier (basso), Alessio Turrini (batteria) e Matteo Ballottari (chitarra anch'egli). Alla voce, inoltre Alberto Caria, il quale comunque lascerà il posto ad Alessio Garavello, qui semplicemente accreditato come backing vocals. Alberto restò relativamente poco con la band, giusto qualche data e la partecipazione alle registrazioni di "Church..", in seguito gli subentrerà proprio Garavello, senza rancori e di comune accordo. La band può così, avendo trovato la giusta amalgama, cominciare a pensare più in grande, decidendo di incidere ufficialmente il proprio esordio. Un disco che potesse rappresentare appieno ciò che erano in quel preciso momento, nonché quello che sarebbero sempre stati: una band giovane, libera da preconcetti e desiderosa solamente di suonare, suonare e suonare. Niente "fama", niente "guadagni", solo passione e volontà di vivere la propria vita da metalheads senza che nessuno arrivasse a frapporre bastoni fra le ruote. Le lunghe sessioni di prove ed i successi in ambito live stavano dunque forgiando il sound degli Arthemis, personale da un lato e figlio comunque dei grandi nomi che, con le loro sfuriate, riempivano le camerette di questi ragazzi, camerette piene di poster e dagli scaffali traboccanti di vinili;  la "fame", come giustamente dice Andrea, la voglia di diventare musicisti a tutti gli effetti. "Curch of the Holy Ghost" è dunque figlio di tutto questo contesto, un contesto che vede la gioventù ergersi fiera e proporre al mondo tutto quel che ha da offrire, mettendoci la faccia, non avendo paura di mostrarsi per quel che si è. Un gruppo di giovani metallari volenterosi e bruciati dal fuoco della passione, quali ingredienti migliori per cominciare un percorso che sarebbe diventato presto lastricato di successi? Questo esordio, addirittura, viene considerato dagli Arthemis quasi un disco live più che in studio, per tanti fattori: in primis, la volontà di suonare schietti e sinceri, quasi fossimo ad un loro concerto. Una sorta di presa di posizione importantissima, che sdegnava in qualche modo i super ritocchi in sede studio a favore di una verità tangibile e lampante. Suonare ruspanti e diretti, privi di filtri, privi di ritocchi, privi del lavoro di un "mago" della consolle in grado di alterare troppo il sound. Un live anche per via dell'esiguo margine d'errore che gli Arthemis avevano a disposizione per registrare il loro lavoro; tutto venne inciso infatti su nastro (la registrazione avvenne anche grazie all'aiuto del chitarrista degli All Souls' Day, band Doom Metal di Verona), un metodo di registrazione che richiedeva la massima concentrazione ed abilità, in quanto il prodotto finito poi non poteva certo essere rimaneggiato (qualora si fosse dovuto correggere qualche incertezza) in studio come avviene tutt'oggi con le registrazioni di tipo digitale (il motivo per il quale molte bands odierne risultano insuperabili su CD ma a conti fatti scarse in sede live). Dunque,da un lato tanta ferocia e tanta voglia di esprimersi, dall'altro la volontà di essere come su di un palco. Durante i concerti non si può sbagliare, ed incidere in quel modo significava proprio essere dinnanzi ad un pubblico, ed ogni errore commesso sarebbe dunque rimasto a mo' di prova tangibile. I giovani metallari decisero inoltre di autofinanziarsi, spendendo complessivamente una cifra che oggi si aggirerebbe attorno ai 900 euro, soldi spesi per promuovere - realizzare il loro lavoro in piena autonomia, senza vincoli. Ancora una volta, scelta coraggiosa, tanto impegno e tanta tenacia che vennero comunque ripagate, in  quanto il disco arrivò a vendere la bellezza di mille copie, pur senza un'etichetta che supportasse - spingesse - promuovesse. Un gran bello scossone che portò i nostri ad essere notati nientemeno che dalla "Underground Symphony", che rimase stupita dall'attitudine degli Arthemis e gli propose appunto di accasarsi nel proprio roster, per permettergli di estendere la loro musica ad un pubblico ben più ampio in ogni parte del mondo. Del resto, quel che un'etichetta deve fare è proprio questo: osservare attentamente i giovani, carpirne le potenzialità e permettergli di metterle a frutto, finanziando ed investendo sul loro talento, mettendoli in condizione di esprimersi. La collaborazione con la "Underground.." cominciò dal secondo disco, "The Damned Ship", che sconvolse il mercato giapponese facendo fare ai giovani il cosiddetto "botto" nella terra del Sol Levante anche se questa, come si suol dire, è un'altra storia. Quella che adesso ci apprendiamo a narrare è quella appartenente ad un disco-gruppo che, con tanta voglia di fare, tanto cuore e tanta beata spensieratezza giovanile, nemmeno si accorgeva di aver iniziato a tracciare un sentiero fortunato e vincente. Un disco figlio degli anni in cui pensi solo a suonare, in cui l'unica professione è volersi divertire e far gasare l'audience composta a sua volta da giovani metallari che, in barba a tecnicismi e situazioni cervellotiche, vogliono solo bersi un bel boccale di birra in compagnia aiutati dai massimi volumi di una band coetanea, che sappia come travolgerli ed indurli a scatenarsi. Questo è dunque "Curch of the Holy Ghost". Iniziamo questo percorso nella chiesa maledetta.. Let's Play!

War

Si comincia con "War (Guerra)", aperta da una melodia melanconica che sembra riprodotta con un clavicembalo. La tastiera dissimula perfettamente le note dello strumento, dando a questa intro una parvenza di tempesta incombente, come se queste note dovessero effettivamente prepararci ad una battaglia, come suggerisce il titolo del brano. Una sequenza di suoni armoniosi ed inquietanti quanto basta, che si susseguono elegantemente e vengono rafforzati da un background di cavalli scalpitanti; il rumore di due eserciti che a bordo dei loro possenti stalloni stanno per dare vita ad uno scontro micidiale, scontro che inizia con il raggiungimento del culmine, con l'apice del climax. La melodia serviva infatti a spianare la strada al pezzo vero e proprio, che dopo un crescendo deflagra come un esplosivo e può iniziare a travolgerci con tutta la sua forza. Un rumore ruvido e concitato che si protrae per una manciata scarsa di secondi, ed è subito un riff di forgia Heavy / Thrash a darci il benvenuto. Un riff velocissimo ed incredibilmente diretto, "in your face", che beneficia di tutta la foga giovanile che gli Arthemis del 1999 erano in grado di infondere nella loro musica. Si prosegue su velocità incredibilmente sostenute, la sezione ritmica tiene il passo delle asce ed è in seguito l'urlo alla King Diamond di Alberto squarciare il contesto così come un fulmine illumina una notte carica di nubi oscure. D'improvviso tutto cambia ed il brano ci mostra la sua anima più Epic Power, con un rallentamento deciso ed uno splendido innesto di tastiere; queste ultime decantano una melodia che richiama tempi arcani, sembra quasi dipingere dinnanzi ai nostri occhi giostre di cavalieri, corazze e spade sfavillanti, mentre il contesto tutto si rilassa comunque non perdendo la sua carica Heavy. Sembrerebbe quasi di trovarsi in un disco a metà fra la scuola dell'U.S. Power ed altro di forgia maggiormente europea (Omen da un lato, Helloween era Hansen dall'altra), "diluito" con un uso sapiente e parsimonioso della melodia tastieristica e perfettamente sorretto dal cantato letteralmente epico del vocalist, il quale riesce ad impreziosire con la sua voce limpida e squillante un brano che sino a questo momento si dimostra variegato ed imprevedibile. Una bordata di Heavy Thrash all'inizio, una sostanziale virata verso l'Heavy Power in questo momento, di seguito (minuto 1:56) il contesto torna più estremo complice l'assenza della tastiera. I riff turbinanti e caustici di Andrea e Matteo, ottimi complici, sono qui i protagonisti assoluti mentre Alberto può continuare con il suo istrionico andamento ad arricchire ulteriormente questo frangente, donandoci un altro paio di acuti degni del Re Diamante, mentre di seguito le chitarre tornano di nuovo ad abbracciare uno stile più Epic ed evocativo. C'è molta espressività nel riffing di questi giovani Arthemis, uno stile che diviene più marziale, preciso e "guerresco" (quasi quanto una marcia di soldati medievali) con l'avvicendarsi dell'assolo di Andrea. Prima che il chitarrista arrivi a mostrarci le sue doti, difatti, i tempi divengono più scanditi grazie anche ad un ottimo lavoro in sede ritmica di Galbier ed Alessio; di seguito arriva appunto mr. Martongelli che ci dà immediatamente un saggio della sua bravura, sfoderando un assolo che non avrebbe di certo sfigurato in un album dei Vicious Rumors dei tempi d'oro, e quando il tutto si esaurisce viene subitamente ripreso il riff iniziale. La band parte in quarta e grazie alle chitarre al fulmicotone ed alla voce sempre squillante e limpida veniamo catapultati in frangente a metà fra i Mercyful Fate e gli Agent Steel. Velleità Heavy con un piglio Speed, i tempi sono serratissimi ed è un piacere fronteggiare cotanta selvaggia attitudine, cotanta ferocia metallara che giunge magnificamente alle nostre orecchie e ci staglia dinnanzi agli occhi l'immagine dei giovani Arthemis intenti a far crollare le pareti della loro prima sala prove. Si rinuncia in seguito alla velocità per adottare tempi più ragionati e cadenzati, cercando di ricreare quasi un'atmosfera alla Metal Church condita qua e là di Candlemass (anche grazie alla voce del cantante, che sembra ricordare alla lontana il Marcolin grazie alle tonalità più basse qui adottate). Cadenze e ragionamenti che comunque non durano troppo visto che si riprende subitamente a correre, non lasciando da parte quel gusto Doom ma anzi adattandolo alla velocità tipica dello Speed Heavy, donando così al tutto un gusto particolare, incredibilmente ricercato: si potrebbe quasi parlare di "Speed Doom" se ci è concesso coniare un neologismo per l'occasione, la grande poliedricità del combo chitarristico in effetti ci porta necessariamente ad adottare un registro linguistico inusuale, tante sono le sfumature con le quali Andrea e Matteo dimostrano di sapersi dilettare, andando a creare uno stile unico nel suo genere. Sulla carta parliamo di Power, in pratica è tutta una serie di suggestioni che barcamenano nelle menti di un giovane metallaro che non riesce ad escludere nulla di ciò che ama, cercando di creare un mix che soddisfi le sue esigenze. Il duo ritmico è di pari passo pronto ed attento a sorreggere i compagni ad ogni cambio / variazione e proprio verso questi ultimi due minuti Alberto dimostra con la sua voce di poter dare il tocco finale ad un pezzo incredibilmente di impatto. Si continua a viaggiare velocissimi fra riffing mozzafiato, ritmica spacca ossa ed acuti agli ultrasuoni, mentre Andrea giunge con un nuovo assolo a fendere l'aria. Un assolo che ha molto di Heavy e che sembra ricordare lo stile di Malmsteen, "tradendo" un'ancestrale neoclassicità che sicuramente, da grande ascoltatore ed appassionato, Martongelli avrà fatto sua sin dagli inizi. Un momento solista che beneficia del lavoro in sede ritmica di un Matteo sui mega-scudi, capace di non abbandonare mai la velocità con la quale esegue il riff portante, nemmeno per un secondo, perfettamente coadiuvato da una coppia basso / batteria da manuale del Metal e da un'atmosfera che ormai è divenuta rovente. Plettrate che schizzano via come proiettili, riff a mitraglia sormontati dall'eleganza delle note emesse da Andrea in sede solista, dulcis in fundo l'urlo del cantante che chiude definitivamente un brano da manuale. Ora capiamo perché questi ragazzi passavano cinque ore al giorno in sala prove.. se questo era quel che avevano dentro, era in possibile tenerlo in gabbia per troppo tempo! Per quanto riguarda l'apparato lirico, notiamo come "War" sia strutturato come una vera e propria mini Storia nella Storia tutta, quella del disco. Ci troviamo infatti dinnanzi ad un testo suddiviso in tre atti: il primo, "Darkness (Oscurità)" è intento a dipingerci dinnanzi agli occhi la crudeltà della guerra, senza troppi giri di parole. La guerra, lo scontro fratricida ed il sangue innocente che fluisce in nome di questo barbaro confronto vengono identificati come componenti ancestrali della natura umana: la violenza è insita in noi sin dall'alba dei tempi, assieme alla voglia di prevaricare il prossimo unicamente per conquistare ricchezze e potere. Quell'avidità, insomma, che non ci fa guardare in faccia nessuno e che ci rende prontissimi ad uccidere chiunque. Cos'è la guerra se non un vero e proprio Inferno in terra? La Storia ce lo insegna, combattere serve unicamente a diffondere sofferenza e terrore, non ci sono mai risvolti positivi nell'inizio della guerra; perché, allora, ci ostiniamo ad andare avanti con questo rovinoso atteggiamento? Perché non possiamo incanalare la nostra rabbia riversandola in qualcosa di positivo, invece? Evidentemente, non possiamo farne a meno. Arriviamo dunque al secondo atto, "The Prophecy (La Profezia)", più breve del primo ma il triplo più apocalittico. Il nostro destino è chiaro come un cielo d'estate sempre blu: se continueremo imperterriti a far rombare i cannoni, a sganciare bombe ed a lanciare missili, non potremmo fare altro che avviarci verso l'estinzione totale della nostra razza, terminata in maniera indegna dall'odio e dall'avidità. Un vero e proprio finale tragico, la fine di tutto ciò che vediamo dinnanzi ad i nostri occhi, la definitiva calata di sipario sul genere umano, l'unica razza esistente al mondo in grado di terminarsi con le sue stesse mani, per puro divertimento. Madre Terra piange, ma neanche le sue lacrime riescono a destarci dalla foga con la quale dirigiamo le nostre armi verso il nemico. Si giunge dunque alla conclusione con l'ultimo atto, "Sounds of Victory (I Suoni della Vittoria)", che apre un decisivo spiraglio di ottimismo sulla questione fino ad ora affrontata. Come si combatte, la piaga del conflitto armato? Semplicemente unendo in coorte tutti gli uomini amanti della pace, quasi legandoli fra di loro in una "social catena" di Leopardiana memoria. Uniti possiamo vincere, possiamo isolare i potenti e possiamo indurli a terminare quella che è forse la più grande follia che abbia mai dominato le menti umane. Basta con le armi, i soldati potranno disertare in massa e rifiutarsi di bombardare, di guidare caccia e carri armati. Seppelliamo le armi e facciamo capire a chi comanda, una buona volta, che vogliamo la Pace e non la guerra. Quanti giovani ragazzi muoiono invano, per quale motivo, poi? Un'alba splendente potrà levarsi in cielo solo quando tutti capiremo che è ora di smetterla di combatterci gli uni contro gli altri.

Tyrants' Time

Sono i precisi colpi di batteria di Alessio (un novello Scott Columbus ma dal drumming più variegato, ci verrebbe quasi da dire) ad aprire la traccia numero due, "Tyrants' Time (L'Era dei Tiranni)", che al contrario della track precedente non si apre con un'escursione in campo Heavy Thrash, preferendo puntare immediatamente i riflettori sull'anima Epic degli Arthemis. E' la chitarra ritmica a ricamare immediatamente un riff veloce ed incalzante, mentre Martongelli delinea un'elegantissima melodia alla Kai Hansen, andando nuovamente a sfociare in un assolo di forgia Malmsteeniana e di seguito accompagnando Matteo in un sostanziale inasprimento del sound, che non rinuncia alla scorrevolezza tipica del Power ma diviene in questo caso incredibilmente più cattivo ed incedente, quasi fosse tinto di oscurità. L'entrata in scena di Alberto è complice dell'adozione di tempi maggiormente cadenzati e meno spediti, sempre di scuola Heavy / Thrash e sostenuti da una sezione ritmica ancora chirurgica e marziale nel suo avanzare. Il basso di Galbier e la batteria di Alessio vanno a scandire la marcia dell'esercito per un buon frangente di brano, fino alla ripresa della velocità. Notiamo come il vocalist in questo brano abbia rinunciato in parte alla teatralità mostrataci in "War", e difatti il suo cantato sembra molto più tradizionalista che "teatrale"; dobbiamo dirlo, non ci dispiace in entrambi i casi. Come appunto dicevamo, l'acceleratore viene nuovamente schiacciato al massimo quando è lui a rientrare in gioco, donando al brano un'aura alla "Ride the Sky" di Helloweeniana memoria. Il momento dell'assalto sembra non durare comunque per troppo, visto che al minuto 2:19 una delicata melodia di chitarra acustica fende la crudeltà sonora fino ad ora udita, ricamando note da sogno, quasi fossero emesse dal liuto di un cantore intento a narrarci le gesta delle truppe al di là dei confini del Regno. Per un po' l'elettrica ritmica continua comunque a bilanciare il tutto continuando a ruggire, ma presto è la chitarra acustica a prendere il sopravvento, in solitaria e beneficiando di un basso magnificamente udibile e di una batteria educata e composta. La voce di Alberto diviene accomodante e delicata, profonda e perfettamente in tinta con quello che è il frangente che stiamo udendo. Leste sopraggiungono anche le note di un pianoforte ben suonato: note delicate ma decise, che ricamano un altro momento Epic Power di rara bellezza, che culmina con il ritorno di un'elettrica in grande spolvero ed il sopraggiungere di una tastiera. Anche l'acustica vuol dire nuovamente la sua ma è presto la sei corde elettrica a rimanere sola, inasprendo i tempi e riportando tutto su lidi maggiormente Heavy. La velocità aumenta incredibilmente, fa poi la sua comparsa Martongelli, che doppia il suo collega ricamando di nuovo una melodia più squillante ma veloce quanto il riff portante.. una melodia che sfocia immediatamente in un roboante assalto Speed Heavy ed in un momento solista di Andrea, il quale svela nuovamente il suo lato più neoclassico senza mai voltare le spalle alle sue radici Thrash. C'è molto della ferocia della Bay Area in quello che sentiamo, ma il tocco Powereggiante del gruppo riesce a rendere il brano un altro sontuoso ibrido, una chimera feroce ed urlante, che digrigna le zanne proprio come i due chitarristi assalgono le loro chitarre. Solista e ritmica, un gioco d'asce da perdere il collo a furia di Headbanging, senza dimenticarsi di un basso e di una batteria che senza nessuna fatica sostengono i compagni dall'inizio alla fine. L'assolo di Andrea si protrae a lungo, veloce e preciso, graffiante e melodico, sino al sopraggiungere di Alberto ed a nuovi tempi maggiormente più cadenzati che chiudono definitivamente il discorso. Un brano che si chiude dopo un progressivo rallentamento ed il protrarsi di una tremolante nota emessa dall'elettrica. Si sfuma, fino a non sentire più alcun suono. Il testo di "Tyrants' Time" sembra riprendere a grandi linee il tema di "War", anche se il tutto ci viene posto da un ulteriore punto di vista. Nelle liriche precedenti vedevamo uomini combattere, mentre in questo caso ci soffermiamo sulla figura del Potente inteso come governatore. Cerchiamo di percorrere un piccolo excursus storico e rimembriamo quante e quali atroci dittature si sono susseguite, secolo dopo secolo, anno dopo anno. La bandiera conta poco o nulla, un tiranno è un tiranno e lo resterà per sempre a prescindere dal suo schieramento politico.. e con sommo rammarico, ci rendiamo conto che questa figura non è stata ancora debellata. Nel presente degli Arthemis di "Church.." e nel nostro, la piaga di una dittatura sanguinaria è ancora e più che mai un fatto attuale. Oggi le cose sono cambiate, non abbiamo più un Hitler o uno Stalin, questo perché il politico è divenuto più furbo e calcolatore, meno manesco e soprattutto più attento a non farsi "sgamare" dalla massa. Dietro i loro sorrisi ed il loro (falso) interesse per le nostre condizioni di persone "normali" c'è solamente la tanto devastante brama di potere, di volontà di dominare le vite altrui con piglio militaresco e dispotico. Siamo ancora in balia di questi personaggi, divenuti ruffiani ed addirittura quasi "piacenti", ma la sostanza non cambia. Il Tiranno è tale e lo sarà per sempre, muterà solamente il suo modo di arrivare al potere e di tenerlo per lui e basta, senza spartirlo con niente e nessuno. Riguardo a tutto ciò, la gente sembra dividersi in due grandi categorie: c'è chi accetta tutto questo in nome del quieto vivere e sembra non importarsene, pur soffrendo, e da un altro lato c'è chi invece non riesce a credere di dover passare una vita a vivere come uno schiavo, non accettando di essere privo di libertà, di divenire un pupazzo privo di sogni perché qualcun altro ha deciso di manovrarlo e di rubarglieli. Il cielo sembra riflettere le preoccupazioni umane, è come se si vivesse perennemente in una notte oscura e senza stelle.. quel che possiamo fare è unicamente tentare di reagire, anche se tutto questo ci porterà (forse) a poco. E' un sistema perpetrato nei secoli dei secoli.. scardinarlo sarà difficile.

Time To React

E' ancora uno stacco di Alessio ad aprire anche il brano numero tre, "Time To React (Il Momento di Reagire)", il più breve della tracklist dall'alto dei suoi quattro minuti abbondanti. L'avvio è segnato da precisi giri di batteria più due chitarre intente a risultare più magniloquenti possibili, asce che nuovamente ci svelano quanto epico possa essere il suono dei giovani Arthemis (classicheggiante e figlio di un passato che MAI potrà essere dimenticato, quello degli '80 Metallici); è comunque il batterista a suonare la carica (complice anche un "go!!" di Alberto), ed a ritmo della sua doppia cassa entrambi i chitarristi non hanno paura di prestarsi a questo nuovo cambio di tempo. Come al solito è la ritmica a scandire il riff più veloce e devastante, mentre Martongelli dimostra ancora una volta di saper giocare con la melodia, unendo quest'ultima ad un piglio aggressivo che non ci spiace per nulla. Quasi un mini assolo, il suo, anche se presto anch'egli si piega alla crudeltà sonora e torna a spingere al massimo donandosi a riffing oscuri e pregni di malvagità. La voce di Alberto è perfetta per il contesto e possiamo udire chiaramente il basso di Galbier cesellare alla perfezione il suono degli Arthemis, che al secondo 00:48 virano su tempi più cadenzati che permettono al cantante di divenire maggiormente più espressivo, adottando linee che riempiono le note emesse dalla band, donandoci un momento di puro Epic Heavy. Ben presto è la coppia d'asce a rubare la scena, rimanendo in solitaria con la sezione ritmica e donandoci un nuovo momento solista nel quale Andrea decide questa volta di apparire ben più concreto e massiccio che neoclassico e tendente ad un'evocativa melodia. Il riff che segue è di forgia spiccatamente Heavy, con rimandi ai Black Sabbath ed i riferimenti ormai conclamati a band del calibro di Omen e Manilla Road (lo stile di Andrea in effetti potrebbe ricordare quello di "Shark" Shelton, perché no) si fanno notare senza paura di venir fuori. Su questo riff cadenzato ed imperiale torna nuovamente la voce di Alberto che declama il ritornello con foga e decisione; si ritorna a correre, decisamente e senza freno, fino a che Alessio per un frangente batte unicamente sulla sua grancassa, per spezzare un momento molto intenso e permettere alla band di tornare a correre successivamente. Altra sorpresa ed altro cambio, nuovo momento alla Manilla Road con un riff ritmico che risulta monolitico e precisissimo, una batteria ed un basso precisi e potenti ed un assolo di Andrea che riesce a far serpeggiare le note emesse con la grazia di un Malmsteen unita alle velleità Epic Prog. di uno Shelton. Frangente che lascia senza fiato e chiude un brano fra i migliori dell'intero lotto. Veramente folgorante, unico nel suo genere. Le flebili speranze di rivolta presenti in "Tyrants' Time" vengono in queste liriche esasperate e finalmente tirate fuori dai cuori di tutti noi, con foga e ferocia. Il testo di "Time.." è infatti un vero e proprio inno alla ribellione senza compromessi, un invito ad abbandonare ogni paura ed incertezza. Combattere per i nostri diritti, per la giustizia, per quello che riteniamo giusto e soprattutto sacro.. la Libertà, quella che NESSUNO dovrebbe mai azzardarsi a toccare, nemmeno sfiorandola anche solo con un dito. Siamo persone e non automi, abbiamo dei sentimenti e non siamo robot programmabili a piacimento: i tiranni tremeranno, il loro regno del terrore verrà terminato da una folla unita e compatta che, dicendo "no" ai loro modi dispotici ed alle loro guerre, li detronizzerà defenestrando il loro ego. Nessun uomo è superiore ad un altro, non contano i titoli od i conti in banca.. la Legge è uguale per tutti, e chi la infrange deve pagare. Non importa quanto un uomo possa essere "grande", a smontare il suo castello ci vuole relativamente poco. Le reazioni decise e risolute spaventano il potente, che basa la sua "carriera" sulla paura che incute al prossimo. Se questa paura viene a mancare, egli è disorientato e non sa come reagire, come affrontare chi per lungo tempo ha subìto ma ora si ritrova arrabbiato e desideroso di spezzare le proprie catene. L'unica cosa che il tiranno farà, a quel punto, è scappare a gambe levate per evitare di subire sulla sua pelle tutto il male che ha inflitto durante tutta la sua esistenza. Solo allora potremmo dirci realmente liberi, quando l'utopia del mondo in perfetta armonia col tutto si sarà realizzata. Niente più guerre, niente più tiranni, niente più schiavitù. Solo libertà, allo stato puro.

Tomorrow's World

Raffiche di vento carico di tempesta aprono il brano numero quattro, "Tomorrow's World (Il Mondo di Domani)", accorgimenti sonori che presto lasciano spazio a degli strumenti veri e propri. E' di nuovo una chitarra decadente e composta ad emettere note delicate e cariche di letterario romanticismo, coadiuvate da una timida acustica che vuole aumentare il carico di pathos. Subentra in seguito l'elettrica, che ruggendo una melodia rugginosa e drammatica, squillante ed aggressiva, rende il contesto ancor più sofferente e pregno di oscuro candore. Un momento più unico che raro, che sicuramente avrà ispirato non poche band odierne che puntano soprattutto su questi effetti per suscitare forti reazioni negli ascoltatori, facendoli immedesimare in contesti più dichiaratamente epici. Il tutto si infrange verso il minuto 1:06, quando i tempi divengono più veloci senza comunque la volontà di devastazione riscontrata nei pezzi precedenti. Il riffing è qui più composto ed è la voce del cantante a rubare la scena, cesellando il lavoro chitarristico, rendendo il brano quasi un ibrido fra orecchiabilità e potenza; può ricordarci a tratti il primissimo periodo degli statunitensi Malice ma con buone dosi di Heavy Power europeo a supporto del tutto. Linee vocali che dunque sopperiscono ad una contenutezza educata della coppia d'asce, che ri-accelerano nuovamente verso il minuto 1:53, ma sempre stando attente a non strafare. Il riffing continua a risultare ibrido, tendente all'Heavy più classico così come al Power prima maniera, e la protagonista è sempre l'ugola di Alberto. Non sarebbe sbagliato dire che in alcuni casi (soprattutto quando presta la sua voce ai momenti più lenti e cadenzati) il nostro sembra addirittura un cantante AOR, che non avrebbe sfigurato neanche in gruppi come gli Elektradrive, proprio per fare un nome italiano. La vera svolta, comunque, arriva al minuto 3:11, in cui il cantante si fa da parte per lasciare che le chitarre si esprimano finalmente in tutta libertà.. ed il risultato è quanto meno ottimo. I tempi rallentano incredibilmente e la melodia scaturita dall'ascia di Martongelli, con il fedele Matteo a supporto, è quanto di più mistico ed epico si riesca a pensare, un'atmosfera quasi eterea resa ancor più "sacra" dall'avvento di una tastiera che calza a pennello con quanto stiamo udendo. Note delicatissime e squillanti che si susseguono in maniera elegante, melodie diafane, arcane, toccanti, espressive.. un connubio di suoni degno di accompagnare la fiera marcia di un templare. Un momento solista da incorniciare e da godersi fino in fondo, da non farsi scappare se si è amanti di un certo tipo di Metal. Un lavoro sensazionale che riuscirebbe a rivaleggiare alla pari con nomi ben più blasonati di questo panorama, come Rhapsody ed affini. Subentra nuovamente Alberto a donare ulteriore sacralità ieratica a questo possente intermezzo, presto si ritorna comunque su lidi ben più estremi e la velocità aumenta, poco a poco fino ad un nuovo assolo di Andrea che questa volta abbandona la melodia teatrale per presentarci nuovamente la sua propensione all'Heavy Metal. Il brano si conclude con un poderoso acuto di Alberto e l'esplosione all'unisono di tutta la band, che dopo aver mollato gli ultimi colpi (con il cantante, che anch'egli "spezza" il suo urlo) si congeda dopo un'ulteriore, grandiosa prova. L'ottimismo delle liriche precedenti viene qui messo a dura prova: se in "Time To React" volevamo reagire, in "Tomorrow's.." ci ritroviamo di nuovo con le speranze atrocemente fustigate da un presente non propriamente felice. Tutto va per il verso storto e l'umanità sembra persa in un'oscurità a dir poco perpetua. Vizi, odio, guerra, tutto questo è il pane quotidiano della razza umana, cieca, sorda ed insensibile a quanto di semplice e puro la vita possa offrirci. Andiamo avanti unicamente per saziare il nostro ego e la nostra volontà di autodistruzione, ci avviciniamo alla fine definitiva e nemmeno ce ne rendiamo conto. Tutto questo è assurdo ed impossibile, il protagonista delle liriche arriva addirittura a cercare un Dio che possa dargli una risposta. Perché tutto questo accade? Perché tutto è destinato ad essere così nero, perché tutti dobbiamo morire per causa nostra, rinunciando alla vita in nome di piaceri effimeri o per via di un'insaziabile brama di potere? Domande destinate a rimanere senza risposta. Come si suol dire, la speranza è l'ultima a morire.. e nonostante tutto, il protagonista di queste liriche sembra quasi voler tentare di cambiare le cose. Al solito, viene auspicata un'unione in grado di porre fine a tanto degrado. Solo quando gli uomini rinunceranno all'egoismo ed impareranno a sostenersi gli uni con gli altri riusciremo tutti ad andare incontro ad un'epoca migliore, una nuova età dell'oro che ci accoglierà a braccia aperte. Il Mondo di Domani, appunto. Un domani migliore, ricco di pace e prosperità, senza più razzismo e violenza, senza più sangue innocente versato.

Claws of the Devil

Superato il giro di boa ci troviamo dunque immersi nella seconda metà del disco: è subito "Claws of the Devil (Gli Artigli del Diavolo)" a darci il benvenuto, con una risata schizofrenica ed un riffing travolgente sorretto da una ritmica frantuma ossa. Un mix coinvolgente ed esaltante, velocità e potenza che ben si amalgamano anche con la voce di Alberto che si introduce nella partita con un vocalizzo, facendo prendere al tutto dei connotati Powereggianti, andando a richiamare in causa quella che fu la primissima scuola del Power ancora una volta a stelle e strisce. Gruppi come Jag Panzer e Wild Dogs rivivono fieri nella musica di questi giovani Metallari, che ben sanno dosare tecnica e cattiveria, sparandoci autentiche bordate senza mai rinunciare ad un'esecuzione a dir poco perfetta, che mostra certo la foga tipica della gioventù ma non porge il fianco a nessun errore madornale o grossolano. Si continua a viaggiare su lidi estremi fino al minuto 1:10, frangente in cui sentiamo il basso di Galbier presente e compatto e momento in cui i tempi divengono più cadenzati. Tutto è pronto per un nuovo dialogo fra le chitarre di Matteo ed Andrea, con quest'ultimo che si esibisce in un piccolo assolo con l'amico sempiterno che mantiene ben salde le fondamenta sulle quali Martongelli può muoversi. Interviene dunque Alessio, che picchiando sui suoi tamburi in maniera roboante e precisa termina di fatto i tempi più lenti, per spianare la strada ad un nuovo assalto in musica che di lì a poco si palesa prepotente e mordente. Minuto 2:00, la velocità torna imperiale e si ritorna a rimembrare i fasti dell'Heavy Power old school, con anche il ritorno di Alberto, come sempre squillante e presente, istrionico e concreto allo stesso tempo. Un'ugola di fuoco, capace di rendere perfettamente giustizia al lavoro che la coppia d'asce sta in questo frangente svolgendo. Le due anime degli Arthemis, cattiveria e melodia, sono perfettamente incarnate da Andrea e Matteo, autori di un dialogo continuo e sempre di altissimo livello. Finalmente possiamo nuovamente udire Mr. Martongelli al massimo delle sue potenzialità, ascoltando un assolo che beneficia del riff folgorante eseguito in sottofondo; anche le note di Andrea suonano più malvagie, letali quanto il morso di un crotalo che d'improvviso schizza mordendo la sua preda. Come un serpente, però, strisciano suadenti e si insinuano laddove in pochi riescono ad arrivare. Eleganza e potenza, connubio che continua anche con il ritorno del vocalist e la conseguente fine del brano, che rallenta esponenzialmente adottando in chiusura quasi i toni di una marcia, salvo poi esplodere nuovamente verso la fine, con l'ascia elettrica rombante quanto il motore di una Harley. Sono i piatti e la cassa di Alessio a chiudere definitivamente la partita. Ritorna il tema della guerra anche nelle liriche di questo brano, una guerra vista in questa occasione come personale e molto intima. Si parla infatti dell'Arcidemone per antonomasia, il Diavolo, comandante supremo delle forze del Male, il quale cerca in ogni modo di insidiare le nostre anime cercando di portarci dalla sua parte, e di conseguenza farci calare appieno in quel sistema marcio descritto nei testi precedenti. Il protagonista del testo, comunque, sembra volersi ribellare strenuamente e stoicamente dagli artigli di questa oscura forza. Gli urla in viso sfidandolo, non avendo paura di annunciargli la sua morte per mano sua: anche il Diavolo può morire, se adeguatamente affrontato. Egli è il Signore delle pestilenze e delle carestie, di quanto di più abietto esista al mondo. Combattere contro di lui significa scagliarsi contro il sistema malato che ci circonda, risolvere tutti i problemi in un colpo solo. Uno scontro che ha molto di onirico e cavalleresco, sembra quasi di leggere un antico poema cinquecentesco, in cui un prode eroe fronteggia le orde di demoni che cercano di conquistare le anime degli innocenti. Il nostro eroe non sembra volersi arrendere: la rabbia scorre nelle sue vene, egli è un mortale ma non si piegherà mai dinnanzi alla falsa forza del Demonio, il quale verrà sconfitto a colpi di spada. Il cancro verrà estirpato e l'impero del Male cadrà come il sole che tramonta, lasciando spazio ad una notte stellata e meravigliosa, la quale poi cederà il passo all'alba di un domani privo del Male. Lo spirito del cavaliere qui presente arde di luce propria, sarà proprio la purezza del suo cuore ad indicarci la via per raggiungere un mondo nuovo, nel quale il Diavolo non potrà più interferire con i suoi loschi piani. 

The Storm

Rumori indefiniti e concitati aprono la traccia numero sei, "The Storm (La Tempesta)", rumori che ben presto vengono surclassati da una squillante elettrica che subito scandisce un riff powereggiante. Andrea viene presto sorretto anche dalla chitarra ritmica e da un'evocativa tastiera, rispedendo gli Arthemis dritti nella loro dimensione più serafica ed onirica, donando la vita ad una melodia ossianica, scandita da tempi dilatati ed ariosi. La poliedricità del duo basso-batteria è senz'altro da invidiare, il loro lavoro in combo è stupendo; parliamo del cervello degli Arthemis, il rigore e la disciplina scanditi dalla sezione ritmica sul quale i due chitarristi ed il vocalist (un terzetto che rappresenta il cuore) possono tranquillamente esprimersi senza mai temere di cadere in fallo o scivolare nell'anarchia totale. Una base solidissima ma non per questo "noiosa" e "scolastica", tutt'altro. Sia Alessio sia Galbier riescono a risultare personali e mai scontati, compiendo ben più del loro "semplice" lavoro, anzi cesellando il sound delle chitarre in maniera egregia, riempiendo e donando al tutto grande risalto e personalità. Alberto inizia a cantare ed è subito ulteriore magia, la tastiera continua a farsi udire ed i tempi risultano sempre magnificamente cadenzati ed incedenti, mai aggressivi e mai velocissimi. Il neoclassicismo intrinseco di Andrea si fa qui udire in tutta la sua bellezza: un brano che sembra letteralmente volersi fregiare del forte sentire di Alfieriana memoria, andando a creare un perfetto compromesso fra l'eterea compostezza della melodia perfetta alla volontà di potenza tipica di un tocco di "Dannunzianesimo" che possiamo udire. Grazia e Forza, plettrate che sembrano colpi di spada: l'arte dei nobili ma pur sempre un'arma in grado di ferire e provocare danni. Si continua su questi binari per due minuti abbondanti, finché si comincia a suonare la carica e, superati i due minuti, si parte a velocità molto più sostenuta, riprendendo a piene mani dai maestri Helloween ed inasprendo la proposta. Diciamo che è molto più semplice associare un brano come questo al Power piuttosto che tanti dischi e gruppi che oggi ci propinano come tali. L'assolo di Andrea giunge tosto, un rapidissimo susseguirsi di note cristalline e pungenti come frecce, un'autentica tempesta che sfocia in un momento di nuova calma e melanconico spirito: minuto 3:21, un arpeggio delicato e suadente, coadiuvato da una tastiera sempre azzeccata e mai ingombrante e da un basso eccezionale in fase di cesellamento, si protrae a lungo e lascia che l'ascoltatore prenda un profondo respiro, almeno finché non sopraggiunge di nuovo l'ascia di Andrea ad esibirsi in un assolo dalle tinte epiche ed Heavy, un momento molto particolare in cui il basso spicca più che in altri brani e tutto sembra funzionale e propedeutico all'esibizione solista di Martongelli. Il tutto è sicuramente molto suggestivo e particolare, presto si ritorna a picchiare duro sfoderando un tanto di velocità anche se i Nostri decidono di nuovo di riprendere in prestito qualcosa dai Candlemass verso il minuto 5:22, con la voce di Alberto che si muove quasi sulle coordinate del Marcolin ma risulta comunque più alta ed ispirata. Minuto 5:51, la batteria di Alessio suona la carica ed una pioggia di note di Andrea ricama un riff velocissimo ed aggressivo, salvo poi mitigare il tutto con la ripresa di tempi cadenzati e ricchi di pathos, poi di nuovo velocità. Non ci si annoia mai, con questi Arthemis! Il pezzo finisce dunque rimanendo su questi tempi, con un nuovo assolo al fulmicotone di Martongelli che mette in fila note squillanti e cristalline, velocissime l'una dietro l'altra; un'ultima strofa cantata da un Alberto sugli scudi e splendidamente accelerata dagli Arthemis tutti, che ci tengono a congedarsi con quest'ultima bordata di Power Old School: ancora un assolo di Andrea ed un altro splendido dialogo che avviene con Alberto, in questo momento i due sembrano giocare ad impersonare a turno Downing / Tipton dei Judas Priest e Shermann / Denner dei Mercyful Fate, insistendo in questo caso sulla potenza e sulla capacità di far esplodere letteralmente il pezzo, regalandoci un finale a dir poco esplosivo e distruttivo, un momento di grande tecnica ma capace di trasmettere un pathos unico, da distruggersi il collo a furia di Headbanging. Cosa dire di più? STRAORDINARI, tutti. Proseguiamo, come accaduto nelle liriche del brano precedente, su versanti maggiormente "fantasy" e questa volta la componente fantastica sembra raggiungere letteralmente il suo culmine. Ci viene narrata la storia di una sorta di divinità femminile, la cui residenza è situata in un monte sperduto in un bosco silenzioso. Circondato da alberi imponenti, il luogo è abitato sulla sua sommità da una donna d'antica ed eterea bellezza, la quale scruta attentamente il panorama dall'alto della sua nobile residenza. Il suo volto è un mistero, la sua apparenza è glaciale ed incute timore. Nelle sue vene non scorre sangue umano bensì il gelo di una tormenta ed i suoi intenti sono tutt'altro che pacifici. Ella infatti ha il potere si scatenare una bufera senza precedenti, con annessi e connessi: fulmini, gelo, venti fortissimi che spazzeranno via ogni cosa sul loro cammino, nulla e nessuno sembra essere al sicuro dalla sua furia cieca e distruttiva, quel che le interessa è solo devastare tutto ciò che può nel minor tempo possibile, cercando di lasciare quanti meno superstiti si possa. Naturalmente, chi si trova a fronteggiare l'ira della Dea ha il cuore colmo di paura e guarda la morte dritta negli occhi; l'unica cosa che si può fare è implorarla di fermarsi, cercare di convincerla suscitandole pietà, cercando in tutti i modi di farla desistere dai suoi propositi di distruzione. Lei però prosegue imperterrita, il suo grido di guerra riecheggia dovunque e niente e nessuno sembra poterla smuovere da questa volontà di opprimere e conquistare. Nell'ultima strofa viene comunque fatto riferimento ad un uomo circondato da un'aura di santità, che è stato effettivamente in grado di salvare se stesso e la situazione in generale: la tempesta è finita ed un'alba luminosa sembra sorgere sul territorio oppresso dalla crudeltà della Dea Tempesta.. la speranza sembra ripristinarsi nel cuore del Santo e di tutti coloro che osservano questo cielo schiarirsi pian piano, possiamo appigliarci al suo eroismo ed alla sua spiritualità per sperare nuovamente di fronteggiare il Male che si risceglierà sicuramente sulle nostre terre.

Twilight in the Dark

Penultimo pezzo, "Twilight in the Dark (Fioca luce nell'Oscurità)" mostra in apertura un sound eclettico e particolarissimo, pochi secondi che sicuramente desterebbero l'attenzione di un Les Claypool, ma subito si riprende ad assumere un atteggiamento più concreto e crudele dando il via ad una nuova cavalcata Power Heavy che si infrange comunque verso un rallentamento considerevole: è la tastiera a dominare, le elettriche dapprima appaiono e scompaiono ed in seguito riescono a fornire continuità al loro sound, "eliminando" la tastiera e di fatto danno l'inizio ad una nuova carica, degna del miglior Mark Reale. Sembra quasi di sentire i Riot del periodo "Thundersteel" tanto il lavoro chitarristico sprizza Heavy Metal da ogni dove, se poi ci aggiungiamo l'espressività di Alberto, il gioco è fatto. Possiamo udire distintamente anche un basso sempre rassicurante in fase di cesellatura ed una batteria che non perde mai il ritmo; ora il brano ha acquisito una linearità che gli consente di mostrarci i nostri in tutto il loro potenziale Heavy, riprendendo a piene mani sempre dai già citati Riot. Riffing veloce ed ispirato, voce potente e squillante, ritmica precisa e puntuale, il tutto si "ferma" verso il minuto 3:02, in cui le chitarre rallentano e danno vita ad un riff molto più cadenzato. Possiamo nuovamente percepire nitidamente il basso, che si impone in qualche piccolo momento facendosi udire molto più che in fase si cesellatura, e subito nascono i presupposti per un assolo stavolta smaccatamente di forgia neoclassic, eseguito magistralmente da un Martongelli ispiratissimo. Un gran bel momento che presto spiana la strada ad un ritorno del vocalist, pur mantenendo i tempi cadenzati e ragionati. Questa volta siamo dinnanzi ad una vera e propria marcia imperiale, implacabile ed inarrestabile; Andrea vuole ancora una volta esibirsi in solitaria e dunque si appoggia nuovamente sul riff portante scandito da Matteo, mostrandoci ancora una volta il saggio della sua bravura e di quanto riesca con la sua chitarra a muoversi con eleganza e sicurezza. Dopo questo nuovo momento si ritorna ad accelerare e si ritorna ad un nuovo "momento Riot", roccioso, velocissimo e prepotente. Il brano si avvia dunque verso la fine mantenendo ben salde queste caratteristiche così travolgenti, almeno fino al minuto 6:32, momento in cui la velocità viene mitigata fino all'assunzione di una nuova particolare cadenza sulla quale si sfuma ed il brano si conclude definitivamente. Componente fantasy ancora marcatissima nelle lyrics di "Twilight..", nelle quali si ritorna a parlare dell'eterno binomio bene / male, accendendo i riflettori sul loro perenne contrasto. Protagonista di questa mini-storia è un uomo che, calata la notte, deve fronteggiare il fantasma della Morte, uno spettro scheletrico ed incombente che cerca in tutti i modi di prendersi la sua rivincita. La Notte è da sempre vista come una metafora del trapasso stesso, il momento in cui i corpi si assopiscono e perdono conoscenza, liberandosi degli affanni del giorno e della fatica accumulata durante le ore diurne. E' anche il momento in cui incubi ed ansie sembrano uscire allo scoperto, circondando il nostro letto al passo di una sorta di danza macabra, tenendo i nostri occhi spalancati ed impedendoci di dormire o comunque di riposarci con serenità. Il Fantasma è forse il simbolo di tutto questo, l'ansia che ci assale quando ci corichiamo, e nei suoi sogni il protagonista vede questo funereo volto che, sussurrandogli parole demoniache, gli fa capire che la sua ora è giunta. Egli tenta di ribellarsi, chiede l'aiuto di Dio e prega di riuscire presto a vedere una scintilla nell'oscurità, un lumino che possa fargli capire che c'è ancora una luce alla quale potersi attaccare, per sperare di sopravvivere. Tutto sembra andare per il verso sbagliato, il nero è l'unico colore che domina i sogni dell'uomo ed il Fantasma sembra che stia quasi per raggiungerlo.. ma ecco che improvvisamente sorge il sole, quel chiaro segnale di speranza infiamma il cuore del dormiente che ha così il coraggio di fronteggiare il suo nemico una volta per tutte. L'alba che lo salverà, la scintilla di luce di cui aveva bisogno: i suoi occhi ardono di fuoco combattivo, lo Spettro intimorito fugge via.. la sua vita è salva, ma il protagonista sa che la sua guerrà è tutto fuorché conclusa. Ha vinto questa battaglia ma è conscio del fatto che, ogni volta che la notte calerà, il suo vecchio nemico tornerà a farsi visita. Perché cos'è in fondo questa esistenza, se non il perfetto bilanciamento che viene a crearsi fra le forze del bene e del male? Finché la speranza vivrà, quella scintilla ci salverà da ogni male.. basta solo crederci e non arrendersi mai.

Church of the Holy Ghost

Siamo arrivati dunque alla fine dell'avventura con l'arrivo dell'ultima traccia, "Curch of the Holy Ghost (Chiesa del Sacro Fantasma)", aperta da un pianoforte cristallino ed intento a declamare note meste e cariche di malinconia. Un suono leggero, etereo, che tocca il cuore e ci fa riprendere dalla tanta rabbia metallica sino ad ora udita. Un pianoforte suonato per di più molto bene, che fa fluire le note emesse con grande eleganza e compostezza, finché la batteria di Alessio non batte precisa e permette agli Arthemis di riprendere a diffondere il sacro verbo del Metallo. I tempi sono particolari, cadenzati e quasi declamatori, "medievaleggianti", verrebbe quasi da pensare ad un brano dei Fiaba "estremizzato" per l'occasione e spogliato della sua componente folkloristica. In effetti, il cantato di Alberto risulta qui più che mai declamatorio, quasi il nostro fosse un cantore, un bardo intento a narrarci di terre lontane e gesta di cavalieri. Le chitarre quindi risultano coinvolgenti ed affascinanti, c'è anche un appena percettibile sottofondo di tastiera che arricchisce la proposta e ci fa viaggiare ancor di più con la mente. Il ritornello "esaspera" (nel senso buono) i toni "da aedi" che i nostri hanno deciso di assumere, non distogliamo mai l'attenzione dai nostri musici e cantori ed anche il momento in cui Andrea decide di ricamare un assolo eccezionalmente ben costruito risulta in linea con tutto quel che stiamo ascoltando. Verrebbe quasi da favellar in antichi idiomi, se non fosse che il registro linguistico deve rimanere perfettamente in linea con il contesto di un disco Metal.. una piccola "battuta" che risulta però propedeutica a quanto in questo momento stiamo ascoltando. Molti gruppi cercano con impegno di proporre un qualcosa di simile, non riuscendovi; un gruppo di giovani Metallari del 1999, volendo gettare nella propria musica tutto ciò che amavano e volendo unicamente suonare per loro stessi, ci riescono senza neanche averci voluto volutamente provare. Dei cantastorie eccezionali che in questo momento stanno dipingendo dinnanzi ai nostri occhi scene appartenute a tempi lontani, albe sbocciate chissà dove e chissà quanto, tramonti dimenticati, venti estivi e bufere invernali non appartenenti a questi ultimi secoli. Il brano segue una struttura assai lineare, che si ripete ma non annoia, perché l'impatto emotivo è sempre quello. Sognante e mesto, il pezzo prosegue snodandosi magnificamente lungo tutta la sua durata, con eleganza e compostezza. Minuto 5:33, la tastiera viene lasciata sola ed è il momento che una chitarra squillante ed il basso prendano il sopravvento, aiutando la "compare" a rendere l'atmosfera ancor più ossianica. Questa volta si vira verso suoni molto più neoclassici, complice l'ascia di Matteo, dai suoni perfettamente squillanti e ben calibrati, sostenuta anche da un pianoforte e ben presto sovrastata dall'ascia di Andrea, che si esibisce su di un assolo magnificamente cucito su quelle note squillanti. Il tutto sfuma pian piano, continuando ad libitum, lasciandoci di fatto ancora estasiati e rapiti da tanta magia. Il brano, pervaso da elementi declamatori, non perde il suo spirito neanche del testo, che risulta proprio una sorta di storia narrata a tempo di musica. Ancora una volta è la notte, la vera protagonista, quel momento della giornata in cui tutto ciò che rimane nascosto nelle ore diurne sembra prendere forma e danzare attorno a fuochi fatui, rendendo di fatto l'aria pregna di magia e di inquietitudine. Nebbie misteriose avvolgono il paesaggio e l'attenzione viene rivolta verso una Chiesa abbandonata, presidiata costantemente, a quanto apprendiamo, da un fantasma che mantiene il suo diabolico sguardo sull'ambiente circostante, dall'alto della sua abitazione. Egli è portatore di arcane maledizioni, uno spirito che è meglio non provocare.. che a nessun avventuriero venisse mai in mente di varcare la soglia della chiesa, per non intercorrere nella sua ira e nella sua volontà di punire indistintamente chi anche solamente provi a sfidarlo col pensiero. Quello è il suo territorio e non concederà sconti a nessuno: lui è il Sacro fantasma, protettore e custode della chiesa abbandonata. Nelle vicinanze possiamo udire un organo che suona, note inquietanti che ci provocano brividi lungo la schiena e ci fanno correre via da quel luogo; la voglia di tornare al riparo nelle nostre abitazioni è forte, la volontà di essere circondati da quattro mura sicure e famigliari.. anche se dentro nel nostre orecchie quella melodia ancora risuona forte e sinistra, mai potremo dimenticarla. Qualcuno ha provato ad affrontare lo Spirito guardiano, e non è certo finita benissimo.. le pareti della chiesa sono state ritinte con il sangue degli sventurati, certe macchie sono ancora ben visibili, lasciate lì a costante monito per chiunque: MAI provocare il Fantasma, mai cercare di sfidarlo e soprattutto stare alla larga da lui, a prescindere, altrimenti la Morte sarà il nostro unico destino. Una vera e propria storia raccontata da un gruppo di bardi intenti a ravvivare la serata di un'intera corte radunata nel salone principale di un castello, quando ancora non esistevano computer e televisioni ed i poeti cantori erano impegnati ad inventare saghe mistiche e fantastiche per conquistarsi l'attenzione di un pubblico esigente.

Conclusioni

Giunti alla fine di questo percorso, è ora (come da consuetudine di) tirare le somme circa il disco che abbiamo ascoltato. Non è stato poi così difficile calarsi nei panni di un gruppo di giovani Metallari agli inizi della loro carriera, passo fondamentale da compiere se si vuole valutare questo disco con tutta l'oggettività possibile. Certo, guardando gli Arthemis con gli occhi di oggi, possiamo tranquillamente considerare "Church of the Holy Ghost" come un episodio a dir poco seminale, iniziatico, un qualcosa di particolarmente ben congeniato ma figlio comunque di musicisti sì carichi di speranze e sogni ma ancora con molta strada da fare. Scordandoci il presente, però, cerchiamo appunto di tornare indietro nel tempo, considerandoli un vero e proprio gruppo esordiente e non una realtà pluriventennale. Attuato questo necessario procedimento, ecco che il giudizio diviene più obbiettivo e senza dubbio ancor più positivo. Un bel disco se paragonato al resto della discografia, un OTTIMO esordio se contestualizzato adeguatamente e riconosciuto come l'esordio di un gruppo di giovanissimi e fieri metallari, agli albori della loro carriera, agli inizi della loro avventura. Come già detto, è un disco particolare, eclettico e mai noioso: la durata dei pezzi, a prima vista, potrebbe far pensare a qualcosa di incredibilmente impegnativo e cervellotico, ma con grande sorpresa scopriamo che questa imponenza nella tracklist è solamente dovuta alla voglia dei giovani Arthemis di far ascoltare quanto più possibile, di mostrare a tutti la loro anima plasmata grazie a centinaia di ascolti, tutti diversi ma in sette minuti (durata media di ogni brano) perfettamente conciliabili. L'Heavy Metal, sprazzi di Doom, accenni Speed e Thrash, tanto Power.. è difficile, quando si è ragazzi e contemporaneamente METALLARI, escludere qualcosa. E' per questo che sono nate le battle jacket, per permettere a tutti di capire quali sono i nostri gusti in fatto di Metallo. Ogni toppa un gruppo differente, quei gilet non sono altro che lo specchio della nostra passione, nel quale essa si riflette e si mostra fiera al mondo. Ecco, dovendo fare un paragone, potremmo ricondurre "Curch of the Holy Ghost" proprio ad un gilet pieno di toppe differenti, sgargianti ed ugualmente importanti. Dai Riot agli Omen, dai Metallica agli Iron Maiden, tutto è cucito alla perfezione sul tessuto di jeans e tutto è mostrato, presentato senza distinzioni bensì amalgamato con precisione geometrica. Certo, qualche piccolo pezzo di filo spunta fuori, altre toppe sono fissate con le spille da balia delle pins.. ma cosa importa? E' il nostro Battle Jacket, è la nostra Metal Vest, e ne siamo orgogliosi. Come gli Arthemis sono orgogliosi della loro, messa in musica e mostrata al mondo. Giovani, massicci, incazzati e volenterosi di farsi notare, di urlare a tutti: "questa è la nostra musica, questi siamo noi.. noi siamo gli Arthemis e non ce n'è per nessuno". Le sensazioni che si possono provare, ascoltando questo disco, sono giustappunto queste. Sorvolando magari sul fatto che questo esordio è tutt'oggi superiore a tanti dischi "successivi" di tante altre band, ma non siamo qui per stilare classifiche. Il compito di un recensore è quello di essere sempre imparziale, ed in sostanza posso affermare quanto segue: non piove sul fatto che "Curch.." molto spesso si faccia prendere dalla foga giovanile e che non risulti certo "perfetto", dal punto di vista stilistico; ma cos'avremmo preferito? Forse un superprodotto moderno curato nel dettaglio, figlio di una band che magari on stage non sa nemmeno dove infilare un jack? Siamo tutti d'accordo che preferiamo un prodotto così, sincero, quasi "live" per quanto suoni onesto e ruspante. I nostri vollero iniziare col piede giusto, ebbene ci riuscirono. Un disco consigliato ai grandi e ai meno esperti: i primi ricorderanno con gioia lo spirito dei loro primi anni Metal, i secondi capiranno che, al giorno d'oggi, non contano i super contratti in esclusiva e l'aggancio di qui e di là. Perché puoi avere anche un conto in banca stratosferico e tutti i migliori manager del mondo a tua disposizione.. SENZA IL CUORE, non vai da nessuna parte. 

1) War
2) Tyrants' Time
3) Time To React
4) Tomorrow's World
5) Claws of the Devil
6) The Storm
7) Twilight in the Dark
8) Church of the Holy Ghost
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