ALICE IN CHAINS
Dirt
1992 - Columbia Records

VALENTINA FIETTA
10/05/2012











Recensione
Ci sono posti nella terra che sono destinati a rimanere nel tempo humus fecondi all'arte, alla musica. Se penso agli States, nel panorama più o meno odierno il primo posto che mi viene in mente è Seattle. Seattle, città che negli anni 40 ha dato i natali al grande Jimi Hendrix, e in tempi recenti ha visto l'affermarsi di una delle band più interessanti e eclettiche del panorama metal, i Queensryche. Ma Seattle è probabilmente più nota al grande pubblico, da più di qualche anno a questa parte, per il cosiddetto movimento "Grunge". Risulterebbe a livello teoretico errato cercare di catalogare le caratteristiche del genere, e sarebbe più corretto parlare a riguardo di "Scena grunge", perché qui siamo di fronte a una concezione della musica come protesta contro l'establishment politico e culturale del momento. Pur nell'eterogeneità di band come Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden, i suoni e atmosfere restano comunque lontani anni luce dal rock patinato da classifica; qui dentro c'è rabbia, isteria, disapprovazione per ciò che l'America, il mondo, l'infanzia e la vita rappresentavano a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Accennavo poco fa ai Nirvana, se questi ultimi si muovono su coordinate vicine al punk più metallico, se i Soundgarden viaggiano tra i Black Sabbath e i Led Zeppelin, si può dire che gli Alice In Chains iniziano a creare una forma più legata a certi canoni del metal mainstream, esasperandone i lati più claustrofobici, spesso rallentando il beat, e inasprendola con toni cupissimi, che si rifanno a una certa tradizione dark. Sono considerati più atipici nell'enclave grunge, in quanto appunto la componente punk-rock è praticamente assente, preferendo la fedeltà all'hard rock targato anni '80. Il gruppo comunque modellò via via il proprio suono attorno alle doti vocali di mr. Staley, ugola dal timbro più unico che raro e in grado di stupire pur senza avere una estensione fuori dal comune né una tecnica particolarmente curata. Gli Alice in Chains nascono per esattezza nel 1987 per iniziativa appunto del cantante Layne Staley e del chitarrista Jerry Cantrell, cui si aggiungono il bassista Mike Starr e il batterista Sean Kinney; previa pubblicazione del primo EP We Die Young, la band conosce la popolarità nello stesso anno (1990) quando esce worldwide il loro primo full lenght "Facelift". Ma se gli Alice In Chains dell' album d'esordio si erano mostrati anche capaci di una visione più luminosa, grotesque nella tensione tra grigiore descrittivo e ritornelli coinvolgenti, nel loro secondo album in studio ¸ oltre 6 minuti in tempo di 6/4, ancora una volta con uno Staley al vertice della sua espressività e potenza vocale. Si può tranquillamente dire che queste tre prime canzoni sono l'overture dell'atmosfera morbosa e cupa che aleggia in tutto album. La quarta traccia, "Sickman", toglie definitivamente ogni dubbio; a una strofa percussiva, veloce, violenta, con un canto sguaiato e urlato, contrappone un ritornello al limite della morbosità concepibile, figliastro illegittimo di quella "Love, Hate, Love" di cui sopra: rallentato all'inverosimile, basato su un arpeggio dissonante e distorto e cullato da una voce che intona una nenia buia ("I can see the end is getting near/... ah, what's the difference, I'll die in this sick world of mine"). Non c'è speranza di redenzione, quello che seguirà è solo lo sviluppo di quanto già contenuto in nuce in queste tracce iniziali. "Rooster", brano dedicato da Cantrell al padre e alla sua esperienza in Vietnam, è un'insperata e improvvisa oasi di pace, almeno per i primi minuti. Il dolce arpeggio chitarristico quasi non fa accorgere dell'efferatezza del testo ("ain't found a way to kill me yet... seems every path leeds me to nowhere"), fino all'esplosione sonora del ritornello dove il canto di Staley impressiona nuovamente per potenza e passionalità. La voce parte inesorabile ed intensa, toccante come sempre, per poi esplodere nel suo sfogo e lasciare spazio ad un riff duro, scarno e diretto, quasi a voler restaurare quello scenario fatto di corpi massacrati e sepolti nel fango della foresta. Di qui in poi è una vera e propria discesa nel baratro più oscuro: i cinque brani successivi tracciano l'ideale percorso verso il punto di non ritorno che una mente e un corpo possono percorrere se sconvolti dalla droga, il demone di Stanley. "Junkhead" come fa presagire il nome è una canzone per la droga e contro la droga, costruita con un andamento allucinante. Essa descrive la fase iniziale della caduta, si giostra su un riff sbilenco e pesante, inframmezzato da un ritornello tra i più melodici e potenti del disco, e Layne intona la propria ode all'abuso di velvettiana memoria ("if you let yourself go and opened your mind I bet you'd be using like me, and it ain't so bad"). Segue "Dirt" che si basa su un lentissimo riff dal gusto arabeggiante: l'euforia è stata un attimo di respiro, è già scomparsa, subentra l'angoscia, ed è forse il pezzo che più mette a disagio l'ascoltatore, il momento centrale, quello in cui Staley dipinge lentamente l'affresco della sua disperazione grazie ad una lirica straziante: "You, you are so special, you have the talent to make me feel like dirt, and you, you use your talent to dig me under, and cover me with dirt". Chiaramente si riferisce ancora alla droga. "Godsmack", interlocutoria dal punto di vista della sequenza concettuale, è invece molto interessante musicalmente, più veloce e "rock" rispetto ai brani che la circondano, e resa unica da un'interpretazione vocale da brivido che rende alla perfezione le sensazioni del tossico in crisi, con tanto di tremore vocale e delirio conseguente. arriva poi "Hate To Feel", un blues distorto e feroce, sgocciolante acidità, con un bellissimo assolo hendrixiano di un Cantrell ormai definitivamente maturato sulla sua chitarra. Infine "Angry Chair", capolavoro della paranoia in musica, una strofa che fa dell'apatia la sua arma per sconvolgere quel che resta della lucidità mentale dell'ascoltatore, abbattendolo con la sua melodia monocorde, un cantato ipnotico arricchito con delay ed effetti a renderlo ancora più impressionante, e un ritornello falsamente consolante che in realtà canta la resa finale all'ineluttabile rovina. Resta lo spazio per un'altra oasi di melodia, per certi versi il vertice assoluto del disco, un canto di morte e abbandono che, pur non essendo direttamente legato al "concept" appena chiuso, ne è l'ideale ultimo atto. E' "Down In A Hole", ballata apocalittica dove l'intreccio tra le due voci di Cantrell e Staley raggiunge l'apice del pathos: "Bury me softly in this womb" è la preghiera iniziale, "I've eaten the sun and my tongue has been burnt of the taste" è l'ammissione di colpa di un uomo desolato davanti al proprio destino, incapace di spezzare le catene della dipendenza. Un vero e proprio CAPOLAVORO. Io avrei finito qui l'album, perché questo pezzo sarebbe stato la perfetta chiusura. E invece l'ultimo pezzo è affidato a "Would?", precedentemente usata per la colonna sonora del film "Singles" di Cameron Crowe, è l'ultimo messaggio di disfacimento personale, la definitiva dichiarazione di resa anche laddove ci fosse volontà di riscatto, perché la solitudine impedisce la guarigione ("If I would, could you?"). Concludendo, Dirt è davvero un capolavoro, sicuramente malato e triste, ma dalla bellezza e profondità disarmante.

1) Them Bones
2) Dam That River
3) Rain When I Die
4) Sickman
5) Rooster
6) Junkhead
7) Dirt
8) Godsmack
9) Hate To Feel
10) Angry Chair
11) Down In A Hole
12) Would?


