Alice In Chains
Black Gives A Way To Blue
2009 - Virgin/ EMI

VALENTINA FIETTA
11/07/2012











Recensione
Non si può cambiare l'alchimia di un gruppo che ha trovato la combinazione perfetta. In questo modo io, diversamente da quanto afferma la maggioranza, interpreto il titolo di questa release " Black gives a way to Blue" uscita nel 2009. I nostri Alice in Chains si ritrovano a fare il conto col passato e con l'eredità musicale e umana lasciata da Layne Staley (scomparso nel 2002) e il loro intento non è quello di iniziare da zero, nè di trovare nuove soluzioni, né di invertire la rotta finora seguita. Semplicemente si fa sentire la volontà di intravedere nel "nero" la scia di un blu, cioè sfumare il dolore e l'amarezza in tristezza che perlomeno si riesca ad esprimere, foriera di una possibilità di vita, spiraglio di nuovi colori. Ormai dal 2006 è arrivato William DuVall a completare la line-up. Non ha il tono luciferino e angosciato del mai abbastanza compianto Staley, probabilmente non possiede nemmeno il suo talento. Apriamo e chiudiamo subito un'ovvia parentesi, perché paragonare la voce di DuVall a quella di Layne Staley sarebbe da irresponsabili e totalmente fuori luogo; in diversi episodi di questa nuova release, il cantato del nuovo frontman ricorda e si avvicina a quella del singer di Seattle. E questo è tutto quello che si può dire. Quindi ribadisco: la band è consapevole che nessuno potrà prendere il posto di Staley, eppure sono ancora loro, gli Alice in Chains, con il loro mood, i loro suoni potenti ed incisivi, le atmosfere claustrofobiche e soffocanti, a volte rabbiose, che si alternano a momenti più intimistici e riflessivi. In questi 54 minuti, che scorrono via senza troppi sussulti, si conferma in linea di massima il sound che li rese famosi una ventina d'anni prima: la loro musica è pulsante, profonda, rabbiosa, malinconica, atmosferica. I riff di Jerry Cantrell sono un manifesto di come si possa scrivere ottimi pezzi senza strafare, curando al massimo ogni passaggio, donando ad ogni nota una particolare sfumatura, un significato che arriva forte e chiaro, per poi non levarsi più dalla testa. Undici brani che lasciano il segno, meno inghiottiti nella spirale di disperazione che solo Staley sapeva donare, con una piccola dose di speranza che affiora qua e là, ma con la classe e la consapevolezza di sempre. Dal punto di vista testuale, difficile evitare il collegamento fra le nuove composizioni e le vicende del vecchio compagno; ma andiamo con ordine e vediamo da vicino questi pezzi. L'album comincia con il lento incidere (classico della band) di "All secrets known" brano in cui primeggiano i riff di Jerry Cantrell tra i quali si insinua la malinconia forse un pò troppo timida di William ma comunque il risultato finale è più che discreto: il ritornello è lento e corale, segnato dagli intrecci vocali che tanto amiamo degli AIC. Da molti questa track è considerata quella della "rinascita" perchè in effetti nell'incipit, ascoltiamo (Broke, a new beginning/ Time, time to start living life/ Just before we die/ There's no going back to the place we started from" ). In queste poche riche emerge la consapevolezza piena degli AIC, non si può tornare indietro dopo Layne, ma non è nemmeno giusto rinuciare a vivere, a suonare...resta amaro il retrogusto: ogni nuovo inizio inizia dalla fine di qualcos'altro. Bisogna guardare avanti. Un riff Cantrelliano fino all' osso invece ammorba tutta "Check my brain", la seconda canzone, un riff lento, groovy e "stonato", incalza sino al ritornello, si insinua nel cervello e gira fino al chorus, che riflette sulla fuga di Cantrell da Seattle verso la California. Il testo riflette sulla fuga di Cantrell da Seattle in California e il messaggio è piuttosto esplicito: qualsiasi tentativo di evadere da noi stessi è destinato a fallire, ne consegue una brano pienamente alienato. "Last Of My Kind" prosegue sulla falsa riga dei brani precedenti: riffing plumbeo martellante di sabbathiana memoria stavolta con venature orientate al metal soprattutto nel ritornello. Per la prima volta gli Alice In Chains hanno uno spiraglio di luce nella loro musica, anche se essa rimane codificata nelle ipnotiche e densissime melodie, nei riff spiralici, metallici e deviati, nel groove pulsante e in evidenza della sezione ritmica. "Your Decision" è invece una song acustica che sembra uscita da Jar Of Flies, ripassandone attentamente gli schemi. La voce di DuVall è davanti, senza i molteplici strati di chitarre e armonie, almeno per la strofa. Il ritornello si setta sui classici standard della band, mentre un attimo prima della seconda strofa si presenta una delle migliori linee vocali della raccolta, in questi versi nostalgici. Ascoltando il testo sono evidenti ancora una volta i rimandi ai tormenti del compianto Staley (Watched your fears become your God/ You feed the fire that burned us all/ No one plans to take the path that brings you lower/ It's over). Segue "A looking In View", che ci ricorda che l'anima profonda dei nostri AIC cè. E' un brano che rivive della cupezza di "Dirt", "Private Hell" , che evoca l'inferno di "Down In A Hole"; gli AIC ci risvegliano dal torpore con uno dei brani più lunghi e dark mai scritti dalla band con DuVall e Cantrell (che raggiungono il top in fatto di armonie vocali). Ascoltare questo pezzo è come gettar ancora una volta uno sguardo verso quel passato mai dimenticato: "It's why you never tell me whatevers on your mind" cantano nel morboso incedere di "A looking in view". L'anima di Layne aleggia in tutto il pezzo. Una volta scoperte le carte, il meglio lo offre l'asciutto, bronzeo arpeggio di " When the sun rose again", la sesta canzone. Un tappeto di percussioni delicate, rende protagonisti Cantrell e DuVall, che se la giocano alla pari in un brano molto atmosferico ed evocativo, che differisce da "Your Decision" per essere quasi del tutto acustico. "Acid Bubble" sfodera invece una nuova energia nei suoi cambi repentini. Un riff lentissimo, plumbeo ed heavy regge le melodie vocali, che pian piano ravvivano facendo intensificare il battito della canzone, che dopo uno stop arriva ad una variazione sostenuta, per poi ripiombare nel coma tormentato degli inizi. L'andamento si potrebbe paragonare a "Frogs" in versione più dura, data l'alternanza fasi lente e tetre a momenti in stile metal. "Lesson Learned" è invece un mid tempo rock in cui DuVall canta con tono grave ed evocativo. La batteria di Kinney è gustosa e va ad alimentare il groove, così come il basso di Inez molto presente. Insomma siamo di fronte al tipico brano decisamente AIC. Ricordano "Sea Of Sorrow" l'umore e le vibrazioni della nona track "Take Her Out", restando sempre lente ma pulsanti. Il ritornello è ripetitivo. Come molte canzoni dell'album anche questa resta heavy, ma anche lenta, attributo che ne aumenta in qualche modo la pesantezza. Nel complesso tra le meno riuscite di questa release. "Private Hell" è la penultima song, leggiadra ed eterea un po' fuori dal coro è infarcita di doppie e triple voci. Un altro brano molto lento ma dalle atmosfere palpabili, dove ancora una volta la fanno da padrone le densissime armonie, linee vocali superiori ed assoli brevi e incisivi. In qualche modo ci riporta negli abissi di "Down in a hole" e regala un brivido di sana saudade anche ai più inguaribili scettici tra i vecchi aficionados. Dopo quasi un'ora di intime emozioni e sentimenti personali che si rivelano mai banali, arriviamo finalmente alla titletrack, cantata da Cantrell stesso e dedicata all'amico scomparso. Impreziosita dalla partecipazione di un ospite speciale quale Sir. Elton John, "Black Gives Way to Blue" è davvero uno dei migliori omaggi che si potessero fare a uno dei più grandi cantanti degli anni '90. Il brano è breve e lascia un reale senso di vuoto, interrompendosi in modo quasi improvviso, proprio come la vita di Staley. Profondo il testo: parla di come affrontare le esperienze negative della nostra esistenza e del come continuare a vivere una vita. Chitarra, voce e piano: l'alchimia perfetta per fare una dedica o per ravvivare un ricordo, il pezzo perfetto da mettere in chiusura del disco. In conclusione, ad un primo ascolto "Black Gives Way To Blue" è proprio come lo si immagina: un prosieguo del self-titled privato dell'abisso emotivo, della sofferenza, della drammaticità che incarnava Layne Staley, maestro nell'evocare il suo calvario di dipendenza attraverso il suo timbro atipico e segnato dall'afflizione. A conti fatti, se gli Alice In Chains non vi son mai piaciuti, non sarà certo questo il disco che vi farà innamorare di loro. Al contrario, se hanno avuto un posto importante nella vostra vita o nella vostra formazione musicale, "Black Gives Way To Blue" rappresenterà invece un evento lieto e benvenuto. Molto meglio di tante inutili reunion raffazzonate degli ultimi anni! Lontana dalla disperazione nichilista del passato quanto dalla felicità, la formazione sfodera una raccolta curatissima in ogni dettaglio, come deve essere un disco all'altezza del loro nome, eclissando con una superiorità imbarazzante tutti i pretendenti al loro trono, abituati a una logica di prolificità industriale. Merito quindi alla band per aver proseguito la propria storia senza averne intaccato il nome, riuscendo a mantenere quello status di fuoriclasse che ne ha decretato il successo negli anni novanta. "Black Gives Way To Blue" è un album degno di essere inserito nella discografia degli Alice In Chains, benedetto da un songwriting brillante, meno crudo ma in esubero di energia, catchy, lento ma solido. Un album che continua col tipico sound AIC, solamente intriso di una nuova, matura e per niente copiosa, consapevolezza: un funereo destino può sempre cambiare colore.

1) All Secrets Known
2) Check My Brain
3) Last of My Kind
4) Your Decision
5) A Looking in View
6) When the Sun Rose Again
7) Acid Bubble
8) Lesson Learned
9) Take Her Out
10) Private Hell
11) Black Gives Way to Blue


