ALGOL
MIND FR@MES
2016 - Punishment 18 Records

NIMA TAYEBIAN
25/05/2017











Introduzione Recensione
Generalmente quando prendo in esame un nuovo gruppo - o nello specifico un nuovo album di qualche gruppo misconosciuto - parto sempre con un certo scetticismo di fondo, il che di base non è un male, ma aiuta fondamentalmente a non riporre troppe speranze su quanto si sta per ascoltare. Cosa molto utile, a mio parere, per non rimanere delusi dall'ennesimo parto discografico capace di strappare al massimo qualche barlume scarso di attenzione e pacchi di noia straripante. Non che io mi ponga in quest'ottica per prevenirmi da eventuali brutture (salvo poi cambiare idea appena le cose iniziano a girare "nel modo giusto") ma è solo quella che chiameremmo, senza paura di usare termini non corretti, "deformazione professionale". Talmente si è abituati a sentire tutto di ogni genere (altrimenti non starei qui a scrivere) che si ha sempre l'impressione che "il meglio lo si abbia già ascoltato" e da un pezzo. Ma oltre ad essere "critico", "recensore", chiamate quanto faccio pure come vi va, lo spirito giusto è quello di essere innanzitutto fan della buona musica. E quindi, nonostante quella parvenza di aver già sentito tutto quello che meritava di essere sentito, si spera, in cuor proprio, di beccare il disco (o meglio ancora il gruppo) capace di creare ben più di un sussulto, di svegliare il nostro essere da un malsano torpore, inflazionato dall'ascolto di miriadi di nuovi dischi anonimi o brutti. Quindi, come già detto, il primo passo è quello di essere un fan. Un fan della buona musica, delle giuste sonorità. Poi, in secondo luogo possiamo mettere tutto il resto. È così che permane quella pur vaga speranza di beccare, a furia di cercare, di ascoltare, di valutare, qualche nuova grande realtà. Premessa indispensabile, anche se a qualcuno può sembrare fuorviante, perchè è così che mi sono posto con il nuovo disco degli Algol (Mind Fr@mes, del 2016, edito dalla Punishment 18 Records), band di cui, a onor del vero, non avevo mai sentito parlare. Dentro di me, dopo aver spulciato la bio e le informazioni sulla celebre Encyclopaedia Metallum, ho pensato: "ecco l'ennesimo gruppo melodic death in un panorama non certo avido di gruppi di tal genere". Avevo dunque l'impressione che mi sarei preparato a recensire l'ennesimo gruppo clone dei famosi maestri svedesi. Ma rimaneva comunque (da fan ottimista della "buona musica") una certa speranza su quello che sarebbe stato il prodotto. "Almeno" -mi baluginò nella mente - "se deve essere l'ennesimo gruppo clone della celebre "triade swedish", speriamo sia di ottima caratura come molti epigoni venuti successivamente. Naturalmente non potevo aspettarmi che quanto stavo per sentire era molto distante, e molto meglio di quanto effettivamente pensassi. In pratica l'etichetta "melodic death" sembra in parte essere una forzatura (chi legge, inizialmente, può parzialmente cadere in fallo), perché effettivamente si può parlare di un death melodico, ma non come si è abituati a pensare. Insomma, si esce da una certa standardizzazione per proporre un death metal che è si melodico, ma differente da quanto abbiamo sentito sino ad ora e siamo abituati a catalogare. I ritmi sono molto possenti, e le vocals potenti e "cattive", ultratombali. Ma i pattern, per quanto granitici e aggressivi, mantengono un certo "groove" (terminologia da prendere con le pinze, perchè ormai abbiamo capito che i termini qui non si adagiano sui classici richiami standardizzati); insomma, sanno essere catchy ma estremamente deflagranti. Dunque, quel che abbiamo è una ricetta vincente a base di ritmi terremotanti ma di presa immediata, harsh vocals (la parte vocale a parere di chi scrive è da lasciare a bocca aperta: un growl del genere è spesso lecito sentirlo in un gruppo death tout court più che nel melodic death) e una sapiente maestria nel gestire il tutto con grande professionalità ed ispirazione. Per la band, giunta ormai al terzo album (per qualcuno quella del "terzo album" è la prova del nove, nel senso che con il terzo una band generalente conferma la propria ispirazione e professionalità o rischia pericolosi scivoloni) si riscontrano importanti novità: rispetto al passato niente clean vocals (a parere di chi scrive è meglio così), niente influenze "neoclassiche" (o poche, se proprio ce le volete trovare) e quello che prima era un sestetto ora è un gruppo di quattro elementi. Importante in tal senso l'innesto della tastierista Giorgia Alfonsi, che contribuisce in maniera decisiva al nuovo corso della band (altrettanto significativo comunque risulta l'innesto del nuovo chitarrista, Michele Donato). È lecito ora dare un piccolo spaccato sulla band. Il gruppo nasce a Padova nel 2000, e pone tra le sue influenze primarie sin da subito gruppi quali Dark Tranquillity, In Flames, Mercenary, Skyfire, Dimmu Borgir, Opeth, At The Gates (quindi oltre ai già citati elementi della triade melodic scandinava sono citati anche gruppi symphonic black - Dimmu Borgir - e prog death - Opeth). Dopo vari assestamenti nella formazione e in seguito alla pubblicazione di ben due full length ("The Wisdom Lost" del 2007 e "Complex Shapes" del 2012) il gruppo riassesta il suo organico stabilizzandosi con i cinque elementi di seguito: Giorgia Alfonsi alle tastiere, Alessandro Manta al basso e alla voce, Matless alla batteria, Michele Donato alla chitarra. Misteriosa è l'inclusione nella celebre Encyclopaedia Metallum del tastierista Raffaele Benvegnù nell'organico, accreditato anch'egli come tastierista, quando ad essere coinvolta nell'ultimo disco è la Alfonsi. La pagina ufficiale di facebook indica l'organico di quattro elementi, mentre la suddetta enciclopedia li cataloga come un quintetto. Ma comunque ci fidiamo della loro pagina ufficiale e consideriamo la presenza di Benvegnù come una sorta di refuso. Ultima nota da spendere è a proposito del monicker, che senza grandi dubbi dovrebbe derivare da un sistema stellare, tra le più conosciute binarie ad eclisse (stella binaria che denota nel piano orbitale delle due stelle un perfetto allineamento con il punto di vista dell'osservatore, tanto da mostrare delle eclissi reciproche). Detto ciò, non mi resta che sezionare l'opera in questione attraverso la consueta track by track.

Falling Down
Si inizia con Falling Down (Cadendo Giù). L'apertura è in fade in, tra voci filtrate e lontane e rumori di fondo di varia natura. Verso il quindicesimo secondo un perfetto sincrono di chitarra e batteria da inizio alle danze. Un riffone energico apre ufficialmente il brano coadiuvato da precisi colpi di batteria. A quasi trenta secondi il pezzo parte in velocità trainato egregiamente da ferali blast beat supportati dal riff di cu?i sopra. A circa quarantasette secondi fa il suo ingresso la voce - tra i punti forti del disco, sporca, fangosa, lugubre - che ci porta al cospetto di una parte testuale non di facilissima interpretazione ma comunque dai connotati intimisti, nel quale i colori del giorno si stemperano nel più totale grigiore in una realtà, quella di tutti i giorni, nella quale sembra di precipitare in un baratro. Il testo in toto sembra una sorta di resoconto delle difficoltà della vita riassunte e circoscritte in quei giorni in cui la vita sembra più complicata ("Un giorno per nutrire i maiali/Un giorno per faticare il sudore/Un giorno per ingoiare tutte le bugie/Un giorno per arrendersi e morire"). Andando avanti, nel testo si fa strada una strana cifratura numerica ("Un cuore sta sanguinando, due mani stanno tremando, tre proiettili uccidendo..." sino al countdown che porta da "Quattro persone [che stanno] combattendo" a "Un fottuto giorno") la cui simbologia può essere variamente interpretata. Non è difficile carpire tra queste note comunque alcune chiavi di lettura, da quella sociale (lavorare per dare da mangiare ai "porci" e anche qui lasciamo che sia l'ascoltatore a tirare le somme) a quella personale (facilmente riscontrabile nelle "quattro persone che combattono", che non fatichiamo ad identificare con i quattro membri del gruppo). Ritornando al piano strettamente musicale, il brano prosegue in maniera tutto sommato abbastanza lineare tra riffing poderosi e un non meno poderoso lavoro alla batteria, che sa essere implacabile ma precisa donando una egual mistura di classe e potenza al brano. Vi sono nel pattern complessivo anche parti meno "thrashy" e sempre molto tra virgolette "più distese", come a partire dal minuto e sette, quando passiamo dall'irruenza implacabile di textures forgiate sulla violenza amalgamata di chitarra/batteria a un passaggio in cui la "violenza sonora" è gestita prevalentemente dalla batteria (mentre la chitarra qui si dimostra capace di cesellare parti più melodiche e addomesticare la propria furia alimentando ariose armonie).

Imp Of Perverse
Si continua con la seconda Imp Of Perverse (Imp Della Perversione), che inizia con un bel riffone thrash oriented, sostenuto da un implacabile lavoro alla batteria. All'undicesimo secondo fa la sua comparsa la voce che stavolta ci introduce ad una parte testuale che in qualche modo imputa il fattore "perversione umana" ad un'Imp (l'Imp sarebbe, in poche parole una sorta di demonietto appartenente al folclore britannico, il cui nome deriverebbe da impe o impa, che indicherebbe la parola "germoglio". Il termine successivamente - nel XVI secolo - è stato usato per indicare i bambini. La creatura in questione sarebbe associabile ad una sorta di spiritello: già dal 1580 negli ambienti cristiani, grazie a frasi come imp of Satan - ossia "progenie si satana" il termine sarebbe stato associato a creature tipo folletti). L'intera parte testuale del brano in questione si dipana in una digressione, non immediatamente intellegibile a onor del vero, ma che vorrebbe dare uno spaccato dei meandri dei più interni moti dell'essere, in quegli anfratti reconditi dell'io sottomessi a pulsioni, dai quali si dipanerebbero, attraverso vie oscure, le pulsioni che portano l'uomo verso subdoli comportamenti: è oscura la causa dellla negatività dell'essere, ma per tutto questo è facile additare una creatura, volendo simbolica, ossia l'Imp. L'imp della perversione. Da notare che il brano è un omaggio neanche tanto velato ad Edgar Allan Poe, artefice di un racconto dallo stesso titolo ( "The Imp Of Perverse", tradotto in italiano come "Il Genio Della Perversione" o "Il Demone Della Perversione" e il cui testo non è tanto distante da ciò di cui si è appena parlato). A livello strettamente musicale si continua - conseguentemente all'entrata della voce - su binari dirompenti e non eccessivamente elaborati: si predilige, esattamente come nel brano precedente dare spazio ad un misto "potenza + melodia" più che gettarsi sterilmente in inutili svolazzi pindarici. La scelta dei riff è vincente, così come il tappeto di drum kit, sempre molto preciso e potente. Ci sono parti più melodiche (conseguentemente al minuto e cinquanta si ha una parte dotata di una certa armonia, intarsiata da un gustoso guitar work) rispetto ad altre, in cui è evidente l'intento dirompente, ma nel complessivo il brano risulta ben bilanciato e alla fine ottimo.

Ego Shield
Il proseguo è affidato a Ego Shield (Scudo Dell'Ego), inaugurato da un'intro "quadrata", marziale,che si tiene a distanza da qualsiasi assalto belluino all'arma bianca per puntare sulla "resa atmosferica" atta a far crescere un senso di tensione. A quasi trenta secondi si parte in quarta, con un rifing veloce e come sempre efficace, sorretto da un lacerante drum work. A circa quaranta secondi è il turno della voce, che in quanto a efferatezza si mantiene sui consueti standard del disco. Questa ci porta stavolta di fronte ad un testo ancora una volta di carattere introspettivo. Quanto ascoltiamo nel brano ci induce a pensare che il testo possa essere una sorta di condanna - o autocondanna - verso un tipo di autoindulgenza destinata ad inquinare la vita. Si parla di autoesaltazione (esplicativo in tal senso il verso che recita "Ti sei rivelato essere il tuo Dio personale", ma anche "Spine di bugia nella tua corona", ovvio riferimento alla corona di spine di Cristo, quasi ad indicare la megalomania del personaggio citato e le crepe riscontrabili in una grandezza in realtà discutibile) ma al contempo vengono usate parole, affermazioni che essendo in qualche maniera "criptiche" rendono l'intero testo meno decifrabile ed intellegibile ("Esitazione, compromesso, prenditi il tuo tempo in ritardo" forse in riferimento allo stesso personaggio dalla personalità discutibile. E ancora "Sbagliato, sangue, attraverso questo presagio indica la via" affermazioni variamente interpretabili). A livello strettamente musicali il brano, dall'entrata della voce si mantiene su coordinate dirompenti correndo a perdifiato su un riffone deflagrante e scortati da colpi veloci alla batteria, per poi rallentare (in prossimità del minuto) dando in pasto all'ascoltatore un frangente ben più granitici in cui si dimostra di saper "colpire" a colpi di maglio più che di baionetta. Al minuto e venti i ritmi aumentano di misura la propria carica cinetica, adottando comunque soluzioni più melodiche (con l'ausilio di un ottimo cesello di chitarra). A un minuto e quarantacinque parte un solo guitar che potrebbe vagamente richiamare soluzioni di scuola Death (il gruppo, non il genere), malinconico e melodico allo stesso tempo. Oltrepassati i due minuti e dieci il piede torna sull'acceleratore, e il pezzo torna ad essere sparato a velocità esasperanti. A due minuti e trentatré la velocità si smorza di nuovo per riproporci un frangente granitico sulla scorta di quanto precedentemente sentito (verso il minuto). Dunque, in sostanza ci troviamo di fronte ad un altro ottimo pezzo, forse anche meglio di quanto sentito sino ad ora.

Together As Divide
Si continua con la quarta Together As Divide (Insieme Come Divisi), la cui introduzione è affidata ad un botta e risposta tra chitarra e batteria, con la chitarra impegnata in arzigogoli raggiunta a più riprese dalla batteria. Il tutto confluisce (dopo un breve intervento vocale del singer, fangoso e putrido come sempre) in una texture particolarmente dinamica sorretta da un main riff trainato come sempre da un incisivo gioco al drum kit. Al ventiseiesimo secondo subentra - dopo aver fatto precedentemente capolino - nuovamente la voce, per introdurci ad una parte testuale stavolta più complessa rispetto a quanto precedentemente udito, il cui tema sembra essere quello della totale incomunicabilità: l'uomo è isolato nella sua incapacità di interrelazionarsi pienamente con i suoi simili, distanziato da questi "grazie" ad una sorta di illusorio muro (come si legge nel testo), un muro che sembra avere un'accezione negativa ma al contempo acquista il plusvalore di "muro eretto" per preservare l'uomo "dal definitivo smarrimento". Gli uomini sono quindi ridotti a "fantasmi", figure immateriali e intangibili che non possono avere speranza di interazione e questo porta ad un effettivo senso di frustrazione. L'incomunicabilità, dunque - come precedentemente accennato -sembra essere il tema portante: e inoltre a questa si somma un desiderio, ossia il desiderio di essere qualcun altro accompagnato dall'amara consapevolezza di essere ostacolati dalla propria personale percezione del mondo e totalmente e inesorabilmente relegati a questa. Il muro, precedentemente accennato si pone come una barriera: è creato allo scopo di preservare la nostra identità ma finisce inevitabilmente per isolarci. Tornando al piano più strettamente musicale, il brano dall'entrata effettiva della voce continua su binari irruenti, trainati dal riffone di cui sopra e dalla come sempre implacabile batteria. Il guitar work risulta cangiante con il trascorrere del brano (00:40) non adagiandosi su soluzioni ripetitive che consentirebbero una fruibile linearità ma al contempo un "gioco facile", iniettando soluzioni melodiche man mano che il brano avanza. Tra le altre cose, da citare assolutamente abbiamo un ottimo solo guitar (dal 2 minuti e 22) capace di donare ulteriore maestosità al brano e di accrescere ulteriormente l'interesse per quest'ultimo. Complessivamente anche qui possiamo dire di trovarci di fronte ad un brano egregio, costruito brillantemente e capace di tenere l'ascoltatore lontano da qualsiasi sbadiglio o voglia di skippare.

Chaotic Muse
Il proseguo è affidato a Chaotic Muse (Musa Caotica), dall'intro particolare (il basso in evidenza, il gioco di batteria, la melodia di fondo rimandano tutti in maniera velata ma non troppo a certe modalità stilistiche tipiche di certi gruppo technical/prog, non necessariamente death). Verso i quindici secondi la batteria, coadiuvata dalla chitarra, si affacciano con più violenza lacerando il tessuto eccessivamente razionale dell'introduzione e dirottando l'ascoltatore verso lidi più violenti e cupi. Questa nuova parte risulta nel complesso vagamente fuorviante, dato che il pezzo nel proseguo è destinato a trasformarsi in uno dei pezzi più melodici e meno aggressivi ascoltati sino ad ora: la carica dirompente non manca, è chiaro, ma maggiormente canalizzata in uno contesto generale più quadrato e ben più scevro da parti diciamo "esplosive". Un pezzo dunque che nell'insieme si mantiene granitico ma - ed è inutile specificarlo ancora - particolarmente melodico. Ma proseguiamo per ordine. Dopo la parte "deflagrante" ascoltata a seguito dell'introduzione subentra la voce (ventottesimo secondo), che ci introduce ad una parte testuale al solito di ardua interpretazione, ma che comunque presenta alcuni punti fermi (la Musa, a cui fa riferimento il titolo) da cui è possibile far partire la nostra analisi. La musa citata nel brano e nella nostra piccola nota tra parentesi sembra essere foriera di oscure, nefaste influenze, ma anche elemento di rottura verso tutte le convinzioni più ipocrite. La musa si pone come elemento di potere, e variamente nel testo cogliamo "frammenti" che ci inducono a riflettere sul concetto di potere e di decadimento di qualsiasi - tanto per ripetermi - convinzione ipocrita. Tutto questo potrebbe rimandare idealmente a Nietzsche e a certi punti fermi nella sua dottrina (si vedano a tal proposito testi come il "Così Parlò Zarathustra", l'incompiuto e frammentario "La Volontà Di Potenza" e per ciò che concerne la distruzione delle convinzioni ipocrite ed erronee, l'"Anticristo"). Tornando al piano musicale, esattamente come accennavo prima, a seguito di un frangente strumentale in cui sembrava che si invocasse qualche cataclisma, il brano si assesta (00:28) su tempi medi e assolutamente meno granitici di quanto ci si aspettasse. A fare da trait d'union è un riffing melodico e molleggiato scortato da una batteria che - pur non continuando a fare sconti a nessuno - risulta più dosata, preferendo colpire in maniera ponderata piuttosto che deflagrare furente. Fondamentalmente il pezzo in toto continua a muoversi su coordinate meno belluine e intransigenti per tutta la sua durata, concedendo sicuramente respiro all'ascoltatore (dopo quattro pezzi si melodici ma anche molto compatti).?

The Outsider
Continuiamo con il sesto brano The Outsider (l'Estraneo), che conseguentemente ad un riffing monolitico e dalla velocità contenuta ci porta subito alla voce del singer, che dopo una parte "recitata" (la voce è cupa ma non tanto da spingersi al growl) passa alla sua modalità interpretativa più classica (harsh vocals da orco) per proiettarci in una parte lirica che potrebbe richiamare tanto il "Controcorrente" - in originale "Au Rebours" - di Huysmans (e in particolar modo il suo protagonista Des Esseintes) quanto, ma in minor misura - per quanto il titolo lo richiami nettamente - "L'Estraneo" (in originale "The Outsider") di Lovecraft. Ambedue i parti letterari - per la precisione un romanzo il primo e un racconto breve il secondo - sono incentrati su persone che vivono al di fuori o al di sopra della società e delle regole: il primo incentrato sulla vita di un Dandy, che decide volontariamente di estraniarsi dalla società corrente vivendo una sua vita fatta di piccoli e grandi piaceri edonistici, il secondo su un essere "al di fuori" della nostra civiltà, che scopre una normalità diversa da quella che lui - esso - era abituato a vivere (e in cui tornerà alla fine, spaventato). Entrambi i parti letterari considerabili come contestatari di quello che è il nostro metro di valori, confutato e giudicato da chi per un motivo o un altro non ne segue le regole. Anche qui, in questo testo, si parla di un estraneo, e il suo giudizio viene scagliato come una pietra contro il comune sentire: abituata la gente in questa società ad essere accettata, a lavorare per esistere in un contesto sociale, finisce per essere un numero, un qualcosa di inconsistente e priva di un effettivo valore. Oltre alla critica sociale avanzata dalla voce narrante avvertiamo un vago flavour di nichilismo, quando si fa riferimento al fatto che "vivere in funzione degli altri", ossia del loro giudizio porta infine sul letto di morte pieni di rimpianti (le "cicatrici sanguinanti"). Tornando al lato musicale, dopo l'intervento vocale del singer abbiamo una parte (verso i trentacinque secondi) strumentale caratterizzata da un buon solo guitar, neanche troppo lungo - giusto una decina di secondi - che verso i quarantacinque secondi ci proietta in una parte più veloce e lancinante, corredata di un riffing ribassato (che fa tanto post thrash) e l'ennesima impennata furiosa della batteria. In questo contesto si inseriscono più volte dei brevi sprazzi melodici (sempre ad opera della chitarra) a rendere il pattern meno soffocante e claustrofobico. Quasi a minuto e venti sopraggiunge un rallentamento di misura (la batteria si presta a giochi di "fioretto" piuttosto che colpire a mazzate, mentre la chitarra si destreggia ancora in un riffing cupo). A un minuto e trentanove l'ossessivo pattern è spezzato da un assolo di chitarra sibilante, luciferino, nel quale la batteria, dopo una cauta quiete iniziale, inizia presto a pestare colpi e menar fendenti. A due minuti e undici, con il placarsi della batteria, la protagonista torna ad essere la chitarra, che prosegue in quel suo lamento aggraziato. Ma la batteria cede il passo solo per un momento, dato che torna quasi subito a farsi sentire in una nuova gragnola di fendenti (in maniera più moderata rispetto a quanto ascoltato prima del minuto e undici, ma comunque con un certo vigore). A due minuti e trenta il ritorno della voce coincide con un passaggio ancora una volta abbastanza sostenuto e comunque granitico (merito del riffing ribassato e della batteria cronometrica e potente). Seguono parti più ferali e intransigenti (blast beat annesso) a frangenti melodici. Nel complessivo anche qui abbiamo un pezzo riuscito, frutto delle singole capacità quanto della capacità complessiva della band di modellare sonorità tanto monolitiche quanto armoniose. La noia è distante mille miglia e non individuabile neanche con i RIS.

The Believer, the Agnostic and the Brutal Truth
Il settimo brano The Believer, the Agnostic and the Brutal Truth (ossia "Il credente, l'Agnostico e la Brutale Verità") prende il via nuovamente con un botta e risposta tra chitarra e batteria, non letterale - non c'è un'alternanza netta, non abbiamo una chiusura del riff in concomitanza con il subentrare dei rintocchi di batteria - ma il riffone inaugurale sembra "giocare" con i rintocchi di batteria, che si pongono sempre in coda al suddetto riff. I due "motori" della squadra (la chitarra di Donato e la batteria di Matless) presto iniziano un gioco di squadra più compatto, prendendo ad avanzare insieme in un pattern ferale e grintoso, dando modo alla voce (verso il venticinquesimo secondo) di adagiarsi su tale violenta texture. Le vocals stavolta ci portano ad un testo che pesca direttamente dal concetto di fede. Qui è possibile cogliere un rigetto verso tale concetto, o forse solo il rigetto verso il senso di fede espressa dal religioso (religione e fede sono concetti abbastanza distinti, dato che la prima è la vera aspirazione a qualcosa di divino, o verso qualcosa di non immanente e razionalizzabile, mentre la seconda è pura speculazione - e incasellamento, e gabbia - della fede, ridotta a semplici regole da seguire. Entrambe inseribili nel "credo", ma con degli opportuni distinguo, che portano ad abissali differenze tra chi "ha fede" e chi segue una determinata religione - quindi i seguaci di discutibili "dogmi"). Comunque l'invettiva è lanciata contro un certo tipo di credente, etichettato come "vero credente", forse in maniera ironica e irrisoria (anche i religiosi si etichettano come veri credenti, ma non serve essere religiosi per essere veri credenti). Viene ripetuta la parola "bugie", indicativa del fatto che quanto credono certuni in realtà è solo frutto di errate speculazioni, messe in campo per determinati interessi e per avvalorare tesi che fanno comodo alle sedi del potere religioso. E tutto questo non può che generare odio e rabbia in chi, intelligentemente, sente puzza di inganno. Infatti all'inizio si può sentire la frase "Segui la tua fede, il tuo Dio", come a rimarcare che certi elementi (il Dio monoteista) sono frutto di invenzioni messe in campo per specifiche ragioni che poco hanno a che vedere con il vero concetto di fede (è possibile ad esempio avere "fede" in una specifica entità creatrice - cosa che potrebbe trovare anche il favore di certi atei - ma non in un Dio che è palesemente frutto di una certa letteratura monoteista). Tornando sul piano musicale, la voce - subentrata intorno al venticinquesimo secondo - si adagia sui binari costruiti dall'apparato strumentale (chitarra e batteria in primis) in un percorso tutto sommato lineare ma nel contempo - come sempre - potente. E' ridimensionata comunque la componente devastante di certi brani uditi in precedenza, possibilmente grazie alle tastiere, che donano una certa grazia all'avanzata gargantuesca dei nostri. A cinquantasette secondi si tira il fiato: la voce si stoppa e il frangente strumentale articolatosi si sviluppa in maniera meno aggressiva grazie ad un più dosato uso della batteria. Anche quando la voce torna in campo (1 minuto e tredici circa) i toni rimangono meno arrembanti, più "più dosati" e melodici. A quasi un minuto e trenta si ritorna a scenari più frenetici, con un aumento dinamico non indifferente (praticamente si torna ad un frangente simile a quanto sentito prima della parentesi più ragionata di cui sopra). Al solito la tastiera gioca un ruolo non indifferente, "aggraziando" pattern monolitici e colorandoli di ulteriori sfumature. Si corre sino ai due minuti, quando ancora una volta il pattern si stempera in frangenti più ragionati (chitarra in evidenza, con un riffing melodico e melanconico al contempo, batteria dosata), e ai due minuti e ventotto cogliamo un solo guitar freddo e guizzante, che inizia a serpeggiare tra i battiti cronometrici della batteria. A due minuti e quarantanove i ritmi riprendono ad accelerare riportandoci in seno alla main texture. Nel complesso abbiamo ancora una volta un ottimo brano, forse tra i migliori del lotto - e dico forse, perché tra tante delizie è sinceramente difficile scegliere - capace di mantenere alte le quotazioni del disco.

Claws Of Fate
Il proseguo è affidato all'ottavo brano Claws Of Fate (tradotto come Artigli Del Fato), che parte in sordina scortato da un pattern acustico, affascinante e malinconico destinato a durare sino ai trenta secondi. Dal trentesimo secondo il brano ci offre sonorità decisamente melodiche - possibilmente quanto di più melodico sentito sino a questo momento - ma è solo uno specchietto per le allodole, dato che dal minuto in poi questo si assesta su ritmi ben più frenetici - non dimenticando il proprio retaggio melodic, ma comunque infarcendo il tutto con una notevole dose di energia - che ci riportano a territori già rodati in precedenza. La voce subentra già dal quarantacinquesimo secondo, per portarci in ambiti testuali - tra i più brevi e per questo anche tra i più concisi e intellegibili - che offrono una lettura della vita in chiave pessimista: il protagonista si sforza di essere forte di fronte alle avversità della vita, di andare avanti con forza nonostante il destino funga da "percorso obbligato", come una moltitidine di "braccia invisibili" a cui si rimane incatenati, e infatti l'unico risultato è la sconfitta. Non si può lottare contro un eventuale fallimento a cui sin dall'inizio sembriamo essere predestinati, dato che se per qualcuno è tutto scritto, la lotta sarebbe inutile e destinata solo a portare verso un risultato prevedibile. Il protagonista metaforicamente "corre contro la risacca per essere libero, ma con gli artigli del fallimento alle calcagna" quindi il suo sforzo è costante, ma la nera ombra della sconfitta è sempre dietro l'angolo, pronto a carpirlo nel momento giusto. Una sconfitta inevitabile, che è possibile rimandare ma a cui non si può dare scacco. Tornando ad ambiti strettamente musicali, come evidenziato in precedenza, dal minuto i ritmi iniziano a farsi ben più incandescenti, per partire in quarta più o meno dieci secondi dopo trainati al solito da una batteria potente e da un riffing basilare ma spietato. Una decina di secondi dopo, verso il minuto e venti, si torna ancora una volta su frangenti più tranquilli e melodici: con il placarsi della furia batteristica è la chitarra a porsi in evidenza con un rifferama catchy, malinconico e armonioso. A quasi due minuti il pattern creatosi è spezzato da degli accenti di chitarra intervallati da moderati rintocchi di batteria: è il preludio ad un ottimo solo guitar (02:03) amplificato da un lavoro alla batteria ancora una volta possente. A due minuti e quarantacinque si ritorna su lidi melodici e misuratamente calmi, in un frangente destinato a richiamare quanto sentito verso il minuto e dieci. A tre minuti e quindici circa subentra una indecifrabile calma grazie ad un frangente più acustico destinato a protrarsi sino alla fine.

Paranoia
Continuiamo con "Paranoia", la cui introduzione è tutto sommato abbastanza classica, negli standard, dato che si parte sin dall'inizio in quarta menando fendenti a tutto spiano. Un riffing introduttivo molto potente si accompagna ai colpi battaglieri della batteria, che non manca come al solito di pestare sodo. Verso il quattordicesimo secondo subentra un riffing leggermente differente, scortato da un gioco di batteria ben più aggressivo e violento rispetto alla primissima parte. A ventisette secondi subentra la voce che ci incanala in un testo dove, neanche a dirlo, è il disagio interiore, la paranoia del titolo a farla da padrone. Tutto il testo è incentrato sulle impressioni del protagonista, le sue sensazioni riguardo al proprio male di vivere. Tale malattia mentale lo conduce ad articolare una serie di parole non proprio sconnesse o a casaccio, ma comunque molto stringate che battono sempre sullo stesso chiodo, ossia il suo disagio ("Paranoia, cammino in tondo, paranoia, mi sovrasta, allucinazione, delirio, schizofrenia, dentro il mio buco..."). E' evidente in tal senso l'incapacità del protagonista di uscire da pantano psicologico in cui si trova - esattamente come tutti i malati mentali cronici - e talmente la sua ossessione assume connotazioni gravi, che viene personificata in un "qualcosa" capace di tormentarlo fisicamente oltre che psicologicamente ("...strisciante sul mio collo..." riferito alla sua paranoia). Tornando dunque alla musica dopo un inizio bello carico, verso i quaranta secondi i ritmi aumentano ancora più d'intensità grazie specialmente alla gragnola di colpi assestati dalla batteria. Verso i cinquantacinque secondi la tensione cala a favore di un frangente più "pacato", espressione questa da prendere con le molle dato che semplicemente ci si ritrova in un troncone più granitico e meno impostato sulla velocità e sull'attacco belluino "in your face". Verso il minuto e ventuno la chitarra sbentra da protagonista, prima abbozzando un riff (niente batteria o altri strumenti a darle sostegno, solo la nuda chitarra), quindi ci si lancia in un solo molto bello, pregno di una certa velocità (e qui torna il gemellaggio con la batteria, ancora bella potente nel suo magistrale assalto). Verso il minuto e quarantacinque ritorna la voce, mentre i ritmi si mantengono belli carichi e colmi di una certa aggressività. Dunque abbiamo un rallentamento al minuto e cinquantacinque e una parentesi "ariosa" quasi ai due minuto e dieci, in cui stavolta ad essere protagonista è la tastiera della Alfonsi. La parentesi è assai minuta - ma interessante - dato che pochi secondi dopo si riparte in velocità. Questo almeno sino ai due minuti e trenta, quando si impone l'ennesimo "rallentamento" in cui a farla da padrona è una nuova parte "rocciosa" e quadrata, impostata su un bel riffing monolitico e su una gestione più calcolata del drum set. A due minuti e quarantaquattro quindi si riparte in quarta sulla scorta di ritmi parossistici già gustati a più riprese.

Dazed By Pain
La conclusione è affidata a Dazed By Pain (Stordito Dal Dolore), decimo brano. La partenza è parossistica, ipercinetica. Si corre come mai e già dall'inizio tutto assume un sapore addirittura più violento e acre rispetto a quanto sentito sino ad ora. Una partenza che comunque, a prescindere dalla carica di violenza espressa, più che dal death metal sembra pescare dal thrash (è quasi impossibile non definire tale attacco iniziale come thrash-oriented). La voce fa quasi subito il suo ingresso (verso i dieci secondi) per introdurci ad un testo che, come suggerisce il titolo (che in italiano è traducibile come "stordito dal dolore") parla proprio di dolore: ma non dolore fisico, almeno, quel che evinciamo è che il dolore sia fondamentalmente di natura interiore. Ma lo strazio di cui è vittima il protagonista sembra in qualche maniera causato da una qualche - e non meglio precisata - forma esterna, quindi per quanto di natura "intima", tale angoscia e annichilimento sono causate da un agente esterno. E tale sofferenza interiore - ben diversa da quella riportata in alcuni testi precedenti, in cui lo strazio dell'essere era auto-causato - provoca nel protagonista un eccesso di ira, una furia incontrollata che in qualche maniera risveglia in lui "sentimenti sopiti": "salvarsi" significa dare sfogo ai propri impulsi, non lasciarsi lacerare da questi, "ammazzare i propri demoni" al fine di ritornare in una corretta "forma mentis". Dunque, ritornando alla parte musicale notiamo come il brano si mantenga su toni intransigenti sino al ventitreesimo secondo, quando i toni si smorzano di una tacca anche se solo per pochi secondi. Infatti in breve si ritorna a correre, a pestare duro su binari infuocati. Verso i quarantatre secondi ancora un moderato rallentamento, ma mai troppo docile da spezzare la tensione. A cinquantatre secondi il pattern creatosi su questo nuovo rallentamento assume connotati ancor più rocciosi e quadrati (merito di un riffing che definirei "scolpito", geometrico come un'architettura di Adolf Loos). A un minuto e tre la struttura si presta ad un piccolo cambiamento ritmico, capace di mantenere in seno tutta la sua carica dirompente, ma non esagerando nel cinetismo. Altro cambiamento nel riffing verso il minuto e ventidue. Il brano inizia presto ad impennarsi verso lidi veloci (01:28) e mantenendo una struttura abbastanza dinamica (accezione usata in tal frangente non per indicare il suo cinetismo - comunque innegabile - ma significare una certa varietà nel suo intrinseco modo di essere) e quindi non viene "banalizzata" da semplicità e scarsa articolatezza. A due minuti si insinua nella tessitura anche un bel solo guitar, breve ma incisivo, prima di una ripartenza in quarta (02:10). Verso i due minuti e venti a screziare il brano ci pensano anche interessanti inserimenti di tastiera, della brava Giorgia Alfonsi. Quindi a due minuti e trenta si impone un nuovo rallentamento di misura. Onde non fare la cronaca secondo per secondo, onde non annoiare su ogni microscopico dettaglio, posso dire che con questo brano i nostri esibiscono un po'la summa dell'Algol sound del 2016. Un brano riuscitissimo che non esito neanche per un momento ad inserire tra i migliori del lotto.

Conclusioni
Arriviamo così alla fine del disco che ci porta come sempre ad una stima conclusiva di quanto udito e recensito. Mind Fr@mes risulta in qualche maniera il disco della maturazione, o dell'inizio della maturazione per una band che non ha smesso di tirar fuori in questi anni idee interessanti, grazie a due dischi e una demo che già mostravano come i nostri avessero sicuramente "qualcosa da dire" e che sapessero inoltre come dirlo. Questo può essere definito innanzituto come il disco del "battesimo" di due nuovi musicisti essenziali nel nuovo corso del gruppo (che onde evitare di cambiare totalmente le carte in tavola predilige continuare in ambiti melodic-death, ma in maniera più irruenta ed energica), ossia il chitarrista Michele Donato e la tastierista Giorgia Alfonsi, ma anche come un nuovo inizio che, nel caso venga preso dalla band come punto di riferimento per quello che potrebbe essere il loro sound futuro, porterebbe i nostri a tirar fuori ottimi album le cui due componenti - quella "ferale" e quella "melodica" si sposerebbero in una rara alchimia per altri difficilmente raggiungibile. Perchè ragazzi, è inutile girarci intorno, tanto ormai lo avrete capito: il disco è davvero ottimo, forte - come già ripetuto a più e più riprese - di tanta melodia ed irruenza, che possono accontentare egregiamente chi dal death metal cerca sia l'una che l'altra componente. Il gruppo mostra in questa sede di essere davvero preparato tecnicamente, e anche le new entry contribuiscono in maniera notevole al risultato finale di un disco che non mancherà di imprimersi a fuoco nel cuore di qualsiasi amante del buon death metal - in primis - e dei fans della band. Ma si sa, la preparazione tecnica, il fatto di possedere un ottimo cantante (cosa che gli Algol possono vantare di avere) non bastano ai fini di un risultato eccelso - molto gruppi pur dotati di tutti questi elementi certe volte deludono, o parzialmente o in toto sfornando dischi che pur eccelsi dal lato musicale peccano parecchio in fatto di feeling e ispirazione... cosa che abbiamo visto innumerevoli volte nella storia del nostro genere preferito, inteso come metal e non specificatamente death - ma serve tanta ispirazione e, come accennato nella nota poc'anzi, tanto feeling, doppietta di componenti che i nostri sicuramente hanno. Potrei dire che i nostri dovrebbero sentirsi fortunati ad avere tutte queste componenti - preparazione tecnica, cantante che funziona, feeling, ispirazione - ma non è questione di fortuna. È questione di giuste scelte e di "sentire veramente la musica", amarla a tal punto da non voler tirar fuori, con tanti mezzi a disposizione, un qualcosa di non "degno", che non corrisponda veramente a quello che potrebbero fare e che nell'effettivo hanno fatto. Ossia un disco fatto per essere amato, riascoltato più volte, in cui si sente appieno la volontà "di dire la loro" piuttosto che riciclare stereotipi sentiti e risentiti. Perchè come già detto, questo è death melodico, ma non cercate facili paragoni: non credo che ne troverete facilmente. Sicuramente i vari gruppi da loro citati tra le ispirazioni di fondo hanno contribuito a generare un sound - il loro - ma non sono gruppi scimmiottati quanto "compresi", studiati, amati. E sicuramente ci saranno altri gruppi non citati da cui saranno stati assimilati certi elementi, certe tipologie musicali. Ma sezionarli, passarli ai raggi x e cercare a tutti i costi somiglianze con chicchessia non ha senso. Ha senso il prodotto finale - questo - forte di una sua originalità, gustoso e fatto per essere ascoltato a più riprese e assimilato. Per quel che mi concerne non posso che complimentarmi con loro, dato che la prova del terzo disco è superata.

2) Imp Of Perverse
3) Ego Shield
4) Together As Divide
5) Chaotic Muse
6) The Outsider
7) The Believer, the Agnostic and the Brutal Truth
8) Claws Of Fate
9) Paranoia
10) Dazed By Pain

