DARK TRANQUILLITY
Character
2005 - Century Media Records

EMANUELE RIVIERA
06/04/2017











Introduzione recensione
Largamente anticipato dall'uscita dell'ep Lost To Apathy oggetto della scorsa recensione su queste pagine, il settimo studio album degli imprescindibili Dark Tranquillity vide la luce nel corso del mese di gennaio del 2005, per la precisione il giorno 24. I più affezionati di voi avranno certamente intuito che stiamo parlando del brillante "Character (Carattere)", full length che, pur non ripetendo i fasti del suo grandioso predecessore, ne ricalcherà, per lunghi tratti, lo stile graffiante ed immediato che ne aveva decretato la fortuna immediata e travolgente. Avevamo già anticipato nella trattazione relativa al suddetto ep promozionale che, parlare di quest'album, per certi versi, non sarebbe stata un'impresa facile: il full length oggetto della presente trattazione, infatti, è probabilmente, il primo in assoluto, nel corso della lunga carriera dei nostri, in cui il livello di sperimentalismo sonoro verrà limitato ai minimi termini. La band nativa di Gothenburg preferirà, piuttosto, seguire l'onda lunga del clamoroso successo ottenuto grazie a Damage Done e contenere parecchio gli azzardi stilistici che, in passato, tante volte avevano entusiasmato i fan sparsi ad ogni angolo del Pianeta. Una decisione condivisibile, ponderata con criterio dal sestetto svedese e che, con il senno di poi, pagherà dividendi non indifferenti. Il gruppo concretizza la propria scelta affidandosi a canzoni, in linea di massima, brevi ed incalzanti, (solo l'ultima di durata significativa, oltre i 6 minuti), riff tritaossa dalla resa garantita in chiave live, sempre combinati al meglio con il prezioso accompagnamento delle tastiere, una batteria al fulmicotone che non disdegna di offrire sfuriate ai confini del grind. Già questi elementi, da soli, basterebbero a far capire che, in questo nuovo capitolo discografico, i DT siano intenzionati a puntare al sodo, mirando più alla sostanza più che non alla forma. Ad aggiungere ulteriore benzina sul fuoco, è doveroso fare una sintetica presentazione per quel che concerne la prestazione vocale che verrà sciorinata per noi da parte del portentoso vocalist del gruppo. Anche Mikael Stanne sembra voler tornare, parzialmente, alle proprie origini: nessun accenno alle calorose e sensuali clean vocals di Projector, nessuna collaborazione femminile di lusso verrà in nostro soccorso, con l'intento di stemperare con garbo quelli che, nella maggior parte dei casi, si configureranno come veri e propri assalti belluini all'arma bianca. Alla luce di simili premesse introduttive, probabilmente vi starete chiedendo il senso di un titolo come Character, a fronte di un album i cui elementi distintivi, delineati per sommi capi, e su cui avremo, ovviamente, modo di tornare più avanti in maniera dettagliata, sembrano essere abbastanza distanti dall'essere ascritti ad una siffatta definizione. Domanda certamente legittima e, francamente, di non facile risposta. Il gruppo ha sempre puntato su di una personalità del tutto fuori dal comune, sul volersi mettere di continuo alla prova e sul non dover, necessariamente, seguire le facili mode del momento, quindi per quale ragione, nell'episodio forse meno originale ed audace del lotto, sotto questo punto di vista, parlare di "Carattere"? Con questa definizione il gruppo vuole marchiare a fuoco la propria nuova indole, il proprio temperamento moderno, desidera scolpire in musica l'insieme di tutti i tratti psicologici specifici della loro natura umana. Significativo, a questo proposito, il fatto che nell'affascinante booklet interno al cd, il nome dei sei componenti la band venga preceduto dall'articolo "The", a voler sottolineare il fatto che si stia parlando, non tanto dei sei individui in quanto esseri umani, quanto piuttosto di tutta quella sequela di connotati tipici ed unici, sempre diversi, assolutamente peculiari di Stanne, di Sundin o di ognuno dei restanti membri della formazione. Grazie a questo sottile stratagemma linguistico, i Dark Tranquillity collocano ognuno di noi al centro delle vicende che verranno esposte, tutti quanti con le nostre qualità morali, inconfondibili e precipue. Un concept album dunque? Limitatamente al comparto lirico, potremmo, senz'altro, dire di si: saremo, infatti, catapultati all'interno della mente umana, scandaglieremo gli imprevedibili ed irrazionali comportamenti delle persone al cospetto di prove e stimoli esterni che ne metteranno a dura prova la tenuta mentale e psicologica, analizzeremo, con sobrietà e senza la pretesa di comprenderne ogni sfaccettatura, i molteplici stati d'animo dell'essere umano. Spostando, invece, il nostro sguardo sul versante strumentale è utile far notare che, mentre la prima porzione dell'album sarà caratterizzata da una certa omogeneità stilistica, nella seconda le digressioni elettroniche e la ricerca della melodia saranno maggiori, a testimonianza di una interessante, (anche se non sempre riuscita), ricercatezza in più rispetto all'immediatezza tout court e, per molti versi brutale, di Damage Done. Come sempre, anche la componente grafica, all'interno della proposta raffinatamente elaborata e connotata di un forte elemento metafisico dei DT, merita una citazione particolare, anche perché ci è utile per entrare in possesso di una ulteriore chiave di lettura di ciò che andremo ad ascoltare a breve. Immagine che poco si discosta da quella del precedente ep, realizzata manco a dirlo da Niklas Sundin nei suoi grandiosi Cabin Fever Media, e che ci mostra il ritratto di una grande città sotto la pioggia, si notano le luci delle scariche elettriche temporalesche che imperversano, avvertiamo la tensione latente nell'atmosfera, mentre in secondo piano svettano alti edifici industriali e civili. Le tinte scelte per l'occasione vogliono, anch'esse, porre in risalto la situazione di contrasto immortalata: abbiamo, quindi, un indolente grigio sullo fondo ed un fulgido rosso vivo in primo piano. La diatriba tra ciò che è vitale ed organico, da un lato, e ciò è che è artificiale e freddo, dall'altra. Oscura tranquillità, dunque, ancora e per l'ennesima volta. Per quel che riguarda l'aspetto strettamente musicale possiamo dire, infine, che il risultato conseguito darà, una volta di più, ragione all'ensemble scandinava, autrice, in buona sostanza, dell'ennesimo album assai interessante e meritevole di una carriera ben lungi dal veder tramontare il sole sopra di essa. Le 11 tracce che il gruppo, nella sua interezza, ha elaborato, in un complesso ma stimolante processo compositivo, scorrono in maniera tutto sommato piacevole e fluida, con una lieve tendenza al tedio nella parte centrale, e non mancheranno, nemmeno, episodi davvero clamorosi, entrati in breve tempo nella memoria collettiva dei fan.

The New Build
Ad aprire l'album ecco la prima hit di rilievo: "The New Build (La nuova forma)" è, infatti, uno dei pezzi con cui più facilmente ci si ricorda, ad oltre dieci anni dalla sua pubblicazione, del settimo full length dei Dark Tranquillity. Il brano, come ricorderete, era stato anticipato dalla sua versione più soft, l'ondivaga e non del tutto riuscita Derivation TNB, presentata nel precedente ep. Qui, però, le cose cambiano in maniera drastica e sostanziale. Innanzitutto, pare praticamente impossibile restare indifferenti di fronte alla granitica e terremotante sezione di drumming offerta dal funambolico Jivarp. Per l'occasione, egli non disdegna di ricorrere all'uso dei blast beats, (non una circostanza frequente nel suo repertorio), ed imposta il suo personalissimo GPS su coordinate stilistiche che richiamano, con i dovuti distinguo del caso, il grindcore britannico d'annata. Limitandoci alla sola sezione in oggetto, dobbiamo tornare indietro sino ai tempi del memorabile e seminale Skydancer per imbatterci in sonorità così incalzanti e frenetiche, in seguito Anders preferì impostare gran parte dei suoi lavori su tempistiche briose, ma ben distanti da simili standard di riferimento. Stanne, da condottiero navigato ed esperto, capisce ben presto le intenzioni bellicose del compagno e si affida ad una sorta di screaming triviale, sulla falsariga di quanto mostrato nel corso di The Mind's I. Una scelta certamente funzionale a rendere ancora più aggressivo e selvaggio l'incipit del full length. Il tiro della canzone si mantiene decisamente sostenuto e non presenta cali di livello significativi, anche perché sorretto, come nella migliore tradizione del gruppo, dal preciso ed inappuntabile lavoro delle chitarre. Sundin ed Henriksson, il cui livello di intesa artistico è ormai pressoché ottimale, sciorinano riff corposi ed incredibilmente consistenti. I fugaci inserimenti delle tastiere, dal canto loro, denotano un certo interesse per sonorità industriali, le stesse che avevamo avuto modo di intravvedere nell'ep Lost To Apathy, e che, peraltro, incontreremo, in maniera ancora più chiara, nel proseguo dell'album. Fin da principio notiamo una cura ed una ricerca maggiore per gli arrangiamenti di questa natura, una interessante inclinazione a rendere ancora più oscura, quasi impenetrabile, la fondamentale sezione ritmica. Il piacevole refrain centrale mostra, indubbiamente, una maggiore apertura per la ricerca della melodia, senza, peraltro, scadere mai nel banale o nel ruffiano. Il primo momento per rallentare davvero la nostra corsa lo incontriamo poco dopo al secondo minuto. Le divagazioni elettroniche si ritagliano uno spazio maggiore e si ergono a coprotagoniste, assieme alla sempre presente e mai scontata batteria. Il frontman, d'altro canto, accentua ancora di più la propria carica energetica facendo ricorso a timbriche, se possibile, ancora più abrasive e sporcate. La cavalcata iniziale riprende in grande stile poco dopo, il pedale dell'acceleratore è sempre premuto con decisione. Il carattere dei Dark Tranquillity emerge con forza e viene evidenziato in tutto la sua consistenza fin dalla prima traccia, grazie ad un approccio diretto ed essenziale. The New Build è un pezzo che vuole essere una sorta di medley tra le produzioni più datate e quelle più recenti, un esordio col botto per catturare l'attenzione e l'interesse del pubblico all'ascolto. Una inversione di tendenza sostanziale, che noi altri accogliamo ben volentieri, dal momento che in altre situazioni, piuttosto incomprensibilmente, la band aveva posto in apertura brani piuttosto deboli e poco coinvolgenti. Ai fini promozionali è stato, inoltre, girato un videoclip ufficiale in versione live. Il comparto lirico, elaborato a sei mani dal terzetto Henriksson-Jivarp-Nicklasson e radicalmente differente rispetto a quella offertoci nella "sorella minore", volge il proprio sguardo su di una dimensione futura in cui l'uomo sarà ancora più individualista di quanto già non sia oggi e le tensioni, troppo a lungo sopite, tra i singoli individui raggiungeranno, probabilmente, il punto di non ritorno. Una forza umana più forte e gagliarda di ogni logica ci guiderà oltre il fuoco ed oltre le idee più grandiose, confinati nel nostro microcosmo, all'interno di questo disgraziato frammento di inferno, appena percepiamo i lontani ricordi di quell'empatia che provammo in passato. Nessuna rivoluzione cosmica sarà necessaria per svelare il più classico dei segreti di Pulcinella. La necessità sarà, dunque, il nostro nemico, il bisogno l'avversario contro cui misurarci. Io non voglio più vederti, non fai altro che imitarmi, il mio vuol essere un avvertimento nei tuoi confronti, non lasciarti plagiare dal mio modo di fare, ora che sei venuto a conoscenza degli istinti insani da cui sono guidato. E' tutto nel futuro ciò che viene detto con un piede nella tomba, il segreto sta nell'idealizzare nella nostra mente un piano che non saremo mai in grado di realizzare concretamente. Nessuna soddisfazione per noi, prendiamo le distanze dal progresso, da coloro i quali ricercano una spiegazione logica ad ogni fenomeno, la nostra storia, lineare ed umile, ci rende uguali a tutti gli altri, è già stata ripetuta infinite volte. Qualsiasi battito che guida l'impulso, qualunque sia la melodia che ci consenta di andare oltre, cosa rimane all'interno di un'anima desolatamente vuota? Siamo in troppi all'interno di questa angusta realtà, qualcuno dovrà, necessariamente, evadervi. Il nostro obiettivo, il traguardo che ci siamo prefissi non potrà mai essere più grande delle reali possibilità di cui disponiamo. Una arcana maledizione viziosa è stata posta sopra di noi, ci ha messo in conflitto l'uno contro l'altro, un conflitto in cui nessuno è davvero il più saggio. Nessuno lo è fino in fondo. Uno spazio invaso, un volto sfigurato, il mio spazio calpestato per sempre. Nel tentativo ultimo di inseguire un'utopia, finiamo, invece, per evitare il confronto ed installare l'ennesimo filtro a protezione di noi stessi. Anche noi esseri egoisti e meschini, alla stessa stregua degli individui da cui volevamo fuggire e nei confronti dei quali non perdevamo occasione per spendere aspre parole di biasimo.

Through Smudged Lenses
La stimolante scarica di adrenalina immessa nelle nostre vene grazie alla opener track non accenna a diminuire i propri effetti anche per buona parte del secondo episodio dell'album: "Through Smudged Lenses (Attraverso lenti offuscate)", infatti, mostra ancora l'animo più sincero e primordiale della band, accentuando un certo orientamento thrash metal tanto caro ai Dark Tranquillity dell'epoca immediatamente successiva a The Gallery. E' ancora uno scatenato Jivarp a darci il benvenuto con il suo incedere roboante e stentoreo, egli sembra divertirsi nello spedirci al tappeto ad ogni singolo round, pur senza darci il colpo di grazia definitivo. Stanne torna, nell'occasione, ad affidarsi ad un cantato più baritonale e profondo e si conferma, anche in questa versione più tradizionale, il miglior cantante in ambito estremo, assieme all'(allora inattivo) Matt Barlow degli Iced Earth. La struttura ritmica del brano poco si discosta da quanto appena ascoltato: è nel memorabile refrain centrale, quindi, che la componente elettronica ha modo di incunearsi con più agio negli interspazi lasciati momentaneamente liberi dal binomio Anders - Mikael. Martin si affida a campionamenti brevi ma decisamente efficaci, ribassati nelle tonalità e dotati di uno spessore notevole. I riff proposti dalle chitarre, dal canto loro, denotano un sapore tipicamente swedish, nel senso più autentico e puro del termine, si assiste ad un vero e proprio assalto sonoro di debordante intensità. Dal minuto 02:25, in particolare, ecco salire in cattedra il virtuoso Sundin che guida, dall'alto della sua classe, una transizione centrale davvero ben congegnata ed impreziosita da una ritrovata, (in effetti sarebbe meglio dire mai smarrita), perizia tecnica. Quasi a sorpresa i ritmi calano, in maniera repentina, a partire dal minuto 03:27: i più attenti di voi ricorderanno quanto avevamo detto a proposito del brano Derivation TNB presentato nel precedente ep. La traccia in questione era, infatti, stata composta amalgamando e cercando di rendere il più omogenei possibili diversi riff di brani che sarebbero poi stati rielaborati proprio in questo lp. Ecco, allora, che ritroviamo uno di quegli stessi arpeggi in questa circostanza, con la funzione di tratteggiare una gentile e visionaria outro di una quarantina di secondi. Predominante diviene, allora, l'inflessione elettronica e i toni del brano assumono cadenze molto lente, drammatiche per certi aspetti che, tuttavia, a nostro giudizio, non bene si amalgamano con il dominante andamento di base della traccia stessa. Oltretutto si ha la sensazione che si sia voluto inserire, ad ogni costo, almeno uno dei sopracitati accordi per non far passare Derivation TNB come un fallimento totale. Pur rifiutando di etichettare quel pezzo come un flop a 360°, riteniamo che una simile chiusura, carezzevole e soave nei lineamenti, avrebbe potuto essere valorizzata meglio se posta in conclusione di pezzi meno indemoniati ed aggressivi, (le occasioni, in questo senso, non mancheranno nel corso della tracklist). Per concludere va aggiunto che, a fronte di una personalissima descrizione per larga parte entusiastica nei confronti del brano, Through Smudged Lenses non godette di particolare credito, né da parte della critica specializzata, né da parte dei fan, finendo, così, in breve tempo, fuori dalle scalette live della band. Peccato, verrebbe da aggiungere! Da un punto di vista lirico, il gruppo rincara la dose nella sua appassionata battaglia contro i mass media e avverso la società di massa. Stanne riprende in mano la sua fidata penna e conferisce ulteriore spinta alla sua analisi, assoluta ed universale, di un essere umano del tutto incapace di guardare la realtà delle cose nella giusta prospettiva, sempre più isolato all'interno delle propria mura domestiche ed incapace di fidarsi di nessuno, nemmeno di sé stesso. Voglio sentirti urlare, voglio vederti morire, questo il laconico contenuto del ritornello centrale attorno al quale si dipanerà la fitta narrazione del brano. Che nessuno di voi si lasci accecare dalle bugie del secolo, non fate come tutti gli altri, attivate il vostro occhio più vigile, più brillante di ogni possibile menzogna è la notte sincera. Questa cecità di massa deve concludersi al più presto, all'unisono ci sforziamo di trovare un riparo contro questa società corrotta ed ipocrita, abbiate il coraggio di dissociarvi, l'obiettivo sarà quello di tagliare ogni legame con il passato, oltrepassate il vostro occhio reso cieco. Nell'ora della sfida più grande, lasciate che sia il silenzio a guidarvi, esso solo vi dirà la verità, gli orizzonti visivi si dipanano velocemente, non più infangati da ulteriori bugie. In cima al Pantheon della finzione, ammirerete il fallimento di cui vi siete resi protagonisti, nella vana ricerca di un nascondiglio, tra pietre millenarie che restano impassibili di fronte al vostro insuccesso. Una triste riflessione lacera l'anima in pezzi, nessuna selezione ci è possibile, il nostro mondo ci è stato strappato via con la forza. Queste mura ci stanno proteggendo dalla corruzione dilagante dell'esterno, la sola oasi di rifugio contro gli immani incendi che divampano là fuori. Uomini insicuri e titubanti, una prospettiva un poco offuscata ed una voce lievemente camuffata bastano per trarci in inganno e per farci bere qualsiasi tipo di falsità. Anche io mi rassegno, infine, sconfitto nella mia battaglia, in fondo già persa in partenza, e ti chiedo di portarmi all'interno del mastio principale, dove sarò in grado di sopportare anche il vuoto più buio, moltiplicherò per mille la mia agonia, nel luogo in cui il silenzio è costretto a parlare da solo. Farò affidamento soltanto sulle fondamentali leggi della statica, nell'oscurità più completa, per non crollare di sotto. Come potremmo sopportare tutto questo se non ritornando alle nostre origini più autentiche? Voglio sentirti urlare, voglio vederti morire!

Out of Nothing
In terza posizione troviamo "Out Of Nothing (Fuori dal nulla)", brano che accentua l'influsso del fattore elettronico, a discapito di un coinvolgimento più marginale della batteria. Batteria che, in vero, è la prima a venirci incontro, felicemente accompagnata da note lugubri e profonde, le prime realmente udibili dall'inizio dell'album, scandite dal basso di Nicklasson, finora poco coinvolto nella partita, anche in relazione all'aggressività ed all'immediatezza dei primi due pezzi. Rientriamo, nell'occasione, in un più canonico mid tempo, scandito da un riffing discretamente carico e dotato di un discreto groove, sopra al quale ben si innestano gli incisivi stacchi elettronici, ancora una volta ispirati ai britannici Depeche Mode, proposti da un Brandstrom sempre più consapevole e maturo. Jivarp abbandona la furia terrificante dei blast beats e si posiziona su cadenze per lui più naturali e confidenziali. I Dark Tranquillity di Character confermano, altresì, di voler puntare su di una agevole ripetibilità dei refrain, volutamente brevi e facilmente memorizzabili. Oltrepassato il trentesimo secondo, non a caso dopo il primo passaggio dal coro di riferimento, maggiore si fa la preponderanza esercitata dalle tastiere e dai sintetizzatori, l'intenzione è quella di offrire all'ascoltatore un brillante momento di transizione, il più possibile armonico e coeso, tra il sopracitato ed aggressivo ritornello e la più ragionata strofa seguente. Ammantati di una profonda ricerca per la modernità e per un dinamismo che potremmo definire quasi ipnotico, sono i campionamenti che vengono elaborati in questa sede e che prendono, decisamente, il comando delle operazioni a partire dal minuto 01:07. Le chitarre, da parte loro, contribuiscono a conferire la giusta dose di epicità al tutto tenendo degnamente testa con riff eleganti e corposi che non scadono mai nel melenso. Per quel che concerne il comparto vocale, dobbiamo evidenziare come Stanne sia decisamente in palla lungo anche all'interno di un contesto profondamente mutato rispetto a quello iniziale. Del resto la sua incredibile versatilità e la sua capacità di interpretare molteplici registri vocali, senza cedere di una virgola quanto a resa complessiva, sono, da sempre, uno dei principali marchi di fabbrica dei DT. La porzione centrale del brano è caratterizzata da un andamento frizzante, continuamente cangiante, una sorta di omaggio postumo alle atmosfere fortemente innovative e sperimentali di Projector, album apprezzato dalla critica e, probabilmente, anche dalla band stessa solo a distanza di alcuni anni. Ritroviamo con piacere pure il basso, per qualche istante appena, poco prima dello scoccare del terzo minuto. Qui prende il via la più interessante sezione chitarristica, un intermezzo solista della durata di una trentina di secondi di assoluto livello. Mikael, però, cattura nuovamente le luci della ribalta per sé nel portentoso finale, grazie ad un urlo animalesco, molto old style, prima di ripetere per un ultima, solenne volta il contenuto del fortunato refrain di base. Farsi nemici della ragione e della verità, sentire la rabbia che monta dentro di noi, una promessa fatta e da mantenere a tutti i costi si configura come una autentica avventura, il conformismo non è mai stato l'obiettivo da raggiungere. Come ci si sente ad evadere dal nulla? Dove andrai quando correrai lontano da qui? Provi a mantenere un senso di controllo, quasi volessi restringere il tuo campo visivo, ciò nonostante la tua meta rimane indefinita, nella foschia di un mondo sconvolto, la grande prospettiva è quella di provare a tenere a bada tutte le forze esterne che tramano contro di te. Lotti per darti uno scopo concreto, un significato tangibile alla tua esistenza, attorno al quale poter elaborare un personalissimo concetto di fede, un dubbio tormenta la tua pelle in continuazione, un prurito che mai ti abbandonerà d'ora in poi. I giudizi esterni ti etichetteranno come un aggressore, faranno di te un reo confesso prima ancora di processarti, nessuno, però, vorrà conoscere le motivazioni dietro al tuo comportamento, la realtà è stata alterata in maniera tale da convincerti di fare parte di una favola grandiosa. In una furia senza precedenti, simile ad una bestia totalmente fuori controllo, la distruzione di cui ti renderai protagonista suonerà per te come una grazie salvifica. Ora si che puoi allontanarti dal nulla, correre via, lontano da questo niente assoluto. In quarta e quinta posizione, ecco due pezzi ripresi dal precedente ep ai quali è affidato il compito di traghettarci verso il giro di boa dell'album.

The Endless Feed
In primis troviamo "The Endless Feed (Il nutrimento senza fine)", pezzo che la band aveva proposto in una contraddittoria, ma non disprezzabile in toto, versione remix nella concisa tracklist di Lost To Apathy. Con il precedente brano, il gruppo ci ha dischiuso le porte del suo universo più introspettivo, ricercato e mediamente sperimentale. Una tendenza, questa, che viene confermata anche durante i quasi 5 minuti di cui la traccia si compone, seconda solo al pezzo finale quanto a minutaggio. Tastiere magnetiche, ossessivamente effettate, tessono la loro trama rendendo il sound elettrico e scorbutico, per alcuni versi di non facile assimilazione, ma assolutamente perfetto per tenere sulla corda quanti, più o meno indebitamente, potrebbero subire un parziale calo di interesse, dopo il primo, roboante, quarto d'ora di musica. Ripulita di un remix che, già nella sede appropriata, non avevamo esitato a bollare come fin troppo ridondante, la traccia guadagna parecchio in fluidità ed in linearità, anche se, personalmente, continua a rappresentare la versione meno gradita del gruppo. La mia personale, assai difficilmente scalfibile, ritrosia nell'apprezzare siffatti arrangiamenti fa si che ad emergere sia una certa artificiosità di fondo, una non naturalezza indesiderata di cui avrei fatto volentieri a meno, a maggior ragione se parliamo di un gruppo che, quanto ad estro e talento compositivo, non è mai stato secondo a nessuno. Quando siamo poco sotto al terzo minuto anche l'ultimo, flebile tentativo di replica da parte delle chitarre e della batteria viene annientato definitivamente e Martin prende saldamente il timone esibendosi con campionamenti gradevoli ma dal sapore già sentito, anche perché permeati dalla stessa oscurità incontrata in precedenza e, francamente, non sempre necessaria, né utile. Nel momento in cui la predominanza elettronica si fa schiacciante, anche il vocalist non può esimersi dal ricorrere agli indispensabili espedienti in sede di registrazione per adattare la sua voce a questo contesto, con ciò scadendo in qualità e resa. Atmosfere post-apocalittiche e cibernetiche che faranno scuola, specie nella penisola scandinava, pensiamo ad esempio a gruppi come Mors Principium Est ed Omnium Gatherum che, di sonorità del genere, faranno la loro fortuna in anni recentissimi. La traccia pare richiamare alla memoria un improbabile, (o quanto meno troppo azzardato), ibrido tra le migliori sonorità industrial del binomio Fear Factory - Strapping Young Lad e la pesantezza inaudita del djent dei connazionali Meshuggah. Un certo retrogusto gotico e prog completa il quadro d'insieme e ci aiuta a meglio definire lo scenario di fondo di uno dei brani certamente più singolari del lotto. Attenzione però: non è nostra intenzione essere troppo duri nei confronti del pezzo. A nostro giudizio, in una certamente opinabile scala di valori, esso si colloca circa a metà strada tra le migliori hit e i brani più scialbi. A conferma di quanto detto, altrove non sono stati in pochi a descrivere The Endless Feed come uno dei pezzi meglio riusciti dell'intero album, proprio in ragione di una certa effervescenza esecutiva che, evidentemente, il sottoscritto non è in grado di apprezzare fino in fondo. Il filo conduttore lirico del brano è il medesimo fin qui sviscerato: si parla ancora della subdola capacità da parte dei media di influenzare, a proprio piacimento, la mente umana. In piena esplosione del fenomeno social network, l'atto di accusa dei Dark Tranquillity deflagra in tutta la sua forza e non ammette repliche: ogni cosa diviene intrattenimento, la spettacolarizzazione della vita è un dato di fatto conclamato, contro al quale ben poco possono fare i pochi che ancora provano ad opporsi. L'essere umano si trova costretto a vivere una vita del tutto artificiale, resa artefatta fino al livello più profondo delle emozioni, la sua insicurezza è tale da chiedersi se egli stia ancora vivendo davvero o se sia divenuto, piuttosto, simile ad un guscio vuoto, un inutile involucro informe di cui ognuno possa disporre liberamente, secondo le proprie necessità. Le menzogne di cui ci è stata saturata la mente ci hanno indotto, di rimando, a non essere più sinceri nemmeno con noi stessi, è necessario quindi andare oltre il livello più esterno della coscienza, scavare più a fondo dentro di noi per arrivare alla verità autentica e genuina. Perfino il pericolo è stato svuotato del suo reale contenuto, nemmeno la morte incute più in noi il doveroso timore di un tempo, l'occhio delle telecamere è perennemente puntato su di noi e ci rende attori di un film della cui visione un gran numero di persone, perfetti sconosciuti a noi altri, godrà. Il primo passo da compiere è, dunque, quello di acquisire la piena consapevolezza che di questo passo non sarà più possibile continuare: i mass media finiranno con il distruggere l'essere umano, la sfera privata costantemente, continuamente violata per vincere la battaglia dello share televisivo. L'era di internet a questo ci ha condannato, alla più dura delle battaglie che l'uomo potesse immaginare nel terzo millennio.

Lost to Apathy
Sopraggiunge poi la traccia che aveva dato il titolo all'ep cui, già in diverse circostanze, si è fatto riferimento, "Lost To Apathy (Perso nell'apatia)" è un'ulteriore, brillante gemma che incontriamo nel corso della tracklist, altro momento di fondamentale importanza all'interno di Character. Qui riemerge con vigore l'animo più aggressivo e battagliero del gruppo: lo possiamo apprezzare, soprattutto, grazie ad una fitta ed articolata sequela di riff di grande forza, decisamente compatti e taglienti, che richiamano da vicino il glorioso thrash che imperversava, da una parte all'altra dell'Atlantico, nella seconda metà degli anni ottanta. Pur non abbandonando l'uso delle tastiere, la band decide che è giunto il momento di relegarle nuovamente in secondo piano e si affida, in larga misura, alla micidiale accoppiata generata, da un lato, dalla formidabile coppia d'asce Sundin - Henriksson e, sull'altro versante, dal poderoso drumming assicurato da Jivarp in grado di reggere, con relativa disinvoltura, tempistiche incalzanti e violente. Pure il singer, e non poteva essere altrimenti del resto, torna a mostrare la sua faccia più rabbiosa ed incalza, da par suo, esprimendosi su registri grezzi e penetranti. Brandstrom si dimostra musicista smaliziato ed è in grado di ritagliarsi il suo spazio a partire dal minuto 02:10, grazie ad un gustoso intermezzo dal sapore quasi "opethiano", che funge da pregevole transizione per il gran finale, in cui ritroviamo, per la seconda volta, la voce filtrata di Mikael, decisamente meglio arrangiata e più convincente. Una autentica sfuriata di pura rabbia seminale è quella che ci investe nel corso di questi quattro minuti e che ci consentirà, inoltre, di approcciare al meglio una seconda sezione di album nella quale il livello medio delle composizioni tenderà, almeno inizialmente, a calare abbastanza, prima di riprendersi in bello stile con la riuscita accoppiata finale. Un pezzo dunque che punta, ancora una volta, ad assicurare la massima funzionalità e rigiocabilità nel tempo ed in ottica live, in relazione ad un approccio quanto più possibile schietto e mirato e che conferma i Dark Tranquillity come l'ultimo baluardo, ancora in salute, di un certo modo di concepire il death metal melodico. La band, entrando nello specifico, conferma di aver conseguito la piena maturità artistica proponendo un brano che, se da un lato, grazie al suo fare spedito e risoluto, non piega la testa di fronte alla banalizzazione a tutti i costi, dall'altro risulta anche dinamico e moderno al punto tale da non correre il rischio di finire intrappolato in vecchi cliché, ormai non più contemporanei. Indovinata è anche la scelta di rendere più agile e snello lo sviluppo stesso del pezzo, sforbiciato di una quarantina di secondi rispetto alla precedente versione, a tutto vantaggio dell'immediatezza e della fruibilità di ascolto. Non vi è nulla, nemmeno una sola cosa per cui vale davvero la pena di vivere nella società (a)personale e che tutti parifica alla stessa stregua in cui siamo costretti a vivere. Finché l'Universo è stato retto dall'istinto e dalla passionalità la situazione era ben diversa, nel momento in cui a prevalere sono state la logica ed il raziocinio, ecco che è stato generato tutto questo caos. All'interno della logica perversa che domina la contemporaneità, viviamo sulla nostra pelle un catastrofico ed epocale ribaltamento delle esigenze: i bisogni storicamente e realmente importanti sono finiti in fondo alla scala delle personali necessità, mentre al vertice di essa sono salite furiosamente ed in maniera inarrestabile le più grandi banalità e futilità, tutti quei nonsense di cui ci nutriamo quotidianamente, e di cui siamo ormai diventati schiavi, totalmente dipendenti, quasi si trattasse di una sostanza stupefacente. Siamo passati da una fase in cui eravamo troppi sensibili ed empatici nei confronti del genere umano a quella attuale in cui siamo stati resi del tutto apatici, simili alla pietra più dura di fronte a qualsivoglia sollecitazione esterna. L'apatia, il torpore d'animo governano le nostre esistenze, incapaci di trasmettere verso l'esterno anche il più evidente dei sentimenti, preferiamo affidarci alla misantropia ed al nichilismo. Le ultime lacrime che saremo in grado di versare serviranno solamente a certificare in maniera definitiva il completo smarrimento nell'abulia, gli occhi saranno costretti a vedere niente più che una realtà artefatta e fasulla.

Mind Matters
In posizione perfettamente intermedia nella tracklist ecco sopraggiungere "Mind Matters (Le questioni della mente)". Un giro di boa che, come detto poco fa, segnerà un certo decadimento delle composizioni, come immediatamente testimoniato dal brano in oggetto, che potremmo, pacificamente, definire senza infamia e senza lode. La canzone si fa, tuttavia, ricordare per la spiccata impronta di matrice heavy, facilmente rinvenibile soprattutto nel suo spicchio iniziale. Non certo una novità per i Dark Tranquillity quella di omaggiare i sempre verdi Iron Maiden: il gruppo svedese è solito cimentarsi in epiche cavalcate dal sapore retrò, in cui è possibile notare chiare influenze "harrisiane", fin da tempi non sospetti. Alla luce di quanto detto, è evidente che il grosso del lavoro ricada nelle mani della ben assortita coppia d'asce: Sundin ed Henriksson disegnano un continuo en intricato crescendo di riff, con l'intento di conferire un'aura straordinaria al pezzo stesso. La band desidera trascinarci letteralmente all'interno della mente, ci vuole far scoprire le paranoie, i timori, le ansie che intasano i pensieri quotidiani dell'essere umano. Per farlo si affida ad un sound lineare e relativamente semplice che non disdegna, peraltro, di offrire fugaci stacchi più sostenuti e di sicuro impatto. Inappuntabile da un punto di vista squisitamente tecnico, l'apporto delle sei corde, tuttavia, riesce solo in parte a conseguire il suo scopo, dal momento che la tensione emotiva non raggiunge mai picchi particolarmente significativi. Lascia abbastanza esterrefatti, nello specifico, la brusca transizione in cui ci imbattiamo poco dopo il secondo minuto. Qui le cadenze rallentano vigorosamente, (per ragioni a noi sconosciute), le chitarre si defilano in maniera troppo remissiva e le tastiere, di nuovo fattesi predominanti, si assumono l'onere di condurre le danze sino al termine del pezzo, nel contesto di una seconda parte abbastanza stucchevole in relazione alla scarsa organicità di cui è pervasa. Carente armoniosità che si sostanzia sotto una duplice valenza. Da un lato, infatti, sarebbe stato necessario diluire il brano all'interno di un minutaggio più corposo, se davvero si voleva pervenire ad un rilevante livello di solennità, (non a caso i Maiden del periodo d'oro regalarono autentici capolavori con brani anche superiori ai dieci minuti di durata), mentre, sull'altro fronte, il pezzo presenta divagazioni atmosferiche fin troppo prolisse, poco congegnali, che vanno ad incidere in maniera negativa sui tratti di immediatezza e di impatto immediato, tipici di Character. La sensazione è che la band, nell'occasione, non avesse le idee esattamente chiare su quale direzione prendere ed abbia, così, deciso di galleggiare a vista, pur senza andare alla deriva. Anche il vocalist non riesce ad entusiasmare più di tanto, affidandosi ad un registro decisamente brusco e troppo secco, (significativo, a tal proposito, il suo "ragh"del minuto 01:27, una sorta di rantolo di dubbia utilità). La sezione ritmica poggia gran parte del suo relativo spessore sul lavoro della batteria di Jivarp, la quale tiene decorosamente il passo ricorrendo, con mossa intelligente e sagace, alla giusta dose di esperienza, mentre il basso di Nicklasson torna mestamente nelle retrovie, senza regalare passaggi davvero degni di nota. Segnaliamo, comunque, la piacevole parte centrale, impreziosita da un veloce stacco solista della prima chitarra ed un puntuale lavoro in fase di produzione che garantisce un bilanciamento dei suoni pressoché ottimale. A suffragare la nostra impressione va detto che Mind Matters godette di una sorte simile rispetto a quanto indicato per la precedente Through Smudged Lenses: nel giro di qualche tempo la traccia sparì quasi completamente dai radar del gruppo, in questo caso, però, i rimpianti personali sono limitati. Un essere umano maturo e pienamente disilluso è il soggetto principale che viene descritto attraverso i suoi occhi sgranati, occhi che tutto osservano, senza più la magia tipica degli adolescenti, quella malia unica ed in grado di rendere speciale ogni cosa. Tu sei tutto quello che importa nella mia privata demonologia. Coloro i quali sono destinati al fallimento, i figli dei desideri, gli eredi illegittimi di un sogno, i nemici della speranza, lascia che se ne vadano tutti per la loro, insulsa, strada. Le questioni mentali, esse sole, hanno rilevanza. Ma è davvero così? Mai più potremo vedere il nuovo giorno che sorge con gli occhi infantili di un bambino, la nitidezza di cui essi godono ci è del tutto negata, tutti siamo rimasti senza una guida sicura, i modelli che ci eravamo costruiti con pazienza, prima deturpati nei lineamenti, cadono, ora, definitivamente in rovina. La ricerca cui siamo stati deputati è ben più ampia. Il desiderio è quello di dare un aspetto concreto alle speranze, rendere tangibili i sogni, non abbiamo più bisogno di avere qualcuno che ci indichi la via, il percorso che abbiamo fatto è chiaro, finalmente possiamo muoverci in piena autonomia. Una preghiera, destinata a non avere risposta, scandirà i nostri passi, saremo messi al centro di un nuovo, grandioso, progetto in cui pressioni esterne si opporranno al nostro desiderio di azione. Tutto è finzione, gli aspetti materiali della vita come quelli spirituali, che tu sia un seguace delle leggi astratte della metafisica, o piuttosto un sostenitore della concretezza reale, lascia che ogni cosa vada al suo posto naturalmente, non soffrirne ancora.

One Thought
E' ora la volta di "One Thought (Un pensiero)", brano che risolleva, in maniera piuttosto sensibile, le sorti dell'album, dopo il relativo passo falso poc'anzi ascoltato, grazie ad una maggiore concretezza e, soprattutto, ad un ritornello portante davvero spettacolare. L'incipit del pezzo è caratterizzato da una gradevole attitudine bellicosa, quasi brutale verrebbe da dire, le cui origini sono da ricercare a metà strada tra il thrash metal e l'hardcore. Signorili e ricercate atmosfere poetiche, marchio di fabbrica, uno tra i tanti, dei Dark Tranquillity che furono, fanno ben presto la loro comparsa sulle scene. Ma la vera grandezza della traccia sta nella straordinaria forza del chorus centrale, uno dei migliori dell'intero album, in cui ci imbattiamo per la prima volta al minuto 0:53 e reso semplicemente memorabile dal formidabile "Switch it off" di chiusura, scandito da uno Stanne tornato a brillare di luce propria. Il suo è un cantato incavato e rabbioso che meglio si adatta al tessuto ritmico imbastito dalla band e che conferisce un elevato spessore al comparto lirico. La componente elettronica, avvertibile con chiarezza lungo tutti i quattro minuti abbondanti di cui il brano si compone, ben si amalgama all'incessante lavoro delle chitarre ed evita di risultare troppo invadente grazie ad una presenza, si costante, ma assolutamente discreta. Essa si arricchisce, inoltre, di qualche rapido inserto di pianoforte, di sicuro pregio, e pare richiamare quanto mostrato in precedenza in Lost To Apathy, sebbene orientata a tessere linee melodiche più lente e maggiormente incentrate sulla ricerca della giusta atmosfera. Valido è pure l'apporto offerto da Jivarp con una batteria tornata ad incalzare con grinta su tempistiche spedite e veloci. Semplice, ma tremendamente efficace, è anche l'assolo di chitarra che incontriamo al minuto 02:57, in pieno stile death metal melodico moderno e che funge da transizione ideale per il finale, anch'esso ammantato da un ameno retrogusto epico, tutto nordico. Rimandi agli In Flames di Reroute To Remain compaiono qua e là nel corso del pezzo e completano il contesto generale descritto. Va aggiunto che il brano fu presentato per la prima volta in Italia durante il tour autunnale del 2003, a dimostrazione del profondo legame che lega la band svedese con il Bel Paese. Fondamenta estremamente fragili, innalzate in tutta fretta su fatti del tutto insignificanti o quasi, il nostro mondo rotolerà in pezzi, le intuizioni della mente nulle, vana è anche la sostanza di cui siamo nutriti. La prima strofa sta a significare che la comunicazione di massa ha introdotto concetti scabrosi, volutamente contraffatti grazie ai quali plasmare le nostre opinioni, renderle spersonalizzate. Forse eravamo noi quelli sbagliati? Nel momento in cui lasciamo che a decidere siano altri per noi, chi si prenderà la colpa? Siamo solamente un'altra anima, l'ennesima, da prosciugare con questo subdolo lavaggio del cervello. Cosa, di tutto questo, siamo in grado di vedere realmente? Un pensiero sta trascinando verso il basso i peccatori originali, un assillo continuo ci sta conducendo verso l'abisso, spegnerlo è l'imperativo categorico che ci siamo prefissi. Come si è giunti a tutto ciò? Godendo del benessere altrui ed ignorando il nostro, vivendo una vita non nostra, filtrata attraverso lo schermo della tv, la quale non è in grado, nonostante false ed ingannevoli promesse, di salvarci da una morte del tutto anonima, proprio quella che volevamo evitare. Noi tutti finiremo con l'urlare ancora più forte, nella speranza di farci udire, bisognosi di colmare un altro pezzo di silenzio. Scagliamo a vuoto l'ennesimo pugno, attraverso il buco nero generato dai media. Prepariamoci all'impatto, le nostre vite stanno per cadere, la tirannia della paura serra la sua morsa attorno a noi, più forte ogni giorno che passa, è il momento di liberarcene. Prosegue, dunque, l'atto di accusa contro i media, contro la loro capacità di manipolare il pensiero e la necessità per gli uomini di metterli a tacere prima che sia troppo tardi.

Dry Run
La seguente "Dry Run (Funzionamento a secco)", poco innova rispetto a quanto poco fa ascoltato ed anzi, per certi versi, pare essere l'ideale prosecuzione di One Thought, della quale condivide anche lo stesso minutaggio. Siamo, quindi, alle prese con un altro pezzo abbastanza veloce, versatile nei suoi cambi di tempo, ma che non sembra essere destinato a rimanere più di tanto impresso nella mente, al termine del full length. Da una prima occhiata al corredo lirico che ci viene offerto, per stessa ammissione della band, intuiamo che la scarica di adrenalina, che ci aveva travolto una trentina di minuti orsono, pare essere sul punto di esaurire i suoi effetti benefici nel nostro corpo. Anzi, nel momento in cui essa stessa scorre a secco nelle vene, diveniamo simili alla più evanescente delle ombre, nient'altro che una scenografia vuota che nessuna maschera è più in grado di riempire. Gli impulsi che giungono alla nostra mente, per quanto confusi ed indistinti, ci parlano continuamente di una imminente e decisiva sfida da affrontare, all'interno di un ampio spettro di possibilità, calcoliamo quale sia il nostro margine di errore. Ci ripetiamo all'infinito quali siano i comportamenti da evitare, promettiamo a noi stessi di voler tenere, eroicamente, testa al flusso imperante della corrente che vorrebbe condurci all'ignoranza. Viceversa è verso l'alto che vogliamo dirigerci, nuovamente in superficie. Per fare ciò, dovremo farci spazio laddove nessun'altro vorrà transitare, riempire gli spazi lasciati vuoti, dovremo essere in grado di muoverci anche nella notte più buia, siamo consapevoli che tutti cadranno, uno dopo l'altro, giù verso luoghi sovraffollati ed in cui regna la paura. Tenteranno di ingannarci con ogni mezzo, dipingeranno per noi una realtà distorta, con l'intento di affossarci nelle profondità più recondite, useranno speciali specchi, in grado di deformare la nostra immagine riflessa, con l'intento di confonderci. Urleremo al mondo intero il nostro no! Dagli stessi abissi in cui volevano confinarci abbiamo udito urla di terrore, abbiamo resistito strenuamente e ci siamo, infine, salvati da un destino di oblio e di sofferenza, una oscura cripta era il luogo deputato ad accogliere il nostro riposo eterno. Hanno tentato in tutte le maniere di renderci simili ad uno spregevole e volgare rifiuto di cui sbarazzarsi con nonchalance, non ci sono riusciti. Lo vogliamo gridare con tutta la voce che abbiamo in corpo, avete fallito! Spostandoci sul versante strumentale, è la batteria di Jivarp a rendersi protagonista con un interessante, per quanto canonico, incipit di apertura, sopra al quale si inseriscono, dapprima, le chitarre e, qualche istante più tardi, pure le tastiere. Strumenti a corde che orchestrano piccoli assoli atonali, tipici della band, mentre le tastiere hanno il compito di fare da preludio all'ingresso sulle scene del vocalist che avviene attorno al ventesimo secondo. Stanne si staglia subito quale protagonista principale grazie ad una prestazione che lascia trasparire la sua forte personalità ed un carisma innato, di cui non è mai stato privo, la sua è un'interpretazione appassionata, cangiante e mai statica che rende giustizia alla nostra definizione di miglior cantante metal dell'epoca. Dopo il primo minuto, qualche momento è concesso per un utile stop'n'go, funzionale ad approcciare al meglio il piacevole refrain centrale, anche questo meritevole e di sicuro interesse. Lo stentoreo "no" del minuto 01:11 risuona nell'atmosfera in maniera cristallina, è la prova che lo spirito della band sa ancora essere battagliero, pur se i vent'anni di Skydancer sono, irrimediabilmente, lontani. Un ritornello, questo, abbastanza ragionato e meno dirompente rispetto a quanto incontrato sinora. Personalmente ne apprezziamo il suo essere più schietto e meno ruffiano. A partire dal secondo minuto, sono le chitarre a prendere in mano il comando delle operazioni: esse si affidano a suoni estremamente pieni, in grado di appassionare l'ascoltatore con il loro sapore fortemente elettrico, quasi a voler farci toccare con mano l'immagine dell'artwork di copertina. Il terreno è stato preparato a dovere per un nuovo, corposo, assolo della prima chitarra che, puntualmente, arriva quando siamo giunti al minuto al 02:40 e si protrae, magnifico e visionario, per una trentina di secondi, fino al minuto 03:08 per essere precisi. Anche durante questo arpeggio è possibile rinvenire qualche eco degli Opeth, autentici innovatori del prog metal. L'ultimo spezzone del brano è ancora dominato dal fenomenale cantato di Mikael, il quale pare essersi tenuto da parte una discreta scorta di energia per il gran finale in cui stiamo per imbatterci. Per concludere, ciò che maggiormente penalizza l'esito del pezzo è proprio il suo scarso livello di innovazione, consola solo parzialmente, in quest'ottica, il tentativo di voler variare un poco le cose nel sopracitato ritornello portante.

Am I 1?
La successiva "Am I 1? (Sono io il solo?)" è un'altra di quelle canzoni che, pur lasciandosi ascoltare senza grosse difficoltà, pare essere destinata a rimanere nelle retrovie rispetto alla concorrenza. Emerge, fin da subito, il lato più sperimentale del gruppo: inserti elettronici, ammantati di una, non inedita, venatura gotica, si stagliano in primo piano e disegnano una melodia orecchiabile, sebbene piuttosto debole ed esageratamente cervellotica. Ci fa piacere, d'altro canto, ritrovare il pianoforte, già udito in precedenza, nel corso di questa singolare ouverture. Semplice, ma ben eseguita, è anche la transizione subito seguente che consente alle chitarre di innestarsi, nel modo più funzionale e redditizio possibile, sopra al tessuto ritmico preparato da Martin. Appare evidente come gli strumenti a corde siano relegati in secondo piano: sono le percussioni, viceversa, a fungere da ideale metronomo, non un compito semplice per chi, solitamente, è abituato a svolgere un ruolo di "semplice" supporto. Che siano tastiere e sintetizzatori a guidare le danze, risulta ancora più evidente nel discreto ritornello centrale, (di certo non uno dei migliori che abbiamo ascoltato sinora). Il pezzo, se possibile amplifica, la sensazione di trovarci di fronte ad una seconda sezione di album trascorsa sulle montagne russe, tra episodi più convincenti ed appaganti ed altri decisamente meno, in quanto abbastanza raffazzonati. Rientra, a nostro avviso, nella seconda categoria, per l'appunto la traccia qui descritta, i cui echi riecheggiano flebilmente in noi, una volta esauritesi le note e che ci lascia in bocca una insipida sensazione agrodolce. Ingrato e bizzarro compito, il nostro: avevamo più volte fatto riferimento ad una eccessiva omogeneità dei pezzi proposti e, nel momento in cui, siamo alle prese con un brano che, da questo punto di vista, rappresenta un elemento di rottura sostanziale, le nostre argomentazioni ci inducono a non manifestare particolare entusiasmo. Il fatto è che anche questa canzone non rappresenta una novità davvero significativa nella carriera del gruppo: simili e migliori esempi dello sperimentalismo sonoro dei nostri li avevamo ascoltati nel corso dei già menzionati album che hanno preceduto Damage Done. Am I One? rischia, in poche parole, di risultare troppo distante dallo scenario musicale di Character: la sua marcata sfrontatezza sonora ne penalizza la resa globale, ben oltre i suoi (pochi) demeriti reali. Mikael offre una interpretazione senza picchi particolari, mentre la batteria di Anders, autentica marcia in più in numerose altre circostanze, si prende, sostanzialmente, cinque minuti scarsi di pausa, (peraltro più che meritati), limitandosi ad un contributo lineare ed ordinario. Nel complesso, la traccia si sviluppa su cadenze rallentate e piuttosto piatte, la melodia portante, per quanto gradevole nel suo insieme, non riesce a stuzzicare più di tanto la nostra fantasia. Sundin e Stanne, evidentemente accortisi del poco spazio di manovra concesso al sempre diligente Brandstrom, decidono, quando siamo ormai giunti nei pressi della chiusura dell'album, (forse una scelta tardiva sotto questo punto di vista), che sia lui a tirare le fila del discorso, offrendo, così, un motivo di interesse in più a tutti quei fan che si sono avvicinati all'universo DT in tempi più recenti. Lo stesso Brandstrom, peraltro, è anche compositore lirico del pezzo, in collaborazione con il batterista Jivarp. Io vi garantisco che non farò privilegi nella mia scelta, nessuna disparità di trattamento, anzi la mia vuole essere la più beffarda e criptica negazione della scelta stessa. Da tutti quei pezzi andati in frantumi, quella è stata l'origine di un nuovo ciclo universale di eventi dominato dalla malvagità, l'auspicio che mi pongo, quasi certo che non verrà esaudito, è quello di non vedere più tanta cattiveria. Ho una mezza idea di dire tutte le cose che, al giorno d'oggi, mi preoccupano e mi turbano. Farete meglio a controllare se davvero sono io quello che giace all'interno di una bara non a me destinata, perché io, per quanto solo ed isolato dal mondo, sono ancora in piedi, sono la stessa persona che è stata accusata ingiustamente, colui il quale è stato tacciato di essere al corrente, prima degli altri, della piega che avrebbero preso gli eventi. Sono io il solo? Chi sono io? Nessuna caratterizzazione tipica che mi renda riconoscibile al mondo esterno. La mente è difficile da rendere salda, essa cede con facilità agli stimoli esterni che le vengono somministrati, una parte di me trattiene a stento la rabbia troppo a lungo repressa, anni passati con addosso un grande senso di frustrazione hanno modificato profondamente la mia indole. Il vostro piano sottile, ingegnoso, con il quale intendevate sottomettere il mondo intero è fallito, vi eravate prefissati di fare smarrire i singoli individui all'interno di una enorme comunità globale, renderli ciechi di fronte alla luce della conoscenza. Davvero non c'è nient'altro oltre a questo? Il senso di vuoto rimane immutato, siamo costretti, infine, a fare buon viso a cattivo gioco e rimetterci in cammino una volta di più.

Senses Tied
Il rush finale, con il quale i Dark Tranquillity chiudono il loro settimo lp, è davvero degno di lode. Significativo, a questo riguardo, il fatto che, per conseguirlo, il gruppo si affidi a due pezzi diametralmente opposti, quasi agli antipodi l'uno rispetto all'altro, ma entrambi, in grado di emozionare e di piacere sino in fondo. Questo binomio vincente è aperto dalla martellante "Senses Tied (Sensi vincolati)", della quale merita una menzione particolare il forsennato incedere della batteria, tornata sugli scudi dopo qualche relativo passaggio a vuoto in cui era incappata nel corso della seconda porzione dell'album. In principio, in realtà, è ancora l'elettronica a fare la voce grossa con l'inconfondibile marchio di fabbrica di Brandstrom: troviamo, quindi, stilettate rapide ed insolenti, dall'andamento ondulatorio ed instabile, grazie alle quali egli è in grado di imprimere al brano una forte impronta moderna, hi-tech la potremmo definire. Batteria e chitarre entrano, a testa alta, nell'arena e, simili a moderni gladiatori in lotta per la sopravvivenza, si cimentano in un continuo e primordiale rincorrersi furioso. Nello specifico, il ruolo della lepre spetta, inizialmente, alle infuocate pelli del formidabile Anders, messe a dura prova dalle pesantissime e tremende percussioni cui sono sottoposte. Non esce di scena, peraltro, la predetta componente elettronica, sempre sul pezzo ed in grado di ritagliarsi la sua onesta fetta di gloria anche nei necessari momenti di break, indispensabili per ricordarci che, pur sempre di death metal melodico stiamo parlando. La traccia lascia emergere un certo sapore old school, genuino e seminale, che personalmente non dispiace affatto, il lavoro delle chitarre è sempre ficcante ed incisivo, al punto tale che, in più di una circostanza, si ha la netta sensazione che esse siano riuscite a sopravanzare il drumming e a porsi, loro stesse, al comando delle operazioni. Discorso analogo può essere fatto anche il cantato di Mikael, anch'esso improntato ad una rivisitazione in chiave moderna di quanto mostrato nei primissimi anni di carriera e dotato di una forza esplosiva a tratti deflagrante. Traspare, inoltre, una freschezza esecutiva che, raramente, avevamo notato a partire da Lost To Apathy in avanti. Non ci troviamo di fronte a nulla di, nemmeno minimamente, rivoluzionario, la formula della canzone è quella consolidata da tempo, secondo la quale, a secche rasoiate al vetriolo della batteria, si alternano gustosi intermezzi scanditi da chitarre elegiache accompagnate da piacevoli melodie d'atmosfera e progressive, ma, nel complesso, il mix di ingredienti poc'anzi segnalato risulta essere meglio amalgamato e coordinato che in altre occasioni. Un elemento di parziale criticità, il solo che ci sentiamo in grado di rintracciare nella canzone, è rappresentato, pure in questo caso, dall'ordinario ritornello centrale, anch'esso, probabilmente, non deputato all'immortalità, sebbene tutt'altro che noioso. Crivellato dagli infiniti orpelli delle parole che rendono i confini labili, sfumati al punto tale da farsi, quasi del tutto, indefinibili. Disperso ai bordi della città, nella periferia più buia, in cui la prosperità è scarsa ed in cui domina, viceversa, l'orgoglio personale, proprio lì hai imparato, sulla tua pelle, che le parole possono avere un significato ben più profondo di quello generalmente e superficialmente inteso. Anche io provo le tue stesse sensazioni, ho perso la fiducia nelle troppe promesse non mantenute, sono stanco di dover decifrare i numerosi elementi imprevedibili della verità. Non ho più alcun interesse concreto, non provo più alcunché, nemmeno sono consapevole di chi io sia realmente. La capacità di distorcere il pensiero penetra ben più in profondità di quanto siamo in grado di evocare con le parole ed i sostantivi, non c'è davvero niente nelle parole che sento che mi induca a prendere una posizione stabile. Tutto ciò è andato avanti per troppo tempo, per questo ho deciso di tirami fuori. Davvero pesanti sono stati gli anni del condizionamento mentale subito, se questo è il mondo in cui devo vivere, preferisco che esso mi tenga all'oscuro di tutto, piuttosto che guardarmi negli occhi e mentirmi, ancora una volta. Ci stanno trascinando verso il baratro, ci rendono ciechi con tutte queste menzogne. Non riesco più a sopportare il tono arrogante con cui ci è propinata questa non-verità, l'ipocrisia viene messa in mostra alla stessa stregua di un'opera d'arte, la sento che avanza spedita, nella nostra direzione. La nostra capacità di giudizio critico è stata azzerata, nessun confronto costruttivo e dialogante è più possibile di fronte a questi nuovi oppressori dell'era moderna.

My Negation
Il compito di chiudere l'album in grande stile è affidato alla lunga "My Negation (Il mio rifiuto)", brano che (finalmente) torna ad evocare arcane e romantiche atmosfere che credevamo essere perdute e che, nei suoi sei minuti e mezzo di durata, stuzzica magnificamente il substrato più profondo delle nostre emozioni personali. Superato l'iniziale stordimento legato al fatto di trovarci di fronte ad un brano, per molti versi, inaspettato e sorprendente, (felice, in quest'ottica, la scelta di collocarlo in chiusura di lp), ci lasciamo cullare soavemente dalle incantevoli note che fuoriescono, come per incanto, dalle chitarre: esse si librano nell'atmosfera con garbo e paiono rimanere sospese a mezz'aria, incapaci di spiccare il volo definitivo verso le altezze celesti, ma nemmeno pesanti a sufficienza da posarsi a terra. E' il momento certamente più alto e nobile dell'album, la tensione che ci è stata immessa nel corpo non è del tutto esaurita, avvertiamo ancora sulla nostra pelle un certo stato di irrequietezza, anche se, per la prima volta da quarantacinque minuti a questa parte, siamo in grado di intravvedere uno spiraglio di luce, il primo realmente in grado di penetrare la coltre di nubi che gravava sopra alla nostra città. La narrazione lirica assume toni solenni, le parole vengono scandite con pacatezza a tratti maniacale da un superbo Stanne, il contributo dell'elettronica è raffinato e ricercato come non mai, il pianoforte, ad esempio, fa capolino già al minuto 01:40 e riprende la melodia portante, perfetta per stagliarsi in testa già dal primo ascolto. Segue una sezione strumentale di una trentina di secondi dominata, manco a dirlo, dall'ottimo lavoro delle chitarre: senza ricorrere a preziosismi tecnici sensazionali, Sundin ed Henriksson cesellano un delicato arpeggio intermedio, altamente evocativo e di gran classe. Durante la porzione centrale, i toni del brano assumono, progressivamente, lineamenti più sofferti e drammatici, la precedente sensazione di armonia e di serenità cede il passo a stati d'animo angoscianti e tormentati, (in ciò ricollegandosi al pezzo di chiusura di Damage Done, l'altrettanto superbo Ex Nihilo). La batteria prende coraggio quando siamo attorno al minuto 03:30, la sua incursione, tuttavia, è simile ad una classica toccata a fuga dal momento che, nel giro di qualche secondo, sono ancora i due axemen a dominare la scena. Semplicemente epica e memorabile è la conclusiva doppia ripetizione del coro centrale, con la quale la sezione lirica si chiude quando siamo giunti al minuto 04:30. Gli ultimi 120 secondi sono, infatti, interamente a carattere strumentale. Dall'iniziale, sobrio, stacco offerto dalle tastiere, scaturisce una gentile melodia, dai tratti fortemente onirici, grazie alla quale i nostri nervi possono finalmente distendersi. Avendo già avuto modo in passato di apprezzare, in molteplici circostanze, le notevoli capacità tecniche dei due chitarristi, la citazione d'onore la spendiamo, una volta tanto ed assai volentieri, per l'ottimo Brandstrom, maggiormente a suo agio all'interno di un minutaggio più consistente e davvero brillante nella sua esecuzione al piano. Il mio ego trasuda di un desiderio ardente, dal momento che il sole non tramonterà mai, perché farsi pervadere dalla rabbia imperante? A che scopo rendere simile alla pietra il nostro cuore? Tanto vale che a guidare l'istinto siano i desideri, in armonia con vecchi peccati mai confessati, il mio volto è stato reso irriconoscibile, svuotato di ogni suo elemento, gli occhi contemporaneamente sono stati accecati e liberi di guardare in ogni direzione. Tutto quello che desidero troverà la sua naturale realizzazione nel giorno della mia fine, ogni cosa di cui necessito si compirà nel momento in cui sarò giunto al capolinea. Tenetevi il mio rifiuto, o davvero ci tenete a sapere il mio nome? Volete davvero udire il pericolo che vi sta per travolgere? Vi offro gratuitamente la mia negazione, siete in grado di vedere la mia faccia? Che ne sarà di me? Siamo giunti alla fine di ogni falsità, nessuna grazia è più possibile per tutti i peccatori, ogni cosa di cui avevo timore sta crollando miseramente al suolo, nulla di quel che sono stato mi rappresenta davvero in questo istante fatale. Attivo, infine, i miei istinti più razionali e ricalibro il mio intuito in una dimensione più parsimoniosa. Che altro aggiungere se non che ci troviamo dinanzi ad una sublime conclusione di album da parte dei maestri del death metal melodico?

Conclusioni
In sede di giudizio finale possiamo definire Character come un album tremendamente consistente, robusto e, per lunghi tratti, davvero piacevole. Il limitato livello di sperimentalismo sonoro non penalizza più di tanto la resa dei singoli pezzi, la maggior parte dei quali esaltati da indovinati refrain centrali, di immediata presa e certamente architettati per garantire un ulteriore quid in più in prospettiva live. Ci sentiamo di aggiungere, però, che non basteranno i pochi ascolti con i quali vi eravate innamorati del precedente Damage Done, saranno necessari più passaggi nel vostro stereo per entrare nella medesima lunghezza d'onda di un prodotto del genere, (11 pezzi completi, quasi 50 minuti complessivi, nessun breve intermezzo strumentale né l'ausilio di gentili vocalizzi femminili di supporto, sono dati di fatto esemplificativi, in questo senso). A dispetto di una prima sezione più compatta ed omogenea, (rientrano in questo spicchio di album le due canzoni di maggior successo, pure a nostro avviso le migliori del lotto, The New Build e Lost To Apathy), la seconda presenta almeno un paio di episodi decisamente meno convincenti, (Mind Matters e Am I 1?), o perché poco funzionali al contesto delineato o, più semplicemente, in quanto abbastanza sciatti in sé per essere ricordati a lungo. Da un punto di vista strumentale, impossibile non partire analizzando il lavoro svolto dalle due chitarre. Il fatto che Niklas Sundin, sempre subissato di impegni nei suoi studi Cabin Fever Media abbia giocato un ruolo, tutto sommato, marginale come compositore, non incide più di tanto, viceversa, sul suo inappuntabile e brillante lavoro come chitarrista guida, ottimo è pure l'apporto assicurato dal sempre più a suo agio (ex) bassista Henriksson. Ritroviamo, nel corso di Character, i tipici assoli atonali che sono divenuti, nel corso degli anni, un altro segno tangibile, l'ennesimo della classe superiore alla media dei nostri. Venendo ora alla sezione ritmica, semplicemente grandioso è il contributo assicurato da Jivarp dietro alle pelli, la sua furia distruttrice sorregge splendidamente almeno la metà delle composizioni qui presentate e ne assicura una ottima longevità in chiave temporale. Brandstrom all'elettronica, abbastanza sacrificato fino a Lost To Apathy, emerge con decisione dopo la metà dell'album: gli arrangiamenti da lui elaborati, incisivi e mai banali sono, ora, proiettati decisamente verso il futuro e si sono spogliati dei, (personalmente non del tutto sgraditi), retaggi classicheggianti degli anni ottanta. A giudizio di chi scrive, tuttavia, egli rende al meglio quando si cimenta con un più tradizionale pianoforte, (spettacolare, a tal proposito, la suadente melodia offerta nella conclusiva My Negation, brano che occupa il terzo gradino del podio ideale di questo lavoro). Del tutto ordinaria e senza picchi particolari la prestazione di Nicklasson al basso, l'aggressività e l'immediatezza di molte canzoni lo relega, una volta di più, sullo sfondo, le sue tonalità grevi e catacombali, particolarmente gradite al sottoscritto, solo raramente sono in grado di emergere realmente. E del vocalist, infine, che dire? Se siete fan di lungo corso, non dovrebbe stupirvi più di tanto leggere in termini entusiastici della ennesima prestazione sensazionale offerta da Mikael Stanne. Il singer svedese migliora con gli anni, come il buon vino, spaziando, senza apparenti difficoltà, da un growl cupo e profondo, che non teme confronti nemmeno in ambito death metal tout court, ad uno screaming incredibilmente acidulo ed abrasivo, sebbene distante anni luce dall'apparire quale uno sguaiato ed animalesco rantolo di una gallina a cui sta per essere tirato il collo, (come troppe volte, purtroppo, le nostre orecchie sono costrette ad ascoltare in ambito black e thrash metal al giorno d'oggi). La sua capacità interpretativa, ribadiamo un concetto già più volte espresso in altri episodi, è davvero magnifica: in relazione al fatto che i testi non grondino di azioni realmente concrete, preferendo, piuttosto, concentrarsi su concetti astratti e metafisici, egli è in grado di far emergere, di volta in volta, i diversi stati d'animo che agitano il pensiero dell'essere umano contemporaneo, li svincola dal comparto lirico in quanto mera rappresentazione grafica e li rende toccabili con mano. Non mancano, nemmeno, passaggi più ragionati e meditativi il cui il vocalist si affida, secondo noi non troppo volentieri, ad effetti speciali barocchi, ottenuti artificialmente in studio, mentre non vi è traccia alcuna di clean vocals. Per chiudere, a nostro avviso, il passo indietro rispetto al magnifico predecessore è innegabile, la riprova che i Dark Tranquillity siano il melodic death metal negli anni duemila, ancora di più!

2) Through Smudged Lenses
3) Out of Nothing
4) The Endless Feed
5) Lost to Apathy
6) Mind Matters
7) One Thought
8) Dry Run
9) Am I 1?
10) Senses Tied
11) My Negation


