ABYSMAL GRIEF
Hearse
2002 - Horror Records
GIOVANNI AUSONI
14/11/2022
Introduzione Recensione
Il nome degli Abysmal Grief suscita, a partire dalla traduzione del moniker, quell'angoscia abissale che l'essere umano roso da un morbo incurabile prova quando, ormai consunto nel fisico e in attesa di esalare l'ultimo respiro, si contorce bestialmente sul letto, prostrato e atterrito dall'immagine di un Aldilà gravido di ombre minacciose e profondi interrogativi. Sensazioni vivide e spaventose che la formazione genovese riesce da sempre a evocare grazie anche a un pizzico di teatralità lugubre e non troppo vistosa, inserendosi, in maniera se vogliamo atipica, nei solchi espressivi del nostrano Dark Sound. Tutt'altro che dei semplici epigoni, Regen Graves, Laben C. Necrothytus e Lord Alastair hanno marcato da subito un territorio cosparso di lapidi e crisantemi, senza chiudersi nei recinti di un genere preciso, lasciando fluire aromi sepolcrali e spiriti superni tra le corde delle chitarre e le suggestioni liturgiche dell'organo. Il successo di nicchia di "Exsequia Occulta" (2000), testimonianza della subitanea quadra compositiva raggiunta dalla band ligure, spinse la giovane etichetta danese Horror Records a metterla sotto contratto, patrocinandone l'uscita del secondo singolo nel 2002. Primo segno di una collaborazione proficua terminata circa quindici anni dopo, momento in cui la storica label nordica, nel roster della quale figuravano realtà oscure nazionali della storia e del calibro di Black Hole, Death SS e The Black, chiuderà definitivamente i battenti. "Hearse", a ogni modo, mostra un approccio diverso del trio rispetto a un esordio che, pur contenendo in nuce i vari ingredienti che costituiranno l'ossatura delle future opere sulla lunga distanza, palesava comunque delle impronte stilistiche relative a un approccio doom più tradizionalmente sabbathiano. D'altronde, già l'incisiva "Sepulchre Of Misfortune" si differenziava non poco dal compare in scaletta, sia per il minutaggio contenuto sia per il taglio compositivo agile e accattivante, due elementi meta di approfondimento e rifinitura a partire da questo nuova fatica. Diverso, invece, il discorso riguardo i testi, qui incentrati non sui riti di necromanzia, oggetto narrativo della prova precedente, bensì esclusivamente su un celebre episodio tratto dal "Dracula" di Bram Stoker, ovvero il viaggio in Transilvania di Jonathan Harker: un'attrazione per la letteratura gotica, e horror in generale, che si attenuerà col tempo, a favore di una totale immersione nell'indagine sulla Morte, con le implicazioni filosofiche e occulte del caso. Un interesse che non si smentisce neanche nel presente lavoro, come appare chiaro dalle parole delle liriche, dalla sbiadita foto d'epoca scelta per l'artwork, effigiante un vecchio carro funebre a trazione animale, e dalla data scelta per la pubblicazione delle 666 copie del vinile, il 2 Novembre, giornata della commemorazione dei defunti. Numeri e simboli che vedremo intrecciati non soltanto all'interno dei testi di "Hearse" e "Borgo Pass", ma nelle riflessioni speculative di un'intera carriera. Sorprende, a tal proposito, quanto degli artisti comunque parte integrante del mondo contemporaneo riescano a guardare in volto la Mietitrice e comunicare con essa rispetto a una società odierna che tenta con affanno di accantonarla o addirittura rifiutarla, mentendo spudoratamente a sé stessa. La medesima paura di fronte all'ignoto e all'inspiegabile attanaglia il protagonista del romanzo, specimen di una civiltà occidentale razionale sì sino al midollo, eppure quasi completamente inerme al cospetto del dispiegarsi concreto di quelle credenze popolari che gli intellettuali dei Lumi cercarono, con grande foga e dispendio di energie, di estirpare durante il '700, provocando all'epoca una recrudescenza di superstizioni mai così massiccia, neanche nel tanto vituperato Medioevo. Forze malefiche, vampiri, creature demoniache sfidano, con un inesauribile carico di vitalità letale, una collettività guscio e specchio di timori rettiliani tenuti violentemente a freno e vittima della spada di Damocle della Grane Rimossa. La copertina del disco, dunque, assume una valenza metaforica capace di andare oltre l'istantanea di un veicolo destinato al trasporto dei feretri, divenendo il simbolo di un uomo moderno destinato inevitabilmente a soccombere dinanzi al Moloch represso del proprio inconscio. E non è un caso che gli Abysmal Grief interrompano il racconto nel momento del confronto, abbandonando l'agente immobiliare vittoriano sul limitare dell'abisso: brividi, brividi e ancora brividi.
Hearse
Il primo pezzo della breve scaletta si fregia di un titolo decisamente esplicativo come "Hearse" ("Carro Funebre"), icastico nel catapultarci entro le atmosfere del singolo al netto di qualsivoglia equivoco, anzi, lasciando assaporare a tutti gli ascoltatori il retrogusto sinistro e ferroso dell'ignoto e della Morte. Gli Abysmal Grief concentrano la propria attenzione su un episodio centrale del "Dracula" di Bram Stoker, ovvero il viaggio di Jonathan verso il castello del Conte per concludere con quest'ultimo una transazione immobiliare che avrebbe condotto l'aristocratico dalla Transilvania nel cuore pulsante di Londra. Un viaggio che, seguendo la vecchia rotta dell'Orient Express, tocca Monaco di Baviera, Vienna, Budapest e infine la rumena Klausenburg - l'odierna Cluj-Napoca, sita a metà strada tra la capitale ungherese e Bucarest -, dove l'inglese sosta una notte, alloggiato al Royal Hotel. Il giorno successivo, malgrado gli avvertimenti della popolazione locale, il giovane avvocato decide comunque di dirigersi al maniero maledetto, con addosso e attorno un'inquietudine crescente; man mano che le stigmate della civiltà - o presunta tale - svaniscono, paesaggi cupi e gigantesche ombre frondose si affastellano sempre più fitti a ogni passo. È la possanza liturgica dell'organo, evocante angeli così terribili che la loro natura potrebbe quasi sembrare demoniaca, a introdurre il brano, penetrando pervasivo e maestoso nell'animo di un uomo confuso perché privo di punti di riferimento riconoscibili. Un'atmosfera ieratica momentaneamente spezzata da un colpo polveroso di batteria, preambolo dell'ingresso di chitarre e tastiere che si sostengono a vicenda nell'intessere una trama allo stesso tempo orecchiabile e sinistra, figlia di suggestioni multiformi, provenienti tanto dall'area marchigiana quanto dalle oscure brughiere inglesi maculate di psichedelia, senza dimenticare l'influenza delle soundtrack horror degli anni '70, in particolare quelle di Fabio Frizzi e dei Goblin. La voce di Labes C. Necrothytus fa il resto, baritonale e malefica, adatta a restituire le sensazioni di un individuo perso in una notte fonda priva di luna, girovago attraverso un bosco avvolto dalle nebbie, con un freddo così intenso da frantumare le ossa e interrogativi di varia natura che mulinano inarrestabili nel cervello. In lontananza, mentre si intravedono un nugolo di luci pallide e fioche, un rumore petroso di zoccoli che lievi si librano al vento paiono preannunziare l'arrivo di qualcuno - o qualcosa. Fragori e riverberi allarmanti contro la cui minaccia non serve stringere un crocifisso e intonare preghiere di protezione all'Altissimo. Il refrain, puntellato da una ficcante prodigalità melodica, svela l'arcano: il trambusto e le vaghe radiazioni luminose appartengono a un carro funebre a trazione equina, drappeggiato di nero e viola, presago di sventura e per nulla rassicurante, almeno agli occhi di un vittoriano che credeva in lui estinte la paura delle superstizioni. La preponderanza timbrica delle keys ammanta di sacralità fatale un ritmo che incede regolare, seguendo la corsa del fiacre e i pensieri colmi d'orrore ancestrale del protagonista, oltremodo terrorizzato nell'accorgersi che nessuno pilota funge da guida a dei cavalli estremamente sicuri della strada da percorrere. Malgrado sembri una visione fantasmagorica dettata da una pazzia incipiente, la presenza del calesse risulta incontestabile, addirittura una bara giace lì all'interno, con un codazzo di gatti neri che corteggia il tutto. E intanto che Harker osserva appressarsi il feretro silenzioso, interpretandolo alla stregua di un segno di trapasso, il ritmo accelera, con la chitarra lanciata in un assolo acidissimo e carico di effetti, tesa a segnalare il pericolo a un personaggio ormai completamente rigido e immobile per l'angoscia, prefigurazione di una postura cadaverica vicina a diventare realtà concreta. Nel frattempo, la carrozza si arresta e lo scalpiccio dei cavalli progressivamente si dissolve: la prossima stazione risponde al nome di Borgo Pass, non esattamente una fermata qualunque. È ora, dunque, di poggiare il piede sul predellino, visto che il Conte attende impaziente di concludere l'affare fondiario del secolo. Che il sangue rappresenti, poi, la moneta di scambio, appare un dettaglio insignificante.
Borgo Pass
Il prosieguo dell'opener non può che intitolarsi "Borgo Pass" ("Passo Borgo"), luogo d'accesso al castello del Conte e passo di alta montagna che, sito nei Bârg?u rumeni, collega Bistri?a con Vatra Dornei. Jonathan si dirige ai confini orientali dell'Ungheria, e, dunque, verso i remoti avamposti della monarchia di Donau, toccando con mano non soltanto i ricordi e i resti della dominazione turca e dell'Islam, ma anche le discrasie tra cattolicesimo e cristianesimo ortodosso, attraverso un tragitto che costituisce allo stesso tempo scoperta geografica, etnica e religiosa. Un'alterità feroce e mostruosa che l'avvocato anglicano affronta via via che abbandona gli agi dell'Occidente civilizzato, addentrandosi nel barbarico Oriente, fra quei territori dell'ex impero ottomano le cui abitudini, costumi e credenze diventano quasi immediatamente superstizione, perlomeno agli occhi di un rigido vittoriano di fine '800. Condita da colonialismo e razzismo implacabili, fattori devianti impossibili da stornare da sé, la mente vergine e retta del suddito di Sua maestà si inabissa in una realtà incomprensibile prima che spaventosa, con gli Abysmal Grief capaci di restituirci appieno questa sensazione di smarrimento - e di fascinazione morbosa -, in parte allontanandosi dall'immaginario dei tanti Dracula cinematografici. Paradossalmente, però, le inquietanti e suggestive atmosfere create dai genovesi ben si adatterebbero a un film sulle imprese del vampiro per antonomasia, benché, forse, più al "Nosferatu:: Phantom Der Nacht" (1979) di Werner Herzog, soprattutto per la descrizione mistica e accurata dell'esotica natura che circonda l'inglese, che al "Bram Stoker's Dracula" di Francis Ford Coppola, così intriso di autocitazionismo, sessuofobia e riflessioni metalinguistiche. Inoltre, proprio come fa Bram Stoker nella maggior parte del romanzo, i liguri lasciano che la creatura notturna si insinui nella mente del giovane protagonista senza mai presenziare fisicamente sulla scena, stratagemma in grado di accrescere un sentimento di confusione misto a terrore difficilissimo da estirpare. L'aura minacciosa che grava sul capo dell'uomo viene evocata, nell'introduzione del brano, dall'incedere di tastiere funebri e spettrali non prive di una certa fischiettabile orecchiabilità, degno apripista di un mid-tempo di natura dark/gothic, provvisto di un'agilità rock memore di Paul Chain e The Sisters Of Mercy. Il doom lo si rileva nella voce salmodiante di Labes C. Necrothytus e in un ritmo che procede senza sbalzi di sorta sino a un finale sinfonico e visionario, nel quale le keys tessono, tiranniche, una rete capace di intrappolare il protagonista della canzone entro le spire di un viluppo tremendo e mellifluo, con l'ascia di Regen Graves assorta a ricamare fraseggi ricchi di occulta psichedelia. Costretto in un ambiente ostile e minaccioso, il britannico sale sulla carrozza funebre già vista in "Hearse", mentre intorno la neve cade lentamente, cupi ululati risuonano con un'eco sinistra e nubi nere passano sul viso lunare, eclissandolo tanto a fondo da immergere l'ambiente intorno in un buio totale e agghiacciante. Il legale albionico continua a stringere il crocifisso appeso al proprio collo, gingillo protettivo regalatogli dagli abitanti del villaggio di Klausenburg, e l'unica luce che squarcia l'abissale oscurità intorno è quella sinistra che proviene dalle gole dei Carpazi. Il fiacre avanza aprendo varchi tra gli alberi, lo scalpiccio dei cavalli aumenta considerevolmente, si ode il latrare dei figli della notte - i lupi -, segno dell'ormai prossimo attracco alle porte della residenza dell'aristocratico succhiasangue, l'ansia aumenta, e al culmine di essa, il singer pronuncia la celebre frase "Denn die Todten reiten schnell" ("Per i morti che corrono veloci"). Un sintagma che lo scrittore irlandese riprende dalla ballata romantica "Leonore" di Gottfried August Bürger, inserendolo nel romanzo con leggere modifiche sintattiche per adattarla a un contesto diverso, benché in parte affine all'opera del poeta tedesco. Parole sussurrate da uno dei compagni di viaggio di Harker e riferite all'auriga misterioso del calesse, i cui denti aguzzi e la bocca vermiglia lasciano pochi dubbi sulla sua identificazione e sul significato della sentenza. Eppure, la band lascia le cose in sospeso, più sfuggente e terrificante della penna dell'autore nativo di Clontarf.
Conclusioni
Dopo la pubblicazione di "Exsequia Occulta" (2000), esemplare intreccio di doom sabbathiano e Dark Sound italico, gli Abysmal Grief, forti del successo del loro primo singolo, ne rilasciano un secondo a un paio d'anni di distanza, supportati, a questo giro, dalla storica label danese Horror Records. "Hearse" rappresenta sia un omaggio al "Dracula" letterario frutto della fantasia dell'irlandese Bram Stoker sia, anche se soltanto in parte, alle varie trasposizioni filmiche del personaggio, fungendo da perfetto e spaventoso accompagnamento ai prodotti di entrambi i linguaggi artistici. Da un lato una title track macabra e accattivante, dall'identità magnetica e policroma, figlia tanto di Paul Chain e Death SS quanto delle tenebrose lande britanniche tinte di arcana psichedelia, oltre che delle colonne sonore degli horror movie nostrani degli anni '70; dall'altro una "Borgo Pass" iconica sin dal titolo e intrisa di una visionarietà diabolica conseguenza dello splendido ordito tessuto dalle tastiere e adorna di un piglio catchy davvero vorticoso. Due brani che rievocano la fase finale del viaggio che condurrà Jonathan Harker da Londra al castello del Conte attraverso l'originario itinerario dell'Orient Express, con l'avvocato e agente immobiliare vittoriano messo forzatamente di fronte a una realtà altra, al suo sguardo barbara e feroce, satura di demoni e magia nera, e così lontana dall'avita civiltà occidentale da sembrare quasi un pianeta mai abitato da essere umano. Il giovane inglese, benché appaia forse il personaggio principale del romanzo, non ricopre esattamente il ruolo dell'eroe, visto che gli mancherà, nel seguito della vicenda, la forza di sconfiggere il vampiro senza aiuti esterni. In quasi tutto il libro, egli assume una funzione di individuo passivo e femminilizzato, da damigella atterrita rinchiusa nel castello del mostro a figura statica che attende, per centinaia di pagine, il compiersi del proprio destino. I liguri riescono a creare un clima di progressivo terrore attorno a questo debole e represso boy scout dell'epoca vittoriana utilizzando in maniera sobria i molti mezzi a propria disposizione, giocando sulle timbriche e i toni e non sul dispiego tecnico degli strumenti: keys in primo piano, ma né leziose né troppo invasive, chitarre ora sornione, ora acide, una batteria quadrata ed essenziale, linee vocali oracolari e mai sopra le righe, per una scrittura complessiva che strizza l'occhio alla paura dell'ignoto attraverso la fluidità del verso, lirico e musicale. Invece, però, di insistere su tale strada compositiva, i genovesi, dal successivo EP "Mors Eleison" (2006) - inframmezzato nel 2004 dallo split con Tony Tears "Creatures From The Grave/ Le Entità Della Salvazione" - torneranno a un doom sepolcrale e funereo, benché parecchio sui generis, che culminerà nell'omonimo full-length d'esordio datato 2007. La scelta di improntare il sound su coordinate ritualistico/cinematografiche, che sanno di odori cimiteriali e Mario Bava, contrafforti chiaroscurali di una basilica deserta eretti comunque con una certa sobrietà espressiva, è connessa al tema capitale della Morte, la Grande Rimossa del mondo moderno. Persino in un lavoro come quello presente, nel quale essa compare più nei panni di esito che di burattinaia, la Mietitrice ne percorre a fondo la filigrana, palesandosi su un artwork diretto e privo di arzigogoli interpretativi e in testi dove la sovrapposizione lessicale carrozza/carro funebre riveste una potente valenza metonimica. Mettere il piede sul predellino del fiacre, aprire l'anta e sedersi all'interno, equivale ad auto-seppellirsi in una lapide in movimento verso un regno dominato dall'irrazionale e dal Male. Un Male che costringe un britannico di fine '800, razzista, anglicano e imbevuto di cultura colonialista, a entrare in contatto con l'inconscio collettivo e con le nevrosi di un'età della Storia efficace nel porre a rigida censura la sessualità, intesa nel senso psicoanalitico di energia e, quindi, possibile fonte di rovesciamento dell'ordine sociale una volta liberata dai vincoli del controllo. La band dello Stivale pone la lente d'ingrandimento su un conflitto di natura soprattutto culturale, ma evita di trarre conclusioni definitive, lasciando anche all'ascoltatore che conosce a memoria il romanzo l'incarico di immaginare la sorte di un personaggio prossimo all'abisso, privo di armi per combattere un nemico invisibile, proiezione di un sé stesso ancora di là da venire. Suggestioni e timori che gli Abysmal Grief sondano nascosti in una cripta di foggia paleocristiana adibita ad ambigue liturgie.
2) Borgo Pass