ONSLAUGHT

In Search of Sanity

1989 - London Records

A CURA DI
LORENZO MORTAI
05/07/2017
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione

Se la prima parte di carriera degli Onslaught, e per prima intendiamo quella intercorsa fra la primissima demo rilasciata a metà degli anni '80 fino alla pubblicazione di Power From Hell (nel 1985) era stata caratterizzata da uno smodato uso delle dinamiche Hardcore (ricordiamoci infatti che la band partì proprio come gruppo appartenente a questo schizzato e nerboruto filone del Punk, pubblicando circa sei demo contenenti pezzi veloci, dissacranti e completamente urlati in faccia al pubblico), con l'avvento di The Force le cose drasticamente cambiarono. Quel pentacolo che andò a sostituire il perlato demone iniziale dichiarò al mondo una sola parola, anzi, una coppia di parole, Thrash Metal. Non che PFH non fosse Thrash, tutt'altro, viene ancora oggi ricordato come uno degli album UK Thrash più influenti e cangianti di sempre, complice dinamiche veloci, testi inneggianti alla demonizzazione ed al male, e la truculenta voce di Mo Mahnoney a fare da contorno. Con l'ingresso di Sy Keeler le dinamiche cambiarono decisamente; si passò ad un technical thrash di pregevole fattura. Ai gutturali riffs hardcore iniziali si andarono a sostituire brani più lunghi ed articolati, concatenazioni sempre più complesse ed una atmosfera generale che rasentava la follia più completa. Con il secondo disco la band ottenne il successo tanto sperato, tutti li volevano e tutti li acclamavano. Successivamente, come abbiamo avuto modo di spiegare nelle recensioni degli EP intercorsi fra il secondo ed il terzo album, una violenta virata di stile obbligata gettò gli Onslaught nel caos più totale. Il terzo disco, In Search Of Sanity (argomento odierno), era già stato totalmente registrato, passando semplicemente dalla dorata Under One Flag alla misconosciuta London Records, etichetta semi indipendente britannica con il pallino di lanciare band emergenti. Il contratto era stato firmato, le sessioni in studio erano andate meglio di quanto si pensasse, ed il disco ormai era pronto per uscire. Poco prima della sua effettiva messa  in commercio però, la London fece un brusco passo indietro; Sy Keeler non era abbastanza incisivo per cantare nella band, la sua voce squillante era maligna e tecnica al punto giusto, ma non abbastanza. Non abbastanza per entrare a tutti gli effetti nell'Olimpo dei grandi, almeno questo fu ciò che la label disse alla band in un caotico incontro. Il gruppo rimase sconcertato; Nige Rockett più di tutti, considerando che egli è il vate ufficiale della formazione, il fondatore e membro più anziano. Aveva personalmente selezionato Sy, e la loro amicizia era già durevole e storica, un rapporto che continua fraternamente ancora oggi. Fu quindi una auto coltellata davvero pesante per Nige allontanare Keeler dalla band; il capellone accettò di buon grado, storcendo il naso ma capendo benissimo che ai voleri del business, che ci piaccia o no, dobbiamo sottostare. Rimaneva però il problema più grande, come rimpiazzarlo? La London ebbe una folkloristica idea, che a vederla con gli occhi di oggi sembra quasi follia, ma che in realtà almeno fino al definitivo scioglimento porterà giovamento alla band. Si pensò di assoldare un cantante classico, che tutti voi conoscete come fondatore dei Grip Reaper, Steve Grimmet. Sotto la sua guida, secondo le indicazioni della label, la band avrebbe trovato il successo pseudo commerciale che andava cercando da tanto tempo. Con questa versione riveduta e corretta, venne in pochissimo tempo ri-registrata la parte audio del disco ormai pronto, facendo imparare a Steve le nuove liriche ed i tempi delle canzoni. Tutto questo avvenne circa nel 1988, un anno prima della effettiva pubblicazione di In Search. In questo lasso di tempo vennero pubblicati Shellshock e Welcome To Dying, due EP "per presentare" il nuovo frontman, e fornire al contempo un po' di materiale per i collezionisti. Successivamente, in data 22 Agosto 1989, In Search Of Sanity vide ufficialmente la luce. Pubblicato inizialmente in vinile 12 pollici, è stato negli anni ristampato alcune volte, fra cui spicca la pregevole versione CD della Candlelight Records (la stessa casa di produzione degli Opeth per intenderci), e la golosissima versione in 2 CD della Dissonance Production, uscita lo scorso anno per celebrare il trentennale di The Force (ristampando ovviamente tutta la discografia). La copertina si presenta a noi con uno stile strano, considerando la band di cui stiamo parlando; via effigi sataniche e demoni pieni di odio. Spazio ad una camera di contenimento per pazienti psichiatrici, al centro un enorme lampadario (con in evidenza la scritta 200Watt di potenza), e poco sotto quelli che sembrano due orologi allungati che ricordano gli "orologi molli" di Dalì (o Persistenza della Memoria se siete appassionati di storia dell'arte), segno evidente della follia dilagante. La prospettiva è forse la cosa più interessante; tutto infatti viene visto quasi come sotto la lente di un fish-eye, in forma tondeggiante come se ci stessimo specchiando nell'opalescente vetro della lampadina. In essa infatti vediamo al porta della camera di contenimento, ed una sinistra ombra che, a quanto pare, è il malcapitato paziente che la occupa. In alto troviamo il nuovo logo della band, che sembra fatto di acciaio inox luminescente; via i caratteri gotici, spazio alle punte ed alle seghettature, mentre il titolo del disco è scritto in caratteri semplici. Troveremo al suo interno due tracce che danno il nome ai due rispettivi EP usciti in precedenza, una celebre cover della band reinterpretata da Grimmet, e tutto materiale inedito. Siamo entrati nella camera del pazzo, ci ritroviamo di fronte al suo sguardo sanguinario, i suoi occhi di bragia ci penetrano fin dentro l'anima, cosa vorrà da noi? Abbiamo otto tracce per scoprirlo; estraiamo il vinile dalla sleeeve, appoggiamo la puntina, ed aspettiamo che il fruscio riveli il suo segreto contenuto. 

Asylum

Ad aprire le danze troviamo Asylum (Manicomio); unica strumentale di tutto il disco, ci viene aperta da un lugubre tappeto di tastiera e sintetizzatore, che crea la giusta atmosfera prima di passare al contrattacco. Il tappeto viene esteso per diversi secondi, sentori di marce funebri e rituali demoniaci prendono possesso della nostra mente. La malcapitata voce di un demone in lontananza inizia a farci venire i brividi, mentre un vago anthem della chitarra comincia a farsi strada piano piano nella brughiera nebulosa. Continuano i sentori di morte man mano che procediamo, rumore di passi e catene ci fanno avere il demone alle calcagna, ci sta seguendo ed agogna la nostra anima. Il pazzo assassino protagonista della copertina ci fissa col suo sguardo, è lui il demone, egli  è colui venuto per portare la morte, la distruzione e l'annichilimento all'interno del mondo. Il suo paio di occhi infuocati ci fanno sentire nudi di fronte a tanta malvagità. Ed è proprio andando avanti nell'ascolto di questo interminabile intro degno di Mario Bava (dura ben cinque minuti e qualche secondo), che ci accorgiamo di una cosa; non verrà suonata alcuna nota in questa prima traccia. Nessun riff di chitarra, nessun colpo di batteria, solo i macabri sentimenti che scatenano le notturne note che stiamo ascoltando. Note che vengono prese direttamente dalle tradizioni horror; sentiamo la lama di un coltello sfilettare l'aria, il suo passo felpato ci fa trasalire, il sangue nelle vene comincia a farsi caldo come l'inferno. Dopo il caldo invece sentiamo un gelido brivido lungo la schiena, le vene dei polsi si fanno gelide come la morte, il sudore ci imperla la fronte come fosse una spugna bagnata, e cominciamo a sentire veramente paura. D'un tratto ci troviamo dentro la camera di contenimento, le pareti imbottite diventano quasi soffocanti sotto i pesanti respiri del folle che ci sta davanti; gli orologi ticchettano come impazziti, ed ogni movimento diventa pesante come un macigno. Gli ingranaggi si muovono lesti e contriti nella stanza, sentiamo ogni movimento, ogni singolo cambiamento, anche il più crepuscolare, ci fa trasalire la gola. Si serrano le mandibole mentre un incessante battito cardiaco comincia a farsi sentire sempre più nella stanza. E' il battito del nostro cuore, sempre più martellante, ed unito a passi che stanno venendo a vedere cosa accade dentro quel materasso di quattro pareti. Ed è qua che ci accorgiamo di una cosa, la più spaventosa che potessimo mai immaginare; il folle in piedi davanti a quella lucente lampadina, siamo noi stessi. Il manicomio è la nostra casa e la nostra prigione, ci sentiamo soffocare e colpiamo le pareti, ma le braccia sono ormai avvinghiate nella morsa di una camicia di forza. Cerchiamo di sopraffare quei sentimenti contrastanti dentro al nostro petto, il cuore che continua a pompare sangue dentro le arterie, sentiamo la pressione gonfiare le tempie ed il cervello fino a farlo scoppiare. Un intro decisamente insolito, non tanto per le atmosfere (se ben ricordate anche in PFH avevamo avuto qualcosa di similare), quanto per la lunghezza. Un intero slot di cinque minuti in cui si mette l'ascoltatore nella malcapitata condizione di spaventarsi a più non posso; ferree tradizioni cinematografiche che qui vengono riprese in tutta la loro interezza e forza d'esecuzione. Inizio non tanto al vetriolo per il disco, quanto chiazzato del buio più totale; non capiamo bene quale sia stata la scelta stilistica di prolungare l'intro così tanto, tirandolo quasi per i capelli. Consiglio vivamente l'ascolto dei primi cinque minuti fissando ininterrottamente la copertina del disco stesso: scoprirete dettagli che vi sono sfuggiti, ed arriverete davvero a pensare che quel folle all'interno della camera siate voi stessi.

In Search Of Sanity

In seconda posizione troviamo la title track, In Search Of Sanity (In Cerca di Sanità). Viene aperta da un metallico intro di chitarra e batteria, che all'unisono iniziano ad intonare un riff che sembra estratto direttamente dalle tradizioni Heavy classiche. Le chiazzate Thrash ci sono senza dubbio, ed infatti poco dopo veniamo accolti da un anthem della sei corde, che si elettrifica sempre più mentre attendiamo la voce di Steve. Come abbiamo sottolineato negli EP di transizione intercorsi fra The Force e In Searh, la voce di Steve certo non è quella di Keeler; il suo tono è decisamente più aulico e reattivo, forte delle sue tradizioni classiciste che gli scorrono ampiamente nelle vene ormai da sempre. Nei Grim Reaper se ben ricordate il suo vocalizzo era pulito, costante e tossico al punto giusto, e qui viene riproposto in forma pressoché uguale. La linea musicale è stata notevolmente abbassata rispetto al disco precedente, venendo incontro sia alle esigenze di vendita che a quelle del nuovo frontman. Siamo passati infatti da uno Speed Thrash di pregevole fattura ad una sorta di Heavy Thrash, sempre ben scritto ed altrettanto ben prodotto, ma leggermente meno incisivo. Non che sembra di trovarsi su un altro pianeta, sia chiaro, ma il ritmo è decisamente meno caotico di quanto ascoltato fino ad ora; procediamo a spron battuto verso il primo ritornello, alternando il main riff con la voce di Grimmet. La linea generale è quella classica, e continua ad essere così fino ad un piccolo rialzo nel ritornello; ottimo il chorus di Steve stesso, che ripete a gran voce il titolo dandogli quel tocco di malvagità che basta. Avete mai pensato di capire che cosa passa per la mente di un pazzo o di uno schizofrenico? Cerchiamo di vedere questa prima canzone come un tutt'uno con il precedente e lunghissimo intro. Siamo all'interno della nostra camera di contenimento, immagini spaventose ci passano dinnanzi alla mente, e non troviamo pace. Siamo ormai ufficialmente distaccati dalla realtà, il ritmo del sangue si fa sempre più ingerente e caldo, le vene pulsano sotto le braccia e dentro la testa, il cervello si fa pesante come un macigno. Ed in un lampo ci ritroviamo catapultati in un mondo fittizio, popolato di creature ed immagini non reali, anche se noi crediamo che lo siano; siamo fuori di testa, eppure nonostante la nostra follia cerchiamo la pace. La sanità mentale sembra una chimera da rincorrere fino ad avere il fiato corto, ed iniziamo a non averne praticamente più. I polmoni bruciano sotto il peso della corsa, il cuore si gonfia e quasi esplode nel petto mentre continuiamo come disperati a cercare la via d'uscita da quell'inferno. Eppure, in tutto questo caos, cominciano a venirci in mente varie motivi per cui siamo finiti lì; siamo finiti in quella camera perché abbiamo smesso di combattere. Noi odiamo le bugie e le falsità, ce lo siamo sempre ripetuto fino allo stremo, fino a non avere più voce da poterlo urlare; eppure ci siamo fatti ingannare, e mentre la musica continua la sua lemme e costante corsa, aiutata da un eccellente lavoro di Rockett alla sei corde (le cui dita si muovono sapientemente, anzi, pare quasi che la sua tecnica si sia ulteriormente affinata nel corso del tempo), ci viene dettato il credo in cui ormai dobbiamo sperare. Credo che si rifà alla ricerca non tanto della verità, quanto di quella pace interiore che sembra solo una pentola d'oro irraggiungibile. I ritmi si fanno via via più veloci, quasi come se stessimo seguendo in maniera serpentina la mente del nostro protagonista; le scudisciate della musica, pur rimanendo sempre costanti e morbide, si fanno abbastanza violente, aiutate anche da azzeccatissimi cori. Sembra di ascoltare per certi versi una band completamente nuova, più matura e consapevole, anche se una buona parte di noi continua a rimuginare su ciò che è stato; arriviamo al secondo chorus e l'attenzione viene posta ancor di più sui rapidi scambi fra la chitarra e la batteria, con possenti slap di basso in sottofondo che aprono ad un successivo assolo di Nige. Assolo che sembra gridare al miracolo dentro la mente del nostro uomo (o di noi stessi se preferite); la pace può essere trovata, ma solo attraverso la distruzione più totale. Non abbiamo più alcun filo di speranza, non c'è rimasto niente a proteggerci da noi stessi, soltanto quella camicia di forza che ci opprime braccia e petto. Dobbiamo alzarci e combattere, combattere per dimostrare che non siamo pazzi, anzi, che vediamo il mondo meglio di chiunque altro. Del resto ci hanno rinchiusi perché abbiamo detto la verità, e nel frattempo Rockett sfodera la seconda parte dell'assolo prima del roboante finale. Finale che arriva ripetendo nuovamente il main theme, alzando ed abbassando la velocità costantemente mentre Grimmet pronunzia le ultime parole di diniego verso l'anti-umana condizione del protagonista. Più che ci avviciniamo al gran finale (con gli strumenti che in pompa magna suonano all'unisono sempre più incisivamente), più pensiamo che sembra di ascoltare i Grim Reaper mischiati con i Metallica; un ottimo equilibrio comunque, per quanto (e nel finale lo ripeteremo con ancora più verve), non è certo un disco paragonabile agli altri. 

Shellshock

In terza posizione incontriamo una nostra vecchia conoscenza. Apparsa per la prima volta nell'EP dal titolo omonimo (con quella che probabilmente è una delle copertine più strane e particolari mai concepite dagli Onslaught), Shellshock viene di nuovo a farci compagnia. Un titolo che come abbiamo raccontato nella recensione dedicata, è pressoché intraducibile in italiano. Viene aperto da un lisergico e malvagissimo anthem della sei corde, che prosegue incontrastato per tutti i primissimi secondi di brano, montato sul ritmo incessante delle pelli. Il riffing snodandosi nella nostra testa come un viscido serpente ci fa apparire immagini di morte e desolazione, in una cornice quasi spettrale e post-apocalittica. Esse si insinuano come taglienti lame nelle vene, strabordando sangue. Successivamente la chitarra va a cambiare leggermente il proprio sound di base, sfociando poi un alternate picking che fa da contorno al resto. Siamo qua, in trepidante attesa della voce, che per quanto non sia ciò che ci aspettavano dalla band, è comunque una ugola che amiamo alla follia. Il passo famelico brama la nostra carne, brama la nostra anima ed il nostro sangue. Si aggira per le strade con fare da dominatore, pronto a ghermirci ogni volta che vuole. Ha bisogno di noi, vuole sentire le ossa scricchiolare sotto il suo morso, vuole far si che la nostra anima sia sua per sempre. Mentre la tempesta sonora infuria ed ormai Grimmet sembra aver ben appreso le tecniche canore necessarie per mandare avanti il disco, assestandosi sempre sul tono a metà fra falsetto e pulito, il killer scruta il nostro vente, bramando di penetrarlo con i suoi denti. Un mid time preciso come un cronometro squarcia la metà del brano in due, la band urla e maledice gli strumenti con i propri riffs, e la scena si sposta all'interno della testa del nostro malefico protagonista; sente il male che gli monta dentro lo stomaco, sente la fame e mai la sazietà, sente il nostro odore come se fosse il piatto che ha sempre voluto mangiare. Lo "scuotimento" (se volessimo dare una traduzione alla mano) fa si che la brama di una vittima lo faccia diventare restio a qualsiasi forma di pietà o gentilezza, non conosce amore, soltanto la violenza. A livello sintattico/musicale ci troviamo di fronte ad un pezzo che tiene per tutto il tempo i propri bicipiti gonfi e tesi. Per quanto riguarda la voce, andando avanti nell'ascolto ci rendiamo ben presto conto che, per quanto Sy ci manchi terribilmente, si, il suo biondo sostituto non se la cava per niente male. Rendendo meno nerboruto il sound, mr Steve riesce bene a districarsi in quella giungla che gli è così poco familiare, parliamo del Thrash. Nel ritornello Rockett accende le corde della propria ascia dando vita ad un ritmo forsennato, mentre l'anima straziata del protagonista fa capolino nuovamente, ma stavolta con una gigantesca punta di malinconia. Se volessimo paragonare questo brano al concetto di "forza" direi che la commistione fra ritmi cadenzati e costanti, la voce di Grimmet che fa da ottimo contorno a tutto quanto, e la saggia decisione di mantenere ruvide e possenti scivolate Thrash, fanno di questo brano un diretto pugno nei denti. Il folle ormai è a piede libero, panico per le strade quando passa, occhi terrorizzati al suo passaggio, le membra ed il cervello diventano di ghiaccio dinnanzi alla sua presenza. Arrivando al secondo ritornello, gli Onslaught calcolano al millimetro i cambi di tempo, gettando solide basi per il gran finale. Nige annoda le proprie mani fino a farle diventare un tutt'uno col manico, le corde non si assopiscono mai, vengono costantemente stimolate fino a spremerne l'ultima goccia. Un assolo basico e non eccessivamente veloce da il là per i fuochi d'artificio, ormai la follia ha preso pieno possesso del nostro uomo; la cecità del momento fa si che i fendenti si facciano più incisivi, i capelli e la faccia si macchiano di sangue caldo e rosso, quasi nero nella notte che abbiamo intorno, mentre un pungente sentore di morte fresca inizia a penetrarci nel naso. Grimmet mette forza ed energia in ogni parola che pronuncia, ma da un vecchio metalhead come lui, in forze ormai dalla fine degli anni settanta, cosa potevamo aspettarci se non questo?  Lo immaginiamo tutto tronfio mentre registrava i pezzi pensare "oh ben, mi avete criticato perché vi manca il vecchio cantante? Ed io ora vi faccio sanguinare ogni lobo!". I battiti finali della canzone sono affidati ad un altro mid time dal sapore davvero antico, quasi "vecchio" (complice sicuramente la presenza di Grimmet); abbiamo finito di uccidere, il corpo si prostra di fronte a noi con la gola ormai recisa. Abbiamo giusto il tempo per un ultimo cambio di sonorità, che traghettano ad un assolo finale veloce, tecnico e sagace. 

Lighting War

In successione troviamo un brano il cui titolo ci fa risalire ad un passato non molto lontano, ma ne parleremo fra poco. Lighting War (Guerra Lampo) ha un inizio decisamente più Thrash dei precedenti pezzi, in forte linea con quanto fatto dalla band negli anni anteriori a questo disco. Un vortice sonoro ci investe in piena faccia prima di lasciarci andare alla voce di Steve che entra poco dopo, utilizzando stavolta un tono decisamente più aulico e sostenuto di quanto fatto fino ad ora. Una canzone che fa della velocità di esecuzione la sua arma principale, e della sagacia del testo la sua alma mater. Si parla infatti di una guerra lampo; tecnica militare inventata dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale. Alla lettera in tedesco si traduce come Blitzkrieg, vi fa venire in mente niente? Ebbene si, abbiamo non una cover, quanto piuttosto un pezzo omonimo della celebre NWOBHM band britannica, coverizzata anche dai sempiterni Metallica in tempi non sospetti, agli inizi della carriera. Questa tattica di guerra prevedeva un contingente armato pronto a tutto, un vero esercito di morte, che arrivasse sul campo ed in pochissimo tempo spazzasse via tutto quello che era presente, nemici compresi ovviamente. Siamo sulla terra chiazzata di sangue, i tornado musicali di Rockett accompagnano quella tempesta di polvere che si sta palesando di fronte al nostro sguardo contrito. E' il contingente tedesco che avanza; carri panzer marchiati dalle croci bianche e nere, cannoni spiegati pronti a far fuoco, truppe d'assalto con elmetti calati sulla testa che agitano mitragliatrici e fucili di fronte al loro naso, aspettano solo il segnale. Il ritornello ci narra brevemente che non si sfugge alla guerra lampo, niente può sopravvivere, è come uno tsunami umano, dove arriva non cresce più l'erba. Ed ecco la carica dei militari, compatti ed uniti dal credo comune, ma al loro interno troviamo persone come noi che siamo dall'altra parte della barricata, la sei corde vomita letteralmente note in faccia al pubblico, azzeccati cori che ripetono allo stremo "die, die!" donano la giusta atmosfera guerresca prima di un cronometrico cambio tempo. Cambio che viene caratterizzato da un successivo ritmo che affonda le mani nella tradizione classica della terra d'Albione; ritmi incessanti che si concatenano ad un assolo o proto-assolo tirato letteralmente per i capelli. Ormai la carica è iniziata, i cannoni sputano fuoco in faccia ai nemici, visi che bruciano sotto i colpi dei fucili, la guerra lampo ormai ha preso piede. La cosa interessante di questa tecnica è che, durante la guerra, ha funzionato soltanto per i primissimi anni di conflitto, per poi fallire miseramente durante la campagna di Russia; i tedeschi infatti erano talmente convinti che questa strategia di combattimento li avrebbe portati alla vittoria finale, che decisero di utilizzarla anche con la fredda steppa sovietica. Il blocco russo però era molto più duro di quanto i nostri comandanti pensavano, complice anche lo spostamento (letterale) dei russi attraverso le campagne gelate fin nella più sperduta landa desolata dell'immensa nazione. I tedeschi come la storia ci insegna perirono miseramente, incrinando per la prima volta in maniera significativa il loro nefasto potere, e conducendo gli alleati alla vittoria. I ritmi si fanno ancor più vorticosi nella sezione centrale, Grimmet ormai sembra a suo completo agio a cantare Thrash Metal, oh certo, non è neanche paragonabile a Keeler e ce lo siamo detto ad ogni piè sospinto di questa recensione, ma d'altronde il nostro capellone corpulento sembra sappia davvero il fatto suo. E' riuscito, aiutato da Nige e soci, a trasformare un disco che poteva essere la fotocopia di The Force (e non sarebbe stato male, capiamoci), in qualcosa di completamente diverso. Mentre la battaglia infuria sotto i nostri occhi teniamo il fucile stretto fra le mani, le dita si fanno rigide mentre perfettamente in sincrono con la storia raccontata, sul finale la canzone scoppia come un ordigno atomico.  Il tempo di un mid time suonato al massimo volume possibile ed eccoci di nuovo nella mischia della battaglia; non si vince né si perde con la guerra lampo, l'unico scopo è aumentare l'onore e la gloria. Grimmet alza decisamente il tono sul finale del pezzo, andando a foraggiare quello che è il suo stile classico, che abbiamo conosciuto nei Reaper, tossico e cattivo al punto giusto, e quasi sembra che al posto di guerra lampo pronunci "see you in heel my friend!". Nuovamente azzeccati i cori per gli ultimi secondi, e così come la carica dei soldati è arrivata, la bandiera dell'onore è stata piantata, ciò che lasciano dopo il loro passaggio è soltanto un enorme sentore di morte e distruzione. Cadaveri ad ogni angolo del campo di battaglia, il fumo dei cannoni ricopre braccia e teste fatte saltare dai colpi, e la nostra band è ancora lì sul palco, a malmenarci con un ultima rombata di chitarra e grandissima batteria di Steve Grice prima che la dissolvenza si porti via tutto quanto. Un pezzo che da il meglio di sé dal vivo, anche eseguito da Keeler (che non canta moltissimi brani dell'era Grimmet come è prevedibile, ma questo in particolare ogni tanto ci finisce) e che riesce sempre ad infiammare gli animi. 

Let There Be Rock

Come prossimo slot troviamo un'amica davvero di vecchia data, che affonda le proprie radici nel primissimo passato della band. Ricordate infatti il primo EP uscito dopo The Force? Conteneva una celebre cover, quella di Let There Be Rock (Sia Fatto Il Rock) degli AC/DC. Il pezzo è stato ampiamente ripreso anche dopo il cambio di frontman (esiste infatti una versione di Shellshock in doppio singolo, sul cui lato B è presente proprio il pezzo degli australiano ma con Grimmet alla voce). Uscito ufficialmente nel 1977 e titolo del terzo album della band capitanata e fondata dai fratelli Young, questo pezzo è da sempre un anthem dell'Hard Rock e della musica alternativa in generale. Storico il video che venne girato ai tempi, con ancora il sacro Bon Scott a fare da arringatore religioso dal pulpito, pronto a diffondere il vero verbo della musica. Come tutti sappiamo benissimo (almeno chi ha una base musicale che sia quantomeno decente), il brano originale è una forte commistione di Hard Rock suonato a massimo volume ed ampie scivolate Blues, come la musica degli AC/DC richiede ormai fin dalla sua comparsa sulle scene. Una batteria pesante e cadenzata fa per prima il suo ingresso sul palco, ritmando l'aria e rendendo questo intro decisamente più devastante dell'originale. A ruota arriva Nige con la sua sei corde, che inizia ad intonare il caratteristico riff portante del pezzo.  Una progressione continua e senza precedenti, sorretta dal buon Rockett e dall'immancabile Grice alle pelli, che non smette mai di dare spettacolo. Nella versione primordiale Sy entrava dopo pochissimi secondi, ed era proprio col suo ingresso che la canzone prendeva una piega inaspettata. Se pensiamo infatti al tono originale di Bon Scott, quello di Keeler vi si avvicina molto tanto per ugola, quanto per come si affronta il pezzo stesso. In questa nuova versione invece abbiamo Grimmet, il cui cantato forse si lega molto meno volentieri alle dinamiche degli AC/DC, ma il biondo capellone riesce comunque a fare la sua figura da professionista quale è. Personalmente preferisco di gran lunga la versione originale con Keeler alla voce, ma devo dire che dopo alcuni ascolti continui anche questa ri-edizione si fa letteralmente amare, complice pesante l'ottima musica suonata . Si torna indietro al 1955 nelle parole del testo, quando l'uomo ancora era un preistorico del Rock, la sua pelle ancora non aveva saggiato l'elettricità di un riff o l'anthem di una batteria. Ai tempi i bianchi avevano la musica classica, il Pop che stava prendendo piede e la musica da camera, mentre i neri avevano il caldo Blues ed il sempre più crescente Jazz a fare loro da colonna sonora. Come la storia ci insegna, unendo questi due colossi precedentemente esistenti, qualcuno un giorno creò il Rock'n Roll. Gli stilemi del Thrash in questo frangente si sprecano, e per quanto continuiamo a fare il paragone fra Keeler e Grimmet, non possiamo che cantare a squarciagola ogni singola strofa del testo, che i dinosauri come chi vi sta scrivendo (non tanto per l'anagrafe quanto per i gusti) conosce a memoria. L'ordine originale del brano viene ampiamente conservato come avevamo anche analizzato nella recensione dedicata (che come sempre vi invito a leggere), ma si tende sempre a velocizzare il tutto, omaggiando la spanna musicale di cui gli Onslaught fanno parte. Si tratta di una rielaborazione in piena regola; viene fatta con il massimo rispetto per chi ha scritto il brano originale, senza aggiungere alcun elemento, ma semplicemente distorcendo ancor di più la linea classica del brano. La luce del Rock illumina tutti noi come un faro nella notte; per alcuni è stata una tragedia, per altri una vera e propria rivelazione. Per tutti noi che invece non abbiamo mai calcato un enorme palco con migliaia di persone, o macinato il mondo con pullman ed aerei, il Rock è semplicemente dedizione e vita, l'energia più bella di tutte. Rockett mette mano nuovamente allo strumento mentre Grimmet ci tiene a ricordarci che il miracolo era ormai stato fatto. Il Rock aveva visto la luce, e niente poteva più fermarlo, niente e nessuno; il pentagramma viene letteralmente corso dai nostri thrashers albionici, ma sempre nel massimo rispetto della band originale. Nuovo ritornello, e dove inizialmente trovavamo un grido di Keeler, qui troviamo un possente acuto di Grimmet, le cui corde vocali si spezzano quasi sotto i colpi della musica. La sei corde ci sputa in faccia i propri riffs; qui non c'è tecnica, non c'è scrittura, soltanto la sporca energia del Rock più stradaiolo e cattivo che si possa pensare. Paradossalmente appare come molto più cattivo anche di tantissimi generi estremi che sono apparsi negli anni seguenti alla sua uscita, e questa cover ne è una ampia prova, dato che è bastato aumentare le distorsioni per scatenare l'inferno. L'assolo viene aumentato di volume da Rockett, che omaggia lo scolaretto Young trasformando le sue originali note in una sorta di satiro mezzo Thrash e mezzo Hard Rock, che ci fa alzare le mani fiere al cielo. Come ci siamo chiesti durante la recensione scorsa, la scelta di questo pezzo è davvero bizzarra. In realtà neanche poi tanto se pensiamo ad altrettante bands Thrash che nel corso della storia hanno realizzato cover dei generi più disparati (Metallica in prima fila, che sono riusciti a passare dalla NWOBHM ai Queen, dal Punk all'Hardcore fino al Blues più alcolico e sensuale); probabilmente un enorme concerto visto da ragazzi, quell'energia che ti scorre nelle vene quando vedi salire sul palco i tuoi eroi, quando il chitarrista inizia a pennare sul lucente manico della sua ascia, sono sensazioni che non si possono certo scordare. 

Blood Upon The Ice

Prima traccia del lato B è Blood Upon The Ice (Sangue Sul Ghiaccio); un altro brano dai sentori macabri che, come il precedente Lighting War inizia in medias res grazie ad un prodigioso riff della chitarra. Riff che viene prolungato fino al primo cambio tempo e successiva entrata di Grimmet; siamo capitani coraggiosi dispersi nel tempo e nello spazio, comandiamo un equipaggio di forti e prodi uomini nelle steppe gelide dell'artico, in cerca di un prezioso tesoro, o forse di noi stessi. Come tutti i brani di questo disco fatta eccezione per la cover degli AC/DC, anche qui sforiamo abbondantemente con i minuti, arrivando ben ad otto. Non che siano pregni di altrettante variazioni, ma gli Onslaught 2.0 sembrano ormai aver trovato la formula giusta per soddisfare le necessità del pubblico. Il gelo si fa sempre più incessante, le membra diventano bianche e rigide sotto la morsa della neve, si staccano e cadono in terra sfaldandosi in mille frammenti sul pavimento gelato al di sotto dei nostri piedi. Ci rialziamo e combattiamo, ma ormai il ghiaccio è macchiato dal sangue delle vittime, e niente potrà mai cambiare questo. E' il momento di far parlare gli strumenti, e la band approfitta di ogni lasso utile per sfoderare le sue affilate armi; da una parte abbiamo Nige Rockett con la sua prodigiosa sei corde, il cui songwriting cerca di attingere a piene mani tanto dal Thrash quanto da generi vicini o lontani, mischiando tutto con grande forza. E così fa anche il buon Grimmet alla voce; in questo frangente lo sentiamo in quanto a voce molto vicino agli stilemi del Thrash classico, specialmente nei ritornelli, ma ogni tanto qualche svirgolata più o meno corposa sui propri stili è quasi un obbligo. Abbiamo solo bisogno di una possibilità, una possibilità di sopravvivere alla disgrazia che stiamo vivendo; marciamo nella neve con passo sempre più lento, il freddo ormai ci ha penetrato ossa e cervello, arrivando fin dentro la nostra anima. Non sappiamo bene cosa o come, ma sappiamo certamente quando: abbiamo sfidato gli elementi e ne stiamo uscendo ampiamente sconfitti, ed il ghiaccio si fa sempre più rosso sotto i colpi delle morti che stanno avvenendo. Dal campo della musica invece niente muta, la ripetizione ossessiva di un giro di circa quattro o sei accordi si trascina per la maggior parte dell'esecuzione, dando lustro e spazio al nuovo cantante. Le uniche accelerate che sentiamo sono in corrispondenza dei ritornelli e pre-ritornelli, nei quali i momenti che richiamano quasi i Maiden si intrecciano ad altri di pura estasi Thrash Metal. Nel complesso un pezzo che si fa ampiamente ascoltare, forse un po' ruvido nella sua resa, un po' duro da digerire se pensiamo a Thrash 'Till The Death e brani similari, ma alla fine accettiamo anche questo. Come speriamo che la salvezza sia alla portata della nostra gelata mano; quel ghiaccio rosso sotto ai nostri piedi inizia a sciogliersi tanto è il caldo sangue che ci scorre sopra. Ed è allora che cerchiamo conforto in qualcosa di più grande, di più esterno a noi. Il brano in realtà, specialmente la sua parte finale, può essere anche visto come una sottile denuncia ai campi sovietici durante la seconda guerra mondiale e durante tutta la guerra fredda, i cosiddetti gulag. Dagli esploratori siamo passati agli schiavi della dittatura, ma ovviamente tutto ciò accade perché le interpretazioni dei testi, a meno di palesi riferimenti storici o letterari, sono sempre diversi. Quel che è certo è che, tolta l'unica polemica che possiamo muovere a questa canzone, ovvero quella di essere leggermente più lunga del necessario, è un pezzo comunque clamoroso. Arriviamo al gran finale ripetendo nuovamente il tema della canzone, anche se leggermente modificato da un assolo di Rockett che dura diversi secondi, fino a sfiorare i due minuti completi di esecuzione; in questo ultimo momento la voce di Grimmet non si sente. Il ritmo ancora una volta si modifica sul finale andando a foraggiare stili quasi arabeggianti e che ricordano alcuni temi sentiti nei dischi firmati dai Megadeth; al contempo da segnalare come sempre l'ottimo lavoro di Grice dietro le pelli, ma anche quello di Hinder alle spesse corde del basso. Grimmet torna per gli ultimi minuti, sfoderando alcuni chorus davvero di forte impatto, il tutto senza curarsi minimamente dei timpani di chi sta ascoltando. Il tutto si va a concludere con un enorme e roboante finale al vetriolo, il main theme torna e con esso anche l'ultimo ritornello, quel sangue sul ghiaccio continuerà a scorrere finché continueremo a giocare a questo enorme e macabro gioco della morte. Finché non scapperemo da qua la superfice dinnanzi ai nostri occhi continuerà a tornare rossa in ogni momento. 

Welcome To Dying

Penultima posizione viene occupata dal brano più lungo di tutta la carriera della band, ed ovviamente dallo slot più lungo del disco, Welcome To Dying (Benvenuto Alla Tua Morte). Protagonista del secondo EP uscito prima di In Search questa traccia nasconde poderose sorprese, andiamo a scoprire quali sono. Di nuovo suoni di chitarra che prendono spunto dalle dinamiche horror ci aprono al brano, un arpeggio che sembra provenire direttamente dall'inferno, ed il tutto conserva comunque la morbidezza di una ballad dal sapore melanconico. Colpi sordi della batteria e possenti slap del basso che, nonostante lo abbiamo nominato ben  poche volte, ricordiamoci che è lì e fa il suo lavoro assolutamente a dovere, fanno proseguire il brano prima di farlo esplodere. Un passionale riff carico di sentimento e di emozioni, suonato da Rockett con tutta la verve di cui è capace, fa proseguire il pezzo intanto che aspettiamo l'ingresso di Steve, la cui ugola forse ben si adatta a queste dinamiche. Stiamo sognando ad occhi aperti, il mondo che circonda il nostro sguardo sentiamo acuminate spine che si conficcano nel petto, come se qualcuno volesse spezzarci il cuore. Stiamo vivendo un grande dolore, ma non vogliamo vedere oltre: siamo corpi sgraziati, nudi e contorti che si stagliano al sole del mezzogiorno, seccando la propria pelle sotto languidi sguardi di disapprovazione. Grimmet finalmente entra in scena, ed il suo cantato come speravamo si lega perfettamente alla musica di sottofondo, egli sembra un premuroso padre che carezza i figli, ma avvertiamo distintamente nel suo cantato una marcata nota di odio. Il delay si spreca in questa seconda parte, nella quale ci viene presentato a tutti gli effetti il protagonista, nato soltanto per poter arrivare alla fine della propria vita e perire fra atroci sofferenze. Siamo prigionieri di un enorme incubo, preda delle nostre stesse paure, eppure non riusciamo a svegliarci. Siamo esseri destinati alla morte, siamo soltanto carne destinata a decomporsi, ci convinciamo però, o ci convincono, di essere immortali sotto tutti gli aspetti: come un ostrica ci chiudiamo dentro noi stessi, annichilendoci dal mondo esterno e diventando un tutt'uno con la nostra anima. Siamo però esseri spregevoli, il cui unico regalo è di saper respirare abbastanza per sopravvivere. Gli argomenti qui si discostano abbastanza da quanto prodigato dalla band nella prima parte di carriera; se i primi due dischi avevano toccato onore, metalheads e demoni di varia natura, qui si va su argomenti decisamente più introspettivi, senza fermarsi minimamente all'apparenza, ma scavando a fondo nell'animo umano. Riff old school da parte di Nige ricamano costantemente, e la ballad si fa davvero triste ed emozionale sotto tutti gli aspetti; l'oscurità gioca con la nostra anima, la avvinghia e la lascia andare in un gioco al massacro. Niente potrà salvarci dal nostro fatale destino, del resto siamo venuti al mondo appositamente per questo . Ormai abbiamo capito che gli Onslaught hanno iniziato a fare musica "per le masse", ma senza diventare commerciali. La cosa interessante è che nonostante l'enorme durata del brano, la noia sia un sentimento che non tocca le corde del nostro essere. Le nostre catene si spezzano piano piano, stiamo cercando di liberarci dal gioco che ci opprime ormai da troppo tempo. Anche questa però è una illusione; l'illusione di poter fare quel che vogliamo, di riuscire ad alzare il muso da terra e trovare la pace, niente di più lontano dalla verità. La vita ormai per noi è giunta alla fine, stiamo esalando l'ultimo respiro, eppure siamo ancor più convinti che il nostro destino fosse questo, non c'è alcuna altra spiegazione per riuscire a far comprendere l'enorme sofferenza che stiamo subendo. La precisione messa in campo fa venire i brividi, Grimmet diventa ancora più maligno mentre questa, se così possiamo definirla, power ballad. Il ritmo finale inizia a mangiarci le ossa senza alcun ritegno, senza alcuna remora per la nostra anima. Ricordi affiorano mentre un assolo di chitarra squarcia questa parte centrale;  la fantasia di Nige sembra non avere limiti, in questo assolo che ci serve su un piatto d'argento le sue dita si muovono sapientemente sul manico della chitarra, sfiorando i tasti con grande leggerezza finché non arriviamo al culmine centrale. Momento corale che viene supportato da alcuni colpi delle pelli, il solo si trascina per diversi secondi, prima di un cambio tempo che esplode nella sua seconda parte, decisamente più elettrica della prima, ed anche più incisiva. Rockett ha decisamente serbato la sua arma vincente alla fine; il solo si protrae ancora ed ancora, le variazioni diventano sempre più ingerenti, ed il sound generale non può che guadagnarci. Due canzoni concatenate, questo sembra la penultima traccia; da una parte abbiamo le pelli melanconiche della power ballad, dall'altra un enorme vortice Speed Metal in cui buttarsi a capofitto senza alcuna paura. Perfino il basso si ritaglia un suo momento corale in questa ultima parte, Hinder percuote le sue corde con grande forza, cercando di tenere il passo del pezzo e dando il suo pesante contributo alla causa. Il momento di follia musicale sta per terminare, ma prima di arrivare fino in fondo, gli Onslaught dedicano un ultimo momento alla memoria stessa della loro gloria, sparando le ultime cartucce. Infatti il pezzo riprende la sua linea classica, tornano gli stilemi da ballad ed i passaggi malinconici: dopo la follia che ha imperversato per tanti minuti, adesso stiamo finalmente per arrivare in fondo alle nostre sofferenze. Il ritornello finale ci viene incontro come una musa ispiratrice, sappiamo bene che cosa significa il suo passaggio, sappiamo bene che cosa comporterà tutto questo, sarà semplicemente la conseguenza di ciò che siamo. Il minuto che va a chiudere il pezzo è troneggiante di Thrash Metal sotto tutti gli aspetti; sembra che la band ci abbia letteralmente aspettato per farci capire di cosa ancora siano capaci quando imbracciano gli strumenti. E ce ne rendiamo conto man mano che i secondi passano arrivando al solco più lontano del vinile; in quella apparentemente caotica follia, la band ha trovato la sua giusta strada, una forte e truculenta unione fra stili classici e dorato Thrash, per un ibrido da paura. La dissolvenza spazza via tutto il dolore provato, tutte le sofferenze vengono annullate, rimane solo il buio e la polvere a farci compagnia; una canzone che se viene presa nel verso giusto diventa accattivante e trascinante, se non altro brilla come uno splendido diamante per estro compositivo e voglia di fare. 

Power Play

Il finale è affidato alla rombante Power Play (Gioco Di Forza); un altro scoppiettante intro della chitarra fa da apripista, stavolta Grimmet entra in primissima battura, aggredendo le liriche con una verve che abbiamo sentito di rado in questo disco, almeno non con questa intensità. Il gioco pericolo a cui stiamo giocando sappiamo che non porterà a niente, i cori azzeccati ce lo ricordano senza troppi problemi, e la sei corde è lì per malmenarci ad ogni angolo della canzone, mentre Steve si accinge a diventare un vate vero e proprio della band e del suo sound. Siamo vittime di un mortale gioco a premi, una gara a chi muore prima; corriamo via dalla vita quando in realtà dovremmo inseguirla e rispettarla, giochiamo con la nostra esistenza senza preoccuparci minimamente delle conseguenze. Siamo come in un satanico limbo nel quale non ci è permesso di decidere nulla, niente viene lasciato al caso ma non siamo noi a controllare il gioco: è come un braccio di ferro con la morte, i muscoli si contraggono, la mandibola diventa pesante sotto gli sforzi dei denti che quasi si spezzano cercando di piegare l'altra parte al nostro volere, ma non ci riusciremo mai. E non ci riusciremo perché chi c'è dall'altra parte non sa neanche cosa sia il dolore; per lui è come bruciare una fiammella flebile e quasi impercettibile, mentre noi stiamo rendendo l'aria incandescente. I sei minuti che compongono il finale di disco si accingono a diventare interessanti quando Nige sfodera un pregevole riff allo scoccare dei due minuti, coadiuvato come sempre da Grimmet in prima linea; una brusca accelerata dei toni fa si infatti che l'intero comparto diventi ancor più incisivo, e quei meravigliosi cori sono da cantare a squarciagola durante i concerti. Steve ormai si muove con passo felino all'interno di questa musica, i giri della chitarra rallentano nuovamente diventando quasi un ritmo Crossover, la batteria viene deflorata con parsimonia alcuna da Grice, che si appresta a pestare sempre più frequentemente, aiutato anche dagli slap di basso. Un enorme momento corale in cui si calca molto la mano sul nostro atroce destino: siamo condannati a giocare finché non saremo completamente esausti, il braccio di ferro si sta facendo pesante, sentiamo le forze abbandonarci, ed intorno a noi grazie all'assolo di Rockett che si ode ad un paio di minuti dalla fine, l'inferno arriva direttamente alle nostre gambe. Eravamo stati avvertiti che a giocare col fuoco ci si brucia prima o poi, specialmente se si gioca con la morte, ma noi spavaldamente non abbiamo voluto ascoltare. Abbiamo preferito buttarci a capofitto nella mischia, insieme ad altri personaggi apparentemente temerari come noi, ma sotto sotto agnelli e pecore candide che aspettano soltanto di andare al macello. E mentre il braccio con cui stringiamo la morte si sta sfaldando, sentiamo in lontananza qualcuno che ci chiama e vuole parlarci; ci sta dicendo quanto siamo stati stupidi, quanto tutto questo finirà solamente con la dipartita del nostro essere, eppure ancora non ci stiamo convincendo a mollare la presa. Non ci convinciamo perché questo è gioco di forza, una prova per diventare veramente qualcuno, una prova per saggiare le nostre abilità, pagando anche con la vita se necessario, siamo pronti a tutto. Il minuto finale è occupato da un prolungamento dell'assolo iniziato circa ai quattro minuti di ascolto, e successivamente il main theme della canzone viene portato all'estremo grazie ad un tapping ed una serie di accordi assolutamente elettrificati, prima che l'ennesima variazione si porti via tutto quanto. Un altro solo si lega al primo aumentando ancora di più i giri, momento strumentale all'ennesima potenza per i nostri thrashers albionici, prima che Grimmet spezzi ancora la monotonia rientrando col suo canto. Un cantato che nell'ultima fase di canzone si fa demoniaco e quasi si avvicina ai toni di Keeler, pur conservando quel graffiato tipico del nostro corpulento e biondo leader. Nuovamente cori ci traghettano al finale vero e proprio, dove la strumentazione man mano rallenta fino a fermarsi del tutto e cercare di raccogliere i pezzi. Abbiamo ovviamente perso, come era prevedibile quando abbiamo iniziato, ma non ci arrendiamo di certo; la prossima sfida, seppur da fantasmi, la affronteremo con l'ennesima botta di spavalderia che ha caratterizzato gli ultimi istanti della nostra vita. Del resto, siamo o no guerrieri d'acciaio? Ed ecco allora che il tutto si trasforma in battaglia per noi, niente ci fa paura. Una chiusura di disco davvero interessante, da quel tocco finale di violenza che giova alla quasi ora di musica che abbiamo appena finito di ascoltare, ora non ci resta che tirare le fila. 

Conclusioni

In Search Of Sanity è il disco che segna la svolta più importante della carriera degli Onslaught; il cambio di frontman ha giovato in parte agli interessi della band, ponendola sotto i riflettori dei media, e portandola a girare il mondo più di quanto avessero fatto in precedenza. Dall'altra parte però l'ingresso di Grimmet ha in parte snaturato lo stile generale della band, che è passata per forza maggiore ad un sound leggermente più morbido e meno incisivo dei precedenti. A fianco del più morbido però, troviamo sicuramente brani ragionati e celebrali, testi impegnati ed una scrittura di fondo davvero matura; lode e gloria a Nige Rockett, il vero metalhead per eccellenza all'interno del gruppo. Colui che, ormai da sempre, fa da collante per l'intera struttura della band; la decisione presa a malincuore sotto pressione della London Records di allontanare Keeler aveva momentaneamente lasciato il nostro chitarrista in uno stato di profondo rammarico. Dover allontanare un fratello ed un amico infatti non è mai cosa facile, soprattutto se è colui che ha dato al tuo sound quella svolta finale che mancava rispetto alle fasi primordiali. L'acquisto di Grimmet ha giovato per quanto riguarda la gloria, ma anche gli aspetti tecnici; nel 1989 Steve aveva già alle spalle diversi anni di carriera, che ben ha saputo mettere a frutto nelle sessioni di ISOS. Quel che ne deriva è un disco maturo sotto tutti i punti di vista, ed infatti il voto passa pienamente la sufficienza, assestandosi su un 8 pieno. Unici difetti che possiamo riscontare, e più che di difetti parliamo di incongruenze, sono imputabili alla lunghezza dei brani; alcuni di loro risultano leggermente tirati per i capelli, e sacrificare un minuto e mezzo o alle volte due per dare spazio ad un pizzico in più di violenza non avrebbe guastato. Perché in fondo dagli Onslaught ci siamo sempre aspettati questo, caos controllato; caos controllato e forza bruta gettata direttamente in faccia al pubblico. Nel caso del disco che abbiamo analizzato questo viene fuori in alcuni frangenti, ed in altri assolutamente no; se lo vediamo come disco completamente staccato dalla carriera della band (ed è così che va visto), allora è un album che merita il voto massimo, compreso di lode. Ed è così perché è un disco la cui produzione è a dir poco cristallina, la scrittura eccelsa ed i movimenti sono sempre sincronizzati; se invece lo vediamo in relazione agli altri dischi firmati dal gruppo, questo (come i due EP da esso estratti), risultano essere vere e proprie mosche bianche. Questo album sarà anche l'ultimo pubblicato dal gruppo prima del definitivo scioglimento avvenuto nel 1990. Grimmet rimarrà in forze fino alla fine, e poi come vedremo gli Onslaught cadranno per diversi anni nell'oblio, salvo poi risorgere ma ne riparleremo prossimamente. In linea generale dunque un disco davvero ben fatto, pur con le mancanze che abbiamo sottolineato. Per molti è il loro disco migliore, ed è assolutamente vero che è colui che ha incontrato maggiormente il favore del pubblico, complice la presenza di una star come Grimmet; molti lo acquistarono solo per sentirlo cantare, considerando che in quegli anni il progetto Grim Reaper era miseramente fallito a causa della ingente causa con la Ebony, prima label della band britannica. Steve aveva bisogno di riscoprire la sua vitalità, e quale miglior modo se non dandosi ad un po' di Thrash? Consiglio vivamente questo album a coloro che cercano qualcosa di ibrido, un Heavy Thrash veloce ma non troppo, incisivo ma non troppo, violento quel tanto che basta e soprattutto tanto, tanto tecnico in ogni sua canzone. Dalle scorribande della title track alla gigantesca messa in atto di Welcome To, questo album contiene delle discrete perle, che ripetiamo, vanno prese per quel che sono; e cioè un disco la cui realizzazione è stata ostacolata dal music business (ripetiamo, le tracce originali erano state registrate con Keeler dalla prima all'ultima, di conseguenza ciò che sentiamo oggi è una sorta di arrangiamento dei mastering originali che non riusciremo mai a sentire), e dalle forti pressioni. La London voleva spremere la band fino all'osso e ci riuscì, andando contro sé stessa e mettendo i membri l'uno contro l'altro quasi; il risultato è un ottimo disco, ma non il disco che ci si aspetta da una band del genere. Nonostante le critiche mosse però,  il voto è ampiamente giustificato dal contenuto, ottimo sotto moltissimi aspetti; che dire dunque, abbiamo cercato di entrare nella mente del folle e ne siamo usciti vincitori, anche se la chimera ormai sembra morta, forse risorgerà come l'araba fenice.

1) Introduzione
2) Asylum
3) In Search Of Sanity
4) Shellshock
5) Lighting War
6) Let There Be Rock
7) Blood Upon The Ice
8) Welcome To Dying
9) Power Play
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