MIND SNARE
Ancient Cults Supremacy
2014 - The Spew Records

GIACOMO BIANCO
06/09/2014











Recensione
I Mind Snare sono una Death metal band piemontese, i cui componenti si dividono tra la zone di Torino e del Vercellese. La proposta musicale della band è un grezzo e potentissimo Brutal death metal, genere onorato da ormai ben 25 anni. La band infatti esordì nel 1989 con il moniker Satan’s Slaughter – mantenuto per un biennio – e poi passò a quello di Chemioterapy, abbandonato nel ’92 per abbracciare la loro attuale denominazione. Nello scorrere la loro discografia – che annovera, tra i moltissimi prodotti, ben quattro full-lenght – si nota come la band sia poi stata effettivamente attiva solo dal 2000 in avanti, anno del debut Hateful Attitude, uscito per la malese Psychic Scream Entertainment. Successivamente è stata poi la volta di The Noble Ancestry (2003) e From Blood to Dust (2005), entrambi pubblicati per la statunitense Forever Underground Records. Dopo tanto girovagare per il mondo discografico – ed alcuni anni di pausa dallo studio – i Mind Snare hanno siglato un contratto con la Sphew Records, divisione dell’attivissima etichetta piemontese Punishment 18 Records. Il risultato finale è questo Ancient Cults Supremacy, album che bada poco ai fronzoli e che ci regala un pugno dritto in faccia fatto di sano death metal old school. Gli autori sono Chris, chitarrista, Sergio, batterista, Derek, cantante, e Fabio, bassista. Il disco, sin dalla copertina, ben si connota con l’ambito del metal più estremo, presentandosi con un artwork davvero gore su cui si staglia nettamente il logo della band ed il titolo del lavoro. Il carnaio che viene raffigurato sembra un groviglio di mostruosità, di teschi e polipi dai lunghi tentacoli che tutto avvolgono e tutto stritolano. Nel mezzo del disegno, un occhio isolato si staglia eretto, fissando chi lo osserva.
A “Draining Faith” spetta l’onore di aprire le danze e ci imbattiamo subito in un sano riffing death old school, con le chitarre che eseguono “liquide” melodie. Il gioco di doppio-pedale è evidente già da questi primi fraseggi, ma la band dimostra di sapersi anche adattare a groove meno estremi e più rallentati. Dopo una lunga intro che ruota fondamentalmente attorno ai due giri principali, a 1:44 la canzone viene dirottata verso una parte più brutal grazie ad un riff che non lascia presagire nulla di leggero. Poco dopo si scatena infatti un groove caotico in cui riecheggia anche la voce gutturale di Derek. Sia per il genere, sia per la produzione – a dire il vero non eccezionale – nel marasma scatenato dai Nostri poco si può distinguere se non un turbinio infernale. La situazione migliora invece nei break, quando persino il basso assume una ben precisa dimensione, giovando complessivamente di una buona resa globale. La voce, da scarico di gabinetto quale deve essere, non possiede molte sfaccettature, anzi è unicamente incentrata su un timbro di growling, cavernoso quanto vuoi, ma a lungo andare un po’ monotono. Sarà per la produzione, ma la voce, nei momenti più scatenati, appare essere addirittura un rombo metallico, quasi disumano e leggermente fastidioso. Le vocals trattano di tematiche fantasy e parlano nella fattispecie di una razza infernale che si pone come obiettivo la distruzione degli dei. In realtà, strofe più in avanti, si legge dell’accusa mossa contro le religioni e, in particolar modo, a chi le abbraccia. I versetti “La verità non esiste in questo mondo/Poiché si sceglie il dio più conveniente per vivere una vita tranquilla” (“Truth does not exist in this world/Choosing a convenient god to live a pleasant life”) sono molto chiari e lasciano trasparire tutto l’odio deicida di queste creature. L’opener in questione è anche la canzone più lunga dell’album, arrivando quasi ai cinque minuti: in questo modo capiamo che i nostri sono una band che bada poco ai fronzoli e che gioca molto sull’impatto che il loro genere comporta. Verso la conclusione ecco che viene ripresa il motivo dell’intro, come a completare un ciclico disegno del male che regna incontrastato nell’universo. “Entrenched in Agony” è scandita inizialmente da un vigoroso drumming, che dura però pochi secondi. Dopo questa brevissima introduzione il growling di Derek sale propotentemente in cattedra. Il groove è letale, così come lo sono le liriche, questa volta incentrate sulla Grande guerra. La prima strofa funge da preambolo – a dire il vero quasi scolastico – alle vicende del conflitto: viene citato l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, vero casus belli della guerra (“With an assassin’s bullet the archduke is lost”), le forze degli imperi centrali raccolte sotto la croce di ferro (“Central powers unite under the iron cross”) e la mobilitazione generale di truppe in ogni dove. La seconda strofa racconta invece delle vicende di guerra vere e proprie, dal fuoco incrociato delle mitragliatrici sulle trincee nemiche, agli attacchi con le armi chimiche. Particolarmente cruda l’immagine delle trincee, che vengono definite “Tombe poco profonde per i morti” (“Shallow graves for the dead”). Il break a 0:57 spezza il ritmo esagerato della canzone ed apre all’assolo di Chris, davvero noisy, che quasi fatica ad emergere dal muro del suono. Rumori di mitragliate chiudono poi una canzone interessante. Una rapidissima rullata introduce “Decadent Bearer of All Disease”, la terza traccia. Il ritmo è fin da subito rallentato, con le chitarre che scrivono melodie maligne, mentre il doppio-pedale scorre imperterrito. Solito break e la canzone riparte a mille, con questo escamotage che comincia ad essere un po’ troppo abusato. Fin da inizio album non c’è mai stata grande varietà nel songwriting, ma ciò non è da imputare alla band quanto più al brutal stesso, rinomatamente statico: suona in quell’unica maniera e diversamente non potrebbe essere. Le liriche ritornano ad essere fantastiche ed incentrate sulla religione e sul misterico. Il titolo significa “Portatore decadente di tutte le malattie” e si riferisce ad un’oscura figura detentrice delle più antiche verità. L’attacco anticattolico è evidente nei versi “Glorificazione della santa prostituta/Peccati malsani del suo figlio bastardo/Oscuro traditore del mondo umano/Corruttore dai tempi più antichi/Col tuo infetto libro di bugie/L’umanità [è tratta] in inganno” (“Glorification of the holy whore/Unhealthy sins of her bastard son/Obscure betrayer of the human world/From ancient times corrupter/With your infected book of lies/Humanity in depravation”). Un’ultima sferzata finale e la canzone termina sotto i due tre minuti. Da notare come nel pastoso suono si riesca pur sempre a distinguere dalle potenti distorsioni il basso suonato da Fabio. La partenza a mille di “Smuggled in the Underworld” ci fa dimenticare per un attimo che siamo ormai a metà disco. Il testo ricalca grosso modo le tematiche fantasy delle canzoni precedenti, incentrandosi piuttosto su una Regina dei morti che deve risorgere. La più significativa è l’ultima strofa, dove si segna l’ineluttabilità del ciclo della vita e della morte sul mondo (“Endless cycle of death and life the world is now ensnared”) e di un destino fatto di sola sofferenza (“Never ending suffering is what you will all embrace”). L’umanità, ingannata dalla natura illusoria della natura, sarà cancellata (“Deceived by nature's deception humanity will be erased”). Musicalmente la canzone è il solito pugno nello stomaco, questa volta ancora più sentito a causa degli armonici artificiali che amplificano l’effetto macellante. La canzone procede in maniera abbastanza anonima, senza alcun punto degno di essere menzionato. Unica eccezione può essere la sezione rallentata che comincia a 1:06, ma dopo questa la canzone scivola nuovamente nell’anonimato. Il riff quasi inceppato di “Shatter of Morality” introduce una canzone che pare aver difficoltà nel decollare, ma che dopo mezzo minuto esplode nella sua assoluta cattiveria. La chitarra sembra un jet impazzito, talmente è violenta nell’esecuzione. A 1:28 un break fa calare sensibilmente la velocità, ma la canzone non acquista niente in più per farla svettare rispetto alle altre. Il titolo significa “Frantumare la moralità” ed è l’intento del protagonista della song che, dopo essere stato baciato dalla luce della ragione (“Graced by the light of the reason”), decide di liberarsi dal giogo dell’ignoranza e delle bugie che gli vengono raccontate. Risvegliando un’armata di persone pari a lui, egli non si fermerà più dinnanzi a nulla, dichiarando guerra al putridume della vita quotidiana. Traccia comunque sottotono, che non inverte il trend negativo che pare affliggere questo disco ormai da diverse tracce. La furia di “Deceived Humanity” introduce un brano che si caratterizza per le solite tematiche che hanno a che fare con un’esistenza fatta di sofferenze e disgusto. Siccome la vita reale è un sogno fuori dalla portata di chiunque (“Real life is a wish/Just out of your reach”), solamente abbracciando la sponda di chi sta parlando si potrà giungere alla verità assoluta. Indovinate come si raggiunge? Per mezzo della violenza. Per quanto riguarda il lato musicale, pare che le sorti del disco vengano lievemente risollevate, grazie ad una maggiore varietà dell’esecuzione. Tutto sommato la canzone si fa accettare e ci regala quasi quattro minuti di brutal death accettabile. Carina la sezione che anticipa il finale, dove a delle cavalcate seguono dei lunghi accordi, mentre la batteria esegue dei buoni passaggi di pedale e sui tom. Mentre la canzone si dissolve lentamente si può ascoltare sempre meglio una voce parlata, che arriva completamente a sovrastare l’impianto musicale. Questa soluzione appare però come una trovata buttata lì, senza un vero significato. Urla di dolore misto a pianto e follia omicida introducono “Mutilated Meaning of Life”. La canzone si evolve poi secondo i canoni più standard, offrendo spunti interessanti qua e là, come al minuto 0:47 oppure a 1:54. Siamo però sempre sulla soglia della sufficienza, a causa di un songwriting piatto come l’encefalogramma di un morto. Quando una canzone di questo album raggiunge il 6 è proprio perché possiede una scrittura più variegata. Tuttavia è sempre troppo facile cadere nel banale e far precipitare verso il basso l’attenzione di chi ascolta. Come suggerisce il titolo, l’intero testo è un festival dello splatter, fatto di torture, mutilazioni, violenze sessuali, bruciature e chi più ne ha ne metta. Tutti questi tormenti lasciano correre l’immaginazione fino ai perversi esperimenti che effettuavano gli scienziati del Reich all’interno dei campi di sterminio, vere sedi del “supplizio incarnato”. Apprezzabile la chiusura, quando le chitarre stoppano all’improvviso, lasciando la sola batteria a tenere il tempo. L’ultima canzone di questo disco è “Unleashed Hate Spreading” ed inizia in una maniera sorprendentemente inedita. Il riffing è – stranamente – di più ampie vedute e ci si comincia a mangiare le mani, sapendo che i nostri avrebbero potuto variare in questo modo anche le altre tracce. Tuttavia, dopo neanche trenta secondi, si ricomincia con la stessa carneficina, che a lungo andare ha veramente stufato. Il disco ormai non ha più nulla da dire, se non aggiungere altri minuti senza variare di una virgola la proposta. Il testo parla di un tizio che sente crescere in sé la voglia di uccidere, avvertito quasi come un bisogno impellente (“Killing urge is raising”). Dopo aver sprecato una vita ad essere un “prodotto della società”, il protagonista ha deciso d’imbracciare il fucile e di divertirsi un po’. Mietendo una vittima dopo l’altra (“Human dead bodies are piling”), la vicenda di questo assassino rimanda sempre più alle gesta omicide di quei ragazzi americani che, periodicamente, perdono il senno e compiono efferate stragi in luoghi pubblici, spesso college o università. Nel nostro caso tutto questo odio gli deriva dal dolore, unico sentimento che ha mai provato, causatogli da una vita fatta di umiliazioni ed ignominia (“What he felt/was only pain/What he received/humiliation and ignominy”). Prima del gran finale c’è ancora spazio per un assolo di Chris, carino perché molto Slayer-style.
Il disco, purtroppo, si è dimostrato al di sotto delle attese. Come già detto anticipatamente, il motivo di un voto non certamente eccellente è da imputarsi al genere, ma tuttavia la colpa non è solo della staticità intrinseca del brutal. Il songwriting dei Nostri si è dimostrato infatti poco appariscente, sempre molto tirato, sì, ma poco incisivo. Se poi pure una produzione non certo eccellente ci mette il suo zampino… beh, il lavoro non può pretendere di passare agli annali. Dal lato musicale le canzoni sembrano essere state prodotte in serie con un unico stampo, motivo per il quale non è stato il caso di dilungarsi neanche poi più di tanto sulle singole tracce. A conti fatti, sentire una canzone è come sentire tutte le altre: il trambusto è parecchio, l'impatto c'è, ma permane pur sempre la sensazione che di carne al fuoco ce ne sia ben poca. Infatti, dopo un ascolto attento, rimangono ben poche cose di questo disco. Complice la mia passione per la storia, le uniche parti che mi sono rimaste chiaramente in testa sono le liriche della seconda traccia, guarda caso l’unico brano ad avvalersi di una tematica reale. Nessun altro elemento, specialmente musicale, è degno di essere menzionato, eccezion fatta per gli assoli di Chris – solo due – che regalano una manciata di brio in un mare altrimenti troppo piatto. A discapito della band c’è comunque da sottolineare la grande passione che ci stanno mettendo ormai da quasi un trentennio, ma certo è che questo Ancient Cults Supremacy ha deluso le aspettative. Ai Mind Snare il compito di risollevarsi.

1) Draining Faith
2) Entrenched in Agony
3) Decadent Bearer of All Disease
4) Smuggled in the Underworld
5) Shatter of Morality
6) Deceived Humanity
7) Mutilated Meaning of Life
8) Unleashed Hate Spreading

