SLAYER + AMON AMARTH
Postepay Rock in Roma 2016
Live @ Ippodromo delle Capannelle (RM)
MAREK
13/07/2016
recensione
12/07/2016: Roma Capta Est.
Una città letteralmente messa a ferro e fuoco da due giganti del Metal mondiale, fra tradizione e nuovo corso. Da una parte, neanche a dirlo, i “barbari” che ottengono la tanto agognata rivincita sulla Capitale, di fatto conquistandola, rendendo loro sudditi gli abitanti della città eterna. Parliamo ovviamente degli Amon Amarth e del loro Melodeath profondamente intriso di trame vichinghe, di suoni rimandanti al glorioso periodo che fu, per le genti nordiche. Dall’altra, invece, abbiamo la Storia. I pilastri più saldi ed irremovibili: una carriera ultra-trentennale, dischi a dir poco imprescindibili, influenza decisiva per la nascita di generi quali il Death ed il Black Metal, massimi teorici del Thrash più violento e dilaniante. In due parole: gli Slayer. Un combo micidiale, due band chiamate ad arroventare ancor di più un’estate già di per se stessa torrida, afosa, a tratti insopportabile. Un caldo che, giocoforza, ha minato le energie di molti ma non della nutritissima compagine recatasi in quel di Capannelle, nello storico ippodromo, per assistere ad un concerto che sin dall’annuncio si prospettava decisamente rovente. Promesse sicuramente mantenute, con tanto di “surplus”. Due bands tostissime, in grado di catalizzare su di esse l’attenzione, ognuna proponendo i propri trademarks, senza fronzoli o barriere. Vichinghi, epiche battaglie, brindisi con corni colmi di birra ed idromele.. ed ancora assassini, criminali di guerra, odio, misantropia. Tutto questo nella bella cornice di una Roma che ha deciso di non curarsi dell’afa e quindi di accogliere Amon Amarth e Slayer con tutti gli onori di casa, mostrando alle due importanti realtà estere quanto il pubblico italiano sia senza dubbio uno dei primi in quanto a partecipazione. Eravamo in tanti, e sicuramente molto agguerriti. Un clima di esaltazione generale, nonché un pubblico “diviso” ed unito allo stesso tempo: gli amanti del Melodeath ed i Thrashers più oltranzisti, un bipolarismo perfetto, ma tutti congiunti da una volontà comune, quella di far del sano casino assieme e di lasciare a casa problemi e vicissitudini, almeno per un giorno. Bando dunque alle premesse, tuffiamoci assieme nei ricordi ancora freschi di una giornata indimenticabile.
Ad aprire le danze un gruppo californiano, autore di una breve prova, a mio giudizio senza infamie né lodi. I The Shrine, fautori di un Hard n’ Heavy particolarmente tirato e veloce ma al contempo accattivante. Si presentano alla maniera dei Metallica, accompagnati da un motivo reso celebre dal maestro Ennio Morricone: “Il Buono, il brutto ed il cattivo” dilania l’atmosfera con il suo fischio minaccioso ed ipnotico, è dunque il momento per i ragazzi di salire sul palcoscenico. Un gruppo che paga, c’è da dirlo, il catalizzarsi dell’interesse attorno a due grandi nomi del calibro di Slayer ed Amon Amarth. Il trio, comunque, in maniera assai professionale, decide di offrire al pubblico di Capannelle uno show per nulla “annoiato” od approssimativo. La loro proposta è energica e particolarmente frizzante, non certo innovativa a livelli stratosferici, ma nemmeno malvagia. In più di qualcuno ha ben gradito lo show, soffermandosi ad incitarli ed acclamarli alla fine del set. Vale sicuramente la pena procurarsi del loro materiale, per poter valutare in toto le loro capacità. Provate ad ascoltare per intero “Bless Of”, loro album datato 2014. Sicuramente, avrete di che divertirvi. Finito dunque il set dei The Shrine, è dunque tempo per i Drakkar di approdare a Roma. La preparazione del palco non richiede poi troppo tempo, ed ecco la suggestiva scenografia degli Amon Amarth prendere corpo, inesorabilmente. Due enormi e “dragonesche” polene scrutano il pubblico con occhi minacciosi, quasi come se una flotta di navi vichinghe si fosse effettivamente ferma in concomitanza del palcoscenico. Il mix giusto di potenza e teatralità; è tempo per gli svedesi di fare il loro ingresso sul palco a suon di musica pesante, mostrandosi in tutta la loro gagliarda baldanza scandinava. Finalmente giunge il loro momento ed eccoli intonare “The Pursuit of Vikings”, possente open track della loro setlist. La coppia d’asce composta da Olavi Mikkonen e Johan Söderberg inizia subito a macinare riff pesanti come macigni, con il preciso intento di annichilire subito un’audience in visibilio. Idem per una sezione ritmica decisamente sugli scudi: Ted Lundström e Jocke Wallgren si dimostrano due autentiche macchine da guerra, in grado di sorreggere in maniera solida e sicura il lavoro delle sei corde. Spicca, fra tutti, l’immenso Johan Hegg, frontman a dir poco eccezionale, in grado con la sua voce orsina di incalzare tutti i presenti, sin da subito enormemente coinvolti. Segue a ruota “As Loke Falls”, un connubio eccezionale, due brani tiratissimi resi ancor più potenti, come dicevamo, da una curatissima scenografia. Gli occhi dei draghi-polene, infatti, iniziano a brillare nei primi accenni di sera, di un rosso incredibilmente vivo e minaccioso. L’atmosfera è dunque perfetta, ed è tempo per i nostri di prendere un attimo il fiato. Johan si cimenta con un breve discorso in italiano (level: Joey DeMaio), augurandoci una “buona sera”, e chiedendoci come stiamo. La risposta del pubblico è incredibilmente calorosa, data anche la simpatia del momento; ed è dunque il momento giusto, per il buon Hegg, di ricordarci dell’ultima uscita targata Amon Amarth: quel “Jomsviking” presentatoci mediante la terza track della serata, ovvero “First Kill”, esattamente l’opener di quest’ultimo. Ad arricchire la scenografia, la copertina del suddetto disco. Un’immagine enorme, raffigurante un guerriero nordico armato d’ascia, in riva al mare, intento a torreggiare sui cadaveri di due nemici appena sconfitti. Alle sue spalle, un galeone vichingo, tutta intorno una pioggia fitta e battente. Se i Nostri volevano sbalordirci, ce l’hanno sicuramente fatta. Tanto più che, sia Johan sia gli altri membri “in piedi”, hanno addirittura la possibilità di sfruttare le polene come “pulpiti”, arrampicandosi su di esse e raggiungendo altezze notevoli. Il pubblico è in visibilio ed anche la traccia più “giovane” sortisce una standing ovation, facendo trovare i fan preparati su tutto il repertorio e decisamente ben disposti nei riguardi del materiale più recente. Subito seguono “Cry of the Black Birds”, “Death In Fire” e “Deceiver of the Gods”, il discorso si fa ancor più coinvolgente e dinamico, soprattutto quando la scenografia viene aumentata in occasione dell’esecuzione di “Runes to My Memory”. Due menhir vengono posti ai lati del palco: su di essi, incisioni in lingua runica, brillanti, in rosso rubino, come la luce negli occhi dei draghi-polena. Un vero e proprio omaggio (IN GRANDISSIMO STILE) ad una cultura che gli Amon Amarth, quanto meno, tendono ad onorare in maniera sincera, da bravi svedesi (a differenza di molti fan del cosiddetto filone “viking”; parlando tuttavia in generale e non riferendosi assolutamente al pubblico presente in loco). “War of The Gods” mantiene altissimo il tiro, viene richiamato a gran voce “Joms..” con la proposta in sede live di “Raise your Horns”, brano che Johan sfrutta per proporre un brindisi al pubblico, elogiando i valori della birra (santissime parole) e bevendo copiosamente dal suo corno. Gran finale riservato ai due brani più apprezzati di “Twilight of theThunder God”, ovvero “Guardians of Asgaard” e per l’appunto la titletrack del disco in questione. Quest’ultima rimane, a parer di chi scrive, il brano più bello di tutta la setlist. Introdotta da rumori temporaleschi e da un oscuro e tempestoso fondale, è risultata ancora una volta un concentrato di epicità, melodie sofferte, potenza: davvero un commiato coi fiocchi, che la band sfrutta decisamente, lasciando la scena ed augurandoci buon divertimento in compagnia degli Slayer. Il pubblico, fomentatissimo, non può far altro che applaudire sino a spellarsi le mani. Grida, esultanze, apprezzamenti. Gli Amon Amarth hanno lasciato il segno, poco da dire. Una bella lezione per chi, come il sottoscritto, era partito leggermente “scettico”, vista e considerata la mole dei due gruppi spalla presenti in quel di Milano (Carcass e Behemoth). Una vera e propria lezione di scenografia e di metallo pesante, non c’è che dire. Bravissimi Amon Amarth ed incredibilmente cresciuti, dall’ultima volta che ebbi modo di vederli live (“Gods of Metal” ed. 2012). Un’esibizione da manuale, che spiana letteralmente la strada alla cavalcata dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. La scenografia viene sgombrata in fretta, in seguito alla preparazione del palco per l’esibizione successiva. Il Cristo rassegnato e sofferente apparso sulla copertina di “Repentless” fa capolino su di un enorme striscione, e mentre i tecnici portano via drakkar e menhir, tutto viene sistemato al meglio per gli incombenti Slayer. Giunge dunque l’ora: “Delusions of Saviour” comincia a farsi sentire, il buio invade il palco.. tutto è pronto, l’Assassino sta per assalirci a suon di plettrate. Senza troppo farsi pregare, ecco i Nostri apparire in tutta la loro crudele sembianza. “Repentless” viene accolta dall’esultanza generale, il pubblico inizia sin da subito a pogare e dimenarsi, proprio come se tutti fossero stati improvvisamente assaliti da visioni estatiche, immersi in un baccanale di carne e sangue. Kerry King mostra i muscoli e la sua espressione truce, massacrando la sua sei corde, Gary Holt lo segue a ruota. Tom Araya, più in forma di quel che ci si sarebbe potuto aspettare, morde e sputa tutti i versi del brano, senza alcuna pietà. L’unico anello debole è costituito da un Paul Bostaph non esattamente precisissimo o “sul pezzo”, leggermente incerto in alcuni passaggi. Sta di fatto che il brano non risente troppo del piccolo momento di appannamento del batterista, filando liscio e potente. Un vero cazzotto mollato sul naso, seguito a ruota da un classico senza tempo. “Postmortem” si palesa immediatamente, fendendo l’aria con un colpo di mannaia; il regno del sangue è ancora più che mai vivo, e questa esecuzione ne è la prova. Un tiro perfetto, una vera e propria frustata. La più recente “Hate Worldwide” non fa certo rimpiangere le vecchie produzioni ed anzi, viene accolta calorosissimamente da un pubblico totalmente rapito e dedito al culto degli Slayer. L’ulteriore marcia in più viene ingranata grazie alla comparsa di “Disciple” e di “God Send Death”, quarto e quinto brano, pezzi grazie ai quali il moshpit comincia ad estendersi in altri punti dell’ippodromo, non solo rimanendo confinato nella “zona apposita”. A dimostrazione di quanto “God Hates Us All” sia stato apprezzato dai fan italiani, i brani vengono cantati ed urlati a squarciagola, suggellati da cotanta good friendly violent fun, liberamente espressa ed assolutamente non censurata o censurabile. Subito dopo “God..”, Araya prende la parola, provando ad imitare Johan Hegg ma non riuscendo ad esprimersi benissimo in italiano. Cerca di ripiegare sullo spagnolo, chiedendoci simpaticamente “se riusciamo a comprenderlo”. Risposta negativa, risata di Tom e dunque ritorno alla lingua inglese. Come il bassista ci informa, siamo qui “per divertirci fottutamente”. Cosa meglio di un grande classico, dunque, per incrementare ancor di più il tasso di questo divertimento? “War Ensemble” subentra a sorpresa, morsa e sputata, il livello di esaltazione raggiunge le stelle e non cala neanche quando sono due pezzi più recenti, a subentrare. “When the Stillness Comes” si lascia apprezzare, “You Against You” sa certo il fatto proprio, ed hanno il pregio di mostrarci una band in grande salute, con ancora più di qualcosa da dire. I fan apprezzano e riservano ai brani urla e pogate.. anche se l’atmosfera torna ancor più accesa con l’arrivo di un’altra carrettata di grandi classici: “Mandatory Suicide”, una sorprendente ed inaspettatissima “Fight Till Death” (che l’Assassino stia cominciando finalmente a capire, quanto “Show No Mercy” sia amato ed apprezzato?), l’immancabile “Dead Skin Mask”. Quest’ultima, presentataci da un simpatico Araya come “una canzone d’amore”; delusione massima per quei pochissimi (spero!) che si sarebbero aspettati effettivamente una ballad! Dopo la descrizione minuziosa delle gesta del folle Ed Gein è dunque il momento di “South of Heaven”, che “chiude” definitivamente il concerto. Gli Slayer spariscono momentaneamente, ma tutti sappiamo che a breve si ripresenteranno per un quartetto di devastanti encore. “Seasons in the Abyss” fa infatti la sua tetra comparsa, seguita a ruota dall’immancabile “Raining Blood”. Quasi come se fosse un medley, collegata ad essa abbiamo persino “Black Magic”; ultima, devastante fermata prima del capolinea: ecco comparire, in tutta la sua brutale potenza, l’arcinota “Angel of Death”. Il telone posto sullo sfondo (che nel corso del concerto aveva abbandonato la grafica di “Repentless” per sfoggiarne altre più “classiche”, con il logo della band) cambia ancora una volta.. ed a fare la sua comparsa è uno striscione recante su di esso il celeberrimo logo “birresco”, l’ultimo tributo al grandissimo, irraggiungibile Jeff Hanneman. Sotto il suo segno, dunque, viene eseguito l’ultimo brano del lotto, quello che ha consegnato gli Slayer alla leggenda e che a distanza di trent’anni ce li mostra ancora capaci di sorprendere, di picchiare duro come pochi saprebbero fare, al giorno d’oggi. Un concerto memorabile, incredibile, degna conclusione di una serata stratosferica. Il sangue piove ancora sull’ippodromo di Capannelle, anche dopo il ritiro del quartetto dietro le quinte.
Non vi nego d’essere tornato a casa più che soddisfatto. Felice, oserei dire. Estasiato e carico più che mai, adrenalinico. Raramente mi è capitato di trovarmi dinnanzi, nel primo arco di questa mia giovane carriera, ad un concentrato di epicità e violenza di tal guisa. Uno show eccezionale, ineccepibile, sotto ogni punto di vista. La dimostrazione di come l’assortimento del bill sia stato a dir poco perfetto: da una parte, uno dei gruppi più noti ai più giovani, alle cosiddette nuove leve; dall’altro, un’autentica band di veterani, di capitani di lunghissimo corso. Un binomio vincente, che ha unito passione, tradizione e novità in un connubio devastante. Che ci si fosse recati all’Ippodromo per gli uni o per gli altri, alla fin fine, poco ha importato. Quel che davvero conta, è che le due “fazioni”, apparentemente “diverse”, possano aver beneficiato di un qualcosa, rispettivamente, a loro volta. I fan dell’odierno Melodeath, anagraficamente più giovani degli esperti Thrashers accorsi, hanno potuto vedere all’opera una band leggendaria. Di contro, i più “navigati” hanno potuto prendere confidenza con il cosiddetto “nuovo all’orizzonte”, osservando le gesta di una band amatissima dalle nuove generazioni. Insomma, tutti soddisfatti. Incredibilmente appagati. Felici, come dicevo prima. E mi venga concessa una piccola digressione circa gli Slayer, in chiusura; i veri e propri protagonisti di una serata indimenticabile. Non ci piove sul fatto che mai la band di Araya registrerà i numeri di entità quali Metallica et simila.. ma posso garantirvi una cosa: qualora decidiate di vederli dal vivo, per la prima o la quinta volta, in ogni occasione riusciranno sempre ad impartirvi una lezione, unica e fondamentale. Quella della COERENZA. Del credere fermamente in noi stessi, in ciò che facciamo. Un gruppo, gli Slayer, che ha sempre anteposto la propria voglia di suonare a qualsiasi altro fattore. Del resto, è stato Tom stesso, a dirlo: “siamo qui perché AMIAMO suonare”. Come dargli torto? Cosa ti farebbe ancora salire su di un palco, urlando a squarciagola, esaurendo tutte le tue energie.. dopo trent’anni, se non la PASSIONE SINCERA, per quel che fai?
1) Delusions of Saviour
(intro)
2) Repentless
3) Postmortem
4) Hate Worldwide
5) Disciple
6) God Send Death
7) War Ensemble
8) When the Stillness Comes
9) You Against You
10) Mandatory Suicide
11) Fight Till Death
12) Dead Skin Mask
13) Seasons in the Abyss
14) South of Heaven
15) Raining Blood
16) Black Magic
17) Angel of Death