BLACK SABBATH

THE END TOUR

22 gennaio 2017 Manchester Arena / 29 Gennaio 2017 Londra O2 Arena

A CURA DI
DIEGO PIAZZA /LORENZO MORTAI
01/02/2017
TEMPO DI LETTURA:
10

recensione

MANCHESTER, M.E.N. ARENA, Victoria Station

domenica 22 gennaio 2017

Un turbine di emozioni ci accompagna in questa giornata tipicamente plumbea, senza sole su Manchester. Ci ha incuriosito che in nessuna parte della città ci sia stato un poster o un riferimento al concerto di questa domenica sera. Verosimilmente gli inglesi sono abituati a vedere grandi band e grandi concerti ma, stranamente dell'ultima data dei Black Sabbath in quel di Manchester non troviamo tracce visive in città. Parlavo di “turbine di emozioni”, poiché non è solo uno dei tanti concerti hard rock / heavy metal che il sottoscritto ha visto nella sua vita, ma uno degli ultimi in assoluto non solo in Gran Bretagna, ma in tutto il mondo della band che di fatto 46/47 anni fa ha fondato le coordinate musicali del metal stesso. Sotto il nome Black Sabbath non vedremo mai più Ozzy OsbourneGeezer Butler e Tony Iommi (con Tommy Clufetos e Adam Wakeman come special guests), un’ epopea, un’epoca finita. Sinceramente sono rimasto stupito da qualche amico/conoscente e dal solito ciarpame da social network che qualcuno abbia messo in dubbio che i Black Sabbath siano davvero al capolinea. Cioè che abbiamo scherzato un po' per alzare il numero dei biglietti venduti. La morte del grandissimo Lemmy forse potrebbe aiutare qualcuno a capire che purtroppo i nostri idoli non sono eterni, né tantomeno immuni da malattie. Tony Iommi grazie a Dio ha combattuto un battaglia feroce contro un linfoma che sembra in fase di regressione e, proprio il giorno di Natale 2016 ha saputo di non avere altri problemi alla gola dopo un esame  che ha dato esito negativo ad altre masse tumorali. Dico questo considerando un Ozzy sempre da prendere con le molle sia psicologicamente sia fisicamente, sebbene negli ultimi tempi sia stato, dal punto di vista professionale impeccabile, meno nelle performance vocali, ma questa è un’ altra storia. Se da un lato a partire dal 1992 lo stesso Ozzy aveva per motivi di salute annunciato ad un ritiro che poi fu annullato e se ci furono altri frasi o fraintendimenti il “The End Tour 2016/2017” è davvero, al di là di ogni ragionevole dubbio, l'ultimo treno dei Sabbath. Ma torniamo a Manchester, ed in particolare alla stazione ferroviaria principale, la Victoria Station, dove è contenuta l'enorme arena, la Manchester Evening National Arena, dalla capienza impressionante di 21 mila posti. Un enorme tendone con il logo di Black Sabbath preso da “Master of Reality” (grandissimo capolavoro del 1971) copre tutto il retro del palco, mentre sono pronti ad iniziare i Rival Sons, anche in questo segmento del tour di supporto ai Black Sabbath. Ebbene lo stoner/blues old school della band di Long Beach come sempre parte a razzo, ed è coadiuvato si da ottimi backing vocals, sia dall'ottima ugola di Jay Buchanan. Anche l'anno scorso durante il tour europeo, almeno le prime 4,5 canzoni sono abbastanza coinvolgenti, poi subentra una certa stanchezza e, seppure gradevoli le canzoni proposte dai Rival Sons sembrano avere uno schema fisso un po' ripetitivo.

Inizia l'attesa sabbathiana, ed alle 20.45 precise viene placata con l'inizio della intro, tipo cartone animato. La Bestia è uscita dal suo guscio e lancia l'inferno sulla Terra, creando tra fuochi e fiamme il logo Black Sabbath, si alza il sipario i Sabbath sono già sul palco e inizia appunto tra lampi di fulmini e lo scroscio della pioggia la mitica “Black Sabbath”, primo brano omonimo del primo disco, da dove è iniziata la loro leggenda nel quartiere di Aston, in Birmingham (non parlate male della squadra di calcio dell'Aston Villa, altrimenti Geezer Butler potrebbe anche darvi un pugno). Ozzy con spolverino e gli occhi truccati di nero sogghigna malefico al pubblico delle prime file, mentre Geezer e Tony stampano, anzi marchiano nella nostra testa il sinistro riff del rito malefico in cui il malcapitato protagonista della canzone è finito. Tommy Clufetos con le sue lunghe leve colpisce e scatena tutta il suo sapere sulle pelli. “Oh no please God help me !” grida Ozzy prima che ci sia il cambio di tempo con totale protagonista la chitarra di Iommi, si passa dal doom più tenebroso e cerimoniale, ad un malefico incedere di una strana danza macabra, sui cui poi c'è spazio a chiudere solo per l'ascia di Tony non senza che Ozzy abbia il tempo per  lanciare il suo classico “I love you all !”. Lo strano incubo alcolico di Geezer, ovvero quello delle “Fate che indossano gli stivali” prende il via presentato da Ozzy, che si prodiga da buon frontman nel coinvolgere il pubblico di Manchester; “Faires wear boots è gradevolissima nei vari arpeggi di sua maestà Iommi, prima che diventi una cavalcata psichedelica con Ozzy naturalmente a suo agio quando si parla di pazzia ! “Dovete credermi” dice il Geezer della situazione , “le fate indossavano degli stivali”, ma il dottore di fiducia gli risponde in pratica “Se in aria, devi smetterla con i tuoi trip mentali e con l'erba !” “Under the Sun/ Every Days Comes and Goes”, straordinario pezzo tratto dall'album Vol.4 del 1972 è come sempre cupissima nel riff iniziale, per poi diventare un up tempo da saltellare, come Ozzy infatti invita il pubblico. La cosa straordinaria non è tanto che il pezzo sia stato rimesso in scaletta, ma più che altro che sia stata eseguito anche nella seconda parte, come avevo visto fare solo in alcune date negli USA. Chi li ha visti nelle ultime apparizioni in Italia si ricorderà che il brano veniva mozzato, prima del momento strumentale finale molto bello. Parlando anche dei rapporti non felici con le religioni organizzate ricordo anche un videoclip che i Sabbath usavano qualche anno fa in cui mi è rimasto impresso il ghigno malefico di Papa Ratzinger. Non ci siamo ancora ripresi del tutto da questa bella sorpresa che Adam Wakeman (figlio d'arte del gradissimo Rick degli Yes), isolato dietro le quinte da il via al suono quasi alieno di tastiere, che tutti riconosciamo nell'introduzione al pezzo “After Forever”, grandissimo riff ancor del riffmaster per antonomasia, Tony Iommi, suggellato anche da un basso maciullante di Geezer Butler che non molla un colpo inchiodato sulle assi alla sinistra del palco. La voce di Ozzy nei momenti chiave va e viene come intensità e quindi come sempre è Tony per altro piuttosto mobile sul palco nel dettare la legge, con la sua Gibson SG. Il baffo malefico sembra con brevi cenni apprezzare la reazione del pubblico e come sempre darà il meglio di sé nella successiva “Into the Void”: non abbiamo ancora capito da che razza di inferno Tony abbia preso l'idea malvagia, perversa e aberrante per il riff mozzafiato e stupefacente con cui dopo un alcuni minuti di una sorta di marcetta rassicurante si abbatta come un mantello nero gigantesco sull'umanità. Lui perfido sorride allo spontaneo headbanging dei suoi figli, anzi direi nipoti, delle prime file. Tremano persino le seggiole dell'impianto di Manchester al crepitio della sua sei corde, poi seguito dai colpi malefici di Clufetos e dal fedelissimo amico da quasi cinquant’anni, Geezer da cui ci facciamo piacevolmente torturare dal suo basso. Abbiamo parlato di “nipoti” giovanissimi del metal, ma sono molte le chiome grigie vicino a noi e in mezzo al pubblico, per non parlare delle pelate che si vedono ad ogni sezione; sono molti gli ultra 40 ma anche ultra 50enni, non senza anche delle groupie dei tempi della gioventù di Ozzy & company, quasi delle cariatidi ! C'è per fortuna anche qualche donzella affascinante che canta insieme ai vecchi reprobi “Snowblind”, altro pezzo tratto da Vol.4. La parola “cocaine” oramai è stata sdoganata, ed Ozzy e il pubblico non hanno certo paura nel pronunziarla dopo il ritornello. Canzone che parlava degli effetti paradisiaci della polvere bianca, la neve che acceca (appunto) di cui i Sabbath sono stati inguaiati per parecchio tempo. Persino il giardiniere in pensione Tony ne faceva uso in abbondanza, anche se ora sembra una sorta di zio in fase zen, d'accordo con il mondo e con la sua musica. La canzone ha il classico spezzone accelerato tipico della prime produzione dei BS che sa proprio di momento di catarsi tra uomo e sostanza stupefacente. La cosa meravigliosa è come Ozzy, il folle, riesca con il movimento di mani a destra e sinistra, subito copiato dal pubblico, nel rendere un canzone politicamente scorretta in una sorta di valzer dell'amore, quasi fossimo al cospetto dei Coldplay. Partono le sirene tipo attacco aereo,  no, non è la voce di Bruce Dickinson (scusate la battuta) ma l'inizio di “War Pigs”. Pezzo immancabile nelle setlist anche di quando c'era Ronnie James Dio alla voce, la canzone come tutti voi lettori saprete è una reprimenda sulla guerra e sulle sue assurdità; quando fu scritta nel 1970 i marines si erano imbarcati nelle problematiche vicende del Vietnam con tutte le problematiche che sappiamo, rese celebri anche da molti film americani. Ma torniamo nel calore confortevole della Manchester Arena, dove il battimani del pubblico ritmato accompagna le strofe di Ozzy, prima che subentrino gli arpeggi di Tony. Pezzo lungo e articolato, “War Pigs” è ancora una capolavoro assoluto dopo 47 anni.  Sullo sfondo nel video gigante vengono proiettate durante la canzone delle immagini di bombardamenti e di case che sfaldano come se fatte di cartone. Dopo la title-track torniamo ancora la primissimo album dei Black Sabbath con “Behind the Wall of Sleep”. Sullo schermo  compaiono decine poi centinaia di bulbi oculari che scrutano , molto inquietanti, anche se ricordo un video bianco nero con una bambina dagli occhi cuciti accompagnata da un lupo che faceva ancora più paura. Un incubo assurdo insomma, sebbene la canzone abbia un parte ritmata piuttosto semplice su cui si erge la voce di Ozzy. Si prosegue ancora con il primo disco, è finalmente Geezer avanza di un paio di metri per usare il pedale, servono gli effetti in “Basically” come veniva chiamata sulla versione americana l'intro di “N.I.B.”: meraviglioso il suono del basso, suonato come sempre con la mani da Geezer prima che subentri la chitarra ruvida e cupa di Tony. La canzone che sia l'acronimo di “Nativity in Black” oppure se più banalmente si riferiva al pizzetto del batterista originale Bill Ward (che peccato non ci sia !) è comunque un capolavoro. Per assurdo in una band che spesso si accosta a tematiche e suoni funerei, “N.I.B.” ha un chorus molto melodico e bellissimo da cantare, come in molti fanno a Manchester nel perfetto miscuglio detto sopra di vecchi reprobi e giovani scavezzacollo. Dal secondo album “Paranoid” ecco quella “Hand of Doom” che non ti aspetti, se non erro non suonata durante tutto il tour Sudamericano di fine 2016. Altra canzone che parla di stupefacenti, di aghi e di eroina, ma qui, paradossalmente si descrive il disastro della conseguenze, il diventare schiavo assoluto della droga. Cioè alla fine già nei primissimi anni '70 i Sabbath sapevano benissimo degli effetti devastanti in senso negativo di certe sostanze, seppure ne sembravano invischiati fino al collo anche loro. Il basso lento di Geezer accompagna Ozzy e si sinuosi accordi di Tony, per poi il brano scatenarsi con foga, quasi come reazione allergica alla prime strofe. Non c'è un vero chorus, ma un paio di ottimi cambi di tempo centrali. Peccato solo che Ozzy non sia più quello di un tempo, l'uomo che registrò tantissimi anni prima questa canzone era riuscito a dare anche una certa enfasi, un certa dose interpretativa alle strofe. L'Ozzy di oggi è un vascello incerto, che ondeggia e che non si allontana molta dalla via maestra (l'asta del microfono) che deve leggere i testi da un video e che rovina un po' il brano con una voce monocorde e quasi gutturale. Non hanno finito ancora di suonare che Ozzy dice platealmente che è giunto il momento di prendersi una pausa. Rimangono Geezer, Tommy e Tony sul palco per un breve ma emozionante medley fatto di tre riff leggendari, “Supernaut” da Vol. 4 (mai sentita dal vivo), per poi passare al riff da pietra tombale di “Sabbath Bloody Sabbath” dall'omonimo album del 1973 e si chiude con un versione ridotta della strumentale “Rat Salad” , prima che Tony abbandoni la scena ad un impressionate e incredibile, lunghissimo solo di batteria di Tommy Clufetos. Il batterista di Detroit che ha appena compiuto 37 anni è un giovincello rispetto ai sui compagni di band e si scatena sui tamburi , sui piatti e sulla doppia cassa come una belva inferocita e assetata di sangue, davvero un solo che ha esaltato anche i presenti con continui incitamenti. Come da tradizione nel finale con colpi precisi di gran cassa il batterista americano introduce “Iron Man” con Ozzy che batte il ritmo al pubblico con continui “Hey ! Hey ! Hey !” fino al celeberrimo “I'm Iron Man”. Dopo il singolo “Paranoid” forse “Iron Man” è la canzone più celebre dei Black Sabbath formazione originale, ed infatti il pubblico, anche quello di riporto più antipatico, segue il riff di chitarra con gli “Oh Oh Oh”. Fossimo in Italia o meglio ancora in Argentina già i decibel avrebbero svegliato a Buckingam Palace la regina che sta a circa 450km a sud, ma qui nel Regno Unito c'è sempre un po' quell'atteggiamento tipo “siamo inglesi, niente sesso”. Malgrado qualcuno abbia fatto forse apposta un po' di confusione, è opportuno ricordare che “Iron Man” non c'entra nulla né con il personaggio della Marvel inventato dal grandissimo Stan “The Man” Lee, né tantomeno con una statua di ferro enorme che c'è nella piazza centrale di Birmingham, la città dei nostri beniamini. Similmente a “Black Sabbath” anche qui vi è un poderoso cambio di tempo nel finale, con un secondo e più lungo solo di Tony Iommi e il maciullante basso di Geezer che ti trapana pelle, ossa e tessuti ! Sullo schermo i nostri sono inquadrati tra fiamme finte, ma l'effetto è interessante. “Dirty Women” unica concessione al controverso album “Technical Ecstasy” del 1976 e, udite brano più recente della band (ha 30 anni) suonato in questo tour, permette al genio spettacolare di Tony di allungare di molto il finale con una sequenza solista davvero bella, tanto che lo stesso Ozzy si gira a guardare Tony (di cui storicamente è sempre stato succube) non si sa se con stupore o stolida ammirazione. Prima del bellissimo solo è molto bello anche un altro segmento del pezzo deciso e molto hard rock, un altro riff ancora una volta stucchevole di Tony. Il tempo stringe anche se la canonica ora e mezza è già stata superata, Tony cambia chitarra, un altra Gibson SG ma questa color caffelatte, cioè bianca che sembra sporcata da grosse chiazza di caffè, con cui suona l'immancabile “Children of the Grave”: anno 1971, cioè l'anno i cui è nato chi vi scrive.  Ancora adesso “Master of Reality” è un album attualissimo, anche come produzione, e questa canzone è , di fatto , la quintessenza del metal. Anche un signore sui 50 anni e passa che siede vicino a me, che ho soprannominato nel frattempo “gatto di marmo” sembra quasi vacillare, muovendo una ciglia e con un paio di capelli che svolazzano quasi impercettibili. Giù nel pit qualcuno vola sopra le teste altrui ma, in queste circostanze è più che normale. Sullo fondo una marea di teschi sembra quasi non farci mai dimenticare genocidi e paure nucleari, di cui il testo della canzone è figlio. Grande tripudio di finale, con le band che abbandona il palco per qualche istante. Ozzy chiede al pubblico se vuole ancora una altra canzone, per farlo ovviamente ci vuole il classico cliché di gridare per tre volte, credo che anche il fan più sfigato, di quarta categoria o rincitrullito completamente, non può non sapere che si tratta della leggendaria “Paranoid”. L'unico forse singolo di successo della band, top 10 in UK (l'altro è “Never say Die” ma molto meno importante), è un brano che accontenta sia il ragazzino ancora con i brufoli e senza barba sia il vecchio biker con 27 tatuaggi ed il chiodo, grande putiferio anche del mondo femminile tra vecchie signore e piccole adolescenti con già diversi piercing. Perdonatemi la sfrontatezza , ho voluto un po' scherzare, ma questo è per dare l'idea della atmosfera che si è creata nella Manchester Arena. Finale roboante, e non potrebbe essere altrimenti con un portento come Tommy Clufetos dietro le pelli, e poi la band che saluta con i classici inchini. Il maledetto poster “The End” compare dietro di loro, sia mille volte maledetta questa scritta perché ci ricorda e sancisce quasi come un firma tombale che questa è una delle ultimissime volte che vedremo questa straordinaria band dal vivo (saremo comunque noi di Rock & Metal in My Blood anche a Londra , la domenica successiva il 29 gennaio). I Black Sabbath hanno attraversato davvero tanti decenni, soprattutto alcuni molto tumultuosi con addii e ritorni, con reunion effettive e altre annunciate e mai fatte. Grandi musicisti hanno accompagnato l'unico membro sempre presente, quel corvaccio nero di Tony Iommi tutt'oggi fulcro inamovibile della band. Ora non resta che salutarli e dirgli grazie per le emozioni che ci hanno regalato, con un tour finale dignitoso, molto di più di quanto si potesse pensare.

LONDRA, O2 ARENA

Domenica 29 gennaio 2017

Pioggia battente ed incessante, da classico clima britannico, quella che accompagna l’ingresso delle migliaia di persone nell’enorme complesso “O2 Arena” di Londra, sito al di sopra della stazione metro di North Greenwich. L’intero complesso, diviso in più sezioni, è stato edificato fra il 2003 ed il 2007, e nel corso degli anni ha ospitato centinaia di eventi, non solo musicali. La suddivisione fa si che si abbia una immensa polivalenza dello spazio, avendo allo stesso tempo spazi per manifestazioni sportive (come il torneo olimpico di Basket tenutosi nel 2012), ma anche enormi concerti, fra cui spiccano nomi sia del Pop mondiale, che del nostro amato Rock ed Heavy Metal (vi basti pensare che il 29 Maggio di quest’anno torneranno ad esibirsi qui i sempiterni Iron Maiden, come parte del loro Book Of Souls Tour). Lo spazio all’interno dell’arena è immenso, sviluppato su più anelli (tre in totale), per una complessità di 20.000 posti a sedere, ed altre migliaia in piedi, arrivando ad una capienza che, nel nostro paese, raggiungiamo forse in uno stadio da calcio. Trovato il posto (al secondo anello a sedere), prendiamo i nostri posti ed attendiamo che inizi lo spettacolo. Mentre la pioggia fuori incessante continua a bagnare le strade londinesi, vorrei soffermarmi un attimo sui controlli e l’organizzazione del posto; come sempre, dato la terra su cui stiamo calcando i piedi, il movimento e la distribuzione del pubblico sono cronometrici e cristallini. Unica nota dolente (ma probabilmente è più un ragionamento da italiani che altro), la totale impossibilità di portare cibo e bevande all’interno dello spazio adibito al concerto, costringendoti ad acquistare prodotti negli innumerevoli chioschi siti ai piani superiori. Io stesso mi sono ritrovato a dover gettare completamente via la cena che avevo acquistato, pur di non tardare all’inizio del concerto. Tolto questo piccolo neo, che ripeto, è sicuramente imputabile alla non abitudine ad assistere a concerti all’estero, l’organizzazione inglese è pressoché perfetta, sia come smistamento dei posti, che come vedremo a fine report, nell’uscita dall’arena stessa. Al di fuori della O2, enormi maxischermi su cui campeggia il violaceo logo dei Sabbath, accompagnato dall’iconica frase “the last tour by the greatest metal band of all time”, e credo che non ci sia definizione migliore per descrivere ciò che i Black Sabbath sono da così tanti anni. Non esiste probabilmente al mondo una band che abbia influenzato l’Heavy Metal, a livello tanto musicale quanto di iconografia, come il trio albionico di Butler, Iommi ed Osbourne. Dischi che hanno cambiato letteralmente il volto della storia come Sabotage, Vol. 4, Master Of Reality, l’eccelso Paranoid, album che sono entrati di diritto nell’Olimpo dei vincitori, e che ancora oggi, a 30/40 anni di distanza dalla loro comparsa sugli scaffali, ancora stupiscono per la beltà e la sagacia con cui sono stati composti. Come era accaduto per la data di Manchester, e come accadrà anche per le successive date del The End tour, ad aprire le danze sono i chiassosi Rival Sons; il gruppo, formatosi nel 2008 a Long Beach, mischiano in maniera energica e quasi tossica Hard Rock e Blues, dando vita ad un sound coinvolgente e trascinante, che ti fa alzare le mani al cielo. Nel caso specifico del concerto londinese, la band di Jay Bauchanan ha suonato soltanto otto tracce (non si è ben capito perché, forse questioni di organizzazione, considerando che come vedremo fra poco, i Sabbath hanno iniziato relativamente presto), spaziando dai primissimi esordi di quasi dieci anni fa, alla loro ultima release, Hollow Bones. Questi ragazzoni inglesi sanno ben tenere il palco, le dita di Scott Holiday si muovono in maniera sapiente sul ligneo manico della chitarra, e quando si tratta di sparare riff in faccia al pubblico, non se lo fa ripetere due volte. Brani come Electric Man o Tied Up, tirano fuori quella sana energia e stendono quel tappeto adatto per ciò che ci aspetterà dopo. Peccato per la poca durata dell’esibizione (che se si va a vederla confrontata con altre dello stesso tour, risulta mutilata di diversi minuti), ne avremmo voluto ancora, ma sicuramente desideriamo ancor di più ciò che seguirà.

Momento di pausa e poi, alle 20:15 precise, le luci si spengono, e dal maxischermo posto dietro al palco, parte un demoniaco filmato in CGI. Vediamo un demone sorgere da una fogna stradale, l’incessante rumore della pioggia che quasi al nostro orecchio si fonde con la vera e battente scrosciata che sta passando fuori da queste mura. Il demone si infiamma, prende fuoco dall’interno e sputa fiamme dalla famelica bocca, mentre da un floreale bulbo incandescente risorge come araba fenice. Neanche il tempo di abituarsi al buio, che un fascio di luce blu irrompe sulla scena, ed i nostri beniamini fanno la loro comparsa sul palco. Rigorosamente vestiti di nero, giubbotti di pelle ed occhiali, tranne il buon Tommy Clufetos dietro alle pelli, che considerando il suo ruolo e la fatica che comporta portarlo a termine, si presenta senza maglietta, tatuaggi bene in vista e capelli lunghi stretti da una fascia in testa, baffo a manubrio e barba incolta, nel pieno stile anni ’70. Una volta finito il video, le funeree note di Black Sabbath ci riportano al 1970, anno del primo disco, quel sagace mix di Hard Rock e Proto Doom che farà la fortuna della band. La canzone procede mesta, come liturgica marcia di morte, Iommi annoda le proprie dita sulla chitarra con fare da maestro, ed i potenti colpi di Geezer al basso non si fanno certo attendere.  A fare da contralto a tutto questo, la maestosità di Ozzy alla voce che, per quanto statico nel suo essere certo non un animale da palcoscenico (ma  non lo è mai stato del tutto, certo non se paragonato ad un Halford o Dickinson che sia), arringa la folla con le parole della canzone, inframezzando il tutto con battimani e cenni della testa a ritmo di questo cupo pentagramma. Il tempo di salutare la folla con un caloroso “benvenuti” ed un “che dio vi benedica” di Ozzy, e le possenti note di Faires Wear Boots irrompono sulla scena; il pezzo è trascinante, ci riporta alla mente indelebili ricordi di quanto appoggiammo per la prima volta Paranoid sul piatto del giradischi, quel ritmo così gustoso ed oscuro al tempo stesso, quella unione di riffs presi direttamente dalle tradizioni Hard Rock anni ’70 mischiate con un filo pesante di psichedelia, e con testi che avrebbero fatto impallidire chiunque. Tony si trova assolutamente a proprio agio sul suo strumento, e la notizia della cessata malattia che lo stava colpendo ormai da diverso tempo, forse ha portato nuova linfa vitale nelle corde del nostro mastermind riccioluto e con gli occhiali da sole sempre calati sul volto. Geezer vero animale da palcoscenico, si sposta, saluta la folla, e le sue rocciose dita slappano il basso come se non avessero mai fatto altro nella loro vita, l’unico “chiaro” in mezzo a capelloni scuri, fa sempre la sua porca figura. Parole d’encomio anche per Tommy dietro alle pelli; il nostro drummer, il più giovane di tutti (classe 1979), si sente che ha una venerazione quasi immortale per le canzoni che sta suonando, e pur non avendo una tecnica di scuola Jazz o simili, pesta come un forsennato sui tamburi, producendo un sound mai ovattato, ma anzi, sempre pieno e corposo. Di seguito troviamo un altro anthem, stavolta tirato fuori da Vol.4, parliamo della traccia di chiusura, Under the Sun/Every Day Comes & Goes; dietro alla band proiezioni psichedeliche ed acide riprendono gli stessi gesti di ogni componente, trasformandoli in un sentore acido e da trip assolutamente lisergico. Gli animi cominciano a scaldarsi, siamo ormai entrati nel vivo del concerto, e mentre Ozzy alterna i suoi “non vi sento, fatevi sentire più forte!”, agli scrosci di applausi del pubblico stesso dopo ogni singola canzone suonata, le meste note di un Proto Stoner che fanno da viatico a tutto Vol.4, prendono piede nella nostra testa, e tenere il ritmo con le mani e con i piedi diventa un’azione assolutamente automatica. Come in un ipotetico flipper rimbalziamo a quello che possiamo considerare come l’album che ha ufficialmente coniato il termine “Doom”, sia come attitudine che come resa del sound stesso. Parliamo di Master Of Reality, classe 1971, da cui i Sabbath estraggono per questa data londinese la meravigliosa After Forever; il palco si apre in due sotto i precisi colpi della chitarra di Tony, fiamme e proiezioni demoniache invadono la scena, effetti di luce che cambiano ad ogni nuovo slot fanno si che le note suonate siano ancora più incisive di quanto lo siano state fino a questo momento, ed il nostro cuore ormai appartiene a loro in tutto e per tutto. Sempre da Master la nostra band ci delizia aggiungendo in scaletta anche Into The Void, evocativa traccia che per la sua cupissima introduzione, viene solitamente chiamata The Death Mask; le note si susseguono come impazzite, Tony ricama nuovamente sul manico senza mai staccare gli occhi dal pubblico, lo sguardo di Ozzy si fa quasi satanico mentre la canzone prende corpo, e quando quel “Lascia la terra a Satana ed ai suoi schiavi, lasciali al loro destino nella tomba, costruisciti una casa dove l’amore sia lì per restare, pace e felicità ogni giorno”, viene recitato, brividi e bordoni quasi di freddo solcano la nostra schiena. Il brano, neanche a dirlo, viene eseguito con precisione cronometrica dal gruppo, e l’intera arena esplode sotto i colpi degli strumenti, facendoci anche dimenticare le “stecche” che ogni tanto Zio Ozzy tira col suo microfono. Torniamo a Vol.4 per la contestatissima Snowblind; ovviamente parliamo della dipendenza da cocaina, composto nel 1972 ed è forse la dichiarazione più sfacciata che il gruppo albionico abbia mai composto nella sua carriera. Non si risparmia di certo l’ode alla polverina bianca che tanto ha dato alla gente a cavallo fra gli anni ’70 ed ’80, allora era la prediletta dalla band, che decise appunto di farne una funerea canzone. Il titolo della canzone, ai tempi, doveva anche essere il titolo dell’album stesso, la Vertigo, casa che produsse il disco, lo censurò perché ritenuto troppo esagerato. Durante l’esecuzione, sorretta da un massiccio riff di chitarra che viene ripetuto allo stremo, Ozzy urla il nome “cocaine” senza troppi problemi, provocando nel pubblico reazioni come sempre di stupore e quasi di diniego verso le conseguenze, ma sicuramente di approvazione per la “faccia tosta” nell’aver scritto una cosa del genere. Adesso arriva il momento del capolavoro, le luci cambiano ancora colore, l’atmosfera si fa pesante, immagini belliche passano sullo schermo, è arrivata War Pigs a squarciare il cielo dell’O2 Arena. Ed i Black Sabbath la suonano come hanno sempre saputo fare, con quell’aria da condottieri, da veri cavalieri dell’Apocalisse, pronti a calcare la superfice delle nostre città facendo diventare tutto di ghiaccio. Quella concatenazione di riff e basso, la batteria sempre in prima linea pronta a darcele di santa ragione, ci fa capire ancor meglio perché loro siano i migliori, perché ancora oggi dopo così tanti anni siamo ancora qua con le corna al cielo. Osbourne riprende fiato, batte le mani a suon della sei corde, continua ad ammiccare al pubblico, lo saluta, e si sforza più di quanto le sue acciaccate membra gli consentirebbero di fare, per far sentire gli astanti come a casa loro. Come in un pendolo torniamo di corsa al primissimo album, stavolta andando a disturbare lo slot numero tre, occupato da Behind The Wall Of Sleep; la canzone parte nuovamente rabbiosa e litica, come una silente marcia di morte, e quelle note composte così tanto tempo fa, ancora oggi sembrano dannatamente attuali, più di quanto possiamo immaginare. L’estro compositivo di Iommi e Butler qui raggiunge uno dei suoi apici, l’incatenamento degli strumenti al sound riverberato per cui i Black Sabbath hanno conquistato la cima della vetta, spicca al di sopra di qualsiasi altra cosa. Come folletti impazziti i componenti pestano giù duro sui propri strumenti, e con quella maglia con la croce fatta di strass, Ozzy sembra riprendere vita ad ogni nuova canzone, i famosi occhi spiritati che lo hanno reso celebre si alzano e si ampliano mentre le strofe scorrono, e lo schermo alle loro spalle si tinge del colore sanguigno della fine. Uno dei due momenti corali adesso, prima di suonare il brano successivo, un fascio di luce quasi etereo illumina la sola figura di Geezer, che grazie alle sue sapienti ed ossute mani, tira fuori un assolo di basso da manuale antologico. Veloce, ritmico, con delle sfumature che ricordano quasi il Funky di prima annata (fra le maggiori influenze del nostro slap-man), ma anche l’Hard Rock più cupo e pesante, il bassista percorre il manico e lo fa suo ad ogni piè sospinto. Non possiamo fare altro che ascoltarlo rapiti, ascoltare questo sound che proviene dai confini più celati della terra, dalle sue breccia più profonde e nascoste alla vista, vicini al nucleo, vicini al fuoco del male. E di coda, come è ormai tradizione, la band ci attacca N.I.B; dopo “Bassically” (come viene affettuosamente chiamato l’intro bassistico di Geezer), irrompe sulla scena un altro riff dal sapore della pietra, che si scolpirà nella nostra memoria per sempre. Vi sono state varie interpretazioni sul significato di questa sigla, chi lo associava a Nativity In Black, chi a Name In Blood, tutti nomi sicuramente più in linea con il testo (che immagina un fantomatico dialogo con Lucifero in persona, che si descrive al malcapitato ascoltatore); in realtà come spiegato da Butler stesso, la sigla voleva prendere in giro Bill Ward, storico batterista e quarto fondatore del gruppo che a detta degli altri membri aveva un pizzetto simile ad un pennino (in inglese “Nib” appunto). Fu uno dei primi brani che fece accostare la band al satanismo, tacciandoli di voler portare le giovani masse verso il culto del male, cosa che nella proibitiva e censoria Inghilterra di inizio anni ’70, era quasi prassi (basti pensare ad altrettanti esempi, da Sympathy For The Devil dei Rolling Stoner, a Fire di Arthur Brown, passando per tante, tante altre). I nostri però non si sono mai fatti scoraggiare né tantomeno fermare, e la suonano come quasi cinquanta anni fa ormai (47 per la precisione), e non a caso infatti la canzone nel tempo è stata coverizzata da svariate formazioni, dagli Ugly Kid Joe ai Type O Negative di Peter Steele. Secondo momento corale del concerto arriva quando la band mette in piedi il celebre medley, unendo fra loro Supernaut, Sabbath Bloody Sabbath e Rat Salad, tre capolavori immortali fusi in un unico brano. A questo punto la folla va letteralmente in visibilio, non si riesce quasi a credere ai propri occhi mentre i componenti intonano le varie sezioni del momento musicale, un connubio di stili ed influenze che si fa quasi fatica a riconoscere. Nel medley vediamo ancor meglio quanti e quali generi i Black Sabbath abbiano anticipato o ispirato fortemente; dal Doom ovviamente allo Stoner, passando per Sludge, qualche lieve scivolata sull’estremo (almeno a livello di impatto), e tutta quella folta schiera di band Hard Rock/Hard’n Heavy che nel corso del tempo hanno preso a piene mani dai riff di Iommi, rielaborandoli a modo loro. Conclusosi il medley, viene lasciato campo libero a Tommy ed alle sue pelli, che scoppiano in un assolo di ben dieci minuti di lunghezza. Il più giovane dei Sabbath, e turnista ufficiale del gruppo, non si lascia sfuggire l’occasione per mettersi in luce, grazie alla sua potenza fuori dal comune. Gioca col pubblico, lo invita a battere le mani e stargli dietro, non c’è  un attimo di stanca o tregua, il solo gonfia il petto e si trascina imperterrito, aumentando fino a livelli incredibili di velocità e possanza. Come abbiamo detto, Tommy non possiede certo la tecnica che potevano avere Ward o Cozie Powell, ma neanche di un Vinnie Appice che sia, eppure il nostro giovane drummer sa farsi pienamente rispettare, mettendo in piedi uno show che difficilmente si leverà dalla nostra testa. Di coda all’assolo, arriva quella che probabilmente è la canzone più attesa di tutto il concerto, Iron Man. Viene intonata qualche tono al di sotto del normale, per permettere ad Ozzy di riuscire a stare dietro alla musica stessa, eppure nonostante questo, l’energia che viene sprigionata è sempre la stessa. Litica, funerea, piena di pathos e male, un enorme corpus di note che viene sparato in faccia al pubblico. Pubblico che altro non può fare che incitare ed applaudire, segue il testo (che in molte occasioni viene fatto cantare agli astanti stessi) e ne incide ogni singola parola, lasciandone le veci alla storia. Unico stacco dai primi album viene rappresentato da Dirty Women, estrapolato da Technical Estasy del 1976. Veloce, potente, piena di sanguigna energia, viene intonata con il consueto fare dei guerrieri di vecchia data, quelli che non si arrendono di fronte a niente ed a nessuno, quelli che sanno come si fa meglio di chiunque altro, e sono sempre pronti a dare una lezione di stile al prossimo. In chiusura troviamo un altro anthem che molti (il sottoscritto compreso)aspettavano, Children Of The Grave; assieme a pochissime altre, questa canzone incarna alla perfezione lo spirito della band. Essere sacrali, esoterici ed oscuri, ma allo stesso tempo dannatamente trascinanti sotto ogni aspetto. Iommi sa come si fa, sa come ci si comporta in questi casi, e mentre una folta schiera di teschi si staglia sullo schermo alle spalle della band, palloncini neri e viola (recanti il logo ed i colori del gruppo), vengono fatti piovere sul pubblico. La folla arringa e batte le mani, mentre la canzone arriva al suo apice, lungo, completo e pieno di rimandi e note che non sono mai state più scritte, ma soltanto imitate. Luci spente e calma apparente prima che Ozzy torni sul palco ed inciti la folla intonando “non vi ho sentito dire ancora una canzone, non ve l’ho sentito dire!”, ed il pubblico ovviamente accontenta il vate dei Sabbath intonando il ritornello all’unisono. La band risponde accentando la sfida, e Paranoid conclude la nostra avventura. Tutti quanti probabilmente eravamo lì per sentirla suonare, per sentire cosa sia dal vivo uno dei 10 brani Heavy Metal più importanti di tutti i tempi; e vi posso assicurare che l’effetto che mi ha fatto è lo stesso di quando, moltissimi anni fa, la sentii per la prima volta su disco. Potente e sgraziata nella sua genialità, il main riff è qualcosa di tanto semplice quanto geniale, ti tira per i piedi e non ti lascia andare neanche se glielo chiedi gentilmente, e mentre una pioggia di coriandoli colorati conclude questa avventura, la band, una volta esaurita l’ultima nota, in mezzo ai fuochi d’artificio ed alle fiamme che ci avevano aperto lo show, saluta il pubblico ringraziandolo di esserci stato per questa ultima volta. Abbiamo assistito probabilmente ad uno dei migliori concerti della nostra esistenza; la classe non è acqua come si suol dire, ed in questo caso i Black Sabbath ce lo hanno dimostrato senza remora alcuna. Esclusa dalla scaletta la sempiterna Hands Of Doom (che invece era stata suonata a Manchester), ma anche una Electric Funeral non ci sarebbe stata affatto male, al fine di chiudere il cerchio in maniera definitiva. Tolto queste questioni di lana caprina, lo show è stato qualcosa di incredibile; Iommi perfetto, le sue mani sembrano quelle di un ragazzino mai troppo cresciuto mentre si diverte a giocare con le note. Butler anche egli mostro sacro, 9/10 per questo gigante del basso che ha ispirato centinaia di musicisti, mentre plauso senza alcuna remora al giovane Tommy, la sua estroversa energia, e l’aver suonato uno dei migliori soli di batteria che abbia mai sentito, lo fanno innalzare al di sopra di molti; tutto questo senza contare il buon Adam Wakeman, figlio del ben più celebre Rick, che aiuta la band dietro le quinte con la sua ottima tastiera, aggiungendo quel tocco sacrale in più. In ultimo, ma non per importanza, sua maestà Ozzy; non è mai stato un frontman né carismatico, né dotato di una forte presenza scenica, né tantomeno con una voce fuori dal comune (se si fa il confronto con Dio, altro cantante dei Sabbath ed altrettanto grande leggenda, il risultato non depone a suo favore), eppure il capellone di Birmingham è qualcosa di assolutamente incredibile. Sarà per l’alone di leggenda che si è creato nel corso degli anni, sarà perché comunque la sua è l’unica voce che riesce a stare in linea perfettamente con la musica suonata, sarà quel che vuoi, ma senza di lui i Black Sabbath non sarebbero completi. E quindi, mentre osserviamo la scritta “The End” stagliarsi dietro al palco, dobbiamo solo ringraziare, ringraziare questi tre musicisti per averci regalato perle di inestimabile bellezza, per aver contribuito in maniera così profonda alla musica che tanto amiamo, e per aver messo in piedi una carriera come ve ne sono poche al mondo. Grazie di tutto Sabbath, ci rivedremo dall’altra parte, quando il mondo finirà per davvero. 

1) Black Sabbath
2) Faires Wear Boots
3) Under The Sun/Every Day Comes & Goes
4) After Forever
5) Into The Void
6) Snowblind
7) War Pigs
8) Behind The Wall Of Sleep
9) Bassically/N.I.B
10) Hand Of Doom
11) Medley (Supernaut, Sabbath Bloody Sabbath, Rat Salad)
12) Iron Man
13) Dirty Women
14) Children Of The Grave 
15) Paranoid

 

1) Black Sabbath
2) Faires Wear Boots
3) Under The Sun/Every Day Comes & Goes
4) After Forever
5) Into The Void
6) Snowblind
7) War Pigs
8) Behind The Wall Of Sleep
9) Bassically/N.I.B
10) Medley (Supernaut, Sabbath Bloody Sabbath, Rat Salad)
11) Tommy Clufetos Solo
12) Iron Man
13) Dirty Women
14) Children Of The Grave
15) Paranoid